Opera Omnia Luigi Einaudi

Il certo e l’incerto (I)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/09/1944

Il certo e l’incerto (I)

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 16 settembre 1944

 

 

 

Uno dei criteri con i quali taluni fautori di mutazione nei rapporti tra le classi sociali, nel senso di un innalzamento degli umili e di abbassamento dei grandi – e tutti abbiamo ferma opinione di essere fautori di siffatta mutazione e solo differiamo nella scelta dei mezzi per raggiungere lo scopo – credono di distinguere il bene e il male, gli amici dei più ed i difensori dei privilegiati, è il seguente: buoni sarebbero coloro i quali affermano che il possesso di un capitale è un privilegio e che a grado a grado con progressivi esproprii o violentemente con confische ed eliminazione della classe detta capitalistica si debba ridurre il profitto del capitale ad una porzione congrua minima e finalmente a zero. Il principio assume diverse forme, tra le quali una assai grossolana pare sia quella posta a base della socializzazione delle imprese editoriali e giornalistiche decretata nell’Italia neofascista.

 

 

Per quanto se ne poté capir qui, al capitale sarebbe fissato un interesse determinato e il guadagno o profitto dovrebbe essere distribuito fra redattori, impiegati ed operai, sotto detrazione di una quota destinata a fini pubblici ed assistenziali, che si immagina facilmente che cosa possano essere in regimi totalitari.

 

 

Altri, che non intendono a farsa, reputano però seriamente che il progresso sociale consista nel tagliar le unghie al capitale e nel ridurre il compenso attribuitogli alla minima percentuale possibile e questa determinata in una misura fissa non superabile. Cattivi invece e difensori dei privilegi sarebbero coloro i quali dubitano della convenienza di siffatta procedura.

 

 

Varie sono le origini storiche dell’idea; ma non si va lungi dal vero, affermando che una e forse la principale fonte sia il «Capitale» di Carlo Marx. Questi non fu un grande teorico e se lasciò di sé larghissima impronta nella storia politica del mondo, non ne lasciò quasi alcuna nella storia delle dottrine economiche.

 

 

Né egli intendeva a conquistare un luogo eminente fra gli Smith ed i Ricardo. Dottissimo nella conoscenza degli economisti che lo precedettero, si adattò al loro linguaggio ed alle loro concezioni; e, sebbene si possa dubitare che egli abbia colto le linee essenziali della sistemazione logica ricardiana, in fondo egli non si allontana dagli schemi degli economisti classici inglesi della prima metà del secolo scorso, senza apportarvi contributi originali. Mentre egli scriveva, avevano già pubblicato o stavano preparando i loro lavori, i Cournot, i Gossen, i Jevons, i Walras, i Bohm Bawerk e gli altri, i quali hanno rivoluzionato la scienza economica e l’hanno resa una costruzione teorica meglio atta ad interpretare la realtà e tutta diversa da quella che era al tempo di Marx.

 

 

Se nella scienza economica non si avesse, come nelle altre scienze morali, una ragionata tenerezza per la storia della formazione delle idee, e se gli economisti usassero, come è costume prevalente dei matematici, dei fisici e dei chimici, tenere a portata di mano solo i libri contenenti i principii modernamente accolti delle rispettive scienze, probabilmente nessuno sentirebbe il bisogno di leggere i classici, siano ortodossi od eretici, ed i loro odierni ripetitori.

 

 

Una delle parole che suonano nei libri moderni spaesate ed antiquate è quella di «capitalista» usata ad indicare la figura centrale di un ordinamento economico che si suole ancora nel linguaggio volgare indicare come capitalistico.

 

 

Codeste parole si trascinano tuttora nella letteratura economica germanica; ma hanno perso gran parte dei connotati tradizionali. Oggi la figura dominante nel mondo economico è detta «imprenditore» e l’economia a cui costui presiede dicesi «ad impresa» o di «mercato». Le stesse parole erano già state usate consapevolmente verso il 1730 da Cantillon; ma gli economisti classici le avevano dimenticate. E fu gran peccato, perché ne nacquero numerose confusioni verbali e peggio sostanziali, le quali interessano grandemente il problema posto all’inizio del presente articolo. Una prima confusione è tra «interesse» e «profitto».

 

 

I classici e sulle loro tracce i marxisti usano promiscuamente le due parole, le quali invece sono differentissime. L’interesse è il compenso che si paga dall’imprenditore o capo dell’impresa per l’uso del capitale. Capitale sono cose materiali; edifici, macchine, scorte, denaro circolante; capitale è uno strumento, un mezzo, di cui si serve colui che fa muovere ed operare l’impresa, combinando i fattori produttivi. L’imprenditore paga un fitto per l’uso del capitale, così come il fittabile paga il fitto per l’uso della terra.

 

 

Ma il vero motore dell’impresa non è la materia inerte, il capitale, la terra; è l’imprenditore che usa, indirizza, trasforma, costringe a produrre quelle materie inerti.

 

 

Dopo aver pagato il fitto od interesse per l’uso del capitale e dopo aver sostenuto tutte le altre spese di produzione, l’imprenditore paragona l’insieme dei costi con il ricavo del prodotto ottenuto e venduto. Se i costi sono superiori ai ricavi l’imprenditore subisce una perdita, se i ricavi sono superiori alle spese, ottiene un guadagno o profitto. Le differenze fra interesse pagato al capitalista ed il profitto ottenuto dall’imprenditore sono dunque grandi.

 

 

L’interesse è contrattuale; è determinato dal mercato in una percentuale che può variare di tempo in tempo, ma nei casi singoli è fissa per tutta la durata del contratto. il profitto è incerto. Può essere negativo e dicesi perdita; positivo ed è profitto propriamente detto. L’imprenditore riceve un profitto per due essenziali ragioni: in primo luogo a titolo di compenso per le eventuali perdite.

 

 

Se le probabilità di perdere sono uguali a quelle di guadagnare e se esse, in rapporto al capitale impiegato, sono del 3 per cento, occorre in media che in 50 casi su 100 si guadagni almeno il 3 per cento per compensare la perdita del 3 per cento negli altri 50 casi.

 

 

Chi, altrimenti, vorrebbe fare la professione dell’imprenditore, ossia del combinatore dei fattori produttivi a proprio rischio e pericolo?

 

 

In secondo luogo, l’imprenditore è un lavoratore come un altro. Il suo lavoro consiste nell’acquistare a prezzo fisso i fattori produttivi, nel combinarli, nel trasformarli in prodotti finiti e nel vendere questi nel mercato. Invece di uno stipendio fisso, egli incassa perdite ovvero profitti. Ha uno stipendio incerto e variabile, invece che fisso. Ma il suo profitto, depurato delle perdite, è compenso di lavoro, della stessa precisa natura di tutti gli altri stipendi e salari di lavoro.

 

 

I confusionari, che, manco a farlo apposta, non osano metter becco nelle cose relative alla matematica, alla fisica, alla chimica e, per star più vicini alle cose nostre, non invadono il campo dei cultori del diritto romano, del diritto civile, della statistica, perché sanno che sarebbero cacciati dal tempio a frustate; ma imperversano nelle scienze economiche e sociali, usando, ad esempio, a diritto ed a rovescio la parola «profitto» ad indicare concetti assai diversi da quello chiarito sopra, senza curarsi di aggiungere il necessario aggettivo «qualificativo».

 

 

A cagion d’esempio, il profitto «di impresa» non si deve confondere col profitto «di monopolio», il quale è una «aggiunta» al profitto propriamente detto, ottenuta da chi impedisce ad altri di farsi imprenditore in concorrenza sua.

 

 

In precedenti articoli credo di essermi spiegato ad usura su questa differenza fondamentale. L’imprenditore ordinario, combinando fattori produttivi, rende servizio alla collettività dei consumatori e merita stipendio eventuale che dicesi profitto. L’imprenditore monopolista, il quale si secca di ricevere uno stipendio eventuale e variabile, cerca, per rassodarlo od ingrossarlo, di togliere di mezzo i possibili concorrenti. Se ci riesce, rende «disservizio» e merita di essere preso a frustate, ossia privato della aggiunta monopolistica al profitto d’impresa vero e proprio. Le varianti del profitto di monopolio sono innumeri: da dazi doganali, da contingenti, da brevetti troppo lunghi e non usufruibili liberamente, da divieti legali.

 

 

Accennerò ad una variante, di cui non ho ancora avuto occasione di parlare: i profitti o rendite da aree fabbricabili. Chi non sa che due case identiche, del medesimo costo, costrutte nello stesso anno, ma l’una alla periferia e l’altra al centro della città, possono rendere la prima 10 e la seconda 30 mila franchi? La causa è nota: la situazione privilegiata della seconda casa in confronto alla prima. Sul problema hanno avuto luogo in ogni paese del mondo discussioni interminabili; e chi scrive ha purtroppo sulla coscienza, nonché articoli di giornali e saggi di riviste, addirittura un libro in proposito.

 

 

Dopo tanto discorrere, da cinquant’anni in qua, un certo consenso di opinione sembra essersi fatto: ed i più propendono, meglio che verso imposte, verso piani regolatori accompagnati da opportuni acquisti delle aree fabbricabili, intesi a rallentare o rendere meno probabile l’aumento di valore delle aree fabbricabili ed a devolverlo prevalentemente a vantaggio pubblico. Accanto ai profitti di monopolio, vi sono altri tipi di profitti che importa sopprimere e combattere: ad esempio quelli da cause ritenute immorali dalla coscienza universale, come la vendita di oppio, di bevande alcooliche nocive, l’offerta di spettacoli corruttori. Anche qui, la legge cerca e più dovrebbe cercare volta a volta i mezzi adatti per sopprimere il profitto moralmente condannabile. In una categoria affine stanno i profitti di guerra. Anche se la guerra fu santa, non ne segue che taluno ne debba profittare economicamente.

 

 

La discussione qui non verte sul punto pacifico che profitti di guerra non debbono essere consentiti; ma sull’altro, ben diverso, del modo di congegnare l’imposta relativa, affinché essa non sia causa di sprechi dannosi alla collettività. Su di che parecchio fu discusso in Italia allorché l’on. Giolitti fece approvare l’avocazione allo Stato di tutto il profitto di guerra: e vedo che il medesimo aggrovigliato e tecnicissimo problema si torna a discutere oggi in Inghilterra e negli Stati Uniti.

 

 

Come sempre, i faciloni immaginano con una frase di avere decretata la giustizia; ma lasciano ai disgraziati cirenei delle amministrazioni finanziarie il duro compito di applicare alla meglio leggi vaghe, che, se studiate bene subito, avrebbero operato senza attriti.

(Continua).

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