Opera Omnia Luigi Einaudi

Il controllo visto da un cooperatore socialista

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/03/1921

Il controllo visto da un cooperatore socialista

«Corriere della Sera», 19 marzo 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 66-68

 

 

 

«La collaborazione operaia al governo dell’azienda è un non senso. In questo io sono massimalista: o gli operai o i capitalisti! Nessuna direzione collegiale – a mio avviso non si avrebbe direzione collegiale neanche in regime socialista -, nessuna compartecipazione, né azionariato operaio, né controllo di collaborazione… A parer mio il controllo non deve essere controllo di azienda, ma controllo di industria; non controllo operaio, ma controllo sociale. Oh! come sarebbe facile, in tanti casi, ai capitalisti dell’azienda di accaparrarsi i due operai controllori! Il controllo va invece organizzato per categorie di industrie ed affidato al rappresentante degli interessi generali dei consumatori e dei lavoratori, vale a dire allo stato».

 

 

Così parla, da quel che si legge in una intervista, fornita di tutte le garanzie esteriori dell’autenticità e pubblicata dal «Tempo», l’on. Umberto Bianchi, membro del partito socialista ufficiale. L’opinione merita di essere rilevata non perché provenga da un avversario – per lo più le idee dei socialisti ufficiali sono così vaghe ed informi da non meritare neppure di essere discusse seriamente – ma perché proviene da un socialista ufficiale, che è anche presidente del consorzio nazionale cooperativo per l’industria mineraria. Come tale, egli ha sviluppato una attività legislativa assai pericolosa, perché, profittando della competenza acquistata in materia, ha presentato un progetto di socializzazione o pre-socializzazione del sottosuolo, il quale, se attuato, sarebbe di gravissimo danno allo sviluppo dell’industria mineraria. Evidentemente, la sua è una competenza iniziale ed egli ha ancora molto da imparare dall’esperienza che nella materia mineraria si è fatta da secoli ed oramai è giunta a conclusioni precise e sicure intorno alle migliori maniere di utilizzare il sottosuolo. Ed è probabile che le predilezioni cooperativistiche dell’on. Umberto Bianchi minaccino pericoli non lievi allo stato ed al paese, se si estrinsecheranno in richieste di fondi all’erario o al credito di stato ed in privilegi di concessioni e di imposte.

 

 

Certo è però che la partecipazione alla vita industriale ha insegnato al Bianchi che neppure le cooperative marciano se non c’è una divisione netta di funzioni fra chi comanda e chi ubbidisce, fra chi dirige e chi è diretto. A lui, dirigente di cooperative, il controllo operaio è altrettanto ostico come al dirigente di imprese cosidette capitalistiche. Vuole la fama, che le cooperative minerarie toscane siano finora rimaste in piedi e forse bene, oltreché per la circostanza transitoria di alti prezzi del carbone e della lignite, sovratutto perché a capo di esse si sono trovati due uomini: l’on. Bianchi, come presidente e l’ing. Janer, come amministratore e tecnico. Gli operai, nelle cooperative minerarie toscane, ubbidiscono ai dirigenti come e forse meglio che in tante altre imprese private. Tutto ciò è detto non a titolo di biasimo, ma di lode. Nessuna impresa può resistere un anno e forse neppure un mese, se chi dirige ha tra i piedi continuamente qualcuno dei suoi subordinati che lo osserva, vuol sapere cosa fa e perché lo fa, quanto guadagna o quanto perde e simili cose fastidiose.

 

 

In questi casi o il dirigente «si accaparra», come dice l’on. Bianchi, i controllori, ossia dà loro un sufficiente sbruffo, ovvero l’industria non marcia.

 

 

«Sia detto ben chiaro – osserva l’on. Umberto Bianchi, socialista ufficiale, ma dirigente di imprese industriali, e ripetiamo noi con pieno consenso, trattandosi di osservazioni dettate dall’esperienza – l’industriale deve essere lasciato in condizione di vivere e non può né deve essere assillato dai controllori, che non possono né devono avere nessuna ingerenza nel governo dell’azienda».

 

 

Il buon senso ricomincia a farsi sentire. Ha cominciato lo stato ad escludere dal controllo le industrie di stato. Vengono ora i cooperatori a dire che si tratta di assurdità impossibili ad attuarsi, a meno di voler distruggere l’industria. Altri ha osservato che se si vogliono escludere le industrie nuove, ciò si fa perché anche il governo riconosce trattarsi di un impaccio; e se il controllo è un impaccio per le industrie nuove, a fortiori lo è per tutte le industrie, se bene vecchie. Quindi macchina indietro: controllo non più operaio, ma sociale esercitato dallo stato, a nome dei lavoratori e dei consumatori. La formula è altrettanto vaga come quella del controllo operaio; perché non si capisce a qual meta possa condurre il controllo sociale, fuorché ad una nuova inutile burocrazia e ad un accumulo spaventoso di cartacce e di statistiche. Ma è un tentativo per sostituire al danno certo e gravissimo del controllo operaio, un onere costoso ed inutile, ma forse non mortale.

 

 

Il cooperatore ha visto il pericolo a cui ci conducono allegramente incontro gli uomini politici, con una incoscienza che fa spavento. Se socializzazione dovrà esservi in avvenire, gli operai, dice il cooperatore, devono abilitarvisi progressivamente con le cooperative e con l’esercizio diretto dei mezzi di produzione.

 

 

Questo è un programma serio. Bisogna naturalmente supporre che le cooperative non sorgano rubando terre e fabbriche ad altri e chiedendo allo stato l’elemosina del credito a sottoprezzo, limitandosi invece a volere quei soli aiuti che si danno a tutte le imprese nuove. A quelle tra le cooperative, le quali per virtù dei loro soci lavoratori e per la capacità e lo spirito di sacrificio dei loro dirigenti trionferanno nella rude lotta per la produzione, andrà il nostro plauso. Come già fin d’ora ci scopriamo riverenti il capo a quelle che sono già riuscite a costrurre qualche opera durevole nella coltivazione dei campi o nell’esercizio di miniere e di fabbriche.

 

 

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