Opera Omnia Luigi Einaudi

Idee storte di inquilini e doveri di proprietari

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 06/01/1923

Idee storte di inquilini e doveri di proprietari

«Corriere della Sera», 6 gennaio 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 13-17

 

 

 

È un momento questo in cui fa d’uopo rivolgere volta a volta i proprii moniti, con uguale imparzialità, a proprietari ed inquilini. Ieri ho predicato il verbo della saggezza, della moderazione, della gradualità, della astensione dalle vendette ai proprietari. Sia lecito oggi ricordare alcune verità agli inquilini. Il regime dei vincoli ha malauguratamente ficcato nella testa del pubblico parecchie idee storte, dure a mandar via, ma non perciò meno storte.

 

 

La prima idea storta riguarda la concezione del diritto alla casa. Soltanto la ciarlataneria demagogica e comunista ha potuto predicare certe eresie, ed i risultati di quella ciarlataneria li abbiamo veduti nella Russia dei nostri giorni ed in tutti i paesi in cui visionari fantastici o furfanti spudorati hanno sancito nei codici quelle eresie. La gente non ha mai patito tanto la fame, non è mai andata in giro così nuda e stracciata, non ha mai litigato tanto per avere una casa come nei tempi e nei paesi in cui il legislatore ha sancito il diritto nell’uomo ad aver qualcosa. Quando una cosa invero spetta «di diritto», perché fare uno sforzo per procacciarsela? Qualcuno dovrà pure fornirla. Dovranno fornirla coloro che l’hanno. Pestifera idea, perché prima di «averla» quella cosa bisogna «produrla»; e chi mai la produrrà, quando la legge faccia obbligo di darla altrui? Dal giorno in cui il legislatore ha sancito il diritto negli inquilini di stare pro tempore nella casa altrui ed ha fatto nascere nella testa degli inquilini l’idea di poterci star per sempre, addio costruzione di case nuove! Uno sciocco doveva essere colui che spendeva i danari proprii per avere il piacere di offrire una casa alla requisizione del commissario degli alloggi, alle invasioni organizzate dalle leghe degli inquilini, alle imposte confiscatrici ed al di là dell’intiero reddito! Meglio mangiarseli i danari in giochi e divertimenti, che perderli ed avere in giunta le beffe ed i vituperi del pubblico. Il diritto alla casa organizza fatalmente la «fame» di case. La fame cesserà il giorno in cui tutti si saranno nuovamente persuasi che per avere una casa bisogna, come per tutte le altre cose di questo mondo, acquistarne la proprietà o pagarne il fitto corrente. In quel giorno, vi saranno di nuovo degli impresari che avranno convenienza a fabbricare nuove case ed a metterle sul mercato.

 

 

La seconda idea storta è che per le case ci sia un prezzo diverso da quello corrente, prezzo che dicesi giusto od equo o sufficiente. Finché la gente reputò che le scarpe si dovessero vendere a prezzo giusto, nelle vetrine c’erano soltanto scarpe con le suole di cartone. Finché si ebbe la pretesa di far vendere il burro a prezzo di calmiere, burro buono non se ne mangiava; in cucina andava solo roba da far nausea. Prezzo giusto, prezzo equo, prezzo di calmiere sono invenzioni da cantafavole; nessuno mai li ha visti operare durevolmente. Prezzo giusto, per chi deve pagarlo, è quello che tende a zero; per chi deve riceverlo, è quello che va verso l’infinito. Ognuno trova «giusto» ciò che gli accomoda. La sentenza tra i due litiganti, la può dare soltanto il mercato; con la gara tra richiedenti ed offerenti.

 

 

E, siamo giusti, forse non c’era prima della guerra nessun’altra industria la quale offrisse i suoi prodotti a così buon mercato come l’industria edilizia. Nelle grandi città italiane, quante case popolari e civili non si affittavano a 120 lire all’anno per camera! Ossia, calcolando il costo della camera, compresi gli accessori – scala, portineria, cantine ecc. – a 2.000 lire l’una, ad un fitto uguale al 6% del capitale impiegato! E nel 6% erano comprese le imposte e spese che, fin d’allora, ne portavano via un buon 2%, lasciando ai proprietari un 4% netto. Intieri enormi quartieri furono costruiti a Torino, Milano, Roma, Genova su quella base economica. Era, a ripensarci, un sistema stupendo di divisione del lavoro e di massima convenienza per tutte le classi interessate:

 

 

a) per i costruttori, che si erano specializzati nel costruire case e trovavano subito a venderle, appena finite, quando si fossero contentati del beneficio del 10 del 15% sul costo;

 

b) per i proprietari, i quali si procacciavano un impiego sicuro da buon padre di famiglia per i proprii risparmi; e, data la sicurezza, si contentavano di un frutto netto del

 

c) per gli inquilini, i quali trovavano sempre da collocarsi a fitti moderatissimi; potevano sempre cambiar casa, quando l’antica non fosse più conveniente; erano sicuri, pagando puntualmente, di non essere mandati via, tanta era l’ansia dei proprietari di case di tenersi i buoni inquilini. Gli impiegati non guardavano alle promozioni come ad una sventura, perché erano certi di trovar casa in qualunque città fossero stati trasferiti.

 

 

Chi ha distrutto questo comodo congegno? I vincoli e nient’altro che i vincoli. Colui che aveva l’alloggio a 100 lire per camera ed acquistò il diritto di tenerlo allo stesso prezzo, con qualche decimo in più, per esempio a 120 lire, non si mosse più. Con la lira svilita ad un quarto, 120 lire sono come 30 lire di una volta. Sono, a dividerle per i 365 giorni dell’anno, appena 33 centesimi al giorno; meno di quel che si paga una corsa in tram, la metà di una tazza di caffè, poco più del giornale quotidiano. Per pagare 1 lira al giorno per camera, bisogna arrivare ai saloni delle case di lusso. A questi prezzi non si possono oggi neppure più costruire le più nude case popolari; le quali, astrazion fatta anche dalle tasse, non costano meno di 400 e più lire all’anno.

 

 

Sono i vincoli e sono i prezzi inferiori a quelli correnti ed a costo attuale di costruzione che rendono introvabili gli appartamenti, che fanno occupare grandi case a piccole famiglie, che fanno fiorire l’industria del subaffitto, che rendono disperati gli inquilini che devono traslocare da una città ad un’altra, gli sposi che vorrebbero metter su casa, coloro la cui famiglia è cresciuta. Sono i vincoli che hanno immobilizzato le case, che hanno fatto scomparire i cartelli con l’«appigionasi», che fanno temere la fine del mondo dalla loro medesima fine.

 

 

Sono i vincoli infine che hanno creato la lotta di classe tra proprietari ed inquilini ed hanno trasformato in tragico odio quella tendenza che già preesisteva, in forma attenuatissima, a parlar male dei proprietari di case come di una specie di produttori o negozianti diversa da tutte le altre dello stesso tipo. È la terza idea storta che si deve bandire. Il proprietario di casa produce e vende alloggi nello stesso modo come altri vendono uova, formaggi, vini, vestiti, stoffe, scarpe. E, finché non sono esistiti vincoli, ha sempre venduto alloggi al prezzo di costo degli alloggi nuovi, guadagnando se gli alloggi nuovi costano di più e perdendo se costano di meno di quelli da lui posseduti. Precisamente come hanno sempre fatto tutti i produttori di tutte le categorie; e come non si può fare a meno di fare, se si vuole che tutti coloro che fanno richiesta di una merce debbano essere soddisfatti. La casa vecchia deve essere venduta allo stesso prezzo della nuova; altrimenti quelli che stanno nelle case vecchie godono di un prezzo di favore e nessuno va a stare nelle nuove, finché le vecchie non siano congestionate, o viceversa.

 

 

Gli imbrogli che i vincoli hanno prodotto sono tali e tanti; sono così fastidiosi per un numero crescente di inquilini che debbono muoversi e non possono; i loro danni sono talmente evidenti e cumulativi nel tempo, che la loro abolizione deve essere considerata come una liberazione per tutti, inquilini e proprietari. Succederà per le case quel che successe per il pane. I seminatori di odio predicevano la fin del mondo in seguito all’abolizione del prezzo politico del pane ed al ritorno al prezzo di mercato. Non successe niente; e quella abolizione è il maggior titolo di onore per l’ultimo gabinetto Giolitti. L’abolizione dei vincoli per le case sarà parimenti uno dei maggiori titoli di onore per il gabinetto Mussolini.

 

 

Badino però, mi si consenta la ripetizione, i proprietari a non commettere passi falsi. Bisogna insistere con energia su questa necessità. Ci sono milioni di famiglie le quali pagano da 33 centesimi ad 1 lira al giorno per camera e hanno redditi di lavoro, di industria e di capitale suscettivi di un pagamento assai più forte e che invero spendono in vino, in sigari, in caffè, in cose inutili somme più forti di quelle pagate per quel primissimo consumo che è la casa. Ma vi sono ancora centinaia di migliaia di famiglie i cui redditi sono rimasti fissi: pensionati, piccoli redditieri, vedove, impiegati a stipendio poco cresciuto, per cui l’aumento repentino dei fitti nella misura della svalutazione della moneta sarebbe insopportabile. Per tutti costoro i proprietari debbono dar tempo al tempo. Debbono consentire che passi qualche anno affinché la libertà metta sul mercato gli alloggi piccoli adatti alle piccole borse. Né ricorrano al ripiego di lasciar decidere dalle commissioni arbitrali quali siano queste piccole borse. Se l’esperimento delle commissioni arbitrali dovesse farsi su vasta scala, fallirebbe. Il clamore sarebbe così grande da imporre al governo il ritorno al sistema dei vincoli. L’uso della libertà dato ai proprietari di case deve essere così saggio e prudente da persuadere tutti e subito che le erano ingiustificate e che il sistema vincolistico non meritava davvero che nessuno se ne facesse difensore. Non facciano essi risuscitare questo morto che non fu mai degno di vivere!

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