Opera Omnia Luigi Einaudi

Il contadino signore. (Lettere a un confinato)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/06/1949

Il contadino signore. (Lettere a un confinato)

«Il Mondo», 4 giugno 1949, pp. 3-4

 

 

 

«Un gran passo sarà fatto quando i (quanti sono: due, tre, quattro?) milioni di contadini autonomi italiani acquisteranno la consapevolezza di essere dei signori» di Luigi Einaudi

 

 

II

 

Nella prima parte della lettera del 10 luglio 1942, riportata sull’ultimo numero del «Mondo», Luigi Einaudi, criticando il saggio che gli avevo mandato da Ventotene, scriveva le ragioni per le quali riteneva che la piccola proprietà coltivatrice avesse un suo «luogo economico», al di là del quale non fosse conveniente estenderla con interventi dello Stato, analizzava le circostanze che influiscono su tale area di convenienza economica ed esponeva le difficoltà che si oppongono ad una razionale distribuzione delle terre quando se ne mantenga il prezzo al di sotto del prezzo di mercato.

 

 

Nelle successive cinque cartelle, Einaudi critica quello che avevo scritto per dimostrare non essere lecito assumere o il prodotto netto delle aziende, o il profitto netto dell’imprenditore, quali indici della maggiore o minore convenienza sociale delle diverse forme di conduzione.

 

 

«Non darei troppo importanza al diminuendo nella nota sottrazione: (a), valore della produzione lorda vendibile, meno (b), valore delle spese per acquisto di materiali diversi fuori del fondo, noleggio strumenti tecnici, quota di deperimento, manutenzione ed assicurazione, uguale a (c), prodotto netto dell’impresa.

 

 

«L’esperienza prova che il massimo valore di (c) si ottiene, in ogni zona agraria, con un dato, e non un maggiore o minore, valore di (b). Tanto il piccolo, come il medio o grosso agricoltore non compra a caso concimi, anticrittogamici, foraggi, ecc. Lo spendere meno o più di quella data dose può essere funzione della sua ignoranza, non del desiderio di ottenere maggiore prodotto netto. A furia di esperienza si riesce a precisare quanto nitrato di soda, quanto perfosfato, quanta potassa, quanto solfato di rame, o solfo occorre comprare. Spesso il piccolo proprietario, il mezzadro non ben guidato, erra in meno. Ma il cattedratico ambulante della mia zona agraria (prof. Gioda) redige una bellissima rubrica, nel giornaletto del Comizio agrario, Le conversazioni con Tonio, la migliore di quante ne conosco in Italia; ed invariabilmente Tonio, in principio di stagione, dice di non avere i denari per comprare i concimi, troppo cari, ecc., ecc.; ed altrettanto invariabilmente alla fine stagione il professore ripassando lungo la strada, vede il grano di Tonio triste e a terra, le uve patire, chè il vento marino (marin sec) le ha mangiate, ecc.; e Tonio tocca con mano e confessa che lui ha fatto male i conti e che quei certi denari sarebbero stati bene spesi, e lui li aveva e stupidamente non li ha cacciati fuori.

 

 

«Noleggio strumenti tecnici? Nessuno affitta aratri, carri, piccole seminatrici, voltafieno. Tutti prendono a nolo le trebbiatrici, le aratrici meccaniche, sia per arature ordinarie che per dissodamento. Solo grossi proprietari possono aver convenienza a possedere trebbiatrici ed aratrici che costano, coi motori, le decine di biglietti da mille. Ma anche in questo caso pare sia norma ovvia di contabilità tenere per questo grosso macchinario un conto a parte, addebitando al conto: mano d’opera, manutenzione, deperimento, interessi, assicurazione personale, imposte speciali, ed accreditando il valore dei servizi prestati all’azienda; tale quale come si farebbe ad un’azienda estranea. Nel conto dell’azienda agraria, a meno si tratti di un confusionario, il grosso macchinario è trattato come cosa di terzi.

 

 

«Foraggi? Nessuno acquista, salvo eccezioni determinate da siccità spaventose, fieno e paglia fuor del fondo. Tutti sanno che, se così facessero, andrebbero in malora. Il prezzo di mercato dei foraggi è, in tutta Italia, almeno da Roma in su, superiore al prezzo della carne, netta dalle altre spese, ottenuta con quel foraggio. È un apparente assurdo, spiegabile con tante circostanze: nessuno vende il foraggio, salvo le eccezioni ed il prezzo è quello che è in funzione della offerta, che è un’eccezione, e della domanda, che è quella dell’esercito, delle imprese di trasporti e delle richieste singole per fallanze di raccolti. Su questo constatato divario si fonda la critica dei periti contro il criterio catastale che valutava il reddito del terreno a prato partendo dal prezzo del fieno. E nella recente riforma del catasto si concluse doversi abbandonare il criterio della particella (valore del fieno), per adottare quello del fondo tipico (valore della carne viva, prodotta dalla stalla).

 

 

«Se nessuno compra fieno, la diversità della quantità acquistata degli altri mangimi (crusca, farinetta, panelli artificiali, ecc.) in confronto alla quantità conveniente, è in funzione dell’ignoranza. Il proprietario tirchio, grosso o piccolo che sia, trova sempre che i panelli e la farinetta costano troppo; quello intelligente cerca di comprare, tra i mangimi disponibili, quelli che gli danno il massimo rendimento in valore di carne.

 

 

«Quote di ammortamento, manutenzione ed assicurazione? Sono, pare, quello che sono, dati gli strumenti che si posseggono o che si affittano. A nessuno verrà mai in mente di trebbiare a mano per non pagare il nolo della trebbiatrice. È troppa la convenienza del trebbiare a macchina in confronto al trebbiare a mano, per non essere felici di pagare, o nel nolo o, se le macchine sono proprie, nel conto macchina, tutte le quote occorrenti. Bisogna vivere in montagna o in luoghi inaccessibili per rassegnarsi a battere il grano col correggiato e far finta così di crescere il proprio reddito netto relativo. Non la cifra assoluta ché questa, se siamo in condizioni di usare il correggiato, sarà sempre una quantità miserabile.

 

 

«Sul contenuto in generale siamo, in teoria pura, su terreno pacifico. Perciò, anche qui, non mi pare corretto opporre agli economisti agrari argomentazioni su cui essi, se fossero chiamati a discuterli, dopo una chiara posizione del problema, cadrebbero d’accordo coll’estensore del manoscritto.

 

 

«Il punto importante della discussione parmi sia: i conti culturali che si leggono nei libri di Serpieri, Tassinari, Medici, ecc. ecc. (se pure suscettivi di miglioramenti, ed io ne chiederei innanzitutto alcuni formali) non sono forse il solo mezzo di orientamento esistente per rispondere ai quesiti, vaghi e insolubili rigorosamente, del massimo vantaggio del gruppo o della collettività? Chi ha qualcosa di meglio da proporre, che non siano le solite considerazioni che da Marshall in qua si rileggono in tutti i libri, si faccia avanti.

 

 

«Per il momento mi limito ad analizzare il calcolo del par. 8.

 

 

Schematicamente esso è il seguente:

 

 

SCHEMA (I)

 

 

 

Latifondo

Lire

Poderi quotizzati

Lire

Produzione lorda vendibile

600.000

2.000.000

Spesa di produzione (*)

100.000

1.950.000 (**)

Reddito fondiario

500.000

50.000

(*) Miseri salari a pochi pastori.

(**) Redditi di lavoro a numeroso gruppo di famiglie coloniche stabilmente

sistemate sulla terra, con tenore di vita decente.

 

 

«Non critico le conclusioni, pacifiche, che si ricavano dal manoscritto dall’esempio così posto; dico che l’esempio non è conforme a nessuna realtà probabile.

 

 

Tredici anni fa un industriale intraprese su estensione vasta, qualcosa come 1.400 ettari, divenuti poi più di 2.000, la trasformazione di cui nell’esempio.

 

 

Un’Opera Pia vicina a lui identica per caratteristiche agrarie, otteneva risultati suppergiù conformi all’esempio del latifondo: altissima proporzione del reddito netto al prodotto lordo. La trasformazione, con costruzione di case coloniche, fu, dal punto di vista del reddito netto, un disastro per l’Opera Pia. Non che restarle le 50.000 dell’esempio, non rimase neppure il margine per gli interessi di favore del mutuo ottenuto per la bonifica. Probabilmente l’Opera Pia è ancora a questo punto. Colpa di chi? Di ciò, dico, che non bisogna affidare ad Opere Pie imprese di tal fatta. Dubito assai che i contadini stiano proprio così bene come è supposto nella nota. Per tanti anni l’industriale fu di umor nero, come avrebbero dovuto essere gli amministratori dell’Opera Pia. Il bilancio si chiudeva in passivo: produzione lorda in forte aumento, ma spese crescenti ancora più. Da un paio d’anni l’umore è cambiato.

 

 

Astrazion fatta da vicende stagionali e da salti di prezzi, il bilancio va a posto. Non poteva non andare, posto che il proprietario se ne occupa sul serio e col tempo ha acquistato pratica. Oggi il bilancio deve chiudersi, con produzione lorda moltiplicata e spese enormi; il margine però è assai più largo di un tempo. Pur tenendo conto degli oneri dei mutui e degli interessi dovuti ai proprii grandiosi investimenti, il proprietario non cambierebbe la sua situazione odierna con quella dell’epoca della cultura estensiva.

 

 

«Così è, a meno di supporre direzione incompetente, disordine nello spendere, propensione a lasciarsi mangiar denaro da impiegati e salariati prepotenti e poltroni, supposta una normale amministrazione di uomo lavoratore, sobrio, paziente nell’aspettare, il confronto deve essere posto così:

 

 

SCHEMA (II)

 

 

 

Latifondo

Lire

Poderi quotizzati

Lire

Produzione lorda vendibile

600.000

3.000.000 a

Spesa di produzione

100.000

2.000.000 b

Reddito fondiario

500.000

1.000.000 c

 

 

«Spendere la cifra b è la condizione necessaria per ottenere a e c. Chi spende poco, ha poco; chi spende molto e “bene”, ha molto per gli altri e per sé.

 

 

«Intendiamoci: non dico che lo schema (I) sia illegittimo e che quello (II) sia il solo razionale. Non siamo dinnanzi ad un problema astratto, in cui l’indagatore pone i dati del problema a suo libito, salvo sentirsi dire che le sue premesse sono insulse e che le deduzioni, sebbene logicamente dedotte, sono irrilevanti. Qui siamo dinnanzi a schemi, i quali vorrebbero rappresentare la realtà di un trapasso storico dalla forma latifondo alla forma poderi quotizzati. Bisognerebbe, in verità, distinguere la forma poderi quotizzati in due sottospecie: la prima, ancora di proprietà del latifondista o di una società di bonifica a lui sostituita, e di poderi concessi in mezzadria od affitto di miglioria, ma con direzione ancora accentrata, a contadini (m); la seconda di poderi già in proprietà dei contadini, od in cui la direzione centrale ha compiti assai attenuati (n). Ma siccome si è, credo, d’accordo che, per arrivare ad n con successo, è utile passare per un certo tempo attraverso ad m e che n sia un successo, così posso limitarmi a concepire la seconda fase come ristretta ad m sia pure coll’intendimento del trapasso ad n.

 

 

«Dico che (I) e (II) sono ambi possibili. Ma le condizioni richieste perché si verifichi (I) parrebbero essere:

 

 

  • direzione di una certa competenza tecnica, ma di verosimile incompetenza economica;

 

  • spreco di capitali in migliorie appariscenti o male pensate, intese solo a forzare la terra a produrre, senza badare ai costi.

 

 

«Quelle predisponenti a (II) invece:

 

 

  • direzione competente tecnicamente ed economicamente;

 

  • impiego saggio di capitali in migliorie evitando tutto l’appariscente e astenendosi da tutto ciò che fa mostra, produca effetto grosso fisico, ma senza riguardo ai costi.

 

 

«In (I) ci potranno essere più famiglie impiegate in lavori addebitati al conto capitale. Ma ciò non dura, perché non si può e non si deve migliorare all’infinito per creare occupazione. In (II) il numero delle famiglie addebitate a quel conto forse è minore; ma è maggiore il numero delle famiglie impiegate permanentemente in conto esercizio ed è numero crescente.

 

 

«In (I) vedo impianti edilizi talvolta vistosi: centrali e sparpagliati, strade quasi cittadine, magazzini centrali, case di ricreazione, ecc., ecc.

 

 

In (II) l’edilizia è meno costosa: le case non sono né eleganti né uniformi, ma adattate caso per caso al terreno, alla estensione del podere. Il cittadino loda (I); il rurale, che non bada a certe cose, sta volentieri in (II).

 

 

«(I) è un fallimento, che non si può additare ad esempio imitabile a nessuno; (II) è il successo per il proprietario bonificatore e per i contadini; e incoraggia i seguitatori.

 

 

«(I) può essere cosa seria, se prepara (II). Direi che non ci può essere impresa di quotizzazione ben riuscita, se il bonificatore, pur aspirando a (II), non ha il coraggio di rassegnarsi a lunghi anni di (I), di cui nessuno si ricorderà quando egli sarà giunto a (II). Tutti diranno raca allo sfruttatore che guadagna 1.000.000 sulla pelle dei contadini a cui dà solo 2 su 3 milioni di prodotto lordo.

 

 

«Se col pensiero ricapitolo la mia esperienza, ormai lunga 43 anni, direi così: che nei primi 13 anni, quando non facevo ancora niente o commettevo spropositi o mi lasciavo metter nel sacco dai miei contadini, su 100 di prodotto lordo vendibile, mi restavano nette da 30 a 40. Lungo i 30 anni successivi, epoca di migliorie, di mutui di credito fondiario agrario, la quota residua scese a zero, spesso fu negativa, nel quinquennio 1935-39 fu del 4 per cento. dal 1940 in poi, spero di risalire; ma avrei paura di risalire a una quota maggiore del 25% (conto d’esercizio, astrazione fatta dal conto capitale o d’investimento), netta da quote altrui (imposte), ma comprensiva degli interessi sui mutui agrari. Paura perché ciò vorrebbe probabilmente dire che spenderei meno, e, spendendo meno, ricaveremmo minor prodotto lordo, e quindi, in definitiva, minor reddito netto, in cifre assolute tanto io che i mezzadri».

 

 

Nella pagina seguente Einaudi prende in esame l’esempio che avevo portato per dimostrare, che, anche quando si constatasse che una variazione degli ordinamenti agrari, portasse ad una diminuzione del prodotto dell’azienda, restando invariati tutti gli elementi di costo, non si sarebbe autorizzati a concludere che la trasformazione, dal punto di vista sociale, non risulterebbe conveniente:

 

 

«Mi par fantastico supporre che un proprietario, il quale dei 48 mila quintali di grano che gli restano si serva per mantenere una schiera di servitori e di parassiti, per compensare i medici che lo curano di malattie immaginarie e per comprare gli oggetti che possono soddisfare i suoi più futili capricci sia capace di far rendere al suo terreno 100 mila quintali.

 

 

«Questo non è più uno schema professorale; ma, purtroppo, ha un sapore di discorso alla Enrico Ferri, buono per meetings sulle piazze dei borghi rurali della bassa padana nel tempo 1880-1910. So io cosa succede a quel proprietario. In piccolo li ho visti andare colle gambe all’aria tutti: le viti sopraffatte dalla gramigna, le messi piene di papaveri, di biada e di ortiche. Il padrone, in città, a lamentarsi delle noie delle terre, il fattore in campagna a rubacchiare d’accordo con contadini come lui miserabili. Perché un esempio sia probante, occorre che le varie parti non facciano a pugni. Qui il modo di spendere i 48 mila quintali fa a pugni con la premessa dei 100 mila quintali. Chi ottiene i 100 mila quintali è un altro tipo. Sta sul fondo. Ama la vita di campagna. Al mattino presto è a cavallo e gira i campi. I contadini se lo vedono capitare addosso a lodare, a consigliare, a strapazzare. Siccome ha ragione, i contadini apprezzano grandemente le strapazzate. Alla sera è stanco morto e dorme sodo, senza malattie immaginarie. Tiene il medico in permanenza sulla tenuta, ma è un medico veterinario perché non passa quasi giorno che non vi sia nella stalla una nascita o un guaio, a cui rimediar prontamente».

 

 

Nelle ultime cinque pagine Einaudi critica quel che avevo scritto contro chi presenta il pagamento del prezzo di mercato delle terre come il miglior crivello per selezionare le persone più meritevoli di arrivare alla proprietà della terra.

 

 

«Risultato di tutta la nostra storia (lei scrive a pag. 25), in cui la imposizione autoritaria e la violenza predatoria hanno sempre avuto grandissimo peso». Visione frettolosissima della nostra storia (di quale delle mille zone italiane tanto diverse l’una dalle altre? ne contesto certo la fondatezza per il Piemonte e la Liguria), storia, di cui sarebbero desiderabili prove.

 

 

«Sulla tesi generale del parag. 9 sono troppo in disaccordo e ne parlai anche sopra, troppe volte per non limitarmi a chiedere: quali esempi probanti ci sono di confronto fra gli effetti dell’applicazione dei due sistemi: prezzo corrente e al disotto del prezzo corrente?

 

 

Sulla incapacità degli attuali proprietari a rimaner tali, parrebbe dal contesto del discorso di pagine 26-27 che il favorire con prezzi al disotto del corrente l’acceso della terra ai contadini sia mezzo efficace a mandar fuori dai piedi i vecchi proprietari incapaci.

 

 

«I metodi sono parecchi:

 

 

  1. Tipo rivoluzione francese 1789 e timore di bolscevismo in Italia 1920. I nobili ed i borghesi sono espropriati, o spaventati vendono a rotta di collo.

 

  1. Tipo irlandese secolo XIX per cui la terra, dai discendenti degli espropriatori cromwelliani, ritornò ai discendenti dei contadini espropriati. Processo che durò circa un secolo, e grazie a cui gli inglesi se ne andarono con i loro titoli garantiti da Londra e subentrarono gli irlandesi obbligati a canone, reso tenue da interventi statali.

 

  1. Tipo che chiamo piemontese solo perché lo conosco e per cui la terra passò a prezzo corrente dalle vecchie classi nobiliari ed ecclesiastiche (qui una parziale vendita di beni ecclesiastici a prezzi di liquidazione ci fu verso il 1860) alle classi medie e sovratutto contadine.

 

 

«Azzardare giudizi senza uno studio accurato sarebbe sconveniente. In via di intuito direi che il tipo secondo sia riuscito perché, col solito sistema empirico britannico del pezzi e bocconi, risolvendo un problema dopo l’altro, ci si mise cent’anni a mettere una classe al posto dell’altra.

 

 

«Dovendo trovare un criterio di scelta fra il tipo (A) ed il (C), ossia fra il crivello a buchi larghi ed il crivello a buchi stretti, direi che esso dovrebbe essere cercato tentando coll’osservazione di rispondere alla domanda: quale dei due crivelli risponde meglio alla distribuzione prevalente negli agricoli delle qualità necessarie alla buona riuscita? Non ho bisogno di dire che per buona riuscita io intendo un insieme di fatti che non oserei elencare in modo tassativo, né combinare in proporzioni definite; ma riassumersi in un elevato tenor di vita, non necessariamente inteso come elevata massa di beni materiali consumati, ma piuttosto come modo di vita signorile. Ma è cento volte più signore il contadino che vive sul suo fondo, che lo sa far fruttare in modo razionale, che educa i figli in modo conforme al loro stato, che sente, anche se non è pienamente consapevole e non ne parla, la dignità del suo stato, che non è servo di nessuno, a cui nessuno può togliere il pane (il mezzadro toscano, anche se non è proprietario, non è lungi dal possedere e dal sentire questa specie di indipendenza), di quanto non lo siano grossi industriali multimilionari, i quali debbono dipendere da chi dà loro le preferenza nelle commesse, gli impiegati, i quali hanno superiori, da cui dipende la loro carriera, e coloro i quali hanno aspirazioni, che solo altri può soddisfare. Non è signore chi vuole, ricco o povero che sia.

 

 

Guardandomi attorno nel mio solito piccolo mondo, direi abbia ragione Pareto nella sua teoria della costanza nel modo di distribuzione dei redditi e della ricchezza nei paesi e tempi più diversi.

 

 

«Ogni anno, cioè, vedo uscire dalla schiera dei proprietari un certo numero: gente vecchia, probabilmente giovane d’anni ma onusti dal peso di parecchie generazioni terriere, ed ormai disadatti a tenere la terra; ed entrare nuovi proprietari. Dubito molto e non credo nessuno abbia dimostrato mai con uno studio sicuro, fondato su notizie solidamente appurate, che esista sconcordanza fra le sue schiere. Quella cosa vaga che gli uomini del XVIII secolo chiamavano natura, ed è un insieme di tanti fattori, si incarica (un tempo si sarebbe detto miracolosamente, ma il miracolo è il risultato di circostanze svariatissime, male conosciute) di mantenere in equilibrio gli entranti con gli uscenti. Forse è vero che coloro i quali hanno le qualità necessarie per tenere la terra sono tot e non tot più x. Il prezzo corrente della terra è quello dato il quale la quantità (per numero, per superficie, per unità poderali, ecc., ecc.) degli uscenti è uguale a quella degli entranti. Quello che la comune degli economisti agrari qualifica nelle inchieste alto prezzo dei terreni è il risultato di questo equilibrio. Quando gli aspiranti degni di entrare sono molti, il prezzo sale e certuni che sarebbero ancora rimasti si decidono ad uscire. È il metodo, più gentile che si conosca, di operare le rivoluzioni sociali agrarie; ed io lo credo il meno costoso, il più duttile e il più efficace. Se i prezzi scendono, è segno che gli aspiranti degni di entrare (degni vuol dire atti a trarre dalla terra quei vantaggi di vita signorile che dissi sopra) sono pochi. E perché, in tal caso, far uscire i marginali tra i vecchi, i quali dimostrano così di essere migliori di quei che non si decidono ad entrare?

 

 

«Il metodo (I) del sottoprezzo a me pare oneroso socialmente, oltreché antieconomico:

 

 

Ceto che esce:

 

 

10

9

8

7

6

5

4

3

2

1

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

 

 

Ceto che entra.

 

 

«I numeri sono gli indici della qualità. Sino a che il ceto che esce ha qualità 1, 2, 3, 4, 5, esso merita di essere soppiantato da quello che entra. Il prezzo di mercato dei terreni indica come l’effetto sia ottenuto. Il ceto che entra porta nella gara la sua qualità di lavoro tenace, il suo relativo disprezzo dell’interesse del capitale investito (fattore che mi son persuaso avere di fatto un peso assai più piccolo di quel che si legge nei libri, ché nessuno come il contadino sa fare il conto del reddito netto del capitale investito, e nessuno lo pretende alto come lui), la sua sopravalutazione della piccola particella terriera. Far sì, in qualche modo, che il prezzo di trapasso sia inferiore a quello corrente, vuol dire far uscire gente che avrebbe ancora le qualità 6 e 7, per far entrare gente che ha le qualità 5 e 4.

 

 

«Non vedo il sugo di elevare alla proprietà contadini che appena appena sanno cavarsela e far vivere la famiglia se posti alla dipendenza altrui. È pura illusione credere in tal modo di far del bene. Si creano infelici spostati. A chi ama l’indipendenza può spiacere che ci sia gente a cui piace servire. Ma le cose stanno così. Gli uomini si dividono in parecchie categorie: quelli a cui piace comandare, quelli a cui piace essere comandati, quelli che amano essere indipendenti e quelli che non sono buoni a nessuna di queste cose. Apprezzo soprattutto coloro i quali amano essere indipendenti, ed ascrivo gran parte delle fortune del nostro paese (fra le altre la resistenza indicibile alle avversità economiche), alla persistenza di un ceto numeroso di persone che amano l’indipendenza. Il vizio di questo ceto nel nostro paese è di amare la propria indipendenza economica e morale in modo inconscio; e questa ignoranza del proprio amore, la quale arriva sino alla abiura di esso, è ciò che distingue il contadino italiano dal bauer tedesco, idealizzato da Lorenzoni. Un gran passo sarà fatto quando i (quanti sono due, tre, quattro?) milioni di contadini autonomi italiani acquisteranno la consapevolezza di essere dei signori.

 

 

«Siano essi inconsapevoli e tendano a diventare coscienti di quel che sono, riconosco, però, che i contadini proprietari sono tot; e non possono essere più che tanti per cento della popolazione. Aumentarne il numero al di là di questo tot è fare opera dannosa. Meglio, quando il punto sta per essere oltrepassato, incoraggiare, piuttosto che quella autonoma, la proprietà particellare: dell’artigiano, dell’operaio, dell’impiegato, del ritirato o pensionato.

 

 

«Un tale, che conosco da 40 anni, ritirato dal suo mestiere, comprò qualche cosa come 40 mila mq di terra. Fa fare i lavori pesanti da salariati (lui va sui 66 anni) e fa lui quelli leggeri e intelligenti. Ne cava da 1.000 a 10 mila lire all’anno, variamente, si capisce, a seconda delle gelate, della fioritura, delle grandinate e dei prezzi. Ma cavar tanto da due quinti di un ettaro e su un terreno qualunque, in clima settentrionale, con poca o punta acqua, è reddito da strabiliare. Non è il solo: la cultura particellare può far miracoli. Ma gli uomini atti a far miracoli, non sono molti. Un altro che alleva conigli d’angora, in gabbie separate, dal pelo bianchissimo e soffice e ne cava tre etti all’anno di lana venduta a Pistoia a 330 lire al Kg, mi diceva: vennero in molti a comprare da me conigli d’angora, attratti dalle 330 lire al Kg. Si stancarono tutti. Non uno persistette. Dico, perciò, che il numero dei contadini atti a far vivere bene sé e la famiglia attendendo, oltre che ad altre coltivazioni fini, a cavare il pelo ai conigli d’angora, è una proporzione tot della popolazione agricola italiana e non più di tot. Bisogna avere il cervello e le mani fatte apposta».

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