Opera Omnia Luigi Einaudi

Il compito d’oggi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/12/1944

Il compito d’oggi

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 9 dicembre 1944

 

 

 

L’abisso è lì, dinanzi ai nostri occhi, spaventoso ed allucinante. Se nel 1919 si poteva riassumere la situazione in alcune poche cifre: 16 miliardi di lire pre-1914 spese per la condotta della guerra; un debito pubblico di 90 miliardi di lire carta invece dei 15 miliardi del 1914; una massa di biglietti circolanti di 10 miliardi invece di 2,2 nell’anteguerra; un livello di prezzi quadruplicato o quintuplicato in media, con disparità antisociali gravissime, anche se transeunti, quale è il quadro odierno?

 

 

 

Le cifre sono siffatte da non avere quasi più significato. Quando si sia detto che le spese statali sono cresciute da 40 nel 1938/39 a 148 miliardi nel 1943-44, che dal 1939-40 al 1943/44 si sono accumulate spese pubbliche per 560 miliardi di lire, quando si sia aggiunto che il debito pubblico sembra cresciuto da 175 miliardi a fine 1939 a 650 miliardi nel settembre 1944, probabilmente senza tener conto di talune rilevantissime partite e quando si sia finalmente supposto che la massa dei biglietti, quelli soli della Banca d’Italia (esclusi quelli di Stato), dall’altra grande guerra cresciuti da 2,2 a 10 miliardi, questa volta sia passata dai 25 miliardi del 10 giugno 1940 a forse un ammontare difficilmente valutabile dai 200 ai 300 miliardi di lire, si sono, sì, enunciate cifre, elencati numeri: ma quelle cifre, quei numeri sono fantasmagorici, quelle addizioni e quei paragoni sono assurdi.

 

 

Non si paragonano i 40 miliardi del 1938-39 con i 148 del 1943/44 perché son cifre espresse in lire diverse; non si sommano le spese di un anno con le spese di un altro, perché trattasi di quantità eterogenee.

 

 

Non si può decidere se i 650 miliardi di debito pubblico del 1944 siano una quantità maggiore o minore dei 45 miliardi del 1914, perché il peso di un debito non si misura dal suono numerico delle cifre, ma dalla fatica che gli uomini debbono fare per procurarsi i mezzi di pagare le imposte necessarie e fare il servizio di interessi sul debito, e ben potrebbe darsi che il servizio del debito di 650 od anche di 1000 miliardi costasse minor fatica oggi di quella che nel 1914 doveva essere sopportata per fare il servizio di interessi sul debito, numericamente tanto minore, di 15 miliardi.

 

 

Quel che si sa, con assoluta certezza, è che il compito odierno è assai più duro di quel che agli italiani del 1919/22 apparve insormontabile. Qualunque sia stato il costo della guerra non voluta di ieri e qualunque sia il costo della guerra odierna di liberazione, quella sarà, nel momento della ripresa, acqua passata che non macina più. Si dovranno pagare interessi sul debito dello Stato; ma il pagamento di interessi significa passaggio di denaro da contribuenti nazionali a creditori nazionali, non vuol dire spese, onere gravante sulla collettività italiana nel suo complesso. Trattasi di un problema di riparto di imposta e ben potrebbe darsi che una massa di interessi di 40 miliardi di lire all’anno da pagare su un debito di 1000 miliardi sia un problema di minore importanza di quello che non fosse il pagamento di 500 milioni sul debito di 15 miliardi del 1914.

 

 

Con lire tanto piccole, come sono quelle odierne in confronto a quelle del 1914, è forse assurdo supporre che 40 miliardi del 1945 siano una quantità minore di mezzo miliardo del 1914? No. Non sono questi i grossi problemi. La liquidazione finanziaria del passato è sempre stata piccola cosa in confronto alla soluzione dei problemi presenti. Sinché la guerra dura, sarà ardua impresa risolvere quel problema presente che si dice del prezzo politico del pane.

 

 

Come già nel 1919 e nel 1920 lo Stato vende il pane sotto prezzo. Acquista il frumento a 1000 lire in media al quintale, e sembra che il prezzo sia insufficiente a coprire gli accresciuti costi di produzione per gli agricoltori; e vende il pane sulla base di 350 lire al quintale. La perdita che nell’inverno 1920/21 era di 500 milioni, oggi si aggirerà su 1500/2000 milioni di lire al mese. Con la legge 27 febbraio 1921 l’on. Giolitti tagliò il nodo gordiano, ritornando al prezzo di mercato uguale al costo. Bisognerà salvare di nuovo il bilancio ordinario dello Stato, abolendo quella perdita e facendo ritornare, appena possibile, il prezzo del pane alla sanità, ossia all’uguaglianza al costo.

 

 

Ciò esige l’interesse generale, il quale vuole che sia posto un limite alla svalutazione della lira. Prezzo politico del pane è sinonimo di disavanzo permanente, nel bilancio ordinario dello Stato; disavanzo cronico è sinonimo di lavoro sempre più frenetico del torchio dei biglietti, e questo è, a sua volta, sinonimo di aumento dei prezzi, di mercato nero, di miseria profonda e crescente delle popolazioni, di sconvolgimento dei rapporti sociali, di caos.

 

 

Il bilancio ordinario è una parte sola del bilancio dello Stato. Esso deve essere in equilibrio, se non si vuole che il cancro roditore dell’inflazione monetaria tragga alla rovina ultima il paese. Il pareggio del bilancio ordinario, è, tuttavia, compatibile con un bilancio straordinario alimentato da prestiti interni ed esteri. Senza prestiti pubblici e privati non sarà possibile restaurare la terra bruciata dalla guerra, ricostruire le case distrutte dai bombardamenti, rifare le ferrovie, i porti, le strade, gli impianti industriali ed elettrici, riacquistare i macchinari, le locomotive, le carrozze ed i carri, ricostituire le scorte e riprendere il lavoro allo scopo di produrre i beni che costituiscono reddito della nazione.

 

 

Ma i prestiti non sono possibili senza fiducia. Vano è sperare nei prestiti forzosi, i quali sono imposte ed incontrano i limiti delle imposte. Dove il prestito forzoso gitta uno, il prestito volontario fa uscir fuori dieci. Esso esige però fiducia dei risparmiatori nell’avvenire. Costoro dimenticano facilmente le batoste passate, non appena abbiano fiducia nell’onestà, nella solvibilità dello Stato per l’avvenire. Ed è evidente poi che noi non otterremo neppure un centesimo di prestiti dall’estero – il che vuol dire anticipazioni, con pagamento futuro, di carbone, di ferro, di cotone, di lana, di materie prime in genere, di macchinari, di rotaie, di materiale ferroviario ed automobilistico – se noi non sapremo ispirare fiducia ai produttori stranieri delle cose delle quali abbiamo assoluto bisogno, fiducia di essere nel termine convenuto puntualmente rimborsati. Inspirar fiducia dipende da noi.

 

 

La dovremo inspirare, nonostante che ciò debba essere fatto nel tempo stesso in cui noi dovremo attendere ad una mutazione grande, anche se graduale, dei rapporti sociali interni. Noi non potremo cioè dire ai fornitori, nazionali e stranieri, della grandiosa massa di risparmio necessaria alla ricostruzione economica del paese: noi ritorneremo ad essere quelli di prima. Contrattate pure con lo Stato, con le banche, con gli industriali, con i proprietari italiani. Costoro sono quegli stessi che voi conoscevate, con cui avete contrattato in passato e che hanno sempre pagato.

 

 

Non parleremo così perché non sarebbe onesto. Noi sappiamo che lo Stato non sarà quello di prima, perché gli elettori saranno 10 o 12 e, colle donne, forse 20 o 25 milioni invece dei 3 di una volta. Ed è più faticoso persuadere ad uno Stato di popolo essere suo preciso interesse far fronte ai propri impegni, di quello che non sia creare la stessa persuasione nei soli ceti medi.

 

 

Sappiamo che bisogna apertamente dichiarare ai fornitori del risparmio: lo Stato vi farà il servizio degli interessi pattuiti e vi rimborserà il capitale, nonostante che sul bilancio pubblico debbano in avvenire gravare spese doppie e forse triple di quelle passate per far fronte ai servizi sociali: assicurazioni, assistenza ospitaliera, scuole, case ed in generale servizi pubblici forniti gratuitamente od assai al di sotto del costo.

 

 

Sappiamo di dover apertamente dichiarare ai fornitori di risparmio: gli industriali, le banche, i commercianti con cui dovrete trattare non vi potranno più promettere di ottenere dai governi futuri privilegi, dazi, concessioni di favore, sicurezza contro la concorrenza. Si dovrà far sapere che i governi dell’avvenire scenderanno spietatamente in lotta contro tutti i monopoli, contro tutti i privilegi e faranno tutto ciò che sarà umanamente possibile per costringere industriali, agricoltori e commercianti a lavorare col minimo margine di utile consentito dalla più spietata concorrenza. Che se vi saranno casi nei quali la concorrenza, nonostante l’abolizione di ogni privilegio legale, si ostinerà a non voler agire, lo Stato sottoporrà a controllo l’impresa o la trasformerà in impresa pubblica.

 

 

Altro ancora si dovrà affermare apertamente; ma tutto si riassume nel dire che dovrà essere aumentata la produzione nazionale contemporaneamente ad una sua diversa distribuzione più ugualitaria.

 

 

È erronea l’affermazione essere ormai risolto il problema della produzione. Certo, in Italia si produce grandemente di più di quel che si produceva nel 1860; e si produce, per testa di abitante, assai più di quel che non si produca nei paesi economicamente arretrati, come la penisola iberica, i Balcani, la Grecia, la Russia, la Turchia, a tacere dell’Africa e dell’Asia; ma siamo al disotto e talvolta troppo al disotto della Svizzera, della Germania, della Francia, del Belgio, della Olanda, della Scandinavia e dei paesi anglo-sassoni, nonostante che parecchi di questi paesi siano di noi meno forniti di risorse naturali.

 

 

Perciò dobbiamo innanzitutto aumentare la torta da dividere, produrre di più, per poter consumare di più. V’ha però una verità che primi e soli hanno dimostrato quei solitari ragionatori che si chiamano economisti ed è che la maggior produzione è possibile solo con una migliore distribuzione. Quando Cairnes nel 1864 scriveva il suo Slave power si asteneva rigidamente dal ripetere i ragionamenti umani sentimentali di cui la Beecher Stowe intesseva la Capanna dello Zio Tom; ma, per altra via, giungeva allo stesso risultato: bisogna abolire la schiavitù perché essa è un cattivo affare, perché il lavoro dello schiavo non rende, perché con esso si produce poco.

 

 

Quando Cournot nel 1838 enunciava i teoremi matematici relativi al prezzo di monopolio, additava l’ostacolo maggiore all’incremento della produzione ed alla sua buona distribuzione nella persona del monopolio, il quale ha interesse a produrre poco e ad appropriarsi la quota maggiore possibile di quel poco.

 

 

Sebbene egli, come era stretto suo dovere, si mantenesse nel campo della teoria pura, additava implicitamente una delle vie che il legislatore doveva o dovrà percorrere per aumentare la produzione e meglio distribuirla: la lotta contro i monopoli. Abbiamo perso e perdiamo gran tempo a causa del ritardo di qualche generazione con cui i politici seguono i progressi della scienza e si attardano, ancora oggi, a trarre deduzioni da teorie antidiluviane e superatissime, come quelle del valore-lavoro, del sopra-lavoro, del profitto-sfruttamento, di lavoro coagulato e simiglianti errori teorici, i quali si risolvono in tentativi pratici destinati a partorire insuccessi e miseria. Dopo un secolo, finalmente, taluno degli uomini migliori nel mondo dei lavoratori mette, come primo punto, nel programma dei partiti di avanguardia, la lotta contro i monopoli. Il resto, e cioè le confuse, generiche, totali socializzazioni è conservato come meta ultima per l’avvenire, come mito eccitante all’azione.

 

 

E sia, il politico non può ammettere apertamente di essersi accorto tardi della vera via da seguire. Ciò è umano e ciò serve a distinguere l’uno dall’altro uomini, i quali in fondo vogliono concretamente conseguire lo stesso fine; ma che forse è bene lottino separatamente, perché dalla emulazione nasce la discussione e nasce la scelta della vera via.

 

 

Che cosa vogliono concordemente gli uomini che partono dalla concezione liberale della vita e gli uomini che appartengono all’ala collettivistica? (non adopero le parole di comunismo e socialismo, perché, pur trattandosi di sinonimi, la lotta politica ha creato tra le due correnti un abisso talora insormontabile di astio e di inimicizia).

 

 

Molte cose nei campi più diversi, ma, al punto di vista economico amendue le schiere vogliono che nessuno, sia esso fornitore di lavoro, ovvero di risparmio, ovvero di terra, ovvero di iniziativa, abbia un guadagno, un reddito, una remunerazione superiore a quella strettamente necessaria a farlo lavorare, risparmiare, tenere in istato produttivo la terra, prendere iniziative rischiose. Siccome in qualunque ordinamento sociale, comandato dall’alto o liberamente costrutto dal mercato o misto, coloro che lavorano, che risparmiano, che ad ogni anno rifanno la terra, che iniziano nuove attività non solo meritano e ricevono effettivamente un compenso, l’essenziale è che siano pagati tutti coloro che fanno qualcosa di utile alla collettività e nessuno sia pagato più del necessario per spingerlo a fare quel che è vantaggioso alla collettività.

 

 

La contesa non è nel fine, ma nei mezzi. Noi liberali diciamo che il mezzo consiste nel distruggere i monopoli e nell’attribuire allo stato (assunto lo stato come parola riassuntiva di un’infinita varietà di enti pubblici): tutti quei compiti economici i quali sarebbero inevitabilmente invece assolti da monopolisti e tutti quegli altri che non sarebbero assolti o non sarebbero assolti altrettanto bene dai privati o che la collettività, a spese comuni, intende fornire gratuitamente ai consumatori.

 

 

I collettivisti ritengono invece che, per raggiungere il fine, sia necessario fare piazza pulita di quello che essi chiamano il capitalismo privato affidando tutta la gestione della produzione allo stato. Anch’essi però hanno finito per riconoscere che la statizzazione, ossia il comando dell’economia da un unico centro, condurrebbe ad una produzione bassa e creerebbe una tirannia burocratica assai più dura di quella qualunque tirannia la quale possa essere imputata al cosidetto capitalismo. Epperciò anche essi per Stato intendono un’infinita varietà di enti pubblici; ed aggiungono di non volere, per ora, nemmeno abolire tutto il campo privato anzi intendono lasciarlo sussistere per le piccole imprese, il piccolo commercio, l’artigianato, la proprietà coltivatrice, le professioni e simili.

 

 

Anzi molti insistono sulla necessità per ora di far passare allo stato (vari enti pubblici) solo le grandi imprese, i trust, i monopoli. Sembra dunque potersi concludere che, partiti da due analisi e teoriche diverse: i liberali da quella del prezzo di monopolio, creata da Cournot nel 1838 e integrata poi da quella intorno ai quasi monopoli ed alla concorrenza limitata, ed i collettivisti da quella ricardiano-marxista del sopralavoro o lavoro coagulato, liberali e collettivisti sono d’accordo per un punto: che la testa di turco sulla quale conviene battere nel momento presente è il monopolista.

 

 

Sembra che per i collettivisti il carattere distintivo del «monopolista» sia il «grosso», il «colossale», colui che comanda il lavoro di cento o mille o cinquemila operai e più. I liberali osservano che vi possono essere monopolisti anche tra i medi ed i piccoli e che vi sono grossi produttori i quali non si possono sottrarre alla più spietata concorrenza. Ridotta a questo punto non esiste più controversia tra persone decise a risolverla caso per caso sulla base dei fatti. Il Delenda Carthago è per tutti uno solo; abbattere i monopoli.

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