Opera Omnia Luigi Einaudi

Il mio piano non è quello di Keynes

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1933

Il mio piano non è quello di Keynes

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1933, pp. 129-142

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 221-234

Lucio Villari, Il capitalismo italiano del Novecento, Laterza, Bari, 1972, 1975, pp. 279-298

Selected economic essays, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 124-136

 

 

 

 

The Means to Prosperity, by JOHN MAYNARD KEYNES. (Macmillan and Co., St. Martin’s Street, London, 1933, pag. 37. Prezzo 1 sc. net).

 

 

Il “saggio” del Keynes… Adopero la parola “saggio” non avendone trovata altra migliore al luogo dell’inglese tract e del francese pamphlet. Ma in realtà “saggio” non traduce bene il concetto di scrittura d’occasione, strumento di battaglia politica od economica, che è caratteristica degli scritti brevi veementi, nei quali furono condotte battaglie pratiche o dichiarati principi teorici. La letteratura economica, la grande letteratura economica è tipicamente composta di saggi. Chi facesse un dizionario delle scoperte economiche, colla citazione delle fonti, in cui primamente quelle scoperte furono enunciate, citerebbe assai più brevi saggi che grossi libri. La parola “libello” era un tempo usata, assai propriamente, per tal sorte di scritti brevi e significativi; ma non si può usar più, a causa del malo uso fattone.

 

 

Il “saggio” del Keynes, dunque, può essere riassunto in proposizioni così concatenate:

 

 

I. – Supponiamo che la crisi odierna sia dovuta ad un difettoso funzionamento dei congegni mentali psicologici, i quali conducono alle decisioni ed agli atti di volontà degli uomini; che siano un paradosso i tanti operai edili disoccupati quando tanto bisogno v’ha di case; che il problema non sia di mezzi e di volontà di lavorare; non sia né tecnico, né agricolo, né commerciale, né organizzativo, né bancario. Ma sia un problema dello spirito, ed assomigli all’imbarazzo di due abili conducenti di autocarri in perfetto stato, i quali, incontrandosi in ampio spazio, non san proseguire perché, ignorando le leggi della strada, cozzano per non sapere chi debba andare a destra e chi a sinistra. Il paradosso economico odierno sta nella mancanza di contatto tra fattori produttivi disponibili – uomini disoccupati, macchine inoperose, terre incolte, materie prime inutilizzate – e desiderio o bisogno dei beni che i fattori disoccupati produrrebbero, se fossero occupati.

 

 

II. – Normalmente, il contatto tra fattori produttivi e desiderio di beni è posto da imprenditori in cerca di profitti. Il meccanismo economico è messo in moto da imprenditori, i quali, acquistando sul mercato fattori produttivi e vendendo prodotti, compiono nella società odierna l’ufficio del padre di famiglia nelle società patriarcali chiuse, del priore o guardiano nei conventi medievali, del ministro della produzione in una società collettivistica. Ma l’imprenditore opera, ossia corre rischi, quando vede la possibilità di un profitto, di una differenza positiva fra il prezzo ricevuto dai prodotti venduti ed il costo dei fattori produttivi acquistati. Stabilito il contatto, messa in moto l’impresa, questa basta a sé stessa, perché i fattori produttivi consumano quanto essi medesimi producono. Non materialmente gli stessi beni, ché questi sono dati in scambio di beni prodotti da altri; ma in sostanza gli stessi sotto mutata specie.

 

 

Oggi il contatto non si opera, perché l’imprenditore non spera profitti. La macchina economica è incantata. I fattori produttivi, beni strumentali e uomini, rimangono disoccupati ed i desideri degli uomini restano insoddisfatti. I fattori produttivi occupati devono assoggettarsi a taglie enormi per mantenere in vita quelli disoccupati. Occorre disincantare la macchina.

 

 

III. – Poiché, al disincanto, non giova il normale motivo economico del profitto, fa d’uopo trovare uno spediente. Vuolsi dar lavoro ad un milione di disoccupati? Basta, a 10.000 lire a testa,[1] un fondo di 10 miliardi di lire. Se gli imprenditori privati non osano, osi lo stato. Sui 10 miliardi spesi, lo stato è sicuro di ricuperarne, tra quel che risparmia in minori sussidi ai disoccupati e quel che lucra per cresciute imposte sul cresciuto reddito dei contribuenti, almeno cinque.

 

 

IV. – Supponiamo che lo stato ottenga a mutuo da qualcuno che lo possiede (o lo crea) il fondo dei 10 miliardi di lire; supponiamo che il mutuo sia concesso a lunga scadenza ed a tenue (intendendosi tenue probabilmente qualcuno dei più bassi saggi storicamente conosciuti) saggio di interesse. Ecco utilizzati i fattori produttivi, già esistenti e disponibili: terre da bonificare, specchi d’acqua da trasformare in porti, materiali edilizi da ridurre a case finite e uomini disoccupati da applicare alle terre, alle acque ed alle case. Ecco creato il miracolo del rimettere in moto la macchina economica, senza aumentare i prezzi dei fattori produttivi e dei prodotti. La spesa pubblica si esaurirebbe in gran parte nel crescer prezzi o nell’importare di più dall’estero, se non esistessero margini di fattori produttivi disoccupati. (If there were little or no margin of unemployed resources, then … the increased expenditure would largely waste itself in higher prices and increased imports. Riproduco il testo, perché dopo assai rompimento di capo, conclusi che il sugo del discorso è in queste poche parole). Se invece esistono veramente uomini e fattori produttivi disoccupati, il contatto operato tra essi non è cagione di dannose perturbazioni in seno ad altri gruppi sociali. Sarebbe come se il milione di disoccupati potesse essere trasportato in un isola finora deserta ed ivi provvedesse da sé alla propria vita. Qual danno subirebbe il resto della collettività? Anzi avrebbe due vantaggi: risparmiare la falcidia dei sussidi di disoccupazione e distribuire su di sé e sugli ex disoccupati, invece che su di sé soltanto, il costo delle spese pubbliche (imposte).

 

 

Il problema si complicherebbe se esistessero solo operai disoccupati e non anche fattori materiali produttivi disponibili; perché in tal caso la nuova domanda da parte dei 10 miliardi di lire di fondo statale si rovescierebbe sulla massa fissa degli altri fattori produttivi e ne farebbe crescere il prezzo. Lo stato si metterebbe in concorrenza con gli imprenditori privati, scompigliandone tutte le basi di calcolo economico, con conseguenze non facilmente prevedibili. Nell’ipotesi fatta, nulla di tutto ciò: esistono uomini, macchine, terre,navi, ferrovie, porti inoperosi; che non producono, perché dissociati. Mettiamoli a contatto; e coi beni prodotti, gli uomini disoccupati alimenteranno sé stessi, senza nulla chiedere altrui, anzi cessando di ricevere da altri elemosina. Probabilmente, anzi, il prodotto totale crescere in misura più che proporzionale al maggior lavoro prestato. Ché, se, dove 9 milioni di uomini lavorano ad alimentarne 10, il prodotto unitario è 90 milioni di unità, dove lavorano tutti 10, per la più perfetta divisione del lavoro e il maggior stimolo al lavoro dovuto alla invariata falcidia delle imposte, il prodotto unitario sarà probabilmente 100 + x milioni di unità.

 

 

V. – Pare dunque che a risolvere pienamente il paradosso economico odierno manchi solo un anello della catena: i 10 miliardi di lire di fondo necessario allo stato per far domanda sul mercato dei fattori produttivi atti a creare il nuovo prodotto.

 

 

In paesi antiquati e da economisti antiquati, come lo scrivente, la risposta alla domanda: dove trovare i 10 miliardi sarebbe: presso i risparmiatori. Fino a qualche anno fa, quando si parlava di risparmio, il pensiero correva al solito bonus pater familias, il quale guadagna all’anno al mese od al giorno 100 e, spendendo 80, reca i restanti 20 alla cassa di risparmio od alla banca. Se, a furia di 20, lungo un anno si costituisce un fondo di 10 miliardi, ecco lo spediente, il device cercato ed utile a mettere in moto la macchina. Qualche minore attrito dovrà essere superato: perché lo stato possa farsi mutuare 10 miliardi, occorrerà probabilmente che il fondo del nuovo risparmio annuo sia parecchio superiore ai 10 miliardi, essendo incredibile che non esista altresì una domanda privata di risparmio, non foss’altro da parte di quegli ostinati che, pure in tempo di crisi, continuano ad essere afflitti dalla malattia della pietra o da quella del campo bene sistemato o della bottega in perfetto ordine e simiglianti pazzie anti economiche, che sono però la ragion di vita di tanti più uomini che non si creda. All’uomo della strada ed agli economisti antiquati pare dunque assurdo trovare a prestito 10 miliardi, se prima i 10 miliardi non siano stati messi da parte e non siano tuttora disponibili. Senza la lepre non si fanno pasticci di lepre.

 

 

VI. – Pare invece che nei paesi avanzati i pasticci di lepre si facciano ora con i conigli. Ho l’impressione cioè che da qualche tempo gli economisti inglesi siano assidui alla nobile fatica di cercar conigli da sostituire alle lepri. Quando sentono parlare di risparmio all’antica, fanno smorfie. O che non ci sia bisogno di tanta fatica o di tanta rinuncia, perché le disgrazie attuali non sono dovute a carestia, terremoti e guerre e neppure a difetto di fattori produttivi, ma al difettoso operare di una qualche rotella nella testa degli uomini; o che sia disperata impresa indurre gli uomini a risparmiare, con i redditi tanto falcidiati e con le imposte così alte (incomes are so curtailed today and taxation so much increased, that many people are already, in the effort to maintain their standard of life, saving less than sound personal habits require), sta di fatto che molti economisti d’avanguardia rivolgono a preferenza la loro attenzione al surrogato di risparmio piuttostoché al risparmio inteso nel senso tradizionale. Che cosa sia cotal surrogato di risparmio non è facile spiegare. È un certo che di nebuloso, un composito di concetti vecchi e plausibili e di astrazioni nuove. La paternità, involontaria e ad altro scopo indirizzata, risalirebbe ad un economista di non grande fama, appartenente alla pleiade ricardiana, James Pennington, il quale nel 1829 (in una nota comunicata a Tommaso Tooke e da questi pubblicata in appendice allo scritto A letter to Lord Grenville on the effects ascribed to the resumption of cash payments on the value of the currency, London, John Murray, 1829) avrebbe dimostrato che le banche possono, entro certi limiti, crear credito. La teoria secondo la quale prima il risparmiatore mette da parte 20 lire (o 10 miliardi tra tutti i risparmiatori di un paese insieme), poi le reca alla banca e finalmente la banca le dà a mutuo all’imprenditore o, se questi sia timido, allo stato per mettere in moto la macchina economica incantata, sarebbe una teoria antiquata o, per lo meno, insufficiente. C’è, accanto a questa, e nei paesi moderni parrebbe di ben maggior portata, un’altra teoria, la quale direbbe che prima la banca apre un fido al cliente (imprenditore o stato), poi il cliente trae assegni sulla banca fino a concorrenza del fido ricevuto, poscia il beneficiario dell’assegno se ne fa accreditare l’importo presso la stessa o un’altra banca e così finalmente nascono i depositi in banca; in media i depositi presso le banche essendo conseguenti ed equivalenti alle aperture di credito concesse dalle banche medesime.

 

 

VII. – Ecco afferrata la coda del coniglio indispensabile a manipolare il pasticcio desiderato. Bisogna dar modo alle banche di fare un’apertura di credito di 10 miliardi. Se gli imprenditori privati non vogliono saperne di chiedere credito neppure al 3% od al 2%, perché temono di perdere sulle imprese ad essi consigliate, sia concesso il credito allo stato, il quale non ha d’uopo di fare conti di profitti e costi e può trovare un profitto (minori sussidi ai disoccupati, maggior gettito delle imposte), dove ai privati non sarebbe concesso.

 

 

VIII. – Ma le banche non possono aprir crediti, sia alla maniera antica dopo aver ricevuto depositi, sia alla maniera nuova dell’aprir previamente crediti sapendo che saranno poi coperti da depositi, se non osservino talune regole prudenziali insegnate dalla esperienza. Per ogni 100 lire di depositi, occorre vi siano solo 100 y lire di aperture di credito, y essendo la riserva in contanti (biglietti) o in depositi a vista presso gli istituti di emissione che le banche prudenzialmente devono serbare per essere sempre pronte a far fronte alle domande di rimborso dei depositi; che è vizio, quello di farsi rimborsare, comune ai depositanti fatti all’antica ed a quelli venuti fuori alla moderna. E cioè i depositi e quindi le aperture di credito sono una funzione, un multiplo delle riserve possedute dalle banche ordinarie di credito. Se l’esperienza, a cagion d’esempio, consigliò una riserva del 10%, le banche ordinarie possono, tra brevi e lunghe, consentire aperture di credito solo fino al multiplo di nove volte le riserve possedute. Anche i teorici della «banca la quale crea il credito» ammettono che la potestà creatrice iniziatrice della banca non sia arbitraria.

 

 

IX. – A sua volta, la riserva delle banche ordinarie, consistendo in biglietti emessi dagli istituti centrali di emissione o in depositi a vista presso i medesimi istituti, non è una quantità arbitraria. Essa è una frazione della massa totale di biglietti emessi in un paese, il resto trovandosi sparpagliato in numerosissime piccole o grosse riserve di biglietti, in ogni dato momento esistenti nelle tasche o nei cassetti di privati cittadini o di enti diversi.

 

 

X. – La massa totale dei biglietti circolanti in un paese è, dal canto suo, un multiplo della riserva oro posseduta dall’istituto centrale di emissione. Se l’esperienza o le leggi, le quali dovrebbero essere esperienza cristallizzata, consigliano agli istituti centrali di emissione di tenere una riserva uguale al 40% dei biglietti, l’ammontare totale dei biglietti non può essere maggiore di due volte e mezza l’ammontare della riserva.

 

 

Anzi, poiché l’esperienza insegna regole elastiche invece che rigide, cova in tempi pericolosi crescere la proporzione della riserva ai biglietti. In tempi normali, se la riserva oro è di 10 miliardi, i biglietti circolanti possono spingersi a due volte e mezza, ossia a 25 miliardi. In tempi di crisi, quando per far fronte a richieste di pagamenti all’estero, la riserva oro si è ridotta ad 8 miliardi e si è in ansia per ulteriori riduzioni, l’istituto centrale riduce prudentemente il multiplo a due e la massa dei biglietti emessi a 16 miliardi.

 

 

XI. – Rifacendo, ora, il cammino all’inverso, scopriamo facilmente l’espediente, il rimedio, il device di Keynes:

 

 

  • se ad una riserva oro di 8 miliardi, corrisponde, al multiplo 2 ossia alla proporzione del 50%, una massa di biglietti circolante di 16 miliardi;

 

  • se dei 16 miliardi circolanti, 4 si trovano nelle casse delle banche ordinarie di credito (casse di risparmio ed altri istituti di credito compresi) e costituiscono la riserva biglietti delle banche medesime;

 

  • se ad una riserva biglietti di 4 miliardi delle banche ordinarie corrisponde un’attitudine di queste ad aprir credito per l’ammontare di 4 x 9 = 36 miliardi; quale condizione è sufficiente per raddoppiare quest’ultima attitudine, ossia per portare le aperture di credito da 36 a 72 circa?

 

La risposta è ovvia: aumentare sufficientemente le riserve oro dell’istituto centrale;

 

  • se queste sono cresciute da 8 a 10, ecco l’istituto centrale, più tranquillo, pronto a spingere la massa di biglietti emessa dal multiplo 2 a quello 2,5 e la circolazione a 25 miliardi;

 

  • se dei 25 miliardi circolanti, un quarto, come dianzi, ossia 6,25 miliardi, costituisce la riserva biglietti delle banche ordinarie di credito;

 

  • se le banche ordinarie di credito, forti di una riserva tanto cresciuta, spingono il loro multiplo di creazione di aperture di credito da 9 a 12, ecco le aperture di credito balzare a 6,25 x 12 = 75 miliardi. Ossia, ecco più che raggiunto l’effetto desiderato.

 

 

XII. – Quella ora ordinatamente ragionata è la genesi della proposta sensazionale di Keynes: si crei una massa di 5 miliardi di dollari oro di biglietti internazionali ad opera di un istituto centrale mondiale di emissione, la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea od altra. I biglietti dovrebbero essere accettati alla pari dell’oro; non dovrebbero entrare nella circolazione effettiva; sarebbero usati esclusivamente dalle tesorerie degli stati partecipanti, dagli istituti centrali di emissione e sarebbero equiparati alla riserva oro propriamente detta degli istituti medesimi.

 

 

I biglietti dovrebbero essere forniti a mutuo, contro obbligazioni oro di identico ammontare a saggio bassissimo di interesse, a quei  governi i quali ne facessero richiesta e si obbligassero ad abolire qualsiasi restrizione sui cambi esteri e ogni dazio e contingente doganale che fosse stato introdotto non a causa di una data politica economica, ma esclusivamente per difendersi contro importazioni da paesi esteri a valuta deprezzata o contro esportazioni di capitali.

 

 

I governi e gli istituti di emissione potrebbero, subordinatamente al ritorno alla libertà dei cambi ed a quella degli scambi di merci, fare dei biglietti ricevuti l’uso che reputassero migliore: pagar debiti esteri urgenti, ridare equilibrio al bilancio, espandere le emissioni interne cartacee sulla base della cresciuta riserva aurea.

 

 

Ogni stato avrebbe diritto a ricevere a prestito una quota dei cinque miliardi la quale fosse proporzionale alla massa di riserva aurea posseduta nel 1928, fino ad un massimo di 450 milioni di dollari per ognuno di essi. Ogni stato sarebbe responsabile, in proporzione alla propria quota, delle perdite subite nella gestione della nuova massa monetaria.

 

 

XIII. – Fin qui, il ragionamento fila diritto. Pericolosamente come sulla lama di un rasoio, ma diritto. Ad un tratto, dal cielo cade un bolide: «il consiglio direttivo [del nuovo istituto centrale mondiale di emissione] dovrebbe far uso delle sue facoltà discrezionali rispetto all’ammontare complessivo dei biglietti emessi [al disopra o al disotto dei 5 miliardi di dollari oro] o rispetto al saggio di interesse da caricare sulle obbligazioni oro rilasciate dagli stati aderenti, esclusivamente allo scopo di evitare, per quanto sia possibile, un rialzo nel livello dei prezzi oro dei prodotti fondamentali costituenti il commercio internazionale al disopra di un livello convenuto – forse quello del 1930 – posto tra il livello presente e quello del 1928».

 

 

Tutto un capitolo del saggio era infatti stato dedicato dal Keynes ad illustrare i modi di rialzare i prezzi. Che sia conveniente anzi necessario rialzare il livello generale dei prezzi non è messo in dubbio neppure per un istante dall’autore, il quale non reputa neppure necessario indicare le ragioni di tale meta. Sir Arthur Salter, dichiarandosi in un bell’articolo sullo Spectator del 24 marzo favorevole oggi alla proposta del Keynes osserva, ragionando dal punto di vista della odierna situazione di fatto inglese: che una espansione creditizia è oggi opportuna, perché il mondo si trova al fondo della fase discendente del ciclo economico, che già sono corsi tre anni di restrizioni di credito, i quali hanno ridotto i prezzi ed i costi ed eliminate le imprese dubbie e cattive, che non si può consentire ancora ai prezzi di andar giù in faccia ad un immenso onere di debiti e di pesi fissi di ogni specie, che perciò quello presente o non più è il momento buono per dare con una politica coraggiosa di credito e di lavori pubblici una scudisciata ai prezzi; che oggi, a differenza del 1931, l’Inghilterra può prendersi il lusso di prestiti grandiosi e di lavori pubblici, il bilancio dello stato essendo tornato all’equilibrio ed essendo granitico il credito pubblico.

 

 

XIV. – Non discuto il valore del bolide in sé stesso; ma affermo che esso è un corpo estraneo rispetto al ragionamento proprio del Keynes. Il quale moveva dalla premessa dell’esistenza di fattori produttivi disponibili, che occorresse far muovere con uno espediente, senza toccare il livello generale dei prezzi. Che altro volevano dire le parole sopra riprodotte che «se non vi fosse stato un margine di risorse disponibili, la maggiore spesa [degli enti pubblici o di privati, non monta] si sarebbe esaurita anzi sprecata [would largely waste itself] nel provocare aumenti di prezzi ed aumenti di importazione?». E prima aveva insistito che la nuova spesa [in lavori pubblici] doveva essere aggiuntiva e non sostitutiva della spesa che sarebbe altrimenti fatta dai privati; e che, per scemare la disoccupazione, la nuova spesa doveva rivolgersi a fattori produttivi disponibili. «Se le risorse del paese fossero già interamente utilizzate, gli acquisti aggiuntivi [ad opera dei lavori pubblici] darebbero principalmente luogo a più alti prezzi ed a cresciute importazioni».

 

 

XV. – La caduta del bolide non ha, si ammetta, importanza troppo grande. Giova segnalarla, a mettere in luce come il Keynes sia incerto fra due scopi della sua proposta: dar modo agli stati di potere, con prestiti pubblici, occupare i fattori produttivi disponibili, senza variare i prezzi, oppure dare una spinta ad una politica espansionistica di credito, la quale spinga i prezzi all’insù, ricrei i profitti e perciò lo stimolo ad agire per gli imprenditori privati. Interpretando nel modo più conforme all’intenzione dello scrittore, si può anche ritenere che il bolide non sia un corpo estraneo, ma una seconda fase del processo logico. La catena compiuta sarebbe in tal caso la seguente:

 

 

a)    si crea la nuova massa monetaria internazionale;

 

b)    la riserva, così cresciuta, degli istituti di emissione consente una politica creditizia espansiva;

 

c)    se ne giovano dapprima gli stati per dare, con prestiti e lavori pubblici, lavoro ai disoccupati ed utilizzare i fattori produttivi inerti;

 

d)    in seguito a questa prima spinta, la fiducia rinasce, i prezzi risalgono, spuntano speranze di profitti, gli imprenditori si svegliano. La macchina economica arrugginita, sollecitata dall’olio dell’ottimismo, si muove piano piano dapprima e poi via via più velocemente. La crisi è finita.

 

 

La ricostruzione del pensiero dell’insigne economista di Cambridge non ha per iscopo di facilitare la critica ai particolari della sua proposta principale. In quanto essa dice che nei punti di avvallamento della curva del ciclo economico, una politica di lavori pubblici ad opera dello stato è conveniente, essa riespone una teoria classica. Con le opportune cautele riguardo ai limiti della efficacia dei lavori pubblici, ed alla necessità di non continuare nei lavori quando la curva del ciclo dalla valle fonda volga a risalire verso il monte, la teoria classica è anche pacifica.

 

 

Volli, invece, ricostruendo, offrire un esempio tipico della pericolosità del camminare diritti sui fili di rasoio. Tutta la catena poggia, nella sua parte principale, sulla verità della proposizione prima, che la crisi presente sia dovuta al difettoso funzionamento di qualche congegno mentale psicologico dell’agire umano; e nella sua parte aggiunta (il bolide della proposizione XIII) che a ricrear profitti e quindi a ridare, dopo il primo impulso dei lavori pubblici statali, incentivo all’operare spontaneo degli imprenditori giovi il rialzo del livello generale dei prezzi. Se queste due premesse sono vere, la sequenza è vera. Se il mondo è sossopra perché gli uomini disoccupati non riescono a mettersi a contatto con le cose disponibili, è logico che basta a raddrizzarlo e farlo muovere lo spintone, l’espediente, il device di Keynes. Sia qualsivoglia lo spediente, aperture di credito a spizzico delle banche o la reflazione all’ingrosso con diluvio internazionale di carta stampata, lo spediente può giovare. Contro una malattia dello spirito, l’incantesimo, il medico deve farsi stregone ed operare con uguali arti di incanto. Tra le stregonerie tiene, giustamente, gran luogo la fabbrica di carta stampata. Poiché i popoli non credono più, dopo l’esperienza del dopoguerra, nella carta stampata nazionale, esorcizziamoli con carta stampata a timbro internazionale. Se ciò giovi a fugar dal loro corpo il demonio del pessimismo e dell’inerzia, esorcizziamo.

 

 

È però la crisi davvero una malattia dello spirito dovuta a cotal specie di incanto? Keynes riconosce, sul bel principio del saggio, che «se la nostra povertà fosse dovuta alla carestia o al terremoto od alla guerra, se a noi mancassero cose materiali od i mezzi di produrle, noi non potremmo sperare di trovare le vie del ritorno alla prosperità altrove fuorché nel duro lavoro, nel risparmio e nello spirito inventivo». Ammette per un momento e per ipotesi astratta, solo per negare che quelle siano le cause della malattia: «In realtà, le nostre difficoltà sono notoriamente di un’altra specie». E segue la proposizione sopra esposta come prima. Io direi che “notoriamente” le cause dei nostri malanni sono proprio quelle da lui negate: la guerra e le malattie da essa inoculate nello spirito degli uomini, ossia ingordigia, voglia di improvvisi arricchimenti, impazienza della dura fatica, incapacità alla rinuncia ed al risparmio, intolleranza del lungo aspettare il frutto della fatica; spirito di nazionalismo intollerante, il quale ha chiuso ogni popolo in sé stesso ed ha inutilizzato gran parte delle risorse naturali esistenti, producendo gli stessi effetti delle carestie d’un tempo; fanatismi religiosi in Russia, in Cina ed in India, religiosi anche se in forme nuove comunistiche o xenofobe o gandhiste, che fanno preferire agli uomini di star senza cibo e senza panni, pur di non aver contatti pericolosi con infedeli. Come si può pretendere che la crisi sia un incanto, e che a manovrare qualche commutatore cartaceo l’incanto svanisca, quando tuttodì, anche ad avere gli occhi mediocremente aperti, si è testimoni della verità del contrario? Si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevole, di imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quanti esempi di meritata punizione! Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori ed imprenditori incompetenti, od avventati, o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri, ma resistono. Gran fracasso di rovine invece attorno a chi fece in grande a furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi per sostenere l’edificio di carta, fabbricò altra carta e vendette carta a mezzo mondo; a chi, invece di frustare l’intelletto per inventare ed applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione riscosse plauso e profitti inventando catene di società, propine ad amministratori-comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali. L’incanto c’è stato e non è ancora rotto; ma è l’incanto degli scemi, dei farabutti e dei superbi. A iniettar carta, sia pure carta internazionale, in un mondo da cui gli scemi, i farabutti ed i superbi non siano ancora stati cacciati via se non in parte, non si guarisce, no, la malattia; ma la si alimenta ed inciprignisce. Non l’euforia della carta moneta occorre; ma un pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori, l’applicazione inventiva dei sopravvissuti. Fuor del catechismo di santa romana chiesa non c’è salvezza; dalla crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù.

 

 

Giovasse, almeno, la stregoneria della carta stampata a ricrear profitti ed a ridar perciò impulso all’opera degli imprenditori privati! Ahime! Ché anche qui la catena del ragionamento pare spezzata! Sembra, a sentir taluno, che gli anelli siano:

 

 

a)    sulla base delle cresciute riserve, le banche crescono le aperture di credito a prezzo mite;

 

b)    i lavori pubblici condotti a mezzo del credito danno la prima spinta ai prezzi;

 

c)    il rialzo dei prezzi ricrea i profitti o la speranza dei profitti;

 

d)    la rinnovata speranza dei profitti dà impulso allo spirito di intrapresa privata.

 

 

La proposizione c: il rialzo dei prezzi ricrea i profitti è vera soltanto nell’ipotesi che i lavori pubblici condotti a mezzo del credito spingano in su precisamente quei prezzi i quali devono crescere per ristabilire l’equilibrio. La mancanza di profitti non proviene dal fatto che i prezzi siano bassi, ma dal fatto ben diverso che essi sono squilibrati fra di loro. Se tutti i prezzi fossero ribassati del 50% – o, per ogni bene, nelle proporzioni necessarie a tener conto delle condizioni, nel frattempo mutate, di produzione e di domanda – la crisi non esisterebbe; ché si può vendere in profitto a cinquanta come a cento, se i prezzi dei fattori produttivi sono pure scemati a cinquanta. La crisi e la mancanza dei profitti nascono dallo squilibrio dei prezzi, dal fatto che taluni prezzi non ribassarono o non furono lasciati ribassare; e, poiché i prezzi sono reddito per gli uni e costo per gli altri, molti perdono e perdono soprattutto gli imprenditori. Un rialzo dei prezzi che fosse dovuto a lavori pubblici compiuti per mezzo di inflazione creditizia lascerebbe sussistere la sproporzione fra prezzo e prezzo, ossia fra costi e ricavi. Forse la crescerebbe.[2]

 

 

Se è vero, ad esempio, che talune derrate agricole e talune materie prime minerarie sono ribassate troppo in relazione a taluni prodotti industriali, ai prezzi del lavoro e dei servizi pubblici (imposte) ed agli interessi dei debiti, sarebbe necessario che la domanda derivante dai nuovi mezzi di spendere offerti dalla creazione della nuova massa monetaria si rivolgesse esclusivamente verso i beni ed i servigi relativamente deprezzati. Un programma cosiffatto è nell’ordine delle possibilità umane? Esistono strumenti di misurazione raffinati abbastanza per valutare gli squilibri dei prezzi fra merce e merce? Esistono strumenti adatti a distinguere il ribasso di prezzo proveniente da squilibrio dai ribassi dovuti a ragioni tecniche: riduzione di costi, mutazione di gusti? Perché, se un tempo esisteva equilibrio

 

 

tra differenti beni

A

B

C

D

ai prezzi

10

12

8

15

ed ora i prezzi correnti

8

4

7

5

 

 

non consentono ai produttori di B e di D di lavorare proficuamente, cosicché essi riducono fortemente la loro domanda di A e di C, perché immaginare che la crisi possa essere liquidata, iniettando carta moneta nel mondo ed aumentando del 50% i prezzi a:

 

 

12

6

10,50

7,50

?

 

 

Lo squilibrio esiste tuttavia; B e D non potendo essere prodotti ai prezzi (costi) relativamente troppo alti di A e di C. È possibile fare le iniezioni in guisa da raggiungere nuovamente il livello di partenza: 10, 12, 8 e 15? Come operare il miracolo? Siamo noi sicuri che il livello, che era equilibrato alla partenza, sia tale ancora adesso? Oh!, non è meglio tener duro e, come consiglia il Machlup, con saggi di sconto sufficientemente alti, forzare i B ed i D a liquidare, alla più svelta, le rimanenze ingombranti di magazzino, anzi con ulteriori tracolli di prezzo, ma con contemporanei aggiustamenti nelle quantità prodotte; sicché alla fine, sbarazzato il campo dell’invenduto minaccioso, i prezzi ritornino a 6 e ad 8? Nel frattempo, anche i produttori di A e di C, costretti a pagare il denaro caro, e posti di fronte ad attenuate richieste di B e di D, avranno dovuto anch’essi cedere sui prezzi. I consorzi costituiti per resistere avranno abbassate le armi e si saranno sciolti; ed alla fine un nuovo equilibrio si potrà formare ai prezzi:

 

 

7

6

5

8

 

 

Al nuovo livello, si torna a profittare ed a guadagnare. La crisi è finita.

 

 

Il grande scoglio alla liquidazione sono i prezzi fissi per legge (imposte) o per contratti a lunga scadenza (interessi di debiti pubblici e privati) o per convenzioni rigide fra gruppi sociali (stipendi, salari). In fondo, i congegni inflazionistici sono immaginati allo scopo di assaltare di fianco con manovra avvolgente fortilizi che si giudica impossibile espugnare con assalti frontali. I contribuenti, schiacciati da un peso troppo forte di imposte (compresi gli interessi dei debiti pubblici); gli industriali e gli agricoltori, impotenti a pagare, in tempi di prezzi calanti, imposte, salari ed interessi invariati, sperano nella manovra monetaria. Nel tempo I se il reddito nazionale era 100 e la quota di esso assorbita dai percettori di redditi fissi (impiegati pubblici, interessi di debiti pubblici e privati) era 25 e quella ottenuta dai redditi semifissi (stipendi privati, salari, canoni di fitto, ecc.) era 40, ai percettori di redditi variabili (proprietari diretti conduttori, fittaioli, mezzadri, industriali, commercianti, artigiani, professionisti) rimanevano 35. La situazione era grosso modo equilibrata.

 

 

Se nel tempo II, essendo i prezzi ridotti del 35%, epperciò il reddito nazionale sommando a 65, la quota assorbita dai percettori di redditi fissi rimanendo invariata a 25 e quella ottenuta dai redditi semifissi riducendosi forse a 30, ai percettori di redditi variabili, a coloro che corrono il rischio del più o del meno, rimangono evidentemente solo 10. Essi, che sono molti, si lagnano di non poter più vivere.

 

 

Se tutti i prezzi fossero fluidi, tutti si ridurrebbero di un terzo circa: a 17, 27 e 21. Poiché alla fluidità si oppongono leggi, controlli, consuetudini, pressioni imponenti di vigorose forze sociali, i rappresentanti dei redditi variabili, schiacciati tra l’incudine degli oneri fissi e semifissi e il martello dei prezzi calanti, persuasi della impossibilità di ottenere riduzioni di imposte, concordati amichevoli con i creditori, consensi sindacali a riduzioni di salari, invocano con ansia lo spediente, il quale consenta di rialzare nuovamente prezzi e redditi da 65 a 100, col minimo attrito e col contento universale. Keynes annuncia all’uopo la ricetta dei 5 miliardi di dollari oro stampati ad incremento delle riserve auree.

 

 

Ma, oramai l’equilibrio originale è rotto. Chi ci dice si debba ritornare ai rapporti vecchi di 25 per i redditi fissi, 40 per i semifissi e 35 per i redditi variabili? Quando si stampa carta, si ha pur voglia di far le cose con garbo e con giustizia. Ma nell’arraffa arraffa mondiale dei 5 miliardi di dollari oro, vincono i più svelti; e non meraviglierebbe affatto che imposte e creditori riuscissero a portar la loro quota da 25 a 35: i salariati ed altri semifissi da 30 a 40, sicché i variabili restassero con i rimanenti 25; meglio di 10, ma non tanto come appare, Poiché i 10 erano sui 65 ed i 25 son sui 100. I variabili parteciperebbero, inoltre, forse tutti ugualmente alla cuccagna o la preferenza andrebbe ai più svelti?

 

 

Chi ricordi che il disordine sociale del dopoguerra fu dovuto non alla guerra in sé, ma alla inflazione monetaria la quale si accompagnò sebbene non necessariamente, ad essa,[3] rimane sgomento dinanzi alle possibili conseguenze sociali di un nuovo sperimento cartaceo a tanta poca distanza da quello recente. Sperimenti cosiffatti si possono, sebbene con gravissimo pericolo, ripetere solo a distanza di un secolo l’uno dall’altro: guerra europea, 1914 – 1918; assegnati francesi, 1790-1796; sistema di Law, 1715-1720. Oggi, ripetere l’esperimento, potrebbe significare il crollo della civiltà occidentale.

 

 

Si conosce la replica degli inflazionisti o riflazionisti, come oggi essi preferiscono chiamarsi: la reflazione sarà prudente, limitata al necessario per risollevare i prezzi ed i redditi non da 65 a 100, ma appena ad 80, circondata da garanzie strettissime. Tutto sommato, ritengo che i percettori dei redditi variabili corrano minor rischio nel fare buon giuoco a cattiva fortuna piuttostoché nel reagire con spedienti. Lo spediente monetario val come tentare la fortuna a Montecarlo. Può andar bene; ma può rinnovare il disordine del 1918-1920. Nuovi arricchimenti gratuiti e nuovi impoverimenti incolpevoli farebbero ridivampare l’incendio, che faticosamente sembrava andasse spegnendosi, degli odi e delle invidie sociali. Come sempre accadde nella storia, i lestofanti, i procacciatori, gli arricchiti saprebbero porsi in salvo per tempo. Cadrebbero gli innocenti, gli industriali, gli agricoltori, i commercianti probi e sensati, i quali hanno fin qui resistito all’urto della crisi.

 

 

No. Si corre minor rischio a pagare imposte alte ed interessi invariati. Dal meglio rassegnarsi a non avere reddito, ed a lasciarne godere temporaneamente la propria quota, a guisa di premio di assicurazione della pace sociale, ad impiegati ed operai. Alla lunga, chi riuscirà a pagare gli interessi pattuiti, vedrà salire alto il proprio credito. Stati e privati potranno convertire i proprii debiti, appena sia legalmente possibile, dall’8 al 6%, dal 6 al 5%, dal 5 al 4 ed al 3 e forse al 2 e ½ per cento. La rigida osservanza della parola data, spinta benanco alla sopportazione di quella che è o pare ingiustizia sostanziale, è ancora e sarà per un pezzo la miglior garanzia di successo nella vita degli individui e dei popoli.

 



[1] Traduco a modo mio in lire italiane i calcoli del Keynes, senza entrare nei particolari dimostrativi. Avverto che, anche sotto altri aspetti, il mio è un riassunto, che non pretendo letterale, del saggio del Keynes. Trascuro una parte notevole delle sue argomentazioni, che a me, sebbene forse non a lui, paiono estravaganti rispetto al punto essenziale; e riespongo quest’ultimo come lo ricostruissi nella mia mente, con qualche amplificazione, inutile per gli iniziati, necessaria a chi vuole ritessere la catena del ragionamento in tutti i suoi anelli. Può darsi che, riducendo ed amplificando, io abbia mutato. Resta inteso che il riassunto e le critiche si riferiscono non al saggio originale del Keynes, ma alla mia ricostruzione.

[2] Leggasi su questo punto ed in generale sulla politica manovriera del credito un saggio, che non esito a dichiarare stupendo per classica forza e dirittura di ragionamento, di FRITZ MACHLUP, Zur Frage der Ankurbelung durch Kreditpolitik, in Zeitschrift für Nationalökonomie, Band IV, Heft 3, pag. 398 – 404. La lettura di questo e di altri saggi pubblicati dalla rivista viennese mi fa pensare che oggi la palma della eccellenza tra le effemeridi economiche, che per qualche anno dopo il 1890 parve vinta da Roma ed erasi poi trasferita a Londra ed a Cambridge (U.S.A.) sia ora disputata, con esito incerto, da Vienna. È prezzo dell’opera, contro la diffusa opinione, della quale si fa eco anche il Keynes, essere un deciso ribasso del saggio dello sconto vantaggioso alla liquidazione e al superamento della crisi, riprodurre la lapidaria sentenza del Machlup: «La politica del saggio dello sconto degli istituti di emissione ha indubbiamente una grande importanza anche nella fase della discesa. Secondo l’opinione dei più, l’importanza sua starebbe in un alleggerimento o lenimento della crisi attraverso la riduzione rapida e decisa del saggio dello sconto. Secondo la mia opinione l’importanza sta in un differimento della liquidazione della crisi, in un prolungamento della situazione depressiva precisamente dovuti alle facilitatrici riduzioni del saggio dello sconto. Se è vero che il superamento della crisi consiste in un ristabilimento dell’equilibrio fra costi e prezzi, il quale renda nuovamente possibile una produzione la quale copra i costi e lasci un profitto; se è vero inoltre che l’equilibrio nei prezzi si raggiunge tanto più rapidamente quanto più presto si liquidano le rimanenze di merci invendute e quanto più rapidamente si spingono all’ingiù i costi dei fattori produttivi e della forza di lavoro; se è vero finalmente che un cresciuto saggio di sconto accelera lo svuotamento dei magazzini ed il tracollo dei prezzi, la rapida riduzione del saggio dello sconto è evidentemente un mezzo atto a prolungare la crisi. Misericordiose riduzioni del saggio dell’interesse recano sollievo. Esse spingono a mantenere le posizioni al rialzo, le quali alla fine devono pure essere abbandonate; esse rendono possibile la temporanea prosecuzione di produzioni le quali da ultimo devono pure essere sospese; esse consentono di prolungare saggi di remunerazione, che si dimostreranno infine insopportabili; in breve, esse producono un differimento nella liquidazione della crisi. Lenimento della crisi vuol dire prolungamento del processo di cura della crisi». Il Machlup giunge perciò alle seguenti proposizioni elegantemente paradossali: «Laddove un rialzo prematuro del saggio dello sconto durante la fase ascendente del ciclo economico accorcia il rialzo (e quindi attenua la crisi conseguente), un ribasso prematuro del saggio dello sconto nella fase discendente può prolungare la depressione. Laddove un rialzo troppo tardivo del saggio di sconto lungo la fase ascendente prolunga il rialzo (e quindi aggrava la crisi conseguente), il ritardo nel ribasso del saggio di sconto durante la fase discendente può abbreviare la depressione».

[3] Ho cercato, per l’Italia, di dimostrare innocente la guerra, dei mali sociali che la seguirono e di narrare le fasi e le cause del disordine post-bellico nel volume La condotta economica e gli eletti sociali della guerra italiana, testé pubblicato nella «Collezione Carnegie» dal Laterza di Bari.

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