Opera Omnia Luigi Einaudi

Il convegno di Parigi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/01/1925

Il convegno di Parigi

«Corriere della Sera», 7 gennaio 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 19-22

 

 

 

La conferenza di Parigi per il riparto delle riparazioni pagabili dalla Germania a norma del piano Dawes si apre in un ambiente saturo di esorbitanti pretese angloamericane. Si sa quale sia la somma che si tratta di distribuire: per l’anno finanziario 1924-25 sono 1.000 milioni di marchi oro, i quali salgono a 1.220 e 1.200 milioni nei due anni successivi, per giungere a 1.750 nel 1927-28 ed a 2.500 nel 1928-29, considerato anno normale. Parecchia gente s’era illusa in Europa che le riparazioni tedesche dovessero andare divise tra gli stati europei che avevano firmato il trattato di Versaglia e principalmente tra la Francia, l’Inghilterra, l’Italia ed il Belgio; ed i più indebitati tra questi, e cioè la Francia e l’Italia si illudevano che il danaro tedesco potesse servire per pagare i debiti agli antichi alleati anglosassoni.

 

 

Quand’ecco, i più ricchi tra i creditori, gli Stati uniti, mettono le mani avanti e pretendono una quota del miliardo Dawes; anzi una doppia quota: quella ordinaria che essi affermano spettar loro a titolo di riparazioni come a qualunque altro stato combattente contro la Germania e quella straordinaria, consistente nel rimborso delle spese da essi sostenute di occupazione di territorio tedesco, che essi hanno la bontà di calcolare in 1.078 milioni di marchi.

 

 

Di più, Stati uniti ed Inghilterra hanno concordemente fatto escludere dall’ordine del giorno ufficiale della conferenza ogni accenno al problema dei debiti interalleati. È la seconda volta che ciò succede. La prima fu quando Francia ed Italia consentirono che le riparazioni tedesche fossero ridotte, senza che contemporaneamente si considerasse in quali distrette esse venissero poste: con minori riscossioni da un lato e con debiti intatti dall’altro. Oggi, per la seconda volta, il gioco si ripete: sulla ridotta cifra delle riparazioni tedesche, le due nazioni creditrici vogliono tagliarsi una grossa fetta per loro conto. Come si farà il bilancio degli stati debitori?

 

 

Noi non intendiamo ripetere qui tutti i vessati argomenti intorno al problema dei debiti interalleati ed alla loro connessione con quello delle riparazioni. Lo facemmo pochi giorni or sono e non converrebbe ripetere i medesimi concetti. Giova meglio ribadire alcuni principii di morale politica, i quali sono fondamentali nei rapporti fra stato e stato.

 

 

Ricordiamo tutti quale strenua battaglia abbia combattuto il presidente Wilson per limitare l’ammontare delle riparazioni tedesche ai danni materiali di guerra arrecati dall’esercito nemico. Clemenceau riuscì ad aver ragione dell’ostinata resistenza del presidente ed a far includere tra i danni risarcibili il valore delle pensioni dovute ai mutilati ed invalidi di guerra ed alle famiglie dei morti. Così la cifra si ingrossò e la Francia poté sperare di rifarsi di parte delle spese sue di guerra oltreché delle spese di ricostruzione. Se la cifra fosse rimasta invariata, gli Stati uniti, i quali ebbero feriti e morti, sebbene in numero di gran lunga minore degli altri stati, avrebbero avuto una ragione morale di partecipare per una piccola quota alle riparazioni. Ora, però, la cifra fu ridotta grandemente e fu ridotta sovratutto in seguito alle pressioni americane ed inglesi. Quella cifra, così scemata, non solo non dà più nulla per sopperire all’onere delle pensioni di guerra; ma non è neppure più sufficiente a coprire le spese di ricostruzione dei territori materialmente danneggiati dalla guerra. Quale è dunque il fondamento morale di un intervento americano nel riparto delle riparazioni? Esso non esiste; e le nazioni danneggiate hanno buon diritto di opporre la più fiera resistenza contro le incomportabili ed ingiuste pretese di chi al riparto potrebbe pretendere solo nel giorno in cui la Germania avesse intieramente rimborsato le spese di ricostruzione.

 

 

Ma il problema moralmente più alto è quello che si profila a proposito dell’Inghilterra. Questo gran paese volle, per suo conto e senza consultare minimamente gli alleati, accordarsi cogli Stati uniti per il consolidamento del suo debito ed il suo rimborso in 62 anni. Ragionò nel proprio interesse e forse ben fece: voleva consolidare il proprio credito e riportare la sterlina alla pari. Il credito è oramai divenuto granitico e la sterlina ha raggiunto la pari pratica e forse tra pochi giorni toccherà persino la pari teorica.

 

 

Oggi, dopoché i fini voluti sono raggiunti, l’Inghilterra si rivolge agli alleati e dice: «voi non potrete accordarvi con gli Stati uniti, senza venire ad un accordo con me. Voi non potrete dare un dollaro al tesoro americano, senza versare un altro dollaro nelle mie casse. Io sono disposta a non inquietarvi, se dalla Germania riceverò quanto mi occorre per pagare l’annualità dovuta agli Stati uniti; ma se i pagamenti tedeschi staranno al disotto del mio fabbisogno, voi dovrete pagarmi la rimanente parte». Ma praticamente, con siffatti propositi, la Germania verrebbe ad essere indotta a non pagar nulla, sicura che non sarà inquietata dall’Inghilterra, la quale intende rifarsi del non riscosso sugli antichi alleati!

 

 

Potrebbe anche darsi che l’Inghilterra intendesse stabilire il principio che Francia e Italia dovrebbero fare a lei versamenti non minori di quelli che si impegnassero a fare agli Stati uniti. L’enormità dell’impegno sarebbe tale che Francia e Italia, non potendo assumersi di pagare e Inghilterra e Stati uniti insieme, dovrebbero rinunciare a pagare del tutto; e allora l’Inghilterra avrebbe buon argomento per dire agli Stati uniti: «Voi non ricevete nulla da Italia e Francia, quindi dovete accordare anche a me un ribasso su quello che devo pagare».

 

 

È evidente che propositi di questo genere, se realmente esistono, denotano una insensibilità che può essere spiegata soltanto con motivi politici di concorrenza elettorale tra i vari partiti o col pentimento dell’accordo conchiuso con gli Stati uniti. Pentimento inspiegabile, quando nasce dopoché si sono ottenuti i frutti dell’accordo; pentimento di cui le conseguenze non vanno fatte ricadere sugli alleati, i quali a torto non furono interrogati dall’Inghilterra, quando questa ebbe tanta furia di creare un precedente così pericoloso in materia di debiti interalleati.

 

 

Le conseguenze spiacevoli della mancata intesa di prima dovrebbero essere tenute presenti oggi dalla Francia e dall’Italia. Col consentire a discutere anticipatamente ed indipendentemente il problema del riparto delle riparazioni tedesche esse hanno già indebolita la propria posizione; ma più la indebolirebbero se trattassero disgiuntamente il problema dei debiti con i due grandi stati creditori. Gli Stati uniti i quali videro crescere la ricchezza nazionale in conseguenza della guerra, ed i quali ebbero perdite minime di uomini; l’Inghilterra la quale vide annientata la flotta tedesca e riconquistò, insieme con ampie colonie, il dominio dei mari, devono trovarsi contro il fronte unito di Francia ed Italia. Queste non debbono spaventarsi oltre misura del rimbrotto di mancata fede loro rivolto dai creditori; poiché ben altri rimbrotti morali esse possono vittoriosamente opporre. Basti per tutti, oltre quelli ricordati sovra ed in precedenti articoli, quello nascente dal contrasto fra il compatimento illimitato verso la vinta Germania, a cui si perdonerebbe volentieri lo scarso debito residuo, e la rigidezza verso di noi, guardati con disdegno quali cattivi debitori. Il nostro è un debito sacrosanto; laddove quello della Germania è un’ingiusta taglia di guerra. Quando si usano termini così impropri per indicare da un lato il concorso all’opera comune e dall’altro il risarcimento dei danni effettivamente recati dal nemico si è perso davvero ogni diritto ad invocare la ragion morale nel pretendere il regolamento dei proprii crediti.

 

 

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