Opera Omnia Luigi Einaudi

Il lodo Bianchi del Soresinese

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 26/08/1921

Il lodo Bianchi del Soresinese

«Corriere della Sera», 26 agosto 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 309-314

 

 

 

I giornali di parte cattolica hanno già dato il nome di «lodo storico» a quello pronunciato a Cremona il 10 agosto da un collegio arbitrale composto dal prof. Giovanni Bianchi direttore della cattedra ambulante di agricoltura di Brescia, presidente, dal dott. Luigi Morelli, rappresentante degli agricoltori e dal dott. Carlo Del Bo, direttore dell’ufficio agrario e rappresentante degli agricoltori. Il Bianchi chiude una lunga agitazione, cominciata nell’estate dell’anno scorso nel Soresinese, una delle più progredite zone agricole dell’Alta Italia e culminata nell’occupazione delle cascine da parte dei contadini effettuatasi nel giorno di san Martino (11 novembre 1920) al grido lanciato dall’on. Miglioli: il contadino non più salariato, l’agricoltore non più padrone. Oggi l’on. Miglioli sembra esultare, perché «i principii proposti dall’organizzazione bianca, per l’abolizione del salariato e del patronato sono stati interamente accolti» e dice che il lodo Bianchi segna il trionfo e l’inizio effettivo della «riforma agraria». Esso segna altresì, non è inutile ricordarlo, la fine dell’occupazione violenta delle cascine da parte dei contadini ed il ritorno della terra ai proprietari e della direzione dell’impresa agraria agli affittavoli. Sarebbe interessante, per apprezzare al suo giusto valore il lodo Bianchi, conoscere quali sieno stati i risultati della gestione diretta, e pare, esclusiva della impresa agricola da parte dei contadini in questi nove mesi dopo il san Martino del 1920. In tutto questo periodo, proprietari e fittabili furono, a quanto si scrive, espulsi dalla terra o resi impotenti. I contadini operarono liberamente, seguendo i consigli dell’on. Miglioli e dei suoi organizzatori; comprarono e vendettero bestiame; spesero, incassarono. Quali i risultati per la produzione? per i guadagni dei contadini stessi, per lo stato dei terreni? per il patrimonio zootecnico? Sarebbe molto interessante se il prof. Bianchi, il quale di tutti questi elementi deve essere oggi perfettissimo conoscitore, volesse darci una storia obbiettiva, a base di dati, di fatti, di interrogatori, dei nove mesi di occupazione bianca nelle terre del Soresinese. Sarebbe, la sua, una pagina preziosa di storia economica e sociale.

 

 

Dubito molto che i contadini del Soresinese – a cui era stata promessa «l’abolizione del salariato», e che si erano abituati a ritenersi i veri padroni della terra, che avevano «occupata» e che gerivano coi «consigli di cascina» -, trovino oggi interamente realizzate le promesse ricevute e le aspirazioni per nove mesi attuate. Può darsi che i risultati, se economicamente cattivi od incerti, dei nove mesi di occupazione facciano loro sembrare preferibile il ritorno parziale all’antico. Il quadro della «Riforma Agraria» – quante lettere maiuscole e quali parole solenni, arieggianti alla legge agraria dei Gracchi, per indicare uno esperimento di compartecipazione! – parmi questo: La proprietà della terra (fondo rustico, caseggiati, piantagioni, immobili in genere) resta del proprietario. Questi continua ad aver diritto di percepire il canone di fitto contrattualmente stipulato. Il conduttore del fondo, se è un affittavolo, ossia una persona diversa dal proprietario, ha, correlativamente, nei rapporti con i suoi contadini, diritto di prelevare dal prodotto, ossia di calcolare come spesa, il fitto pagato al proprietario. Anzi ha un diritto maggiore. Se il contratto di affitto ebbe inizio a san Martino 1919 o san Martino 1920 o comincerà al san Martino 1921, egli preleverà il canone effettivamente stipulato, più le spese di contratto. Ma se il contratto è anteriore, può accadere che il canone stipulato sia diverso – e per lo più inferiore, dato l’aumento dei prezzi avvenuto poi – da quello che oggi sarebbe fissato. In tal caso l’affittavolo avrà diritto a prelevare e quindi a tenere per sé, sotto deduzione del canone convenuto da versare al proprietario, una somma uguale al fitto che oggi dovrebbe essere stabilito «sulla base del merito del fondo in rapporto alle condizioni attuali del mercato». Il criterio è corretto, e non v’è nulla a ridire. Esso implica che la «rendita fondiaria» non è oggetto di divisione fra affittavolo e contadini. Essa è di spettanza della terra e, per essa, di chi ne ha la proprietà (proprietario) o il dominio utile «pro tempore» (affittavolo). Il canone «corrente» se differente dal canone «contrattuale» dovrà essere stabilito d’accordo tra affittavolo e due rappresentanti dei coloni. In caso di disaccordo, giudicherà inappellabilmente un collegio probivirale, designato per tutte le contestazioni intervenienti fra le parti e composto da un presidente, nominato dal ministro per l’agricoltura, da un membro padronale designato dal comizio agrario di Cremona, e da un membro contadino scelto dalla Banca del lavoro e della cooperazione sedente a Milano. Ricordisi sempre che la necessità della fissazione per accordo o per lodo sorge in pratica solo quando l’affittavolo intenda prelevare per sé un canone maggiore di quello che egli ha convenuto di pagare al proprietario, essendo quest’ultimo troppo basso e non in rapporto al merito del fondo. Se l’affittavolo non pretende nulla più del canone stipulato, i probiviri non intervengono.

 

 

La necessità dell’intervento sorge anche in un altro caso: quando il fondo sia gerito in economia dallo stesso proprietario. In tal caso non c’è canone di fitto contrattuale. Occorre fissarlo per analogia, perché è ammesso nel lodo Bianchi come del resto era evidente, che il proprietario debba in tal caso prelevare per sé, come antiparte, una somma uguale al canone che egli avrebbe percepito, se avesse affittato altrui il fondo. In caso di disaccordo tra il proprietario – conduttore ed i due delegati dei contadini decidono i probiviri.

 

 

Messo così fuori contestazione il proprietario del fondo, restano da regolare i rapporti fra conduttore (affittavolo) e contadini. Oggi, nel contratto normale di affitto il conduttore non riceve nulla a titolo di stipendio. Piglia tutto quel che resta, dopo pagate le spese: canone di fitto al proprietario, salari ai contadini, semenze, concimi, ecc. ecc. Col lodo Bianchi, conduttore e contadino diventano compartecipanti, come si dirà; e quindi occorreva stabilire uno stipendio al conduttore, in compenso del suo lavoro di direzione ed organizzazione. Egli perciò, oltre a godere gratuitamente della casa, dell’orto e rustico, della legna, del latte e dei mezzi di trasporto per i bisogni della famiglia, riceverà un compenso in denaro o in natura, uguale a 12,50 lire annue per ciascuna delle prime 400 pertiche, 8 lire per ogni pertica in più sino alle 800 e 6 lire per ogni ulteriore pertica aggiunta. Lo stipendio risulta di 5.000 lire per un fondo di 400 pertiche (26 ettari), di 8.200 lire per un fondo di 800 pertiche e di 10.600 lire per un fondo di 1.200 pertiche. Egli avrà inoltre diritto al rimborso delle spese vive che dovrà sostenere per l’andamento dell’azienda, nonché di una congrua diaria per i giorni nei quali dovrà assentarsi dal paese per le necessità dell’azienda stessa.

 

 

Anche i contadini riceveranno il loro salario. Pare che a questo riguardo debbano restare ferme le disposizioni del patto colonico 1919-20, concordato con la federazione provinciale dei contadini aderenti alla Unione del lavoro, relative ai diversi compensi e comodi spettanti ai contadini. L’unica cifra risultante dal lodo è quella di un salario annuo di 2.500 lire per i famigli, con ettolitri 5,5 di granoturco ed ettolitri 5 di frumento di spesa. Su di che non c’è osservazione da fare, essendo ogni confronto difficilissimo tra lavoro e lavoro, regione e regione.

 

 

Pagate le spese, il canone al proprietario, il compenso al fittavolo, il salario ai contadini, il bilancio dell’azienda si può chiudere con un utile o con una perdita. Il lodo Bianchi sancisce il principio che utili e perdite si debbono dividere fra il conduttore ed i contadini compartecipanti. La parola compartecipanti deve essere notata perché dal lodo risulta che il sistema della compartecipazione potrà entrare in funzione solo se richiesto da almeno 5 contadini per ogni 400 pertiche e non può essere esteso a più di 5 contadini per ogni 400 pertiche. Per essere ammessi nel novero dei contadini partecipanti bisogna: 1) in un primo momento non esserne esclusi da una speciale commissione composta dall’affittavolo e da un delegato dei contadini; 2) in seguito ed al principio di ogni anno agrario essere ammessi dall’assemblea dei contadini già partecipanti. Gli esclusi e i non ammessi lavorano come avventizi, ricevendo i salari normali, senza diritto a compartecipazione. Questo sistema, nel linguaggio del lodo, si chiama «della più utile selezione nei coloni desiderabile agli effetti dell’industria».

 

 

Per entrare nel novero dei compartecipanti, ogni contadino, ammesso come sopra, dovrà versare nelle mani del conduttore 4.000 lire, di cui 2.000 lire entro l’ottobre 1921, 500 lire entro l’ottobre 1922, e così di seguito 500 lire all’anno fino a completamento delle 4.000 lire. Questa somma giuridicamente, nei confronti del conduttore e dei terzi, ha soltanto la figura di un credito del colono verso il conduttore. In sostanza, è un conferimento da parte dei contadini a costituire il capitale dell’azienda. Il contadino, se ha l’obbligo di versare almeno 4.000 lire, ha facoltà di effettuare versamenti superiori, sino al massimo di metà del capitale totale di conduzione (escluso il capitale terra) investito nell’azienda.

 

 

Fatte queste premesse, la ripartizione degli utili netti e delle perdite non presenta difficoltà.

 

 

C’è una divisione annua ed una divisione finale, al termine del contratto di affitto del fondo. A tale scopo, il contratto di lavoro dei contadini compartecipanti viene prorogato, quando al termine manchino almeno tre anni agrari intieri, sino alla fine del contratto di affitto in corso. Nei casi in cui ciò non possa farsi, si applicano norme particolari.

 

 

La divisione annua degli utili netti, depurati delle spese, perdite ed ammortamenti, si fa così:

 

 

  • a)il 25% ad un fondo di riserva;
  • b) un interesse eguale al saggio ufficiale dello sconto, più il 2% (oggi, in tutto l’8%) al capitale netto investito dal conduttore;
  • c) altrettanto al capitale (quota) investito dai coloni compartecipanti;
  • d) il resto, diviso tra conduttore e coloni compartecipanti nelle stesse proporzioni in cui stanno i rispettivi compensi (salari + interessi sui capitali e quote sotto b e c).

 

 

La divisione finale si fa così:

 

 

  • a) innanzi tutto si integra, fino all’8%, come detto sopra, l’interesse ricevuto da ambo le parti, per il caso in cui in qualcuno degli anni non si fosse potuto arrivare a tale punto, in modo che la media dell’interesse annuo per tutti gli anni sia dell’8%;
  • b) quel che resta, si divide, come è detto sopra, in proporzione dei salari ed interessi rispettivi.

 

 

Come può esserci un resto finale, se ogni anno gli utili netti sono ripartiti?

 

 

In primo luogo, può esistere un fondo di riserva, accumulato durante gli anni della conduzione.

 

 

In secondo luogo, può esserci una differenza fra il penultimo e l’ultimo inventario delle scorte ed altre attività investite nell’azienda. Supponiamo che le scorte all’11 novembre 1921 valessero 100.000 lire e che, per semplicità di calcolo, non siano variate in seguito. All’11 novembre 1925 (data, per ipotesi, della fine del contratto di fitto) si apre una gara tra conduttore e contadini partecipanti per sapere a chi dovranno rimanere le scorte. Chi offre di più ne rimane padrone. Supponiamo che la massima offerta sia di 120.000 lire (non importa da chi delle due parti fatta). La differenza fra lire 100.000 valutazione iniziale e lire 120.000 valutazione finale, ossia 20.000 lire è considerata come utile dell’azienda: e come tale va diviso fra le due parti con i criteri già accennati.

 

 

Può darsi che, sia annualmente, sia al termine del contratto, invece di un utile salti fuori una perdita di gestione. Essa, in primo luogo consuma le riserve. Esaurite queste, viene ripartita in proporzione ai capitali conferiti da ambe le parti. La parte spettante ai coloni verrà imputata alle quote da essi versate. Ove le perdite giungano a consumare il 60 per cento delle quote versate dai coloni, questi, in assemblea generale, dovranno scegliere tra la reintegrazione delle quote ovvero la liquidazione alla fine dell’anno in corso del contratto di compartecipazione.

 

 

Il contratto di compartecipazione che ho cercato di esporre con la massima obbiettività e senza dimenticare alcuna clausola essenziale, fila diritto per quanto tocca la logica formale. Entro questo schema logico dedotto dalle norme ordinarie della contabilità agraria in un contratto di società, quale materia viva verserà la realtà umana? Qui sta il punto difficile a prevedersi. Il passato conta rarissimi lampi in un’oscurità tenebrosa e l’avvenire è quasi imperscrutabile.

 

 

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