Opera Omnia Luigi Einaudi

Il conto dell’Inghilterra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/04/1922

Il conto dell’Inghilterra

«Corriere della Sera», 7 aprile 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 651-654

 

 

 

Giova credere che la nota inglese per il ricupero dei debiti alleati sia una pura formalità, perché altrimenti l’impressione sui popoli debitori, al momento dell’apertura della conferenza di Genova, sarebbe penosa. È stato un errore grave di psicologia internazionale, scrivere questa prefazione al libro dei verbali destinati a registrare i principii della vera pacificazione internazionale.

 

 

Come! Quel Lloyd George il quale riconosce e afferma che una vera ripresa dell’economia mondiale, un risanamento della situazione interna degli stati europei, un affievolimento della disoccupazione la quale turba la pace sociale dell’Inghilterra non sono possibili se Germania e Russia non sono riammessi a partecipare ai benefici dei rapporti economici internazionali: quel Lloyd George il quale non sa trattenersi dal manifestare le sue simpatie verso la Germania economica, e chiaramente vede nel peso insopportabile delle riparazioni, da pagarsi immediatamente, la causa profonda del disastro del marco tedesco e del disordine incoercibile delle finanze del paese vinto; quel Lloyd George il quale non ha lavorato né fiaccamente né inefficacemente a ridurre la cifra delle riparazioni pagabili dalla Germania, ecco che d’un tratto dà un preavviso di sei mesi ai suoi debitori affinché si apprestino a pagare gli interessi dei loro debiti di guerra.

 

 

Il gabinetto britannico nel mandare la nota sapeva che essa non aveva alcuna rispondenza con la realtà. Un avviso di pagamento a sei mesi degli interessi su decine di miliardi non si manda se non c’è alcuna probabilità che il paese possa rispondere: pronto! Ora, per non parlare della Francia, la quale si trova in condizioni finanziarie non meno difficili delle nostre, noi dovremmo pagare gli interessi su forse una dozzina di miliardi di lire-oro, circa 600 milioni di lire-oro, equivalenti oggi a due miliardi circa di lire-carta all’anno. Per un paese il quale combatte tuttora valorosamente contro un disavanzo di tre miliardi di lire circa, l’aggiunta di altri due miliardi significa più abbondanti emissioni di buoni del tesoro a incremento della circolazione cartacea effettiva e potenziale. Bel modo di inaugurare la ricostruzione economica del mondo! La richiesta inglese, se fosse seria, ha il netto significato di una domanda rivoltaci a ridurre la lira al livello del marco, a rinfocolare il malcontento sociale che andava attenuandosi, a sconvolgere la nostra economia interna, con la risurrezione dei profittatori e lo scatenamento dell’odio fra classi avvantaggiate e classi distrutte dalla svalutazione monetaria.

 

 

Non si può fare al gabinetto inglese, dove sono uomini veramente di primissimo ordine nel campo della dottrina, dell’intelligenza e dell’esperienza, il torto di supporlo inconsapevole di queste verità. È pacifico anche ai suoi occhi che la pretesa nordamericana di spingere i paesi europei alle economie con la richiesta degli interessi sul debito di guerra non ha alcuna portata pratica per gli italiani. Può darsi che governo e parlamento non abbiano ancora fatto tutto il proprio dovere in materia di riduzione di spese. Molto si può ancora fare – lo abbiamo detto su queste colonne tante volte che non temiamo di ripeterlo, anche se il ripeterlo può in apparenza giovare alla tesi nordamericana. Ma non giova che in apparenza. Noi non abbiamo bisogno di spinte per fare economie; bastano i tre miliardi di disavanzo che dobbiamo ancora colmare, e che non possiamo assolutamente far scomparire con nuovi inasprimenti di imposte, giunte a un livello fantastico, non certo conosciuto in Inghilterra. Far scomparire quel disavanzo con una più equa e rigida esazione delle imposte esistenti e con economie, è impresa possibile, che in parte i governi ultimi hanno tentato e tentano, fra difficoltà e debolezze non poche, di attuare. Ma pagare in aggiunta due miliardi di interessi alla sola Inghilterra e, per necessaria conseguenza, quasi altrettanti agli Stati uniti, è un assurdo. Anche se lo volessimo non ci riusciremmo. L’alpinista tenta salire sulle cime accessibili e fa perciò sforzi i quali, se anche non in tutto felici, sono meritori e utili; ma quando la meta è irraggiungibile, l’alpinista si sente scoraggiato persino dal raggiungere le prime cime. Ecco l’unico effetto della richiesta anglo-americana: lo scoraggiamento e la disperazione.

 

 

E perché mai il gabinetto inglese vorrebbe far nascere nei paesi alleati così dannosi e deprimenti stati d’animo? Non è credibile, no davvero, la ragione che si afferma addotta da lord Curzon all’ambasciatore francese St-Aulaire: «essere impossibile all’Inghilterra pagare gli interessi dei suoi debiti agli Stati uniti senza essere rifusa dagli alleati». Che ciò sia stato detto senza un sorriso tacito di una autosmentita, è veramente incredibile. Il bilancio inglese si chiude nel ’21-’22 in pareggio; e il pareggio è assicurato, nonostante l’inizio dei pagamenti degli interessi agli Stati uniti, anche pel 1922-23; anzi si spera di più, talché da molte parti si chiede un inizio di riduzione delle imposte. Come può essere incapace di pagare 50 milioni di lire sterline di interessi all’anno – a tanto e non più ammontano gli interessi dovuti agli Stati uniti dall’Inghilterra! – un paese il quale dal 31 dicembre 1919 al 31 marzo 1922 ridusse l’ammontare del suo debito da 8.079 a 7.708 milioni di lire sterline, ossia di ben 371 milioni in 27 mesi? Il margine c’è nel bilancio inglese per fare onore alla propria firma, senza costringere i debitori europei ad una politica da disperati.

 

 

La nota, dunque, non può significare in realtà ciò che essa sembra dire in apparenza. Il più grande impero del mondo, lo stato che più di tutti ha tratto incremento di territori, di ricchezze potenziali e di prestigio dalla guerra, lo stato che ha distrutto per lunghi anni la potenza militare del suo più temibile rivale, lo stato che alla conferenza di Washington ha saputo con una politica lungimirante conquistarsi le simpatie nordamericane, superando i ricordi tenacissimi della guerra di liberazione dal dominio anglosassone, no, non può aver seriamente inteso di farsi pagare il prezzo del debito contratto dai suoi alleati più poveri nella guerra condotta per la difesa comune.

 

 

Altro deve essere lo scopo della nota; non questo gretto e meschino dei quattrini, di cui si ha bisogno per pagare la cambiale alla scadenza. Quale sia quest’altro scopo, ora non importa indagare. Basta affermare come cosa certa che la richiesta di un pagamento effettivo sarebbe contraria a tutte le più nobili e sicure tradizioni dell’Inghilterra. La quale fu sempre signorile e aristocratica ed agli amici fedeli dell’ora triste, non presentò il conto da pagare. Non lo presentò all’Austria indebitatasi nelle guerre combattute assieme contro Napoleone. Perché dovrebbe presentarlo alla Francia ed all’Italia di cui i sacrifici durante la guerra furono sì terribili? Gli spiriti inglesi più illuminati hanno, essi per i primi, sostenuto che l’onore e il vantaggio dell’Inghilterra richiedono che essa paghi fino all’ultimo centesimo i suoi debiti verso gli Stati uniti e condoni invece i suoi crediti verso l’Europa. I quali infatti non sono crediti, ma semplici scritturazioni nel gran libro del dare e dell’avere, dove da una parte è registrato il denaro versato e dall’altra è scritto il sangue speso. Questa è la teoria del Keynes e dell’«Economist», ed è la teoria destinata al trionfo.

 

 

Lento ma sicuro.

 

 

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