Opera Omnia Luigi Einaudi

Il dovere dell’Argentina

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/07/1901

Il dovere dell’Argentina

«La Stampa», 12 luglio 1901

 

 

 

Gli ultimi telegrammi annunciano che tutto è tranquillo a Buenos Aires. La festa nazionale fu celebrata con insolita solennità e coll’intervento del presidente della repubblica.

 

 

Noi dobbiamo esserne lieti. L’Italia ha coll’Argentina tanti rapporti di amicizia, di commercio e di sangue, che non possiamo non provare un vero sentimento di sollievo al sapere che la rivoluzione non impera più a Buenos Aires e che la piazza non si impone più al Governo. Tanto più è grande il sollievo, in quanto da qualche tempo ci eravamo abituati a considerare l’Argentina, insieme al Chile, come una eccezione degna di lode al regime di turbolenza e di rivoluzione permanentemente dominanti nel Sud-America. Quanto siano dannose le rivoluzioni e le lotte civili al progresso di un paese, sovratutto di un territorio vergine come l’Argentina, è ben noto; e noi sappiano come uno dei più gravi ostacoli che i nostri coloni incontrano nella loro opera di lavoro e di operosità siano appunto i cattivi sistemi di governo e di amministrazione della cosa pubblica, ed i mali della scarsa sicurezza e della non resa giustizia che in molte province hanno ancora profonde radici.

 

 

Fu perciò molto dolorosa l’impressione ricevuta dalle notizie di Buenos Aires per tutti coloro i quali speravano che l’Argentina, elevandosi al disopra del Perù, della Bolivia, del Paraguay, del Venezuela, ecc., fosse stabilmente ascesa alla condizione di uno Stato ordinato e tranquillo come quelli europei.

 

 

Il ritorno della calma ci fa sperare che i disordini recenti siano stati un episodio passeggero e che il Governo ne abbia tratto stimolo ad una politica più avveduta e meno fomentatrice di lagnanze e di rivolte sostanzialmente giustificate.

 

 

Poiché è d’uopo riconoscere che la colpa maggiore in tutto ciò che è avvenuto nella repubblica Argentina è del Governo, ecco brevemente esposta la questione che diede origine ai tumulti.

 

 

Nell’Argentina, che è uno Stato federale, esistono quindici Governi separati delle province ed uno centrale. Ognuna delle varie province ha un Congresso, composto di deputati e senatori in gran numero e tutti pagati lautamente, ha un potere esecutivo, con governatore e ministri e Ministeri. Ciò fa si che il costo della pubblica amministrazione sia enorme nell’Argentina, sovratutto in rapporto al numero degli abitanti, che è di soli 4 1/2 milioni, che gli appetiti di politicanti siano insaziabili e che le occasioni di spese siano moltiplicate all’infinito. Se si aggiunge che le province autonome avevano prima del 1890 gareggiato a fare opere pubbliche stravagantemente costose ed avevano perciò fatto ricorso ai capitali dell’Europa, si comprende come in Argentina fosse vivo il desiderio di regolare e diminuire l’onere di un debito ammontante a 388 milioni di pesos in oro equivalenti a quasi due miliardi di lire, portanti interessi variabili dal 3 al 6 per cento per una somma annua di 22 milioni e mezzo di pesos.

 

 

Il progetto di unificazione del debito pubblico, causa dei recenti tumulti, era appunto stato compilato dal ministro delle finanze, Berdue, dietro laboriose trattative condotte dall’ex-presidente Pellegrini in Europa. Le basi del progetto erano le seguenti: convertire una massa di debito pubblico di 345 milioni di pesos oro, ossia gran parte dei debiti nazionali e provinciali esistenti, in un solo consolidato di 435 milioni di pesos oro al 4 1/2 per cento, con un risparmio di onere annuo di circa 5 milioni, ottenuto mercé il ribasso dell’interesse medio e il prolungamento del periodo di ammortizzazione.

 

 

Subito cominciarono le critiche. Che necessità c’era di aumentare il capitale del debito da 345 a 435 milioni, ossia di ben 90 milioni di pesos?

 

 

È vero che si risparmiava qualcosa in interessi, ma ciò a danno delle generazioni future, che avrebbero dovuto rimborsare il capitale cresciuto. Si aggiunga che quei 90 milioni di maggior capitale sarebbero probabilmente andati a finire nelle tasche del Sindacato dei banchieri assuntori dell’operazione finanziaria.

 

 

E la provvigione parve enorme, e tanto maggior scandalo destò in quanto ben presto si disse che il Sindacato bancario cercava di influenzare l’opinione pubblica, corrompendo i giornali con vistose somme, le quali, naturalmente, venivano fornite dal guadagno che i banchieri speravano di trarre dall’operazione. Inoltre il sentimento di nazionalità, ardentissimo nell’Argentina, fu offeso dalla clausola secondo cui il Governo veniva obbligato a depositare ogni giorno una quota delle entrate doganali nel Banco della nazione; quasi che l’Argentina fosse già ridotta alla condizione di Stato bancarottiere, come l’Egitto o la Turchia. Finalmente si notò che l’unificazione del debito, se valeva a ridurre l’onere dei prestiti provinciali, non garantiva perciò che le province non contraessero altri prestiti e non mettessero in pericolo l’opera buona della nazione.

 

 

Per impedire nuovi sperperi e nuovi debiti, facili quando le province avessero la speranza di accollare i debiti, una volta fatti, alla nazione, sarebbe necessario togliere alle province il diritto di indebitarsi. Il che presuppone l’abbandono del sistema federale a favore del sistema unitario, come già si fece nel Cile. Alla quale riforma, veramente salutare, i politicanti argentini si oppongono fieramente, perché loro si toglierebbe una fonte inesausta di posti, di sinecure ed un mezzo di soddisfare le loro inesauste ambizioni.

 

 

I tumulti di Buenos Aires furono dunque una rivolta dell’opinione pubblica contro sistemi di Governo e contro corruzioni di politicanti innegabili. Gli uomini di Stato argentini dovrebbero capire la lezione e persuadersi che il Governo non è fatto per comodo loro e dei loro affigliati, ma per il bene del paese. Tanto più essi sono obbligati a mettersi su questa buona via in quanto i progressi dell’Argentina dipendono in modo assoluto dall’immigrazione del capitale e del lavoro d’Europa.

 

 

Ora è certo che né capitali né lavoratori immigrano in un paese male governato e dov’è sempre imminente il pericolo di rivoluzioni.

 

 

Ci telegrafano da Roma, 11, ore 21,35:

 

 

Si dice che, in seguito agli avvenimenti politici della repubblica Argentina, probabilmente una nostra Divisione navale si recherà a Buenos Aires.

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