Opera Omnia Luigi Einaudi

Il Mezzogiorno ed il tempo lungo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 21/08/1960

Il Mezzogiorno ed il tempo lungo

«Corriere della Sera», 21 agosto 1960

Cassa per il Mezzogiorno. Dodici anni (1950-1962), Vol. VI, Il nuovo volto del Sud, Bari, Laterza, 1962, pp. 391-397

 

 

 

L’affermazione fatta nell’articolo su L’automobile per tutti di qualche giorno fa, mi ha procurato, insieme a qualche lettera, una domanda di Giovanni Ansaldo sul «Mattino» di Napoli: se è vero che i minori salari nel mezzogiorno, in confronto a quelli correnti ed ai più alti auspicati nel triangolo Torino-Genova-Milano debbano giovare all’Incremento dell’industria meridionale, come mai, dopo dieci anni di sforzi, dopo tanto dispendio della Cassa del mezzogiorno, la distanza fra il nord ed il sud, invece di scemare, è cresciuta?

 

 

Il reddito lordo pro capite nelle regioni centro-settentrionali era nel 1950 di 361 e crebbe nel 1958 a 528 mila lire con un aumento assoluto di 167 mila lire: laddove lo stesso reddito lordo nelle regioni meridionali da 224 mila lire nel 1950 crebbe solo a 320 mila, ossia di 96 mila lire. I settentrionali migliorarono nel frattempo il reddito a testa di 167 mila lire, i meridionali di sole 96. A tanto giovarono i capitali investiti dalla Cassa del mezzogiorno? A crescere i redditi individuali nel sud meno di quanto, senza largizioni statali particolari, crebbero nel nord? In verità quegli aiuti, osservano taluni, non si fermarono nel mezzogiorno, ché le commesse di materiali, di macchinari, la richiesta di beni di consumo particolarmente durevoli, l’impiego di tecnici e di dirigenti profittarono sopratutto all’economia del triangolo settentrionale, sicché i denari della Cassa finirono per rifluire al nord, lasciando in secco le zone centro-meridionali. L’osservazione non calza; ché, se non sbaglio, il triangolo industriale incassò denaro, ma diede macchinari; i suoi tecnici furono pagati coi denari della Cassa ma prestarono servigi. Si trattò di uno scambio fra valori reputati equivalenti; i venditori non perdettero, ma neppure gli acquirenti. Come in tutti gli scambi economici, si deve presumere che entrambi i contraenti, nord, e sud, abbiano guadagnato.

 

 

Se si fa astrazione di siffatto argomento, dal vago sapore mercantilistico (un paese se si arricchisce, locupletandosi di moneta o trattenendo in paese moneta) fa d’uopo osservare che le cifre possono essere diversamente interpretate. È vero che i redditi settentrionali crebbero a testa da 361 a 528 e cioè di 167 mila lire; e quelli meridionali da 224 a 320 ossia di sole 96 mila lire; e che 167 è maggiore di 96; e che la distanza fra le 528 settentrionali e le 320 meridionali del 1958 ossia 208 mila lire è maggiore della differenza fra le rispettive 361 e 224 del 1950 che è di sole 137 mila lire; e che quindi il distacco fra il nord ed il sud è nell’intervallo di tempo ‘cresciuto. Ma è vero altresì che l’aumento proporzionale o percentuale fra le 361 del 1950 e le 528 del 1958 fu nel nord del 35,1 per cento, laddove la differenza fra le 224 del 1950 e le 320 del 1958 fu nel sud del 42,8 per cento. Val di più, nel correre; l’aumento assoluto o l’aumento proporzionale? A guardare le cose da vicino, – e cosa sono otto anni nella storia se non un tempo breve? – pare corra di più l’aumento assoluto. A guardarle nel tempo lungo, come prognostico per l’avvenire, sembra corra di più colui che più avanza proporzionalmente. Chi corre, aumentando il passo del 43 per cento ogni otto anni, è sicuro di raggiungere colui il quale aumenta il passo, nello stesso tempo, solo del 35 per cento.

 

 

Occorrerà all’uopo un tempo non breve, e chi si lamenta di non aver raggiunto la meta in otto anni va contro alla logica. Sempre accade che gli avanzamenti economici siano disuguali; e c’è chi arricchisce di più e chi di meno. Se tutti avanzano, non ha ragione dì lamentarsi colui il quale, pur procacciando il meglio, non riesce a mantenere 11 passo con i più abili corridori. Se i più abili e fortunati rimanessero fermi o retrocedessero, ì ritardatari precipiterebbero. Nelle contrade che impoveriscono o stagnano, i poveri vanno a fondo.

 

 

La disputa odierna richiama il ricordo della controversia fra Antonio Scialoja, fuoruscito napoletano e professore di economia nella università torinese e Agostino Magliano (divenuto poi Magnani e per lunghi anni ministro del tesoro con De Pretis nell’Italia Unita) funzionario non ultimo nel dicastero finanziario del reame di Napoli. Tenui le imposte, moderato il debito pubblico, usitate le monete d’oro e d’argento nel comune commercio, non numerosi gli impiegati statali, ben remunerati i magistrati, il bilancio dello stato in avanzo, diceva il Magnani, il quale raffrontava il moderato regime napoletano, alle imposte dure piemontesi e all’incremento rapido del debito pubblico nel regno sardo. Sì, è vero, replicava Scialoja, in Piemonte le imposte sono dure e crescenti, più che a Napoli; sì, il debito pubblico cresce perché bilancio sardo si chiude da anni in disavanzo. Ma qui si ampliano i porti di Nizza: e di Genova e si crea quello della Spezia; qui si costruiscono ferrovie e se ne meditano altre; qui si intraprende l’opera gigantesca del traforo delle Alpi. Qui ferve la vita industriale e l’agricoltura compie progressi notabili.

 

 

Lo Scialoja aveva ragione nel descrivere con calore le opere che tra il 1850 ed il 1860 si intraprendevano in Piemonte per la iniziativa fervida irrequieta del Conte di Cavour. Ma erano opere di lunga lena, destinate a fruttare nel tempo lungo. Oggi si chiamano, con parola impropria, sovra ed infrastrutture, quasiché fossero destinate a star sopra, a galleggiare, ad interferire sopra o con qualche altra cosa che sarebbe quella veramente sostanziale e feconda e, si pretende, rapidamente feconda. Laddove le opere veramente feconde, perché vengono prima e senza di esse nulla si fa, sono quelle che non paiono fruttifere di reddito o di aumento di reddito, salvo che a lunga scadenza e si chiamano: giustizia, sicurezza, ordine, libertà. Senza opere siffatte, le quali costano imposte e non fruttano nulla, i proprietari di terra con seminerebbero, gli imprenditori non azzarderebbero i risparmi non ancora esistenti, i lavoratori rimarrebbero disoccupati. Su queste opere (cosiddette sovrastrutture) fondamentali, che stanno alla base di ogni società civile, se ne innestano altre, che son quelle di cui abbisogna il mezzogiorno: rimboschimento per assodare la terra che lungo tutto l’Appennino è uno sfasciume, che se ne va a mare; bonifiche per ricuperare la terra malarica e paludosa, strade per consentire ai coltivatori di vendere i loro raccolti e perciò produrli; e sovratutto scuole per trasformare il lavorante, pronto a far tutto e quindi disadatto a qualunque occupazione specifica, in lavoratore di mestiere, che tutti a gara si contendono.

 

 

Tutto ciò costa allo stato ossia ai contribuenti ed è inetto a dar frutti rapidi. A rimboschire e rinsaldare le terre appenniniche, a ricostituire la terra sulle pendici denudate dalle acque di talune zone alte siciliane, occorrono non anni, ma decenni; a bonificare le piane, difese dai boschi montani ricostituiti e dalle praterie rinsaldate sottostanti, non basta il breve tempo; a mantenere le strade in terreni mal fermi ed a dotare le arterie principali di buone strade comunali e vicinali di avviamento ai borghi ed ai poderi, importa un’opera assidua, che mai non ha tregua.

 

 

Sovratutto a creare, dove non c’è, ed a perfezionare la scuola, la fretta non serve. Non basta stanziare nel bilancio della pubblica istruzione milioni e miliardi per costruire edifici scolastici ed assoldare insegnanti. Siamo appena al principio dell’opera. Dove sono le università, non le grandi congreghe di decine di migliaia di studenti tumultuanti in aule dove i professori non riescono a far udire la loro voce e dove tre o forse più volte all’anno l’insegnamento tace, perché i giovani sono occupati a preparare e dar esami e gli insegnanti attendono a sorvegliare i volonterosi assistenti incaricati di fare domande ed ascoltare risposte; bensì le piccole e medie, assai più numerose di quelle odierne, bene organizzate, fornite di laboratori e di biblioteche, dove gli insegnanti conoscano e controllino gli studenti ad uno ad uno; sicché da esse non escano «dottori», tali perché forniti di un papiro privo di qualsiasi valore, ma giovani istruiti, con o senza titolo dottorale, ma capaci di rendere servigio altrui?

 

 

Per creare l’università formatrice, occorre scegliere e formare assai uomini atti e pronti ad insegnare ed alieni dalle professioni le quali consentono onorari più larghi degli stipendi universitari. La formazione della pianta «professore», sia delle università, come dei ginnasi e dei licei e delle scuole di ogni varietà tecnica, e degli insegnanti elementari è impresa ardua ed a lunga scadenza; così come quella del rimboschire e del bonificare. Si chiedono scuole professionali, tecniche e di arti e mestieri. Dove sono gli insegnanti capaci ad insegnare quelle arti? Dove sono i politecnici e gli istituti superiori professionali, attrezzati a formare gli insegnanti delle scuole di arti e mestieri? Dove sono gli ingegneri, i capi tecnici, gli operai periti vogliosi – e all’uopo incoraggiati con remunerate licenze dal loro datoli di lavoro – di insegnare a mezzo tempo o la sera quei procedimenti, quei metodi che non si imparano in nessuna scuola, che essi soli sono capaci di far apprendere coll’esempio e «col contatto diretto con gli scolari apprendisti?». Stanziare miliardi e pretendere che rimboschimenti, strade, bonifiche e scuole diano frutti copiosi immediati in dieci od anche in vent’anni è mera illusione quando non sia mero imbroglio demagogico.

 

 

L’Italia aspettò a lungo per godere i risultati dell’opera compiuta in passato. Dopo il decennio cavouriano dal 1850 al 1860, venne la costruzione dello stato unito, con la destra sino al 1876, con la sinistra ed il trasformismo sino alla fine del secolo. Furono anni in cui si costruì la macchina dello stato, si aprirono ferrovie, si pagarono imposte dure, si sopportarono disavanzi che parevano terrificanti. Lunga parve e fu l’attesa ed il compenso si ebbe solo nel primo decennio del secolo presente. Il compensò parve miracoloso alla generazione la quale non sempre ricordava le strettezze del cinquantennio precedente; sicché se ne attribuì il merito agli uomini che governarono nel decennio.

 

 

Il mezzogiorno toccherà, in maniera che noi non sappiamo prevedere, mete che oggi paiono fuor d’ogni speranza. Di nuovo accadrà che gli uomini viventi in quel tempo non ricorderanno le fatiche durate prima quando si costruiva per l’avvenire.

 

 

Né ci si illuda che, ad opera dello stato o di privati, rapidamente sorgano le imprese produttive capaci di dar reddito immediato. Molto potrà fare lo stato dando aria al mercato, riducendo i dazi protettivi, astenendosi dal dar premi ai più procaccianti e così stando alieno dal fomentare il sorgere di attività monopolistiche, combattendo nel «mercato comune» le tendenze a stabilire barriere protezionistiche contro il mondo esteriore; ma il più, che è la creazione dell’humus favorevole, nel momento opportuno, alla rapida crescita, economica, che è, cioè, il lento infittirsi di imprese individuali, il quale provoca il sorgere più agevole dì imprese affini, atte a giovarsi l’un l’altra e che da sole nel deserto non sono concepibili,- oggi questo è uno dei maggiori fattori di progresso nel triangolo e, se non erro, gli economisti hanno preso l’abitudine, senza spiegare al pubblico di che cosa si tratti, di appellarlo «economie esterne» – quella creazione è anch’essa lenta.

 

 

Per ricreare una seconda volta, dal duecento In poi, dalla grande palude boscosa padana, dopo la distruzione, medievale dell’opera agraria trasformatrice romana, le magnifiche terre irrigate piemontesi e lombarde, occorsero secoli. In minor tempo gli agricoltori meridionali seppero offrire all’invidia altrui l’agricoltura a quattro piani della Campania felice e della plana di Nocera (erbe ed ortaggi al pian terreno, agrumi al primo piano, vigne ad alta spalliera maritate ad alberi al secondo, e noci al terzo piano), miracolo mai più visto al mondo e frutto dell’assiduo lavoro e del coniugar l’acqua al sole. Quegli agricoltori costruissero sul sasso di Amalfi e di Sorrento, sulla cornice palermitana e sulla costa da Messina a Catania agrumeti stupendi. Vogliamo dubitare che, se lo stato adempirà al suo ufficio che è di creare le premesse della vita civile, i meridionali non sappiano compiere miracoli ancora più stupendi?

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