Opera Omnia Luigi Einaudi

Il messaggio dopo il giuramento

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/05/1948

«Risorgimento liberale», 13 maggio 1948

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 3-5

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Buenos Aires, Asociacíon Dante Alighieri, 1965, pp. 35-38[1]

Nella seduta comune della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, del mercoledì 12 maggio 1948, il presidente della Repubblica lesse il seguente messaggio:

Signori senatori, signori deputati!

Il giuramento che ho testé pronunciato, obbligandomi a dedicare gli anni, che la costituzione assegna al mio ufficio, all’esclusivo servizio della nostra comune patria, ha una significazione la quale va al di là della scarna solenne sua forma.

Dinnanzi a me ho l’esempio luminoso dell’uomo insigne che per il primo ha coperto, con saggezza grande, con devozione piena e con imparzialità scrupolosa, la suprema magistratura della nascente Repubblica italiana. Ad Enrico De Nicola va il riconoscente affetto di tutto il popolo italiano, il ricordo devoto di tutti coloro i quali hanno avuto la ventura di assistere ammirati alla costruzione quotidiana di quell’edificio di regole e di tradizioni senza le quali nessuna costituzione è destinata a durare. Chi gli succede ha usato, innanzi al 2 giugno 1946, ripetutamente del suo diritto di manifestare una opinione, radicata nella tradizione e nei sentimenti suoi paesani, sulla scelta del regime migliore da dare all’Italia; ma, come aveva promesso a se stesso ed ai suoi elettori, ha dato poi al nuovo regime repubblicano voluto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione. Il trapasso avvenuto il 2 giugno dall’una all’altra forma istituzionale dello stato fu non solo meraviglioso per la maniera legale, pacifica del suo avveramento, ma anche perché fornì al mondo la prova che il nostro paese era oramai maturo per la democrazia; che se è qualcosa, è discussione, è lotta, anche viva, anche tenace fra opinioni diverse ed opposte; ed è, alla fine, vittoria di una opinione, chiaritasi dominante, sulle altre.

Nelle vostre discussioni, signori del parlamento, è la vita vera, la vita medesima delle istituzioni che noi ci siamo liberamente date; e se v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da voi è questa di non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte, torto e ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi. Giustino Fortunato, uno degli uomini che maggiormente onorarono il mezzogiorno e questa camera, sempre fieramente si leva contro le calunnie di coloro i quali, innanzi al 1922, avevano in spregio il parlamento perché in esso troppo si parlava; ed ascriveva a sua somma ventura di aver molto imparato ascoltando colleghi, di lui tanto meno dotti, ed a merito dei dibattiti parlamentari di aver creato un ceto politico, venuto su dal suffragio a poco a poco allargato e già divenuto quasi universale, un ceto politico migliore di quello che, all’alba del risorgimento, era stato fornito dal suffragio ristretto.

Or qui si palesa il grande compito affidato a voi, che avete il grave dovere di attuare i principi della costituzione ed a me, che la legge fondamentale della Repubblica ha fatto tutore della sua osservanza.

Tra le due date, del 1848 e del 1948, ricordate nel giorno centenario da ambedue i vostri presidenti, è nato un problema nuovissimo, che nel secolo scorso grandi pensatori politici avevano dichiarato insolubile: quello di far durare sistemi democratici quando a votare ed a deliberare sono chiamate non più ristrette minoranze di privilegiati ma decine di milioni di cittadini tutti uguali dinnanzi alla legge.

Il suffragio universale parve ed ancor pare a molti incompatibile con la libertà e con la democrazia. La costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida a questa visione pessimistica dell’avvenire.

Essa afferma due principi solenni: conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza. A quest’opera sublime di elevazione umana noi tutti, parlamento, governo e presidente siamo chiamati a collaborare. Venti anni di governo dittatoriale avevano procacciato alla patria discordia civile, guerra esterna e distruzioni materiali e morali siffatte che ogni speranza di redenzione pareva ad un punto vana. Invece, dopo aver salvata, pur nelle diversità regionali e locali e pur dolorosamente mutilata, la indistruttibile unità nazionale dalle Alpi alla Sicilia, stiamo ora tenacemente ricostruendo le distrutte fortune materiali e per ben due volte abbiamo dato al mondo una prova ammiranda della nostra volontà di ritorno alle libere democratiche competizioni politiche e della nostra capacità a cooperare, uguali tra uguali, nei consessi nei quali si vuole ricostruire quell’Europa donde è venuta al mondo tanta luce di pensiero e di umanità. Signori senatori, signori deputati, volto lo sguardo verso l’alto, intraprendiamo umilmente il duro cammino lungo il quale la nostra tanto bella e tanto adorata patria è destinata a toccare mete ognor più gloriose di grandezza morale, di libera vita civile, di giustizia sociale e quindi di prosperità materiale. Ancora una volta si elevi in quest’aula il grido di Viva l’Italia!


[1] Con il titolo Mensaje dirigido a las Cámaras reunidas en sesión conjuncta [ndr].

Torna su