Opera Omnia Luigi Einaudi

I trivellatori di stato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1911

I trivellatori di stato

«La Riforma Sociale», gennaio 1911, pp. 1-14

 

 

 

Due anni or sono all’incirca, sui giornali si lesse una notizia graziosissima: che una reale commissione d’inchiesta, nominata per avvisare i mezzi di rimediare alla crisi vinicola (come si sa, in Italia, appena certi gruppi abbastanza numerosi, di agricoltori ed industriali, cominciano a far baccano perché affermano di non poter costringere il pubblico a comperare i loro prodotti ad un prezzo sufficiente a compensare le loro, più o meno ragionevoli, spese di produzione, subito si nomina una reale commissione che sapientemente indaghi sulle misteriose cagioni di sì disdicevole costume dei consumatori) aveva proposto la istituzione di degustatori di Stato, i quali dovessero, grazie alla finezza del loro palato, distinguere subito i vini sofisticati da quelli legittimi, nei casi in cui nemmeno l’analisi chimica fosse riuscita a scovrire le prove delle colpe abbominevoli dei falsificatori di vino. Professione più mirabile mai non si sarebbe veduta: e sarebbe stato probabile un concorso grandissimo di candidati ai posti di “bevitori di Stato”, ove la maligna sorte non avesse voluto che, per l’inclemenza delle stagioni, la crisi vinicola si risolvesse da sé nell’anno di disgrazia (per gli abortiti nuovissimi “funzionari” di Stato e relativa lega per il miglioramento degli organici e degli stipendi) 1910, colla mancanza delle uve e col rialzo inopinato dei prezzi del vino. Chi dei viticultori propone adesso la nomina di “abili degustatori di Stato” per indagare quanta acqua si metta, nel segreto delle cantine campagnuole, nel vino troppo scarso per soddisfare ai bisogni dei consumatori? Oggi non sono più i viticultori che si lamentano di non poter vendere il vino a prezzi remuneratori e chiedono la tutela dello Stato contro i contraffattori. Sono invece i petrolieri d’Italia (il governo, in verità, per distinguerli dai dinamitardi, li chiama “industriali del petrolio”), i quali si lagnano di dover fare delle buche troppo fonde per non trovare petrolio, e chieggono protezione allo Stato contro i produttori a buon mercato di petrolio genuino straniero. Naturalmente il governo interviene e crea una nuova professione, forse ancor più meravigliosa, quella dei trivellatori di Stato1.

 

La storia è interessante e merita di essere per sommi capi riassunta. In Italia da tempo si conosceva l’esistenza di sorgenti petrolifere in due zone dell’Appennino centrale, l’una nell’Emilia, in quel di Piacenza e Parma, e l’altra nella valle del Pescara, presso Tocco, sino a San Giovanni Incarico. Ma fu soltanto in tempi recentissimi che i lavori diventarono d’una certa importanza. Il quadro seguente dice quando e perché i lavori acquistarono l’importanza odierna:

 

 

Anni

Quantità importata dall’estero

Produzione interna

Valore statistico fuori dogana

Dazio doganale

Totale del dazio e del valore statistico

Tonnellate

Tonnellate

per Quintale

per Ql.

per Quintale

1871

37.656

38

50 –

6

9

56

59

1872

36.569

46

55 –

9

25-24

64

80-79

1873

30.273

65

50 –

25-24

75-74

1874

41.255

84

35 –

25-24

60-59

1875

39.775

113

30 –

25-24

55-54

1876

38.538

402

40 –

25-24

65-64

1877

43.930

408

45 –

25-24

70-69

1878

41.540

602

30 –

25-24

28-27

55-54

58-57

1879

51.533

402

30 –

28-27

58-57

1880

50.662

283

30 –

28-27

33

58-57

63

1881

52.422

172

29 –

33

62

1882

54.199

183

29 –

33

62

1883

59.514

225

29 –

33

62

1884

64.850

397

27 –

33

60

1884-1885

74.976

270

27 –

33

60

1885-1886

68.178

219

20 –

33

53

1886-1887

73.335

208

18 –

33

47

51

65

1887-1888

62.458

174

19 –

47

66

1888-1889

70.432

177

22 –

47

69

1889-1890

69.804

417

21 –

47

68

1890-1891

72.009

1155

21 –

47

68

1891-1892

73.923

2548

17 –

47

48

64

65

1892-1893

74.617

2652

17 –

48

65

1893-1894

74.625

2854

16 –

48

64

1894-1895

73.414

3594

16 –

48

64

1895-1896

67.217

2524

17,50

48

65,50

1896-1897

70.876

1932

17 –

48

65

1897-1998

69.282

2016

16 –

48

64

1898-1899

72.191

2242

17 –

48

65

1899-1900

70.831

1683

21 –

48

65

1900-1901

72.025

2246

22 –

48

69

1901-1902

70.007

2633

21 –

48

70

1902-1903

68.315

2486

20 –

48

68

1903-1904

68.562

3543

20 –

48

68

1904-1905

68.146

6122

20 –

48

68

1905-1906

65.657

7451

18 –

48

66

1906-1907

67.732

8326

18 –

48

24

66

42

1907-1908

85.725

7088

18 –

24

42

1908-1909

94.764

5895

16 –

24

40

 

 

Per l’intelligenza di questa tabella debbono essere fatte alcune osservazioni: che cioè sino al 1884 le importazioni e le produzioni si riferiscono amendue all’anno solare; mentre, in seguito, le importazioni si riferiscono all’anno finanziario, ad es. 1884/1885, mentre le produzioni continuano ad essere quelle dell’anno solare, ad es. 1885. L’anno solare è sempre quello del secondo semestre dell’anno finanziario; e così alle 94.764 tonn. importate nell’anno finanziario 1908/909 corrispondono le 5895 tonn. prodotte nell’anno solare 1909. Notisi ancora che nel periodo considerato si verificarono parecchie mutazioni nell’ammontare del dazio doganale: nel 1871 il dazio fu portato da L. 6 a L. 9 per quintale con la legge 16 giugno 1871; il 5 maggio del 1872 fu aumentato a 25 lire, se in barili, e a 24 lire, se in casse (onde il duplice dazio ed il duplice prezzo complessivo che si legge nella tabella sino al 1880), il 4 giugno 1878 fu cresciuto a 28 e 27 rispettivamente; il 3 agosto 1880 il dazio fu nuovamente unificato, aumentandolo a L. 33 sul lordo: con decreto catenaccio del 21 aprile 1887 si cominciò a calcolare il dazio sul peso netto, portandolo però da L. 33 a L. 47 per quintale: e finalmente con la legge del 22 novembre 1891 lo si crebbe fino al massimo di L. 48 per quintale. Qui il dazio stette fermo per lunga serie d’anni, finché con legge del 24 marzo 1907 fu ridotto a partire dall’1 aprile successivo a L. 24 per quintale ed è stato ridotto ulteriormente a L. 16 a partire dall’1 gennaio 1911 per effetto del trattato di commercio con la Russia, ratificato dal Parlamento italiano il 17 dicembre 1907.

 

Le vicende dei prezzi e dei dazi spiegano l’andamento del consumo e della produzione interna. Rispetto al consumo si può notare che era raddoppiato dal 1871 al 1893, malgrado l’aumento del dazio, perché contemporaneamente erano diminuiti i prezzi all’origine (valore statistico fuori dogana), cosicché il prezzo complessivo, entro dogana, era variato di poco. In seguito il consumo a poco a poco era andato scemando, per la concorrenza vittoriosa che al petrolio facevano altri illuminanti a cui il petrolio non poteva contrastare per la enormità del dazio a cui era assoggettato. Scemato il dazio nel 1907, subito il consumo segnala una ripresa. Dall’1 luglio 1906 al 31 marzo 1907 l’importazione era scemata di 51.917 quintali in confronto allo stesso periodo dell’anno precedente; dall’1 aprile al 30 giugno 1907 (già facendosi sentire l’effetto della riduzione del dazio a 24 lire) l’importazione aumenta di 74.073 quintali sullo stesso trimestre del 1906. Negli anni successivi l’incremento del consumo si accentua; sinché nel 1902/909, tra produzione interna ed esportazione all’estero il mercato interno assorbì più di 100.000 tonnellate di petrolio.

 

Quanto alla produzione, si può asserire che essa crebbe nella serra calda dei prezzi alti e dalla protezione alta. Dal 1871 al 1887 i prezzi si erano mantenuti elevati, e la protezione era già elevatissima; ma non essendo le piccole intraprese esistenti in grado di spingere i lavori a forte profondità, non si riusciva a produrre più di poche centinaia di tonnellate all’anno. Dal 1887 il dazio per motivi fiscali è addirittura cresciuto a 47 lire prima e poi a 48 per quintale; e sebbene i produttori interni dovessero pagare una tassa di 10 lire per quintale sulla raffinazione dal petrolio greggio, tuttavia rimaneva loro una protezione di ben 38 lire per quintale per una merce il cui prezzo d’origine oscillava fra le 16 e le 20 lire per quintale, ossia era circa del 200 per cento. Fu quella una protezione sorta per caso: l’ingordigia fiscale avendo indotto lo Stato ad aumentare il dazio a 48 lire e la balordaggine avendogli fatto trascurare, come quantità, allora trascurabile, la produzione interna, sorse e crebbe l’industria della trivellazione dei terreni petroliferi nel Parmigiano e nel Piacentino, industria che non si sarebbe certamente affermata se la legge non le avesse consentito di taglieggiare impunemente, e per ben 20 anni, alcuni pochi (e nella pochezza dei taglieggiati stava tutta la sua difesa) consumatori italiani.

 

Appena, con la legge del 24 marzo 1907, fu alquanto ridotto lo scandalo di una protezione enorme, cominciarono le alte querimonie. Notisi che con quella legge fu ridotto il dazio da 45 a 24 lire, ma fu anche abolita la tassa interna sulla raffinazione di 10 lire per quintale, cosicché sino alla fine del 1910 gli industriali italiani del petrolio godettero di una protezione netta di 24 lire per quintale – il 150% del prezzo d’origine della merce a Genova fuori dogana – e godono ancora, dall’1 gennaio 1911 in poi, di una protezione di 16 lire per quintale, uguale al 100% del valore del petrolio. Eppure il 100% non pare debba bastare; almeno se si sta a sentire quel che gli industriali del petrolio sono andati a raccontare al ministro d’agricoltura e ad una commissione da lui nominata. Raccontano che le loro imprese sono «profondamente ferite», tanto che è da temere l’abbandono delle miniere e la decadenza di un’industria che sembrava avviarsi a prospero avvenire, ove sia lasciata, senza una sufficiente protezione da parte dello Stato, alla mercé della grande concorrenza straniera. Aggiungono che malgrado il loro voto di dar incremento, più sicuro ed ampio, all’industria, questa non può svilupparsi anche perché le grandi compagnie straniere che hanno in mano il commercio del petrolio, e dispongono di una enorme produzione, sono interessate a smerciare a qualunque costo il soprappiù del prodotto, dopo soddisfatti i bisogni del consumo interno, e quindi a conquistare con ogni mezzo i mercati di consumo e, potendolo, anche rendersi padrone di altre regioni produttive affine di diminuire, se non di annullare del tutto, l’altrui concorrenza e dominare i mercati. Né dimenticano i petizionisti di mettere innanzi il grande interesse che avrebbe lo Stato di poter contare, in momenti difficili, sopra una produzione nazionale, capace di fornire almeno in parte il combustibile per le nostre navi e le automobili dell’esercito. Tanto è grave la minaccia della morte dell’industria, che, senza aspettare la riduzione del dazio da 24 a 16 lire, la produzione interna è già diminuita da 8326 tonn. nel 1907 a 7088 nel 1908 ed a 5895 nel 1909.

 

Se il ministero d’agricoltura, industria e commercio non fosse stato creato a bella posta per buttar dalla finestra i denari dei contribuenti, col pretesto di promuovere lo sviluppo delle sullodate branche dell’attività umana, avrebbe sentito il dovere di sottoporre ad una critica serrata le argomentazioni dei produttori di petrolio.

 

Cominciamo dall’ultimo argomento, quello che fa appello ad una corda sensibilissima al cuore d’ogni patriota. Senonché, se il governo dovesse mettersi in capo di far produrre in Italia tutto ciò di cui in guerra Avranno bisogno i suoi eserciti e i suoi navigli, si andrebbe all’assurdo. Poiché non è immaginabile che, in tempo di guerra, gli italiani abbiano a vivere di notte allo scuro, e poiché la produzione italiana del petrolio non riuscirà probabilmente a provvedere così presto né alla metà né al quarto del fabbisogno italiano, uopo è concludere che gli italiani si ingegneranno per procurarsi il petrolio anche allora. Bisognerà pagarlo più caro: ecco tutto. Invece di 40 lire il quintale, lo pagheremo per un anno 50 o 60 e fors’anco 70 lire, con un sovrappiù a titolo di spese di assicurazione per i rischi di preda come contrabbando di guerra. Forse non lo pagheremo nemmeno tanto, poiché non è supponibile che noi si abbia a trovarci in guerra contemporaneamente con la Francia, con la Svizzera e con l’Austria; ed è certo che gli agenti della Standard Oil o dei produttori del Caucaso sapranno bene seguitare ad «innondar» l’Italia di quanto petrolio avremo bisogno, scegliendo la via più sicura. Se potranno comprarlo i privati, ad ugual ragione potrà provvedersi di petrolio il governo; rimanendo dimostrato perciò che è stravagante la paura da cui son presi ogni tanto i nostri uomini di governo di veder mancare ora il pane, ora i panni, ed adesso il petrolio all’esercito. Per assicurare il paese contro i pericoli della sconfitta a nulla vale immiserirlo prima con protezionismi d’ogni specie, e spaventarlo colla minaccia di pericoli immaginari; anzi nuoce, perché gli uomini scontenti, miserabili e paurosi mai furono valorosi soldati in guerra.

 

 

La dimostrazione degli industriali del petrolio non sarebbe stata presentabile se non si fosse invocato altresì lo spettro del dumping americano. Pare impossibile; ma tutte le volte che qualche industriale inabile o disgraziato vuole reggersi in piedi svaligiando i contribuenti, ecco venire in scena certi miracolosi industriali stranieri, pronti a regalare per poco o niente i loro prodotti ai consumatori italiani! Pare che tutto il mondo sia popolato di gente pronta a vendere il suo al disotto del costo per far dispetto agli industriali italiani. Eh via! ben altri argomenti, ben altri dati bisognerebbe avere in pronto di quelli scandalosamente nulli che si leggono nella relazione ministeriale, per dimostrare l’esistenza del dumping del petrolio americano contro il petrolio italiano! Non basta asserire che le grandi compagnie americane sono interessate a smerciare qualunque prezzo il soprappiù del prodotto, dopo soddisfatti i bisogni del mercato interno, per distruggere la concorrenza e dominare i mercati; perché occorre dimostrare con ragionamenti e dati che esse hanno davvero interesse a svendere in Italia per annichilire la produzione italiana. Ora, questa dimostrazione i signori «industriali del petrolio» non la diedero al ministro, e questi non è in grado di parafrasarla ai deputati. Non la diedero, perché è difficilissimo dimostrare che la Standard Oil abbia interesse a svendere 95 mila tonnellate per impedire ad alcuni pochi untorelli di proprietari di pozzi dell’Appennino di vendere da 6 ad 8 mila tonnellate di petrolio all’anno. Se questo interesse avessero avuto, avrebbero gli Americani svenduto prima del 1907, quando potevano temere che, grazie alla enorme protezione di cui godevano le miniere petrolifere italiane riuscissero ad aumentare di molto il loro prodotto ed a minacciare davvero di togliere loro il mercato italiano.

 

Né, per poco si studino le statistiche della produzione del petrolio nei principali paesi del mondo, è possibile credere che gli Americani abbiano la minima preoccupazione della concorrenza che, per ora, possano loro fare i pochi pozzi italiani. Veggasi quale fu, in migliaia di tonnellate, la quantità prodotta negli ultimi tre anni:

 

 

1897

1898

1899

Stati Uniti

22.150

23.943

23.975

Russia

8.633

8.292

8.037

Gallizia

1.176

1.154

2.053

Rumenia

1.129

1.148

1.296

Sumatra, Giava e Borneo

1.179

1.143

1.200

India britannica e Burma

579

673

600

Messico

133

464

469

Giappone

268

276

264

Germania

106

142

143

Perù

130

134

130

Canadà

108

70

59

Italia

8

7

6

Diversi

4

4

4

35.603

38.050

38.246

 

 

Le cifre in corsivo sono congetturali. Si può facilmente ammettere che la Standard Oil Company d’America si sia in passato preoccupata della concorrenza russa ed abbia stretto degli accordi con i gruppi Rotschild e Nobel del Caucaso per venire ad una ripartizione dei mercati. Sono anche evidenti le ragioni le quali spingono quella grande società ad interessarsi dei progressi notevoli che sono stati compiuti nella Rumenia, nel Messico e sovratutto nella Gallizia, perché queste contrade potrebbero riuscire a provvedere a sé stesse, togliendo un mercato al petrolio americano. Ma è necessaria una buona dose di infatuazione per credere sul serio che i produttori d’America e del Caucaso si preoccupino dell’Italia, il cui contributo alla produzione mondiale è così piccolo, che per lo più nelle statistiche è trascurato od è confuso insieme con quello degli altri paesi! Se se ne fossero preoccupati sul serio, gli Americani, che vanno per le spiccie e, bisogna riconoscerlo, nonostante le loro grandi peccata di monopolisti, hanno una meravigliosa organizzazione commerciale e finanziaria, la quale entra per gran parte nel basso prezzo a cui possono vendere il petrolio, non avrebbero tardato ad aprir trattative con le minuscole compagnie italiane e, come fecero con alcune società concorrenti di importazione di petrolio dall’estero, ne avrebbero acquistato la metà più una delle azioni, assicurandosi il monopolio della vendita in Italia. E vi è ogni probabilità che coloro stessi, i quali oggi fanno professione di amor patrio, di liberazione dal territorio nazionale del petrolio straniero, di difesa del paese in tempo di guerra, e via dicendo, sarebbero stati felici di mettersi nelle mani degli Americani. Se questi non ne vollero sapere, è segno che essi non fanno alcun caso della concorrenza italiana. È per fermo una disgrazia per noi di non essere un gran paese minerario; ma non può questa disgrazia farci ostinare in una via senza uscita, mentre possiamo impiegare ingegno, tempo e capitali in iniziative a noi più adatte.

 

Voglio, del resto, mettermi dal punto di vista dei ricercatori di petrolio. I quali possono giustamente osservare che nessuno sa se nel sottosuolo italiano non si trovino depositi amplissimi di petrolio; e nessuno quindi può a priori affermare che l’industria petrolifera non sia altrettanto naturale per l’Italia dell’industria della seta e degli agrumi. L’argomento è teoricamente valido, sovratutto perché nessuno ha mai visto su larga scala che cosa ci sia a mille e più metri di profondità nel sottosuolo nostro. Ma è argomento valido, per chi ricordi la classica dimostrazione dello Stuart Mill, solo nel caso che si tratti di una industria giovane, che si suppone possa acclimatarsi in Italia e reggere in seguito colle sole sue forze alla concorrenza straniera. Può darsi, sebbene sia cosa tutt’altro che sicura, che in questo caso sia conveniente imporre un sacrificio attuale ai consumatori per ottenere rilevanti benefici in futuro. Esiste questa possibilità pel petrolio? La risposta negativa pare sia ovvia, ove si rifletta che l’industria in discorso non vuole contentarsi di una protezione del 100%, che parrebbe ad ogni altro industriale sufficientissima ed atta a far diventare adulta qualunque industria sedicentesi bambina. Il peggio si è che “bambina” non può dirsi un’industria che ha quarant’anni di vita; rallegrata, fino a questi ultimi giorni, da un delizioso tepore di dazi protettivi, quale a molti industriali sarebbe stato follia sperare. Bambina era l’industria dal 1871 al 1887, quando godette di una protezione, rispetto ai prezzi d’allora, il che vuol dire anche rispetto ai mezzi tecnici del tempo, crescente dal 20 al 100%; avrebbe almeno dovuto diventare adulta quando, dal 1887 al 1907, fu protetta col 200/250 per cento. Un’industria che in quarant’anni di protezione, sempre più amorevole, non riesce a superare l’età della fanciullezza, ha causa perduta; ed è necessaria tutta la sfrontataggine dei prosciugatori italiani del pubblico danaro per osare di lamentarsi, se, dopo quarant’anni, la protezione fu ridotta al 100 per cento.

 

Le pretese – subito consentite, naturalmente, dal Ministero – degli industriali del petrolio sono, finalmente, inefficaci e dannose. Chiedono invero costoro un premio di 30 lire per ogni metro lineare di foro di trivellazione, avente per oggetto la ricerca del petrolio e che sarà scavato oltre 300 metri di profondità. Le condizioni poste dal governo furono: 1) Che i tubi di rivestimento dei fori di trivellazione devono a 300 metri di profondità avere un diametro interno non inferiore a 200 millimetri; verificandosi speciali circostanze, tale diametro può ridursi a 175 millimetri; 2) Per conseguire il premio, i fori di trivellazione devono trovarsi gli uni dagli altri ad una distanza orizzontale non minore di 150 metri: 3) La cifra totale dei contributi dello Stato non potrà superare il massimo di 300.000 lire all’anno.

 

Se una cosa certissima vi è, la quale possa essere asserita anche dai non tecnici, è questa: che quel premio delle 30 lire servirà forse a creare l’industria dei trivellatori di Stato, non mai a promuovere, esso, il progresso dell’industria petrolifera. La relazione ministeriale, avarissima, al solito, di dati precisi a sostegno delle proposte fatte, si contenta di dirci che il costo lineare di trivellazione, oltre i 300 metri di profondità, varia da 150 a 180 lire. Se questo è vero, un dilemma si impone: o, fatto il buco, non si trova petrolio, come spesse volte accade, ed allora le 30 lire del governo saranno sprecate insieme con le 120/150 del trivellatore; ed in previsione di tale frequente evento, nessuno si indurrà a perdere 120/150 lire del proprio, solo per perdere insieme altre 30 lire dei contribuenti. O il petrolio si trova in quantità sufficiente, ed allora il trivellatore ben volentieri avrebbe speso da solo le 150 180 lire, senza bisogno di nessun aiuto governativo, perché il rendimento del prezioso liquido lo ricompenserà largamente della somma spesa. Il premio di produzione può giovare a crescere il prodotto (non dico ad aumentare la ricchezza del paese, che è cosa ben diversa) di una industria, quando l’imprenditore può fare i suoi conti preventivi e calcolare, ad esempio, che a lui non tornerebbe conto di produrre una merce del costo di 180 per venderla al prezzo di 160; mentre invece, dato un premio di 30 lire, il costo si riduce a 150 e, rimanendo costante il prezzo a 160, sorge un profitto di 10, che val la pena di procacciarsi. Salvo casi eccezionali, anche questo calcolo, corretto dal punto di vista dell’imprenditore singolo, è sbagliato dal punto di vista dell’interesse generale; non essendo conveniente che i contribuenti perdano 30 per dare un lucro di 10 all’imprenditore.

 

Ma – e qui sta il punto – l’industria mineraria è «essenzialmente aleatoria; costosi gli impianti e l’escavazione, frequenti gli ostacoli al proseguimento delle ricerche (frane, sgorghi di acqua o di fango, ecc.) e non rari gli insuccessi anche quando gli indizi erano promettenti talché la spesa è sempre ingente, mentre le ricerche spesso riescono poco redditizie o del tutto infruttuose». Quali le deduzioni da questo brano, l’unico ragionevole ed eccellente, della prosa ministeriale? Che nell’industria mineraria in genere, e petrolifera in ispecie, non è possibile fare previsioni; non vi riescono gli ingegneri più esperti, ed a maggior ragione non vi può riuscire il ministro di A., I. e C. Se previsioni non si possono fare, nulla autorizza a ritenere che un premio di trivellazione di 30 lire per metro lineare basterà a crescere il prodotto in petrolio delle miniere italiane. Trenta lire di premio, tolte da una somma X nota o prevista di costo di produzione, possono spingere, ad un dato prezzo, un industriale a produrre. Trenta lire, tolte invece da una somma X incognita, non son quelle che possano spingere a far buchi nella terra chi ha la psicologia dell’esploratore minerario, una psicologia mista di intraprendenza, di tecnicismo, di gioco, di disprezzo degli impieghi sicuri e di brama dei lucri incerti, ingentissimi talvolta, nulli o mediocrissimi quasi sempre, misti sovente a perdite. In tutti i paesi del mondo l’industria mineraria è sorta e si è affermata per opera di uomini aventi in grado eminente e squisito codeste qualità. Dopo, sono venute le grandi imprese anonime, a rendimenti costanti; ma sono venute soltanto quando le condizioni dell’industria erano oramai assicurate, quando il sottosuolo era conosciuto e non erano più possibili errori grossolani sull’esistenza medesima del minerale. Dare ai ricercatori minerari un premio governativo vuol dire commettere il criminoso tentativo di trasformare il minatore in un impiegato dello Stato, vuol dire mutare chi cerca e vuole l’alea, e dell’alea, dell’incertezza vive, e dalla febbre dell’ignoto, dal timore delle perdite e dalla speranza dei guadagni trae alimento agli ardimenti maggiori, in un timido aspirante ai premi governativi. È una vera degenerazione del tipo dell’imprenditore minerario quella che il disegno di legge vorrebbe operare. Che questa degenerazione sia bene accetta alla burocrazia ed ai lanciatori di azioni garantite in apparenza dai premi governativi, si comprende; ma sia lecito a noi di proclamare ben alto che questa del trivellatore di Stato è una turpe ed immonda creatura dello Stato burocratico e paterno. Veggasi la storia degli ultimi quattro anni di scavi petroliferi, come è narrata nella Rivista del servizio minerario dal 1906 al 1909, mirabile raccolta di fatti raccolti con sapienza tecnica dagli ingegneri del Real Corpo delle miniere; e si rimanga persuasi che i trionfi e le sconfitte ebbero, in questi anni, in cui la protezione diminuiva, scarsa relazione con l’altezza della protezione doganale, né muterebbero indole per virtù del premio governativo.

 

Nel volume del 1906 si narra che della miniera Vasto a Tocco di Casauria, il centro meridionale dell’industria petrolifera italiana, due pozzi soltanto erano eserciti «raccogliendosi dal primo con secchi e dal secondo con pompe a mano il petrolio che va a galleggiare sull’acqua di cui entrambi i pozzi sono parzialmente riempiti». Da questi due pozzi e da vicine sorgenti si ricavano nel 1906 quintali 405 di petrolio greggio, per un valore di 4890 lire. Nel 1907 se ne ottengono 375 quintali; nel 1908 si discende a 280; e nel 1909 la produzione cessa affatto, a causa di una venuta d’acqua e di una frana. Non la diminuita protezione, no; bensì la pochezza della produzione e le difficoltà naturali fecero abbandonare la miniera.

 

Nel gruppo dell’Appennino piacentino, nel 1906, la miniera di Velleja diede 1683 tonnellate di petrolio e quella di Montechino 5660 tonnellate; ossia la quasi totalità della produzione italiana, che fu in quell’anno di 74511 tonnellate. Nel 1907 Montechino va a tonnellate 7013 e Velleja ribassa a 1177. La diminuita protezione doganale (al primo aprile 1907 il dazio sul petrolio estero si riduce da 48 a 24 lire al quintale) avrebbe avuto per effetto di scoraggiare la produzione a Velleja e di incoraggiarla a Montechino. Nel 1908 la Rivista dei servizio minerario non dà più le produzioni distinte, miniera per miniera; ma dice che amendue, Velleja e Montechino, con altre di trascurabile importanza, discesero da 8289 a 7060 tonnellate. La diminuzione per Velleja si spiega coll’essersi perforato un numero minore di metri lineari di pozzo; e qui i protezionisti potrebbero dire che si trivellò di meno perché era minore la protezione. Manco a farlo apposta, la Rivista avverte subito dopo che nella miniera di Montechino si è verificata pure una diminuzione di produzione, malgrado che siano perforate alcune centinaia di metri di più dell’anno precedente. Eravamo già ad un anno di distanza dalla legge del 24 marzo 1907, che riduceva il dazio da 48 a 24 lire, e la legge 17 dicembre 1907 già metteva sull’avviso i produttori dell’ulteriore ribasso a 16 lire; eppure, dove v’era speranza di buoni risultati, si trivellava il terreno più di prima. I risultati non corrisposero alle speranze concepite. Si vorrebbe perciò che il governo si rendesse garante delle condizioni minerarie del sottosuolo? Sarebbe un richiamo sicuro per tutti i poltroni ed un ostacolo agli ardimentosi, che delle alee non si impauriscono. Nel 1909 a Velleja, malgrado una minore attività dei lavori (appena 1619 metri lineari di pozzi) si ebbe un aumento di produzione: a Montechino l’attività aumentò notevolmente, essendosi perforati 8855 metri, e cioè 1482 di più dell’anno precedente; ma la produzione fu in diminuzione, tendendo oramai ad esaurirsi gli orizzonti esistenti alle profondità sinora raggiunte nel perimetro della zona coltivata.

 

La dimostrazione oramai è compiuta. I rapporti degli ingegneri del Corpo Reale delle miniere hanno confermato coi fatti la verità del ragionamento dettato dal buon senso economico: la protezione doganale diminuì, eppure i lavori diventarono più attivi in una miniera, dove le speranze erano tecnicamente più fondate; scemarono di intensità dove la produzione accennava a venir meno. Il prodotto non sempre seguì, a cagione della natura dei terreni, la vicenda dei lavori più o meno attivi. Sono queste le sorti di ogni intrapresa mineraria; ed è pazzia pretendere di mutarle. È ora di finirla con l’andazzo italiano di dar premi o aiuti governativi ad ogni industria a cui le sorti non volgano propizie. Abbiamo creato tante macchine artificiose per sostenere interessi particolari e prorogare, a spese dei contribuenti, lo scoppio di crisi inevitabili, che il proseguire per questa via sarebbe un delitto verso il paese che lavora e risparmia. Oggi si chiedono 300.000 lire all’anno per perforare 10.000 metri. Domani si verrà a chiedere un supplemento di sussidio sino al mezzo milione e poi sino al milione. Oggi si dice che si lavora poco e si vorrebbe far lavorare di più dando il premio; domani si dirà che il premio non basta, tanti sono i buchi incominciati e non potuti finire per difetto di premio. Orbene, contro queste aberrazioni bisogna gridar ben alto che l’Italia non ha interesse ad estrarre il petrolio dal suo sottosuolo, se non ad un patto: che il petrolio italiano non costi più di quello estero. In passato si buttarono milioni per correre dietro all’illusione del petrolio nazionale. Non si riuscì e basta. Vuol dire che gli Italiani vogliono e sanno produrre altre cose meglio del petrolio.

 

 



1 Il disegno di legge n. 690, presentato col titolo: Provvedimenti a favore dell’industria del petrolio, dal Ministro di agricoltura, industria e commercio, nella tornata del 9 dicembre 1910, sarebbe stato alla chetichella approvato dalla Camera in un momento di distrazione, come fu approvato l’aumento del dazio sui fucili, se non fosse vivacemente insorto l’on. Ettore Ciccotti. Dai resoconti dei giornali non ho potuto rilevare quali siano stati gli argomenti addotti dal valoroso e battagliero deputato contro il disegno di legge. Mando a lui un plauso, tanto più sincero quanto meno è grande in generale la mia stima pei deputati socialisti, di null’altro solleciti fuor che di chiedere favori pei loro clienti, anche se, per ottenerli, a danno dell’interesse pubblico, debbono consentire ad uguali favori ai falsi industriali, che traggono profitto dagli assalti alla pubblica pecunia. Per essere equanime debbo avvertire che il disegno di legge dell’on. Raineri contiene una giusta disposizione a favore dell’industria del petrolio. Ed è l’abolizione della tassa del 5% sul prodotto netto che grava le miniere dell’ex ducato di Parma e Piacenza. Poiché le analoghe imposte furono abolite nelle altre regioni d’Italia, e poiché essa è chiaramente un duplicato dell’imposta di ricchezza mobile, l’abolirla nell’ex ducato di Parma e Piacenza è atto improrogabile di giustizia.

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