Opera Omnia Luigi Einaudi

Il dovere morale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/01/1961

Il dovere morale

«Corriere della Sera», 19 gennaio 1961

 

 

 

Non intendo dir nulla intorno alla sostanza della scelta per le cosidette giunte difficili.

 

 

Quasi non intendo il significato delle parole usate nella disputa; e quei partiti od opinioni o correnti che sono detti comunemente «avanzati» o «progressivi» o di «sinistra» a me non paiono, supponendo che le parole usate abbiano un qualsiasi significato, «retrogradi» od «antiquati» o di «destra». Immagino tuttavia che ognuno dia a quelle parole un significato chiaro e fermo; e suppongo che ogni partito abbia ferma intenzione di attenersi in seguito ai principi enunciati nel programma o nelle promesse o negli affidamenti forniti agli elettori.

 

 

Spesso, purtroppo, i programmi elettorali sono una mescolanza di enunciazioni abbondanti incerte e contradditorie, le quali possono essere interpretate dagli eletti nei modi più svariati; epperciò, ad elezioni avvenute, gli elettori non si possono querelare se veggono gli eletti volere o deliberare od attuare propositi contrastanti con quelli che essi reputavano proprii dei programmi o premesse o affidamenti ricevuti quando si trattava di scegliere gli uomini degni di essere inviati al parlamento o nei consigli provinciali o comunali. Tanto meno si possono querelare poiché spesso, con parole diverse dette in toni diversi, tutti i partiti vogliono le medesime cose: combattere la disoccupazione, diminuire l’analfabetismo, promuovere l’incremento del reddito nazionale e distribuirlo meglio, avvicinare le condizioni del nord e del sud e via senza fine dicendo.

 

 

Esistono tuttavia alcuni punti fondamentali rispetto ai quali non v’ha dubbio.

 

 

La democrazia cristiana, e parlo di essa perché è il partito di maggioranza relativa, ha esplicitamente avvertito gli elettori che essa intendeva, giunta al potere al centro o nelle provincie o nei comuni, allearsi con i socialisti per costituire il governo o le giunte provinciali e comunali?

 

 

Se sì, nulla può essere obiettato al partito il quale intende osservare l’impegno assunto. Gli elettori, avvertiti, hanno voluto, mandando in parlamento o nei consigli quegli uomini, quella soluzione del problema del governo centrale ovvero locale. Se però l’avvertimento non è stato dato, e se invece esplicitamente o per l’implicito significato dei programmi esposti e degli affidamenti dati, gli eletti avevano dichiarato o lasciato intendere che essi volevano erigere una barriera contro l’avanzare dei comunisti e dei loro alleati; se era stato, esplicitamente o per consenso implicito dei più tra i candidati, dichiarato che l’alleanza o la collaborazione con i socialisti era subordinata al loro netto distacco dai comunisti, non ci sono smorfie che tengano. Non si può fare i bonzi meditanti in silenzio sulle mutate situazioni, le quali richiederebbero nuove soluzioni.

 

 

Esiste un solo obbligo per gli uomini di un partito che vogliono mutare atteggiamento ed allearsi o collaborare con chi era stato, prima delle elezioni, dichiarato reprobo od avversario. Può darsi che il mutamento sia conveniente o necessario nell’interesse presente o futuro del paese; ma il partito od il gruppo il quale si era dichiarato avverso, ha un solo dovere, perentorio ed assoluto: chiedere e ottenere, se si tratta di consessi locali, nuove elezioni municipali, ed in queste dichiarare esplicitamente di avere mutato opinione per ragioni, le quali nella coscienza di chi ha mutato opinione, sono gravi e decisive. Giudicheranno gli elettori, essi e non, frodolentemente, gli eletti.

 

 

Uno dei pochi vizi di quella cosa sciocca, detta «proporzionale», è rendere vano lo sforzo di chi vorrebbe tener fede alle promesse fatte; ché le dimissioni di chi avverte di avere opinione, su talun punto, diversa da quella della maggioranza del suo partito, giovano solo a far guadagnare in parlamento un posto a chi vien primo tra i non eletti nella medesima lista. Nei paesi sani, dove i parlamenti funzionano sul serio e nei quali non viene in mente a nessuno di abolire il collegio uninominale, il deputato il quale ha mutato opinione e vuole passare, ad esempio, dal partito conservatore a quello laburista o viceversa, ha il dovere morale di dimettersi e fare appello agli elettori, dichiarando i motivi del mutamento. Chi non si dimette è moralmente squalificato.

 

 

Conobbi un membro della camera inglese il quale, mutando per degne ragioni da laburista a conservatore, non si dimise, riflettendo che le elezioni generali erano prossime, come in verità furono.

 

 

Gli elettori, offesi da quella che essi reputarono violazione di un dovere morale categorico, non lo rimandarono in parlamento. Perciò dico che gli uomini, di qualsiasi partito, i quali consigliano o promuovono o deliberano una condotta, sia pure ritenuta in coscienza ottima, diversa da quella presentata prima agli elettori, sono gravemente colpevoli di slealtà morale e devono essere politicamente squalificati. Vi è nel momento presente, in Italia, un’altra ragione di squalifica. Tutti i partiti, salvo alcuni minori, sono oggi paladini delle autonomie regionali, provinciali e comunali.

 

 

Essendo da gran tempo persuaso che la istituzione delle regioni era vantaggiosa – e dissi su queste colonne le ragioni di impreparazione e di supposta urgenza per le quali l’esperienza delle quattro regioni speciali si palesò imperfetta e pericolosa, – vedo oggi senza stupore il partito comunista, che nella commissione dei settantacinque era stato, salvochè per le quattro regioni, avversario deciso delle autonomie regionali, divenuto fervido regionalista; e constato che tutti i grandi partiti sono, per convinzione antica o nuova, fautori delle autonomie locali.

 

 

Se così è, come non v’hà dubbio sia, la condotta di essi riguardante le giunte difficili è riprovevole. La scelta del sindaco e delle giunte, agli occhi degli autonomisti, è compito esclusivo dei consiglieri comunali; e, nelle provincie, di quelli provinciali.

 

 

L’ingerenza delle macchine centrali dei partiti, la loro pretesa che agli eletti locali si debba imporre tale o tale soluzione, è chiara violazione del principio autonomistico professato dai grandi partiti. La prepotenza centrale si manifesta spesso attraverso un garbuglio di distinzioni a fisarmonica tra il carattere politico e quello amministrativo dei sindaci e delle giunte: che è un garbuglio di parole senza senso. Parole in libertà, direbbe un amico mio.

 

 

Quale è la deliberazione, eccetto quelle, che sono il grosso, imposte dalla legge o dalla necessità, la quale non sia colorata di apprezzamenti, di idee, di interessi di luoghi, di persone, di ceti sociali? Ossia colorata di politica?

 

 

Quale è la più modesta strada di campagna, che possa essere deliberata sul solo fondamento di meri regolamenti o norme amministrative oggettive impersonali; che non tocchi interessi di borghi, di uomini, di famiglie? e cioè non sia il risultato di una bilancia di opinioni e di forze diverse e contrastanti?

 

 

Se non vogliamo un governo napoleonico centralizzato, giocoforza è che, entro i limiti della legge, regioni, provincie, comuni godano di autogoverni; che i magistrati che li amministrano siano scelti dagli eletti locali; che siano responsabili delle loro azioni e che non possano giustificarsi con la turpe parola: qualcuno mi ha messo a questo posto; ed io rispondo delle mie azioni anche a chi sta al di sopra dei miei elettori. Perciò la condotta di quei partiti i quali sovrappongono la loro volontà alla libera scelta, qualunque sia, dei consiglieri eletti in luogo, è condotta moralmente riprovevole; e sono contennendi gli uomini i quali, nei casi incerti,favoriscono o promuovono o vogliono una soluzione diversa da quella sola degna: l’appello agli elettori, ai quali sia dichiarato in maniera chiara e non equivoca la ragione dell’appello.

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