Opera Omnia Luigi Einaudi

Il grande esperimento

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/11/1944

Il grande esperimento

«L’Italia e il secondo risorgimento», 25 novembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 68-75

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 73-79

 

 

 

 

Venticinque anni fa, gli italiani furono posti dinnanzi ad un grande problema: il massimo problema che le società moderne debbono risolvere se non vogliono perire: l’immissione del popolo, di tutto il popolo nello stato. Non era un problema nuovo, né peculiare all’Italia. Un secolo innanzi Alessio di Tocqueville, traendo nel gran libro su La démocratie en Amérique le fila di quel che aveva visto negli Stati Uniti, si poneva, angosciato, il quesito: sopravviverà la democrazia, sopravviverà la civiltà quando la società non sarà più composta di proprietari, di industriali, di artigiani, di commercianti, di professionisti, di uomini indipendenti, ma di grandi masse umane proprietarie delle loro sole braccia, non attaccate da alcun vincolo materiale e spirituale alla terra, al borgo, alla città e pronte a darsi in braccio al demagogo che ad esse faccia promesse di benessere e di felicità?

 

 

Quarant’anni dopo, il grande storico Jacob Burckhardt, meditando nel suo studio basilese sulle sorti di Europa, vedeva ripetersi la vicenda dell’impero romano distrutto non dai barbari, ma dalle folle dei circhi avide di panem et circenses; e lo stato, per assicurare alimenti e divertimenti alle masse, s’era irrigidito, era divenuto una macchina colossale comandata dall’alto, priva di spontanea interiore, tutti servi del principe e da questi ordinati in cerchie ed in corporazioni chiuse e legati insieme da mortale meccanica solidarietà; finché, all’urto del barbaro, condotto talvolta da romani, fuggiti nelle selve germaniche in cerca di vita più sciolta e libera lo stato era caduto perché l’uomo il quale non ha in sé le ragioni di vita, non è capace di alzare il braccio per difendersi.

 

 

Angosciato anch’egli, Jacob Burckhardt chiedeva nel 1870: che cosa sarà dell’Europa quando le moltitudini andranno all’assalto dello stato dietro la guida dominatrice di un capo popolo?

 

 

Fra il 1912 ed il 1918 l’Italia aveva affrontato il grande problema, attribuendo il diritto di suffragio prima a tutti i maggiorenni forniti di un censo minimo e di studio elementare e poi a tutti i maggiorenni in genere ed anche ai minorenni i quali avessero combattuto nella grande guerra. Il corpo elettorale era salito improvvisamente da 3 a 9 e poi a 10 milioni di uomini; e fra essi un quarto erano analfabeti. Una improvvisa profonda mutazione del ceto politico si imponeva. Al luogo del gruppo ristretto di uomini probi, illustri gli uni per ingegno e per scritti, amati gli altri per le lunghe prove sofferte nelle galere e negli esili, sperimentati i più nelle cariche pubbliche amministrative, i quali avevano, tra l’indifferenza universale, compiuta la miracolosa opera del risorgimento, entrava sulla scena politica un ceto nuovo di uomini in gran parte ignoti; e tra non pochi demagoghi, i migliori di essi erano organizzatori operai e contadini, nuovi tuttavia alla pratica legislativa ed all’amministrazione dello stato.

 

 

L’esperimento del governo dei più, anzi di tutti, fu turbato e reso più aspro dalla guerra del 1914-18. Non sovratutto a causa delle sofferenze umane e delle perdite materiali.

 

 

Le perdite di uomini e le sofferenze dei mutilati e dei combattenti furono sopportate con animo virile. Le perdite materiali, limitate del resto al Veneto, non superarono la capacità di resistenza del paese. Siccome le spese di una qualunque guerra sono coperte esclusivamente con mezzi presenti; siccome è assurdo il concetto si possano costruire cannoni e fucili, fabbricar munizioni, vestire e nutrire soldati con mezzi futuri; così fu la generazione di uomini vissuta tra il 1914 ed il 1918 e, per qualche strascico di liquidazione, tra il 1919 ed il 1922, quella che sopportò tutto l’onere, tutta la fatica della condotta della guerra. In lire del 1914, quella guerra costò all’Italia 46 miliardi di lire (gli altri 19 furono pagati dalle anticipazioni di carbone, ferro, grano, cotone, lana, armamenti, ecc., fatteci dagli alleati a titolo di prestiti mai restituiti e quindi non gravanti sul reddito nazionale); onere enorme per un paese, il cui reddito annuo totale (somma dei redditi individuali di tutti gli italiani) era calcolato allora in 20 miliardi di lire. Dal 30 al 50 per cento del reddito nazionale fu assorbito dalle spese di guerra.

 

 

Ma l’onere non avrebbe lasciato traccia alcuna, se vi si fosse potuto provvedere con imposte e con prestiti propriamente detti. Finita la guerra, il reddito nazionale rimasto invariato avrebbe subito una non grande variazione nella sua distribuzione a causa del pagamento degli interessi del nuovo debito pubblico dai contribuenti ai creditori dello stato.

 

 

Non fu così, perché il sistema tributario preesistente al 1914 non era fornito della elasticità necessaria, ossia della capacità ad espandersi, la quale è data sovratutto da una ben congegnata imposta sul reddito complessivo, atta ad essere temporaneamente cresciuta da aliquote del 10 per cento ad altre più alte del 20, del 30, del 50 per cento del reddito. Insigne per altri rispetti, il sistema tributario italiano soffriva e soffre tuttavia per l’altezza grossolana delle aliquote sue anche in tempo di pace. Come aumentare il gettito di imposte sui terreni e sui fabbricati che, se si tiene conto dei cosiddetti centesimi addizionali comunali e provinciali, giungevano in pace al 20, al 30 e al 40 per cento del reddito, a seconda dei luoghi? Come triplicare o quadruplicare la massima imposta sul reddito, quella di ricchezza mobile, se questa era già, nella sua aliquota generale, del 20 per cento? Si quadruplica un 10 per cento; è difficile quadruplicare – eppur sarebbe necessario in tempo di guerra – un 20 od un 30 per cento.

 

 

Fu giuocoforza istituire la pessima tra le imposte, che fu il torchio dei biglietti. Non essendo riuscito a farsi consegnare a forza, con le imposte, o per invito, con i prestiti volontari, tutto il fabbisogno per la condotta della guerra, lo stato dovette stampare biglietti. All’incirca la quantità dei biglietti di banca fu, tra il 1914 ed il 1919, aumentata da 2,2 a 10 miliardi di lire. Lo stato poté così, con gli 8 miliardi di lire di biglietti, che al tesoro costarono solo le spese di carta e di stampa, recarsi sul mercato ed, in concorrenza con i cittadini provvisti di soli 2,2 miliardi di lire di potenza di acquisto, acquistare i beni ed i servizi a se stesso necessari.

 

 

La massa dei beni e dei servizi (reddito nazionale) prodotta ogni anno rimanendo la stessa, un po’ per volta, a mano a mano che i biglietti crescevano, si trovò di fronte non più due, ma tre e poi quattro e poi cinque, sei, sette, otto, nove e dieci miliardi di biglietti. Ossia i prezzi aumentarono e con essi aumentarono le quattro o cinque volte i redditi dei cittadini, i quali altro non sono se non la somma dei prezzi delle merci e dei servizi prodotti e venduti dai cittadini.

 

 

Il reddito del contadino è la somma, ad esempio dei prezzi dei quintali di grano da lui venduti; il reddito del medico è la somma dei prezzi (onorari) dei suoi servizi di medico. Moltiplicandosi i prezzi per cinque, si moltiplicano automaticamente per cinque i redditi.

 

 

Anche qui, i risultati sarebbero stati del tutto innocui se, nel 1919 tutti i redditi si fossero contemporaneamente visti moltiplicati per cinque. Sarebbe accaduto un fenomeno simile a quello che Alessandro Manzoni descrisse, parlando della folla che s’alzava in punta di piedi per vedere il gran cancelliere Ferrer quando nella carrozza portava in salvo il tremante vicario di provvisione: tutti alzandosi in punta di piedi per veder meglio, ognuno vedeva esattamente come prima.

 

 

Se tutti i redditi crescono nel tempo stesso da uno a cinque, ognuno resta nella medesima situazione sociale di prima. Sono mutati i nomi, sono mutate le voci numeriche delle cose; tutti paiono essere divenuti più ricchi per numero di lire ricevute o possedute; ma la massa dei beni e dei servizi acquistati con quelle tante più lire e invariata.

 

 

I risultati non furono tuttavia innocui; ché i prezzi ed i redditi non variano tutti insieme e tutti nella stessa misura. Vi sono redditi i quali restano fissi per ragion contrattuale: chi aveva dato a mutuo allo stato 100.000 lire e riceveva 3.500 lire di interesse annuo, con cui una famiglia di medio ceto poteva modestamente vivere, continuò a ricevere 3.500 lire svalutate e poté vivere per due o tre mesi, invece che per un anno. La rendita essendo perpetua, il creditore non poté chiedere alcun aumento di interesse. Chi poté, alla scadenza, farsi rimborsare il capitale, si trovò fra mano 100.000 lire svalutate, il cui reddito, anche se eventualmente cresciuto a 4.000 o 5.000 lire, ebbe però una potenza di acquisto grandemente inferiore a quella antica delle 3.500 lire pre-1914. I pensionati vecchi, provvisti di pensioni di 100 lire al mese – ed erano, allora, pensioni discrete -ottennero sussidi di caro vita di qualche decina o cinquantina di lire, insufficientissimi al cresciuto costo della vita. Gli impiegati stentarono a far aumentare gli stipendi da uno a tre ed alla fine, con i prezzi cresciuti a cinque, subirono un abbassamento nel loro stato sociale. Gli operai riuscirono meglio ad equilibrare salari con prezzi; ma tardi ed attraverso ad agitazioni ed a scioperi costosi e perturbati. Gli inquilini si avvantaggiarono a causa del vincolo dei fitti, a danno dei proprietari di case; gli affittuari a danno dei proprietari dei terreni.

 

 

Fu, sovratutto, la distruzione e l’impoverimento dei ceti medi, viventi in parte del frutto dei risparmi compiuti in passato da essi medesimi o dai loro vecchi. Fu l’inoculazione di un microbo sociale distruttivo: il paragone insidioso che ogni uomo fa delle proprie mutate sorti con quelle di ogni altro uomo. Sinché una società è stabile, sinché le mutazioni dei redditi, dei ceti, delle industrie, delle professioni sono graduali, vi può essere lotta, emulazione, anche malcontento che sono sempre stimolanti; ma non esiste la rabbia di tutti contro tutti, che conduce alla dissoluzione sociale. Anche chi ha veduto i propri redditi crescere da uno a cinque e perciò non ha sofferto nulla per la svalutazione monetaria, non si volta indietro a commiserare coloro i quali sono rimasti fermi all’unità od hanno visto aumentare i propri redditi solo da uno a due, a tre od a quattro e sono perciò immiseriti. No. Costui guarda innanzi, a coloro, i quali, per essere agricoltori coltivatori diretti o fittavoli, o industriali, o commercianti o speculatori hanno profittato subito e meglio dell’aumento dei prezzi ed hanno visto aumentare i propri redditi a sei, a sette, a dieci. Chi si locupletò, col crescere del reddito a dieci, guarda al fortunatissimo, che fruì del moltiplico venti. Nessuno è contento. Tutti sono dominati dall’ansia del futuro incerto. Scriveva nel 1771 Ferdinando Galiani, forse l’italiano di più vivo pronto penetrante ingegno del secolo XVIII: «Se la svalutazione monetaria violasse soltanto la fede pubblica, sarebbe peccato venialissimo. Essa fa ben peggio: essa uccide la gioia pubblica… La gioia interna del cuore dell’uomo, la vera gioia è il risultato del riposo e della sicurezza che l’uomo sente rispetto al suo stato ed al suo avvenire. Se il valore monetario di tutte le cose è mutato, il turbamento si impadronisce di tutti i cuori, tutti ignorano la propria sorte e la gioia scompare dal mondo» (a p. 280 dei Dialogues sur le commerce des blés).

 

 

Questo era lo stato degli animi nel momento nel quale dovevano vedersi i primi frutti del grande esperimento del suffragio universale iniziato nel 1912 e sospeso dalla guerra. Le riforme sociali, le quali avrebbero potuto aver luogo con successo in un ambiente di fervida discussione; le lotte del lavoro (alcuni miei articoli di prima e d’allora furono poi raccolti con questo titolo di Lotte del lavoro da Piero Gobetti, indimenticabile allievo) che dovevano essere e sarebbero state feconde di progresso sociale, caddero in un clima stravolto di odi passionali di classi contro classi, tutte scontente e in aspettazione dell’avverarsi del millennio, dell’avvento del Salvatore.

 

 

Le prime risultanze del nuovo parlamento eletto dalle masse popolari, improvvisamente chiamate a partecipare alla vita dello stato, furono causa di terrore per molti. Grossi e piccoli, ricchi e mediocri ed umili tremarono: che sarà di noi, fuscelli travolti nella bufera? Piccoli episodi parvero giganteschi. Ricordo Giovanni Faldella, antico giornalista, scrittore di penetranti schizzi di Montecitorio e di lievi novelle a sfondo piemontese, in vecchiaia senatore ed assiduo frequentatore della biblioteca di quel corpo, dirmi un giorno: hai visto che nella camera ci sono persino dei tiraborse? Alludeva ad una domanda di autorizzazione a procedere per lieve furto presentata contro un neo deputato. Al mite Faldella, passato intatto, come la grande maggioranza dei parlamentari suoi coetanei, attraverso gli scandali della Banca romana, quella domanda di autorizzazione a procedere pareva annunciatrice della decadenza dell’elettorato che inviava e della camera che accoglieva uomini imputati di cosa tanto degradante.

 

 

Pochi si sottraevano all’impressione pessimistica. Giustino Fortunato, grande e da tutti onorato parlamentare tra il 1880 ed il 1920, persisteva invece nell’aver fiducia. Egli che aveva avuto famigliarità con molti venerandi uomini del risorgimento ed aveva assistito a discussioni non seconde a nessuna delle più famose della camera dei comuni, sosteneva che le violenze verbali ed i tumulti della nuova camera sorta dal suffragio universale non dovevano spaventare, ma invece essere presagio di bene. Era necessario che gli uomini nuovi, che gli organizzatori di leghe operaie e contadine mandati in parlamento dai loro compagni a popolare le file dei socialisti e dei cattolici, facessero il loro tirocinio, si addestrassero al lavoro di far leggi e di controllare il governo. Tra quegli uomini nuovi sarebbero certo emersi amministratori seri e governanti esperti, e sarebbero stati non inferiori persino agli uomini della antica destra, i quali furono sinora il fior dei nostri consessi legislativi. Migliori perché scelti non dai pochi, ma dai più.

 

 

Questa era la sentenza vera che ancora oggi deve darsi di quell’esperimento. Era naturale, era fatale che in quei primi anni venissero alla ribalta della scena politica i demagoghi, i promettitori larghi, gli annunciatori di messianici rivolgimenti; ma era altrettanto certo che negli uffici, nelle commissioni i dove si compie il vero lavoro legislativo, avrebbero finito per imporsi i lavoratori seri e che, alla scuola degli anziani, dal mondo operaio e contadino sarebbero venuti fuori politici di prim’ordine, capaci di trovare le vie per portare, senza scosse distruttive, il nostro paese a più alto grado di vita civile. Ed era certo che, scomparso il disavanzo dal bilancio dello stato in virtù della legge Giolitti-Soleri del 27 febbraio 1921, abolitrice del prezzo politico del pane, e tolta così la causa “unica” la quale faceva lavorare il torchio dei biglietti, avrebbe avuto termine la svalutazione della lira. Chiuso il ciclo dei disavanzi e delle degradazioni monetarie, gli uomini avrebbero ricominciato a guardare fiducia nell’avvenire, e l’esperimento del governo di tutti avrebbe potuto compiersi in un ambiente economiche non più turbato dallo spettro dell’abisso, nel quale tutti avevano paura di cadere ad ogni istante.

 

 

L’esperimento non poteva allora essere condotto a termine, e non potrà esserlo in avvenire, senza lotta e senza dolori. I ceti possidenti, i ceti medi avrebbero dovuto rassegnarsi a dimostrare ad ogni giorno, ad ogni ora il proprio diritto a vivere in virtù dell’opera ogni giorno ed ogni ora compiuta; avrebbero dovuto rassegnarsi a guardare in faccia questa verità: essere oramai tramontato “per sempre” il sogno della vita tranquilla all’ombra di un investimento sicuro dei propri risparmi.

 

 

Per non avere voluto riconoscere la verità che la vita è lotta continua – e tutti in quei fatali anni dal 1919 al 1922, tutti senza eccezione di ceti o classi, di ricchi e di poveri anelarono alla tranquillità, alla sicurezza, alla prosperità riposante – per aver voluto quasi unanimi sottrarsi alla lotta, che abbatte i deboli ma innalza i forti, gli italiani furono condotti ad un porto di pace. Pace sì, ma quella che regna a Varsavia. Fu la pace del reclusorio.

 

 

Junius

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