Opera Omnia Luigi Einaudi

I sommi principi utilitaristici e l’imposta

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1933

I sommi principi utilitaristici e l’imposta

«La Riforma Sociale», luglio-agosto 1933, pp. 474-485

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 187-203

 

 

 

LIONELLO ROSSI: Sull’imposta progressiva, In «Pubblicazioni del R. Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Firenze». N. 3; da pag. 101 a 161, Firenze, 1933.

 

 

1. – Lo studio, che qui si annuncia, è il frutto della meditazione di un giovane, il quale va in cerca soltanto del «piacere che cagiona la ricerca del vero» (pag. 102). Perciò giova riandare e ridiscutere con lui il pensiero di Cohen Stuart, Edgeworth, De Viti De Marco, anche se alla fine risorga la tormentosa domanda: che cosa è questa infelice “scienza” delle finanze, la quale dovrebbe contribuire a dare alle società moderne «una base più solida e una forza di resistenza più grande nella faticosa scesa verso mete più alte?» (pag. 161). È scienza un insieme di insegnamenti volti a dare un po’ di giustizia agli uomini? Il “pensare” intorno alle leggi le quali regolano le azioni degli uomini, qualunque esse siano, conduce necessariamente all’”operare” in guisa da conseguire un fine ritenuto giusto dagli uomini? Appartiene alla scienza “economica” discutere di progressività nelle imposte? Il Rossi pare risponda di sì, perché attribuisce al “principio di progressività” il pregio di una «conformità maggiore di quella posseduta da altri principi alle stesse leggi economiche» (pag. 148).

 

 

2. – Considero, di tutta la elegante dissertazione dell’autore, solo questo punto. Se ho compreso bene il pensiero del Rossi, il fondamento “economico” della teoria dell’imposta starebbe nell’assumere uno dei cosidetti «principi del sacrificio» a criterio informatore della distribuzione del carico tributario sui cittadini. Avevo già pubblicato nel fascicolo di maggio- giugno della rivista la nota su Il cosidetto principio dell’imposta produttivistica in cui dichiaravo che «il principio del sacrificio minimo» non aveva alcun significato e poteva perciò, nei tempi in cui è bene gli uomini non usino soverchiamente della loro facoltà raziocinativa (pag. 376), degnamente assolvere l’ufficio di “formula” tributaria. Anche il Rossi, il quale ricorda in proposito un mio vecchio benservito rilasciato, con parole meno irriverenti ma con ugual contenuto, a quel cosidetto “principio”, lo respinge insieme all’altro affine «principio del sacrificio uguale». Ambi, dirsi nella ricordata nota, cadono sotto i colpi della critica del «no bridge»: non esiste un ponte logico di passaggio fra il sacrificio di Primus e il sacrificio di Secundus. Primus, il quale ha 5.000 lire di reddito, sa che il pagamento di un’imposta di 1.000 lire gli cagiona un sacrificio o un dolore misurabile con l’indice (di dolore) 890[1] ed il pagamento di un’ulteriore imposta di 1.000 lire gli cagiona un sacrificio misurabile con l’indice (di dolore) 925. Il dolore è maggiore per la seconda quota d’imposta che per la prima perché la prima gli porta via l’ultimo migliaio di lire del suo reddito, a cui egli attribuisce minore importanza, mentre la seconda lo priva del penultimo migliaio per lui più importante. Perciò egli logicamente paragona i due sacrifici e, sommandoli, pensa di subire un sacrificio totale valutabile coll’indice 1815. Altrettanto fa Secundus, provvisto di un reddito di 10.000 lire; il quale valuta, a cagion d’esempio, il sacrificio delle successive tre migliaia di lire di reddito assorbite dall’imposta, rispettivamente, cogli indici 610, 700 e 755; indici bassi, essendo il suo reddito più largo e da lui giudicato relativamente meno importante nelle sue ultime dosi. Egli somma i sacrifici sopportati e ne misura il totale coll’indice 2095. Primus e Secundus sono logici nei loro calcoli. Esseri senzienti e ragionatori, paragonano, sommano, sottraggono sensazioni di piacere o di dolore che ognuno di essi sente. Primus dice che il pagamento delle seconde 1.000 lire di imposta lo fa soffrire 25 punti di più di quanto soffrì pagando il primo migliaio. Secundus sente che il pagamento del secondo migliaio di lire lo fa soffrire 60 punti di più di quanto soffrì col pagamento del primo, e che a pagare il terzo migliaio egli pena altri 55 punti di più. Chi può obbiettare? Essi introspettarono sé stessi e così giudicarono. Trattandosi di calcoli subbiettivi nessuno può avere niente a ridire.

 

 

3. – L’errore sorge quando altri, partendo dal cosidetto principio del sacrificio “uguale”, conclude che, avendo Primus misurato il proprio sacrificio totale coll’indice 1815 e Secundus coll’indice 2095, Primus paga troppa imposta in confronto a Secundus, ed occorre perciò far pagare ancora a Primus tante lire (ad esempio 293) quante occorrono affinché il suo sacrificio totale cresca a 2095, pari a quello di Secundus. Perché pari? Qui è il mortalissimo salto. Ognuno dei due giudizi è individuale, subbiettivo, condotto per paragonare e sommare dosi “proprie” diverse di sacrificio. Ma il calcolo, logico per ogni individuo a sé, non ha senso per una collettività di individui. La circostanza che, dopo l’ultima aggiunta di imposta per Primus, amendue i contribuenti valutano coll’indice 2095 il proprio sacrificio non autorizza menomamente a concludere che il sacrificio di Primus sia uguale a quello di Secundus. L’unità di misura adottata è data dalla sensibilità individuale attraverso ad un processo psicologico di introspezione; ed è quindi diversa dall’uno all’altro individuo senziente. Noi non conosciamo una comune unità di misura e dobbiamo arrestarci nel ragionamento. Non è possibile cavare alcunché né:

 

 

  • dalla teoria del sacrificio uguale, perché non possediamo assolutamente alcun criterio logico per affermare che un sacrificio totale sentito da Primus come 2095 sia uguale al sacrificio totale sentito da Secundus come 2095;

 

  • né dalla teoria del sacrificio minimo della collettività di Primus e Secundus, perché la somma di 2095, indice del sacrificio di Primus e di 2095, indice del sacrificio di Secundus, è un po’ un assurdo. La somma di asini e scimmie, uomini e gatti è senza senso.

 

 

4. – Su di ciò il Rossi è senz’altro consenziente. Sulle orme del Cohen-Stuart egli fa invece appello all’altro noto principio, detto “del sacrificio proporzionale”. L’imposta non deve cioè essere distribuita nell’intento di rendere uguali i sacrifici dei contribuenti, né in quello di ridurre al minimo il sacrificio della collettività di essi; bensì nell’altro di cagionare ad ognuno di essi un sacrificio, il quale sia una proporzione costante del piacere ricevuto dal reddito rispettivo. Sia Utr la utilità totale del reddito, ed Uti la utilità totale prelevata coll’imposta. L’ottima imposta si avrà quando

Uti /Utr =K, essendo K una costante.

Tutti i contribuenti siano, in linguaggio volgare, chiamati a perdere un decimo, ad esempio, dell’utilità, del piacere, del vantaggio, di quelle qualsisiano sensazioni (intellettuale, fisiologica, di forza, di potenza ecc.) che essi ricavavano od immaginavano di ricavare dal possesso del proprio reddito. Ecco, così si spera, superato l’ostacolo dal no bridge, della mancanza di ponte fra la sensibilità di Primus e la sensibilità di Secundus. Primus seguita a fare per conto suo i suoi bravi calcoli introspettivi: e così Secundus. Il loro obbligo d’imposta si riduce al privarsi di un decimo, ad esempio, di quella che essi giudicano la propria felicità da reddito. Il legislatore non fa paragoni, né somme. Dice soltanto: calcolate la vostra felicità e privatevi di una decima parte di essa. L’imposta continua ad essere il frutto di un calcolo individuale.

 

 

Se le cose si fermassero a questo punto, il principio del sacrificio proporzionale non susciterebbe obbiezioni. Ma, riducendosi alla richiesta di un “volontario” pagamento, non interesserebbe lo studioso dell’imposta, la quale è coattiva. Si può notare di passata che le oblazioni volontarie fruttano centesimi in luogo di milioni.

 

 

5. – L’impostazione del principio del sacrificio proporzionale richiede perciò qualche altra ipotesi, oltre quella della costanza del rapporto fra disutilità totale dell’imposta ed utilità totale del reddito. Secondo il Rossi basta fare l’ulteriore ipotesi che per tutti gli uomini decresca in ugual modo la utilità del reddito. Si parta dalla premessa che per amendue i contribuenti la utilità delle successive migliaia di reddito decresca nella seguente misura:

Reddito
Indice di utilità di ogni successivo migliaio di reddito
Indice progressivo
di utilità
11000 lire
1000K
1900K
21000  »
980K
1980K
3e 1000  »
955K
2935K
4e 1000  »
925K
3860K
5e 1000  »
890K
4750K
6e 1000  »
850K
5600K
7e 1000  »
805K
6405K
8e 1000  »
755K
7160K
9e 1000  »
700K
7860K
10e 1000 »
640K
8500K

 

 

K essendo una costante, il concetto informatore della serie consiste unicamente in ciò che, qualunque siano i valori numerici degli indici di utilità per i singoli uomini, essi devono stare tra di loro in un rapporto tale che il valore dell’indice di utilità del secondo migliaio di lire sia uguale al 980 per 1.000 del valore dell’indice di utilità del primo migliaio; che il valore dell’indice del terzo migliaio sia uguale al 955 per 980 del valore dell’indice del secondo migliaio e cosi via.

 

 

Se l’ipotesi dell’ugual modo di decrescenza dell’utilità fosse accettabile, al legislatore spetterebbe unicamente di determinare, come del resto per ogni altra imposta, l’aliquota o rapporto costante fra sacrificio totale dell’imposta ed utilità totale del reddito, ad es., il 10%.

 

 

L’imposta chiederebbe a:

 

 

Primus, provvisto di 5.000 lire di reddito e quindi di un indice totale di utilità di 4.750, il sacrificio di 475 unità di utilità, ossia; Poiché esse sono prelevabili dal quinto migliaio di reddito, tante lire quante sono uguali

a(475/890)x100 = lire 533;

 

ed a Secundus, provvisto di 10.000 lire di reddito, e quindi di un indice totale di utilità di 8500, il sacrificio di 850 unità di utilità, ossia, poiché esse sono prelevabili dal decimo e dal nono migliaio di reddito, tante lire quante sono uguali a

640/640×1000+210/700×1000 = lire 1300

La variazione della costante K da Primus a Secundus non varierebbe il risultato, applicandosi parimenti al reddito ed all’imposta. L’imposta sarebbe così determinata senza ricorrere ad illogici confronti tra i due o più subbietti senzienti.

 

 

6. – Non voglio discutere qui il problema se davvero il principio del sacrificio proporzionale valga a farci evitare il salto della non comparabilità dei sacrifici subiti da diversi contribuenti.

 

 

Dire che il modo di decrescere dell’utilità del reddito è uguale per Primus e per Secundus, val quanto dire che il rapporto fra l’utilità di una dose di ricchezza e l’utilità di quella immediatamente precedente è uguale per amendue. Le utilità assolute possono essere diversissime. Uguale è il rapporto. Se Primus valuta in 1.000 e 980 le utilità delle due prime migliaia del suo reddito, non occorre che Secundus le valuti altresì in 1.000 e 980. Le può valutare in 500 e 490; ovvero in 750 e 735; ovvero in 250 e 245 od altrimenti. Basta, a soddisfare l’ipotesi, che:

980/1000=490/500=730/750/=245/250

 

 

 

 

In generale, siano u1 rP ed u2 rP le utilità rispettive della prima e della seconda dose di reddito per Primus; ed u1 rS  ed u2 rS le utilità corrispondenti delle stesse dosi di reddito per Secundus. Noi postuliamo:

u2rP/u1r=  u2r2/u1rs

 

 

 

Non è necessario sviluppare, sembra dire il Rossi, la [1] passando a:

u2 rP=u2rx u1rP/u1 rs

 

 

 

Il passaggio implicherebbe il salto mortale, perché se della [2] si intende il significato formale che risulta dell’evidenza della moltiplicazione dei due membri della [1] per il medesimo fattore, resta impenetrabile il significato sostanziale. Che cosa vorrebbe dire che l’utilità della seconda dose di reddito per Primus è uguale al prodotto della utilità della seconda dose di reddito per Secundus per l’utilità della prima dose di reddito per Primus diviso per l’utilità della prima dose per Secundus? Accozzaglia di parole prive di qualsiasi significazione.

 

 

Qui si dovrebbero discutere alcuni punti. La inutilità del passaggio dalla [1] alla [2] esclude senz’altro che esso sia pensabile? Secondo la logica matematica la [2] è necessariamente implicita nella [1]? Se sì, la validità della [1] non è messa in forse dal fatto che essa formalmente contiene in sé per implicito la [2]? Per rispondere si o no, non fa d’uopo risolvere prima un più grosso problema: fino a qual punto una osservazione empirica di fatto o supposta tale, come è la [1] comporta le illazioni, come la [2], derivanti dalla sua impostazione formale? Pongo le domande, senza procedere oltre, perché per il momento mi pare più importante discutere la validità della [1] come osservazione empirica.

 

 

7. – Quale è, cioè, il valore della proposizione [1] secondo la quale il rapporto di utilità tra la seconda e la prima, fra la terza e la seconda e così via, dose (migliaia o centinaia di lire) di reddito sarebbe uguale per tutti gli individui componenti una collettività?

 

 

Si pensi quanto siano gli uni dagli altri diversi gli uomini per ammontari di reddito, gusti ed abitudini e si rifletta quanto sia minima la probabilità che per essi sia uguale la legge della decrescenza dell’utilità delle diverse dosi di ricchezza posseduta. Sappiamo che, a partire da un certo punto, la utilità delle successive dosi di ricchezza decresce per gli uomini. Ma quale sia il punto di inizio della decrescenza e quale sia la legge della decrescenza noi non sappiamo. Primus ama il bere ed il mangiare in allegra compagnia; e poco gli cale del resto. Secundus ama i libri rari e più ne ha più ne desidera e si toglie persino il pane di bocca per soddisfare alle sue brame. Come paragonare le scale di decrescenza della ricchezza in genere per uomini tanto diversi, scale che sono frutto di scelte individuali operate fra beni diversissimi tra di loro? Ai paragoni si arriva sul mercato attraverso i prezzi; ma qui non di prezzi si parla, ma di confronti fra apprezzamenti psicologici, anzi fra le variazioni di quegli apprezzamenti. I successivi gruppi di migliaia o centinaia di lire di redditi non sono, in mano ai contribuenti, altro se non comandi su beni economici. Ogni uomo ha una propria gamma di desideri; ognuno ordina nel proprio spirito i beni in un ordine discendente; e li combina e li smista nel modo ritenuto da lui più conveniente. Se noi potessimo avere sotto gli occhi le tabelle mengeriane di distribuzione di tutti i redditi individuali esistenti in una collettività tra i beni economici domandati, le tabelle risulterebbero, in molti o pochi particolari, tutte l’una dall’altra diverse. Come dalla diversità dei beni richiesti, dal diverso ordine della richiesta, dalla differente combinazione dei beni nei successivi piani possa risultare una uguale legge di decrescenza dei redditi supera la mia comprensione. Gli uomini ad ogni momento apprezzano e distribuiscono inoltre non i redditi che ad essi affluiscono nell’unità di tempo considerata, ma tutta la ricchezza di cui essi hanno in quell’unità di tempo la disponibilità, e cioè oltre al flusso ora detto di redditi, altresì i risparmi disponibili, i capitali investiti, la potenza di credito (mutui di redditi o capitali altrui), ecc., ecc., di cui essi dispongono. Ad ogni momento l’uomo ridistribuisce la ricchezza per lui disponibile tra i diversi usi, presenti e futuri, realizza e consuma, risparmia ricchezza propria ed altrui, derivata da flusso presente di reddito e da riflusso di redditi passati.[2] In siffatto intricato continuo processo di valutazione, l’ipotesi che «per

tutti gli uomini il reddito decresca in ugual misura» appare remotissima dalla realtà concreta e priva di qualsiasi significato.

 

 

8. – In verità, anche per il principio del sacrificio proporzionale ci troviamo di fronte ad un sottoprodotto della contaminazione accaduta storicamente al principio del secolo diciannovesimo fra utilitarismo benthamiano e scienza economica.[3] Fu un caso tipico di timore reverenziale di uomini poco famigliari, a causa delle vicende pratiche della loro vita, con le speculazioni filosofiche; quasi un debito di riconoscenza pagato da Ricardo e dalla pleiade ricardiana a Bentham ed ai benthamiani che li onoravano della loro amicizia e protezione. Il malanno si aggravò a causa della coesistenza casuale nei due Mill di propensioni filosofiche ed economiche. Divenne quasi un rito d’obbligo la genuflessione dinanzi all’idolo utilitaristico; sicché persino il laico Pantaleoni, che pur ne vide l’infondatezza, è sorpreso a compierlo.

 

 

Trattavasi di riti formali, dopo compiuti i quali gli economisti attendevano ai fatti propri, che sono di affacendarsi intorno a mercati ed a prezzi.

 

 

9. – Oggi il compimento del rito è un relitto il quale indugia qua e là solo in alcuni antiquati manuali scolastici. La scienza economica non si limita a dosare utilità economiche; non afferma, per ragioni di divisione del lavoro, di ignorare i fini non economici. Accetta i fini che gli uomini si propongono e le dosature che gli uomini fanno. Se non si limita a “constatare” le scelte che sono fatte dagli uomini, se procura di scandagliare le ragioni di quelle scelte, ciò fa senza sostituire alcun “suo” imperativo (fa ciò che ti è più utile economicamente, cerca di guadagnare denari) agli imperativi ed ai moventi da cui sono mossi gli uomini. I moventi sono quelli che sono: bassi ed alti, materiali e spirituali, egoistici ed altruistici, famigliari e nazionali. All’economista basta constatare che quei moventi si dispongono, nell’animo di ogni uomo, in un certo ordine, sono legati tra di loro da certi legami di complementarietà. L’analisi psicologica intorno all’ordinamento gerarchico che gli uomini danno, di fatto, ai propri desideri ed ai beni atti a soddisfarli è un’analisi individuale, riflette l’operare singolo di ogni uomo mosso da una svariatissima gamma di impulsi. È l’introduzione necessaria allo studio proprio della scienza economica, che è il formarsi dei prezzi sul mercato. Quando giungono sul mercato, gli uomini devono superare l’ostacolo del no bridge, della mancanza del ponte di passaggio fra le valutazioni psicologiche interne di Primus e quelle di Secundus.

 

 

Come la scienza economica si sia tratta di imbarazzo e cerchi di trarsene sempre meglio è detto dai testi classici moderni. Qui basti dire che sulla strada la quale conduce dal foro individuale al foro collettivo (mercato) gli economisti non hanno incontrato nessuna sibilla che abbia chiarito loro l’uso delle criptiche formule del sacrificio. Gli economisti non negano né affermano il supremo principio utilitaristico, che scopo dell’azione collettiva sia quello di conseguire la massima felicità possibile per il massimo numero possibile dei componenti la collettività. Constatano che esso è fuori del loro campo e che essi non sono in grado di dir nulla in proposito. Quindi essi non discorrono dell’imposta come di uno strumento atto a procurare alle collettività umane il minimo di infelicità od il massimo di felicità; od a cagionar agli uomini sacrifici uguali o proporzionali. Pur non essendo agnostici rispetto al fatto “imposta”, essi affermano unicamente di non avere nulla a dire intorno alla ripartizione dell’imposta secondo i cosidetti principi del sacrificio, perché essi reputano fondati su comparabilità assurde i canoni del sacrificio minimo ed uguale o non sono in grado di dire nulla rispetto alla fondatezza della affermazione che l’utilità delle successive dosi di ricchezza decresca in misura proporzionatamente uguale per tutti gli uomini. L’affermazione pare ad essi strana; ed in ogni modo dovrebbe essere dimostrata vera dagli psicologi o dai biologi.

 

 

10. – Gli economisti abbandonano di buona grazia quei principi ai giuristi, ai moralisti, ai politici, ai matematici. Se l’indagine del Rossi si muove fuori del campo economico, ciò non vuol dire che ad essa si debba negare importanza.

 

 

Se si guarda bene, nel pensiero dell’autore, la ipotesi che per tutti gli uomini esista un ugual modo di decrescenza del reddito non deriva dalla osservazione dell’esperienza concreta, non è una premessa del tipo delle tre fondamentali, da cui si deduce, secondo il Robbins, ad esempio, come da un gomitolo tutto l’edificio della scienza economica: a) i fini degli uomini qualunque siano (l’economica non li sceglie né li approva o disapprova, li constata) sono indefiniti in numero; b) i mezzi disponibili sono all’uopo limitati e c) sono di applicazione alternativa. Queste sono verità assiomatiche elementari, dedotte dalla esperienza. Una volta poste, da esse si deduce il corpo della dottrina.

 

 

L’ipotesi su cui poggia la possibilità di applicazione del principio del sacrificio proporzionale non è assiomatica. L’esperienza non la conforta. Essa trae forza invece dalla regola del minimo arbitrio, la quale consiglia allo stato di trattare tutti gli uomini di fronte all’imposta alla medesima stregua. Dal principio che la imposta deve trattare ugualmente gli uomini, si deduce che ci si deve sforzare a vedere negli uomini quel che negli uomini vi è di uguale e di uniforme, trascurando le singolarità e le differenze. Poiché si constata che per tutti gli uomini la utilità della ricchezza decresce, si suppone, in conformità alla regola del minimo arbitrio (p. 138) che essa decresca secondo una legge costante uguale per tutti. La scienza economica non nega Né accetta la proposizione. Essa è fuori del suo campo, come è fuori del suo campo tutto ciò che si riferisce a ciò che deve farsi. Pare che essa sia una proposizione politica; la quale diventa giuridica se affermata dal legislatore. Se una distribuzione dell’imposta poggia su un imperativo politico, essa è dunque una distribuzione politica, non economica.

 

 

11. – Del pari è politico giuridica la scala di imposta proporzionale o progressiva che il legislatore adotta. «Basterà» – osserva giustamente l’A. – «fissare l’aliquota massima per i redditi più elevati e l’aliquota minima o il rapporto in cui questa si ritiene doversi stabilire rispetto alla massima per non urtare apertamente secondo la coscienza generale contro

un criterio di giustizia largamente inteso. Se si compie da parte dello stato questa valutazione, osservando una tale prudenza da renderla accettabile, nella sua semplice espressione, alla coscienza collettiva, anche tutta la scala che ne risulta sarà accettabile indiscutibilmente» (pagg. 138-139). «Dovere», «coscienza generale» o «collettiva», «criterio di giustizia», «prudenza» sono parole che non si leggono nei libri di economia, dove si parla di prezzi, di domanda, di offerta, di mercato, di beni economici, sibbene nei libri di diritto, di politica e di morale. Noi diremo perciò che la distribuzione dell’imposta la quale avvenga secondo questi criteri è una distribuzione politico – giuridica o morale; non mai una distribuzione economica.

 

 

12. – Fissate, secondo il comando politico-giuridico, due punti della scala dell’imposta, il matematico costruirà la curva intiera della scala. Ciò fu fatto da molti, tra gli altri egregiamente dal legislatore italiano per la costruzione delle due curve continue delle scale delle aliquote per l’imposta patrimoniale straordinaria e per quella complementare sul reddito. Il Rossi, esperto in calcolo, propone sue scale. Questa è indagine utile, d’indole matematica.

 

 

13. – La scienza economica non ha dunque nulla a dire in materia d’imposta? Ho l’impressione di sì e ne dissi altrove le ragioni. Si prenda atto innanzitutto, se fa d’uopo, che gli uomini ed i legislatori possono deliberare di ripartire l’onere delle spese pubbliche secondo criteri non economici, sibbene politico – morale – giuridici, simili a quello, dianzi enunciato ed elaborato, del cosidetto sacrificio proporzionale. Se le cose stanno così, questo diventa un dato del problema economico che gli economisti studiano. Tra i tanti fini (postulato a del Robbins) che gli uomini si propongono vi sarà dunque quello di distribuire le imposte in un certo modo. L’economista, il quale sa che i mezzi offerti agli uomini per raggiungere, insieme con gli altri fini (del mangiare, del bere, del perfezionamento morale ed intellettuale, della grandezza della patria, ecc., ecc.), anche quello di una determinata, e da essi ritenuta giusta, ripartizione delle imposte, sono limitati e sa che i mezzi limitati possono essere alternativamente usati per l’uno o per l’altro fine, comincerà da questo punto in poi a svolgere il gomitolo del suo ragionamento. Il suo sgomitolare, che si chiama, nel caso specifico, studio degli effetti delle imposte, non è un puro esercizio di logica. Serve allo stesso legislatore; come riconosce il Rossi là dove si preoccupa (pag. 148 e 157 e segg.) di costruire scale di aliquote con massimi moderati, le quali non scoraggino troppo i ricchi e la produzione e non scemino il gettito totale dell’imposta. Gioverebbe tuttavia se egli meglio suum cuique tribuisse: all’economista, al politico, al giurista, al moralista, cosicché fosse chiara la parte di responsabilità e di merito che ad ogni ordine di scienze spetta nel costruire l’edificio tributario. Se è vero che «la voce della scienza» si debba unire a quella di tanti milioni di uomini che soffrono delle ingiustizie sociali per dire: «bisogna compiere tutto ciò che è giusto» e per strappare «dal libro del dolore le pagine che costituiscono una macchia per la civiltà», è desiderabile altresì sapere quale sia l’apporto delle varie scienze al compimento dell’impresa. La scienza economica, fa d’uopo riconoscere, non ha alcun merito nel porre le fondamenta dell’imposta progressiva. Queste stanno fuor del suo campo: in concetti di uguaglianza, di giustizia, di dovere, in esigenze della coscienza collettiva, ossia in entità non misurabili dal mercato e quindi non assoggettabili al calcolo economico. Il suo compito è secondario, derivato ed apparentemente modesto. Quando il politico, ubbidendo al comando della “giustizia “, ha istituito la imposta progressiva, la scienza economica adempie all’ufficio dello schiavo seduto dietro al trionfatore coll’incarico di ricordargli che accanto al campidoglio v’ha la rupe tarpea. L’economista, schiavo della limitazione e della alternatività dei mezzi, ricorda all’uomo politico ansioso di toccare alte mete grazie all’imposta progressiva, che fa d’uopo molta prudenza, molto buon senso, molta avvedutezza per non isterilire la produzione e con essa annientare il gettito dell’imposta medesima. Col ricordare le conseguenze dell’azione compiuta, egli influisce così sulla volontà decisa all’azione.

 

 

14. – L’economista, mentore modesto e talvolta molesto, vorrebbe ammonire altresì i giuristi, i politici, i moralisti ed i matematici a non fidarsi troppo del dono che generosamente egli volle far loro dei principi del sacrificio. Se fossi al loro luogo, temerei Danaos et dona ferentes. In sostanza abbiamo fatto generoso abbandono di quei beni perché inservibili per noi. Sono i nostri amici sicuri di cavarne qualcosa. Al moralista dovrebbe parere ripugnante ragionare sulla base di ipotesi le quali suppongono che i sentimenti si possano sommare e paragonare. Il moralista dice all’uomo: fa quel che devi e non guardare a quel che in più o in meno fanno gli altri. Al matematico, il quale pure si occupa solo di costruire curve sulla nozione di certe proprietà che egli sa dovere esse possedere, deve dare ai nervi partire da una ipotesi, che taluno gli osserva non essere rispondente al mondo della realtà, sibbene accettabile come regola di minimo arbitrio. Restano il politico ed il giurista; o meglio il politico, a cui segue il giurista in qualità di costruttore ed interprete della norma posta dal politico. Fa d’uopo sul serio al politico richiamarsi ai rompicapo dei principi del sacrificio, che ognuno può tirare un po’ più in qua o un po’ più in là, ricorrendo alle ipotesi più o meno arbitrariamente eleganti, di Bernouilli, di Cohen – Stuart, di Edgeworth, di Fisher, ecc., ecc. In fondo, i famigerati principi lasciano il politico senza bussola. Se egli deve fissare – ed è tutto ciò che il matematico gli chiede per costruire la sua bella curva continua delle aliquote di un’imposta progressiva – i due punti minimo e massimo della curva medesima, egli deve fare appello sostanzialmente al buon senso e alla prudenza che lo consigliano di non esagerare nel fissare il punto massimo ed al senso di “giustizia”, alla voce della coscienza collettiva che lo tirano per le maniche quando fissa il punto minimo. Sono, forse, queste del “buon senso”, della “prudenza”, della “giustizia”, della “coscienza collettiva” idee imprecise e vaghe; ma ho gran paura che altro non ci sia in fondo agli schemi di progressività. La signora “scienza” non ha nulla a dire in queste faccende a fisarmonica; e quell’arrabbattarsi a rivestire idee semplici e piane sentite all’ingrosso dal popolo e tradotte alla meglio in norma legislativa dal politico con i solenni paludamenti utilitaristici di minimi, uguali e proporzionali sacrifici, pare proprio piuttosto dell’incantatore, il quale, con gergo misterioso e parole abbondanti, manda via soddisfatti i villani i quali hanno pagato l’entrata al baraccone. Poiché gli incantamenti in materia tributaria non dovrebbero essere necessari, par preferibile che anche il politico abbandoni le formule sibilline per attenersi alle idee piane le quali scendono al cuore del popolo.

 

 

15. – L’egregio Rossi mi vorrà dar venia se ancora una volta ho preso occasione dal suo scritto per ripetere la solita mia solfa della necessità di distinguere l’una dall’altra la ricerca economica politica e giuridica intorno ad un qualsiasi determinato problema. Taluno può avere avuto l’impressione che in tal modo io neghi il valore della ricerca politica o giuridica, per esaltare esclusivamente quella economica. Ben lungi da ciò, ritengo che a dar valore ai punti di vista non economici sia necessario ridurli alla loro vera natura. Non giova studiare con gli strumenti propri dell’economia un problema politico o giuridico. Ogni scienza ha le proprie premesse ed i propri strumenti di studio. Dalle contaminazioni di ricerche eterogenee nascono solo mostri.

 

 

Non vorrei altresì che la insoddisfazione mia per le formule che altri ha messo in bocca ai politici od ai giuristi fosse scambiata per negazione di quella qualsiasi teoria della finanza la quale non sia economica pura. Essa invece significa impazienza verso teorie le quali non mi paiono soddisfacenti per quell’indagine politica o giuridica medesima che si vorrebbe intraprendere; e desiderio che questa sia finalmente posta su solide basi. Nel giorno nel quale esisterà una seria teoria politica o giuridica dell’imposta, la querela delle scuole avrà termine. Querela comica, la quale parte dalla premessa stravagante che sia negabile la legittimità di ricercare il vero in quella qualsiasi direzione piaccia al ricercatore scegliere. Negabile è solo l’errore nell’uso dello strumento di ricerca; contennenda è la confusione delle idee; risibile la piccolezza dei risultati raggiunti con gran fatica. Ma se il ricercatore conosce i fini della ricerca ed i limiti in cui essa si muove; se ragiona correttamente; se intuisce i fatti o le idee rilevanti e vi dà risalto, egli è di buona scuola, qualunque sia la ricerca, politica od economica o giuridica, da lui intrapresa.

 

 

Alla recensione che precede, l’autore della memoria recensita rispondeva con una nota pubblicata nel fascicolo di settembre-ottobre 1933 della rivista. Alla nota del Rossi seguivano le seguenti mie osservazioni:

 

 

Considero, nella risposta del Rossi, solo quella parte la quale si riferisce al punto da me toccato nella mia critica: appartiene alla scienza economica discutere di progressività nelle imposte? La bontà sostanziale della sua tesi non fu e non è da me – salvo qualche riserva di vocabolario, di cui sotto – discussa. Negai solo che quella fosse discussione economica. Il Rossi replica:

 

 

1° che io ho interpretato male la sua ipotesi – ben sua e non mia – che «per tutti gli uomini decresca in ugual modo la utilità del reddito». Avevo interpretato che l’ipotesi valesse quanto dire «che il rapporto fra l’utilità di una dose di ricchezza e l’utilità di quella immediatamente precedente è uguale per tutti gli uomini». Il Rossi afferma che egli voleva dire altro; ed io mi inchino, augurandomi nel tempo stesso che qualche volonteroso compili presto un prontuario del significato delle parole e delle frasi usate oggidì dalla congrega economica, con le opportune varianti a norma delle diverse scuole; prontuario di cui, sebbene non tutti osino confessarlo, è sentitissimo il bisogno, e sarebbe certo e fruttuoso

lo spaccio.

 

 

Il Rossi deve nutrire tuttavia una qualche non avvertita inclinazione per la mia lettura, da lui respinta, della sua ipotesi; ed invero (cfr. sopra paragrafo 10) non solo il mio svolgimento: «l’utilità della seconda dose di reddito per Primus è uguale al prodotto della utilità della seconda dose di reddito per Secundus per l’utilità della prima dose di reddito per Primus diviso per l’utilità della prima dose per Secundus;» ma anche un suo ulteriore svolgimento: «il rapporto tra l’utilità della seconda dose di reddito per Primus e l’utilità della seconda dose di reddito per Secundus è uguale al rapporto fra l’utilità della prima dose di reddito per Primus e l’utilità della prima dose di reddito per Secundus» hanno per lui, oltre al significato formale matematico, un significato sostanziale preciso e determinato. Quale sia tal significato egli non dice apertamente, rinviando a note leggi economiche di Jevons e ad analogie tratte dalla fisica. Forse ho torto reputando che, se un significato sostanziale di una qualunque proposizione esiste, esso deve essere passibile di una chiara dichiarazione autonoma. Il mio rispetto per le analogie ed i lampeggiamenti tratti da altre scienze è illimitato, ma a condizione che, quelle accennate e questi fermati nel quadro, l’analogista esponga il problema in discorso con modi a questo proprio; dimostrando che egli vuole far parte agli altri dei suggerimenti che ha ricevuti da altri capitoli o da altre branche dello scibile umano. Nessuno è obbligato a svolgere il pensiero altrui;

 

 

2°: che la ipotesi da lui formulata: «decrescere per tutti gli uomini in ugual modo la utilità del reddito» deve essere interpretata nel senso che «il principio stesso della decrescenza richiede logicamente un minimum di decrescenza valevole per tutti, nel senso che la decrescenza, variabilissima da individuo ad individuo, deve ritenersi superiore ad un certo minimo. Perciò è legittimo parlare “di un valore costante per la elasticità che definisce la decrescenza” ed è legittimo tenerne conto solo nella misura che, essendo superata da tutti, è a tutti comune».

 

 

È probabile, data la mia imperfettissima conoscenza dei significati speciali delle parole usate nel linguaggio psicologico, io interpreti ancora una volta erroneamente la proposizione sopra riprodotta; e mi si conceda venia perciò se oso svolgerla nel modo seguente:

 

 

a) esiste un minimo di decrescenza dell’utilità, comune a tutti gli uomini;

 

b) supponendo che tal minimo si verifichi per un individuo appartenente ad una data collettività, per tutti gli altri individui l’utilità decresce in misura maggiore di tal minimo, misura variabilissima da individuo ad individuo;

 

c) allo scopo di distribuire l’imposta, basta tener conto del minimo comune di decrescenza (a), trascurando le variazioni al disopra dello stesso minimo (b).

 

 

Le proposizioni (a) e (b) sono di tipo scientifico, perché, fatte parecchie riserve, tra cui principalissime quella che fino ad un certo punto, diversissimo da uomo ad uomo, la utilità delle successive dosi di ricchezza è probabilmente crescente, e l’altra che per taluni uomini non si può, per certi tratti, escludere una legge di costanza, esse paiono rappresentare abbastanza bene le uniformità, i vincoli esistenti fra incrementi di ricchezza ed incrementi di utilità derivata dalla ricchezza.

 

 

La proposta (c) non ha invece carattere scientifico. La sua importanza, rispetto al ricavarne una formula d’imposta, non consiste nell’essere una uniformità. Su ciò non discuto, perché il punto essenziale non sta nell’essere una uniformità; ma nell’essere scelta, fra le uniformità e le dissimilarità esistenti di fatto, per dedurne una norma reputata dallo studioso “giusta” per la ripartizione dell’imposta. La scelta fatta risulta da una predilezione, da un sentimento dello studioso. Dicendo perciò che quella proposizione non ha carattere scientifico, non voglio menomamente tenerla in poco conto. Anzi ne faccio gran caso, perché è certamente interessante sapere perché i legislatori reputino “giusto” seguire quel criterio; e se vedrò che molti legislatori lo seguono, dirò che esso risponde ad una uniformità di condotta politica. Il carattere scientifico non è proprio del criterio stesso; ma eventualmente della legge di frequenza della sua adozione da parte dei legislatori. Il consiglio (c) dato dal Rossi al legislatore ha l’impronta di consiglio meditato di buona condotta tributaria; epperò mi piace inchinarmi senz’altro dinanzi agli eleganti svolgimenti che il Rossi ha saputo trarne e supporre[4] che l’applicazione della formula dell’imposta da lui ricavata dia luogo a risultati accolti come equi dalla coscienza collettiva.

 

 

Dico soltanto – ed è qui tutto il succo della mia precedente diatriba e di quella presente – che la scelta del suo consiglio è una scelta politica, fatta arbitrariamente dal legislatore. Il fatto è che la decrescenza dell’utilità è diversissima da uomo ad uomo: che l’utilità, per alcuni tratti, invece di essere decrescente, è crescente o costante; che il punto di inizio della decrescenza è ignoto ed è diversissimo da uomo ad uomo. Viene il legislatore e dice: «dal fatto completo io astraggo una fetta, quella minima di decrescenza comune a tutti. Ignoro i casi ed i tratti in cui, nonché esserci quel minimo di decrescenza, esiste persino il fatto contrario della crescenza. Ignoro i casi numerosissimi, la quasi generalità, in cui la misura della decrescenza è superiore a quel minimo. E costruisco su quella astrazione la mia imposta». Non nego la legittimità e la correttezza delle deduzioni ricavate da quella uniformità che al Rossi piace considerare. Affermo, che il dedurre soltanto da quella uniformità (minimo di decrescenza uguale per tutti) e non anche dalle altre caratteristiche della decrescenza della utilità è un “arbitrio” politico. La parola “arbitrio” non ha nessun connotato sfavorevole o biasimevole o negativo. Indica che si tratta di un giudizio della stessa natura di tutti quelli che si incontrano a base delle norme legislative coattive. L’arbitrio dell’uguaglianza (della decrescenza dell’utilità) è certo voluto dal legislatore per nobilissimi motivi, per ossequio necessario a regole di uguaglianza di trattamento degli uomini di fronte alla legge. Sta tutto benissimo; ma sta che quello è un giudizio politico, col quale l’economista, come tale, non ha nulla a vedere. Né l’economista ha qualcosa a vedere con gli altri criteri che al Rossi appaiono plausibili fondamenta per la ripartizione dell’imposta:

 

 

  • che gli uomini debbano essere tassati proporzionatamente al loro reddito (principio detto di uguaglianza economica dal Rossi);

 

  • che gli uomini debbano essere tassati proporzionatamente alla utilità subbiettiva della loro ricchezza;

 

  • che gli uomini debbano essere tassati non secondo il principio individualista del «compenso secondo il merito» ma secondo quello comunistico del «consumo secondo il bisogno, produzione (contribuzione) secondo la capacità»;

 

  • che l’imposta debba lasciare invariata la posizione economica relativa dei contribuenti.

 

 

Anch’io ho ed ho avuto qualche predilazione per qualcuno dei criteri indicati. In materia di fondamenta, giustificazione, base, punto di partenza per la distribuzione dell’imposta, brancoliamo talmente nel buio che bisogna aggrapparci a qualsiasi rampino per andare avanti. Rassegnamoci tuttavia a riconoscere che si tratta di rampini, espedienti, predilezioni, meno peggio, riduzioni al minimo di inevitabili arbitri; tutto, salvo che di proposizioni economiche, anzi scientifiche!

 

 

Quelle poche volte che sono passato sul Ponte Nuovo a Parigi, mi sono reputato in obbligo di cavarmi il cappello dinanzi alla statua del buon re Enrico IV il quale voleva che tutti i francesi potessero mettere  la domenica un pollo nella pentola; ed oggi mi cavo il cappello ai filantropi i quali vorrebbero che gli uomini fossero pagati secondo il merito o secondo il bisogno, o tassati secondo la capacità, ovvero in modo che la loro posizione economica rispettiva rimanga invariata. Ho sempre avuto grande ammirazione per i risultati sociali, per i rivolgimenti ideali che codesti uomini sono riusciti a produrre. Considero degnissima di storia la loro opera. Ma non mi è mai passato per la mente l’idea che nei discorsi di quegli uomini politici e negli scritti di quei predicatori dovesse studiarsi la scienza economica. Il salario è quello che è, non quello che dovrebbe essere secondo il merito ed il bisogno. La scienza economica studia il salario che è; e delle idee del salario secondo il merito od il bisogno tiene conto solo come di idee, le quali, forse, possono in date circostanze avere, accanto a tanti altri fattori, un certo peso sul mercato del lavoro nella determinazione del salario che è. Parimenti, se l’idea dell’imposta secondo il criterio (c) è riuscita ad attuarsi in un certo paese e tempo, essa è divenuta un dato di fatto dell’equilibrio economico; e come tale formerà oggetto di studio da parte della scienza economica. Ma alla domanda: è giusta l’imposta costrutta secondo la proposizione (c)?, la scienza economica non soffre alcuna risposta. Non so perché il Rossi si ostini a dichiarare propri della scienza economica ragionamenti che con essa non hanno nulla a che fare. Egli ha egregiamente affrontato problemi più alti. Perché confonderli con il nostro terra terra? La politica, la morale, la religione possono indicare le vie del bene o del male, la scienza economica no. Essa è cosa troppo umile per aspirare a tanto. Ben sapendo che nessuna lode le spetta per quel che altri, mosso da sentimenti di giustizia o di carità o di grandezza, fa di bene con atti coerenti all’alto fine voluto, la sua sola aspirazione è che le maggiori sorelle talvolta la ascoltino quando, aspirando al bene, esse hanno preso una via traversa. Dice la sua voce: «voi correte a quel fine per tal via e credete di toccar la meta; badate che la via è impervia e cadrete prima di giungere alla meta, od è via mala e vi conduce al precipizio».

 

 

Nel fascicolo del novembre-dicembre 1933 la discussione continua, con l’intervento in maniera indipendente di Umberto Ricci e con un’ultima replica di Lionello Rossi. Le seguenti mie parole aprivano e chiudevano quest’ultima fase del dibattito:

 

 

La rivista è lieta di avere suscitato un certo fervore di disputa intorno al principio distributivo dell’imposta informato all’utilitarismo. Consentivano da tempo gli studiosi nella reiezione dei principi del sacrificio minimo e del sacrificio eguale (cfr. i miei articoli precedenti e le fonti ivi citate, a cui è doveroso aggiungere la critica limpidissima del De Viti nei Principii). L’accordo è stato qui riaffermato pienamente; il significato di quei due principii è ignoto, per la impossibilità di trovare il ponte di passaggio dalle sensazioni di un individuo a quelle di un altro. La succinta nota di Umberto Ricci fa astrazione dall’obbiezione dell’errore del salto, insito nel principio del sacrificio minimo e precisa invece lapidariamente le conseguenze della variabilità da individuo ad individuo della curva di utilità della moneta: le soluzioni del problema dell’imposta, possibili in base a quel principio, sono parecchie e contradittorie. Perciò, possiamo concludere, esso è arbitrario e dunque inservibile.

 

 

Rimane, controverso, il principio del sacrificio proporzionale, sostenuto dal Cohen, accolto dal Rossi, misterioso per me. È o non è implicito anche in esso l’errore del salto? Esistono avvedimenti per eliminarlo?. Quale grado non arbitrario di applicabilità concreta essi hanno?

 

 

Poiché le polemiche hanno esaurito il loro ufficio quando sono riuscite a porre i problemi dibattuti, chiudo su quasi tutto con una dichiarazione di pieno accordo. Accordo rispetto al primo punto, non avendo io nessuna difficoltà di ritenere erronea una formola il cui significato resta per me incomprensibile. Accordo sui punti secondo e terzo, nel senso che il Rossi giudica così evidente o così ovviamente connesso con i richiami fatti il significato delle formole in discorso da non aver bisogno di quelle spiegazioni che io chiedevo. L’evidenza o la ovvia connessione sono un qualcosa che non si discute. Il fatto che io non le vedo, non può obbligare altri a spiegare od a spiegar meglio ciò che spiegazione od ulterior delucidazione a parer suo non richiede. Se, rispetto al quarto punto, sono d’accordo nel ritenere pacifico che l’imposta sia il mezzo per destinare parte del reddito alla soddisfazione di una particolare categoria di bisogni, il disaccordo resta sul sapere se questo o quel criterio o tutti i criteri sinora addotti per ripartire l’imposta siano criteri economici. Che «il prelevare una determinata imposta col minimo disturbo» risponda, ad esempio, al principio economico di razionalità è appunto ciò che si tratta di dimostrare e che non si dimostra coll’appello all’evidenza, ma con definizione rigorosa e con analisi ragionata delle conseguenze a cui porta l’applicazione dell’una o delle parecchie definizioni possibili a darsi del principio stesso.

 


[1] Uso gli indici dello schema contenuto nel paragrafo 5.

[2] Ho rivendicato a CARLO BOSELLINI (1813 – 1817) la priorità della concezione esposta nel testo in La teoria dell’imposta in Tommaso Hobbes, Sir William Petty e Carlo Boselli, nota presentata alla R. Accademia delle Scienze di Torino nell’adunanza del 2 luglio 1933 (in paragrafo 28).

[3] Cfr. sugli effetti lacrimevoli della contaminazione tutto il libro di LIONEL ROBBINS, An Essay on the nature and significance of economic science, London, 1932, passim; e, sul punto che ci interessa, principalmente, pag. 120 e seg.

[4] Dico – a rischio di eccitare nuova querela di sbandamento su punti singoli del discorso dell’A. a danno del filo logico del suo ragionamento – “supporre” perché la incapacità mia di capire il significato della formula dell’imposta da lui ricavata (cfr. sopra paragrafo 8) è di intoppo ad un pieno apprezzamento di essa. Che cosa significa il dire che l’imposta (l’I della formula) e uguale al rapporto fra la «quota costante di prelevamento in utilità (aliquota subbiettiva costante (α)» e l’unità meno «la graduazione dell’imposta» (m), moltiplicato tale rapporto per il reddito del contribuente x, meno un’altra quantità xm? Che cosa sia il rapporto fra aliquote subiettive di prelevamento e graduazione dell’imposta ossia il rapporto fra un qualche cosa che data l’accezione ordinaria della parola “aliquota” pare sia a sua volta un rapporto fra quantità psicologiche ed un qualcosa d’altro che sembrerebbe sempre secondo il significato comune delle parole usate – essere una ragione di incremento dell’imposta in moneta in rapporto all’incremento del reddito in moneta; e come si possa moltiplicare siffatto rapporto per una quantità di reddito espressa in moneta, e quesito per me impenetrabile. Il Rossi dirà che la sua formula è un derivato di altre; e che in quelle o nei successivi loro svolgimenti io posso trovare ogni soddisfazione ai miei dubbi. Metto la faccia tosta e nego. Quando si giunge ad una formula e la si propone come guida all’azione del legislatore, si ha l’obbligo di esporla perfetta in sé stessa, tale che se ne comprenda il significato da tutti coloro i quali sappiano leggere e scrivere e far di conti. Si può rinviare a precedenti sviluppi il chiarimento della dimostrazione non quello del significato. Non bisogna credere del resto che la fatica nel compiere siffatta umile bisogna di sprezzamento del pane della scienza sia del tutto ingrata e priva di soddisfazioni. Citerò l’esempio del Wicksteed, il quale nell’Alphabet e nel Common Sense si assoggettò alla dura fatica, oggi da tanti disdegnata, di spiegare passo a passo i principi dell’economia pura in modo da renderli accessibili anche a quelli che in Italia si designerebbero come forniti del diploma di maturità classica. Capitò che, anche per questo suo scrupolo di compiutezza, disse cose nuove ed acquistò imperitura fama di grande economista.

 

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