Opera Omnia Luigi Einaudi

Il momento di borsa

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/04/1909

Il momento di borsa

«Nuova Antologia», 16 aprile 1909

 

 

 

È diffusa nel mondo degli affari l’impressione che l’andamento delle borse italiane sia stato, dopo la crisi del novembre 1907, peggiore in Italia che nei principali paesi stranieri, dove sono borse potenti ed attivissime; e si lamenta specialmente il fatto che il ribasso dei valori mobiliari non abbia avuto tregua durante tutto il 1908, prolungandosi financo nei primi mesi dell’anno corrente. Ad accertare se questa impressione sia esatta, gioverà un breve sguardo gettato sulle quotazioni dei valori mobiliari nei principali paesi stranieri. Farò seguire un confronto con l’Italia e chiuderò con alcune considerazioni dettate dall’evidenza delle cose.

 

 

Per gli Stati Uniti e l’Inghilterra i dati in mio possesso sono alquanto sommari; ma tuttavia sufficienti a mettere in luce la tendenza dell’anno. Negli Stati Uniti, contrariamente a quanto era accaduto nella crisi del 1892 (punto di massimo rialzo, da cui si ebbe un ribasso del 60% durato fino al 1896, da cui i titoli si risollevarono soltanto nel 1898), il ribasso fu più repentino e la ripresa rapida e relativamente facile. Nel 1907 i titoli negoziati a Wall Street ribassarono da gennaio alla fine di ottobre (punto più basso) del 40%; ma prima del 31 dicembre 1908 questa perdita era stata quasi interamente colmata, cosicché i valori si trovano oggidì all’incirca e in media al punto in cui erano due anni or sono, prima che si scatenasse la tremenda bufera borsistica.

 

 

In Inghilterra una statistica compilata dal Bankers Magazine riguarda 387 gruppi di titoli di un valore nominale di 3.424.586.000 lire sterline. Ecco quale ne fu il valore di borsa dopo il 31 dicembre 1907:

 

 

fine dicembre 1907

Lst. 3.500.000.000

” gennaio 1908

” 3.562.000.000

” febbraio “

” 3.559.000.000

” marzo “

” 3.549.000.000

” aprile “

” 3.552.000.000

” maggio “

” 3.598.000.000

” giugno “

” 3.599.000.000

” luglio “

” 3.597.000.000

” agosto “

” 3.605.000.000

” settembre “

” 3.626.000.000

” ottobre “

” 3.604.000.000

” novembre “

” 3.650.000.000

” dicembre “

” 3.638.000.000

 

 

L’anno 1908 può dunque essere caratterizzato per l’Inghilterra, come per gli Stati Uniti, come un anno di ripresa, essendosi guadagnati nei corsi di borsa ben 138 milioni di lire sterline, ossia il 3.90% del valore iniziale. È da notare però che nel 1907 si erano perduti 342 milioni di lire sterline; cosicché il 1908 non è riuscito a riparare se non una piccola parte delle ferite prodotte dalla crisi del 1907. E il guadagno fu assai diversamente ripartito nei vari gruppi, poiché dei 138 milioni ora ricordati, quasi 100 milioni sono da attribuirsi alle azioni ferroviarie americane contrattate in Lombard Street. e sono quindi il riflesso della orza recuperativa americana. Vi furono dei gruppi i quali subirono delle perdite, come ad es. i consolidati britannici ed indiani che perdettero 935,000 lire sterline, ossia lo 0,1% del loro valore iniziale, a causa della concorrenza delle nuove emissioni abbondantissime; i valori ferroviari inglesi, che perdettero Lst. 13,282,000, ossia il 10.4%, e molti valori industriali e commerciali. Si mantennero i valori siderurgici e carboniferi; e migliorarono, oltre le ferrovie americane, i titoli ferroviari dell’America meridionale, i titoli di imprese elettriche e le miniere d’oro sud-africane.

 

 

 

Venendo al continente d’Europa, posso citare dati più particolareggiati. La Frankfurter Zeitung ha pubblicato il solito specchio dei valori, colle quotazioni alla fine dicembre 1908 espresse per i singoli gruppi in centesimi del valore nominale:

 

 

OBBLIGAZIONI:

 

Quotazione a fine dicembre 1908

Diminuzione media od aumento in confronto a fine dic. 1907

Prestiti tedeschi imperiali e di Stato

91.75

+ 2.25

” municipali e provinciali

94.12

+ 1.88

Obbligazioni fondiarie

94.70

+ 1.90

” ferroviarie

96.54

+ 0.47

” tramviarie

93.78

+ 2.24

” industriali e minerarie

98.11

+ 0.96

AZIONI:

Miniere, fonderie, ecc.

183.53

– 7.28

Industrie meccaniche

178.56

+ 7.29

” chimiche

271.72

– 50.87

” tessili

138.92

– 1.43

” della carta

115.60

– 26.77

” dei pellami

125.14

– 0.46

” del legno

249.14

+ 15.06

” alimentarie

184.52

– 0.02

” della calce, cementi, laterizi, pietre, ecc.

186.69

+ 0.92

” di costruzioni edilizie

129.79

+ 14.22

Banche

158.20

+ 6.40

Assicurazioni

460.25

+ 19.86

Trasporti

111.32

+ 10.92

 

 

Tutto sommato, l’andamento delle borse in Germania non si può dire sia stato cattivo. Nel complesso tutti i valori considerati aumentarono da 98 a 100.03, ossia del 2.03% del valore nominale. Le obbligazioni a reddito fisso furono tutte in rialzo; e delle azioni, sette gruppi su tredici aumentarono e sei diminuirono.

 

 

Nel Belgio, il signor Paul de Laveleye riassume così sul Moniteur des intérêts matériels l’andamento dei valori nel 1908 (in migliaia di franchi):

 

 

 

Valore all’1 gennaio

Differenze

%

1908

1909

Fondi di Stato provincie e città

4.873.000

4.894.000

+ 0.02

Obbligazioni, azioni privilegiate, azioni a reddito fisso

1.456.000

1.456.000

+ 0.61

Obbligazioni a reddito variabile

29.000

27.000

– 7

Banche, assicurazioni e imprese immobiliari

800.000

837.400

+ 4.65

Strade ferrate e canali

298.000

275.000

– 8

Tramvie e ferrovie economiche

873.800

772.600

– 11.58

Acciaierie, altiforni, industrie meccaniche

502.600

502.600

Miniere di carbone

886.000

827.800

– 6.56

Zinco, piombo ed altri minerali

275.000

272.300

– 1

Specchi

65.200

62.700

– 3.83

Vetrerie

16.000

16.500

+ 3.12

Acquedotti

40.200

40.800

+ 1.47

Gas e luce elettrica

167.500

191.500

+ 14.37

Industrie tessili

84.900

72.400

– 14.70

” di costruzioni edilizie

53.400

54.700

+ 2.45

” diverse

412.000

425.000

+ 3.15

Azioni straniere

339.200

326.400

– 3.77

Totali

11.192.000

11.063.700

– 1.14

 

 

In complesso la quotazione è stata debole, con una minusvalenza dell’1.14 per cento. Ma si deve notare che questa proporzione dell’1.14% rappresenta già un miglioramento sul 1907 in cui la quotazione era durante l’anno ribassata del 7 per cento. Inoltre, se vi sono delle perdite importanti per le ferrovie e le tramvie, sulle miniere e sulle industrie tessili, il che è naturale data la crisi di questa industria, vi sono dei guadagni notevoli nei gruppi della banca, degli acquedotti, del gas e dell’illuminazione ecc. Annata certo poco brillante, la quale non ha però aggravata sensibilmente la posizione iniziale e può considerarsi perciò come un’annata di liquidazione del passato e di attesa per l’avvenire. La ripresa, malgrado i rumori di guerra che esercitarono un’influenza sinistra sulle borse, si è già delineata nel primo trimestre del 1909, in cui, secondo i dati provenienti dalla medesima fonte, vi fu un aumento medio nei corsi di borsa dell’1.42% distribuito su molte categorie, che si rifanno così delle perdite sofferte nel 1908.

 

 

La Francia presenta, nella statistica dell’Economiste Européen, dei risultati soddisfacenti (in milioni di franchi) per i valori francesi:

 

 

Numero delle categorie

Valore nominale

Valore di borsa al 31 dicembre

Differenza

1907

1908

11 Rendite francesi

26.565

25.325

25.723

+ 398

11 Obbligazioni città di Parigi

2.145

2.018

2.056

+ 38

11 Obbligaz. credito fondiario

4.756

4.449

4.526

+ 77

5 Obbligaz. fondiarie diverse

1.326

743

759

+ 16

13 Azioni bancarie

1.304

2.636

2.728

+ 92

11 Id. ferroviarie

1.426

3.629

3.704

+ 75

43 Obbligazioni ferroviarie

18.268

2.143

16.189

+ 534

33 Azioni industriali

819

694

15.655

+ 5

22 Obbligazioni industriali

758

686

2.148

+ 8

160 Totali

57.367

57.284

58.527

+ 1.243

 

 

Le 160 categorie di valori considerati comprendono l’84% di tutti i valori francesi. Il plusvalore di 1.243.000.000 franchi guadagnato nel 1908 corrisponde ad un aumento del 2.17% del valore iniziale. L’anno fu dunque discreto per le borse francesi e contribuì a colmare in parte le perdite del 1907.

 

 

E l’Italia? L’indice migliore per misurare le variazioni dei corsi di borsa ci è fornito dal consueto prospetto mensile dell’Economista d’Italia che abbraccia adesso ben 243 titoli azionari quotati nelle borse italiane. Eccolo riassunto:

 

 

CATEGORIA

Num. delle soc.³

Valore di borsa a

al 31 dic. 1907

fine dic. 1907

fine dic. 1908

fine dic. 1909

Istituti di credito

14

646.500.250

823.920.000

801.000.000

758.000.000

Società di trasporti

28

739.650.000

832.720.000

829.000.000

823.000.000

Industrie metallurgiche meccaniche e minerarie

39

291.956.000

437.221.260

362.000.000

325.000.000

Gas ed elettricità

21

131.150.000

243.084.000

231.000.000

236.000.000

Industria zuccheri

21

116.450.000

181.700.000

171.000.000

168.000.000

Condotte d’acqua

6

60.900.000

92.938.000

88.628.400

88.008.000

Prodotti chimici

11

75.750.000

125.235.000

98.000.000

89.000.000

Tessitura e filatura

36

201.900.000

299.813.000

280.000.000

259.000.000

Molini

9

37.200.000

41.824.000

35.142.000

36.868.000

Automobili

16

44.900.000

38.312.000

23.500.000

24.500.000

Imprese immobiliari

10

152.250.000

153.792.500

164.005.000

165.480.000

Industrie diverse

29

176.673.000

295.193.000

270.000.000

271.000.000

Totali

243

2.679.279.250

3.570.766.760

3.353.275.400

3.273.866.000

 

 

Ho voluto ridurre queste cifre che riassumono il valore nominale e il valore di borsa delle principali società anonime italiane, a numeri indici, prendendo come base (100) il valore nominale alla fine dell’anno precedente e calcolando poi quale era in centesimi proporzionatamente il valore di borsa a diverse date.

 

 

Nel quadro ho tenuto conto anche di talune date anteriori a quelle dianzi specificate e cioè dei corsi di compenso alla fine gennaio 1905 (primo accentuarsi del boom borsistico), alla fine marzo 1906 (culmine del boom) ed alla fine ottobre 1907 (scoppio della crisi mondiale di borsa).

 

 

Si potrebbe, senza aggiunger verbo, lasciare raccontare alle cifre la loro propria storia. Il troppo stroppia ed è dove si erano commesse le maggiori pazzie aumentiste che si verificarono le cadute più clamorose ed in cui il ribasso è, anche oggi, più accentuato. Se noi disponiamo in serie discendente i diversi gruppi d’industrie a seconda della perdita subita dai loro corsi di borsa al 31 marzo 1909 in confronto ai corsi massimi della fine marzo 1906 (differenza fra i due numeri indici alle due date citate), otteniamo i seguenti risultati, dimostrando la perdita dalla fine marzo 1906 alla fine gennaio 1909 in centesimi proporzionali del valore nominale:

 

 

Automobili

624.39

Industrie metallurgiche, meccaniche e minerarie

105.27

Molini

95.24

Industria zuccheri

90.28

Prodotti chimici

82.90

Media generale

50.36

Gas ed elettricità

48.41

Istituti di credito

41.80

Industrie diverse

41.43

Condotte d’acqua

34.60

Imprese immobiliari

23.80

Tessitura e filatura

23.47

Società di trasporti

18.78

 

 

Le opinioni potranno forse essere discordanti su qualche particolare; ma tutto sommato, poiché la giustizia umana deve procedere per via di grandi approssimazioni, si deve conchiudere che le borse italiane hanno nel triennio decorso dal marzo 1906 fatto giustizia. Sarà stata giustizia grossolana, si sarà in qualche caso od anche nel complesso proceduto tropp’oltre; ma sono persuaso che gli uomini d’affari onesti ed accorti, ove fossero disposti a dare un giudizio sincero e spassionato, direbbero che le borse hanno distribuito i ribassi con profonda equità distributiva. Il discorrere per via d’esempi personali o particolari è sempre odioso e diventa odiosissimo in questa delicata materia; epperciò me ne asterrò affatto. Ma dove avrebbe trovato l’illustre collega ed amico mio Achille Loria una Corte delle stime (si sa che egli propugna un siffatto istituto a moralizzare e guidare borse e risparmiatori) che facesse praticamente giustizia migliore di quella che è stata fatta?

 

 

Detto questo, devo subito aggiungere che, se il ribasso fu equamente distribuito fra le varie categorie, fu assai accentuato per tutte; più accentuato per fermo di quanto non sia stato nei paesi europei; e, sopratutto, mentre altrove l’anno 1908 fu un anno di raccoglimento e di liquidazione, da cui alcuni paesi sono usciti con le loro ferite borsistiche già guarite ed altri con un sensibile miglioramento, in Italia invece il 1908 ha allargato la vecchia ferita ed ha aggiunto ribassi nuovi a quelli vecchi. Né il ribasso accenna nell’insieme a scemare d’intensità nel primo trimestre del 1909.

 

 

Del qual fatto singolare, che ha fatto e fa versare molto inchiostro, che ha provocato inchieste interessantissime fra uomini d’ingegno preclaro, io non analizzerò tutte le numerose cagioni. Ma poiché a tal proposito furono messe innanzi vedute molto discordanti e si invocarono svariatissimi rimedi, di cui alcuni furono attuati con esito disgraziato, come i fatti si sono preso il carico di dimostrare a luce meridiana, sia lecito a me esprimere una opinione, la quale mi sembra profondamente vera, tuttoché la sappia non condivisa dai più: del perdurare odierno della crisi italiana, del declinare persistente dei valori a reddito variabile essere causa principalissima l’accumularsi, il moltiplicarsi di ripari, di dighe contro il ribasso medesimo.

 

 

Sembra a me cosa certa che, se le borse italiane si differenziano in peggio dalle borse estere, ciò sia dovuto all’affannoso erigere, che si sta facendo dopo l’ottobre 1907, di dighe contro il ribasso. Anche all’estero si innalzarono dighe cosiffatte; ma fu ad opera di privati ed in alcuni reparti soltanto: nella metallurgia e nel rame sopratutto. I trusts dell’acciaio e del rame negli Stati Uniti, i cartelli metallurgici in Germania persistettero fino all’estremo nella politica degli alti prezzi, come la chiamano: ridurre la produzione, esportare a perdita all’estero, pur di mantenere elevati i prezzi sul mercato interno. Il risultato ottenuto fu quale era facile prevedere dall’esperienza passata. In tempi di crisi industriale solo i bassi prezzi possono provocare un aumento di consumo sia dai consumatori diretti, sia dalle industrie di ordine superiore che elaborano i prodotti delle industrie primarie.

 

 

Ostinarsi a volere mantenere prezzi elevati significa rovinare le industrie consumatrici, ridurre il consumo già diminuito dalla disoccupazione e dal ribasso dei salari e scavare a sé stessi la tomba con l’accumularsi di giganteschi stocks. Nella metallurgia, la U. S. Steel Company degli Stati Uniti ha dovuto consentire finalmente a ribassi di prezzi, veder diminuiti i suoi guadagni da 160 a 91 milioni di dollari, e stenta moltissimo a migliorare il carnet delle sue ordinazioni.

 

 

In Germania i sindacati metallurgici si sono trovati impotenti ad arrestare l’ondata del ribasso e molti ne furono essi medesimi travolti, sciogliendosi e lasciando il passo al disfrenarsi di una concorrenza accanita, che ha ridotto i prezzi di taluni prodotti ad un punto che più basso non si ricordava da dieci o vent’anni in qua. Crescono frattanto dappertutto gli stocks di ghisa: gli stocks Connal di Middlesborough, che son forse l’indice più perfetto delle condizioni dell’industria metallurgica nel mondo, toccano quasi le 200 mila tonnellate (196,856 tonnellate il 5 aprile), con un aumento di più del 50% in confronto ad un anno fa. E che dire dei tentativi ostinati, lunghi e costosissimi intrapresi dalle grandi compagnie, che controllano la produzione americana, per impedire il ribasso del rame? Essi non hanno impedito che il rame Standard ribassasse da 105 a 60 L.st. l’anno scorso; e mentre pareva che si fosse toccato l’estremo fondo, oggi gli stocks calcolati in 120,000 tonnellate per l’Europa e l’America fanno sembrare precario persino il prezzo odierno di 57 L.st. Frattanto precipitano le azioni metallurgiche cuprifere, che forse oggi, insieme con quelle tessili (queste per gli spropositi commessi in Inghilterra per impianti eccessivi), sono le azioni più battute in breccia a New York, Londra, Parigi e Berlino.

 

 

In Italia quella, che altrove era stata opera isolata di qualche sindacato sostenuto da potenti gruppi bancari, si volle fosse opera generale; e della partita si mise anche il Governo colla pretesa di sgominare la banda nera dei ribassisti. I mezzi adoperati a quest’intento furono molti, né qui intendo passarli tutti in rassegna. Principalissimo il famoso diritto di sconto che, penetrato d’improvviso nel nostro diritto commerciale a guisa di spediente temporaneo, vi ha acquistato diritto permanente di cittadinanza e nel nuovo disegno di legge sulle borse è eretto a presidio validissimo e duraturo della nostra incolumità finanziaria. Io non voglio discutere qui se fosse conveniente imporre per qualche giorno o per qualche settimana il diritto di sconto nell’ottobre 1907, quando pareva fosse giunto il finimondo. In tempi di guerra o di rivoluzione si accetta lo stato d’assedio, come il men peggio, e così si può subire il diritto di sconto durante le settimane nere di borsa. Ma contesto apertamente che il diritto di sconto abbia portato alla lunga il benché minimo vantaggio ai nostri corsi di borsa e sostengo che esso ha snaturato le contrattazioni, ha seminato la diffidenza, ha impedito il libero gioco delle forze economiche ed ha favorito, accentuandolo, il ribasso.

 

 

Infatti il diritto di sconto:

 

 

1)    impedisce gli arbitraggi di borsa tra piazze italiane e piazze estere. Chi è quello speculatore che oserà vendere a Milano o Torino titoli comperati per fine mese in Svizzera, quando corre il rischio che a Torino l’indomani gli sia chiesto dalla contropartita la consegna dei titoli, di quei titoli che egli non potrà avere dalla Svizzera, dove non vige il diritto di sconto, se non alla fine del mese?[1] Così non vi è più mezzo di parificare subito i corsi su varie piazze, ed i corsi più elevati dell’Italia spingono a vendite svizzere, che forse non si sarebbero verificate senza il dislivello provocato dal diritto di sconto. Epperciò il ribasso si verifica ugualmente e forse più accentuato;

 

2)    impedisce i riporti combinati in Italia ed all’estero. Uno speculatore potrebbe prendere a riporto in Italia 1,000 titoli dalla società X, dando 700 mila lire al riportato al 5% e farsi a sua volta da riportatore riportato all’estero dando in pegno i medesimi 1,000 titoli per la stessa scadenza e ricevendo in prestito un capitale di 700 mila lire al 4 per cento. In sostanza egli ha fatto una operazione utile a sé, perché egli si è fatto imprestare all’estero 700 mila lire al 4% e le ha imprestate di nuovo in Italia al 5%, e nel contempo utile alle borse in generale, perché ha introdotte in Italia 700 mila lire di danaro contante ed ha scaricato il mercato nostro di 1,000 titoli ivi flottanti. Tutto ciò è reso impossibile dal diritto di sconto, vigente in Italia ed inesistente in altri paesi. Pochi giorni dopo la liquidazione di fine mese la contropartita italiana chiede allo speculatore la consegna dei titoli che egli ha preso qui e dato all’estero, per esempio, in Svizzera, a riporto. Come fa egli a consegnarli, se in Svizzera non ha il diritto di farseli dare prima della scadenza fissata?;

 

3)    stabilisce una ingiusta differenza fra creditori di uno speculatore dissestato. Tizio compra da Caio il 2 del mese 50 titoli della società A a 1,300. Il giorno 20 le azioni salgono a 1,450 e Tizio, il quale ha subodorato la imbrogliata posizione di Caio, speculatore al ribasso sulle A e su altri titoli, sconta il venditore e si fa consegnare le azioni al prezzo originario di 1,300 lire. Alla fine del mese le azioni A sono salite ancora più in su, a 1,500, e Caio che ha perso forti somme giocando al ribasso, si dichiara insolvente. Tutti i suoi creditori, e ne ha molti, sono sacrificati e ricevono solo una «tantieme». Il solo Tizio, che ha esercitato il 20 il diritto di sconto, è riuscito a farsi pagare integralmente. è giusto che vi sia chi avvantaggia sé stesso a danno della massa dei creditori?

 

 

Per fortuna nella grande maggioranza dei casi gli speculatori di borsa sono assai migliori della loro fama e mentre, quando i prezzi ribassano, industriali e commercianti non si fanno scrupolo di sottrarsi con ogni sorta di cavilli agli obblighi assunti con tanto di scrittura e di lettere, gli speculatori di borsa adempiono scrupolosamente ai loro impegni puramente verbali o scritti in furia a matita su un pezzo di carta. Ma il diritto di sconto non moralizza certo le borse, perché da modo ai creditori furbi di avvantaggiarsi a danno della massa ed appronta ai debitori disonesti un nuovo mezzo, munito del marchio governativo, per frodare altrui;

 

 

4)    favorisce il monopolio bancario e speculativo. Chi, se non le grandi Banche, può esercitare il diritto di sconto in modo sensibile? Il privato, il piccolo banchiere, lo speculatore medio di borsa è soggetto allo sconto, ma non lo può esercitare. Occorrono i milioni, che le grandi Banche trovano nei fondi dei loro depositanti. Ora, non si può pretendere sul serio che gli stabilimenti di credito esercitino il diritto di sconto per moralizzare il mercato.

 

 

Essi ne fanno uso, e durante tutto il 1908 ne hanno fatto un uso insistente e molesto, per sostenere i corsi dei titoli che essi hanno da vendere e quando hanno da venderne. Il diritto di sconto ha servito come ottimo strumento per scaricare non sul pubblico, che si è astenuto, ma sulla speculazione minuta, sulla cosidetta bassa Russia, i titoli che le grandi banche avevano nei forzieri. Gli speculatori sono stati irreggimentati al rialzo, tutte le volte che all’alta banca piacque di organizzare il rialzo per i proprii fini. Quando poi lo scopo fu raggiunto, almeno in parte, il diritto di sconto non fu più esercitato ed i corsi ricominciarono ad andare alla deriva più e peggio di prima. Ora, è opportuno che lo Stato venga ad organizzare con le sue leggi il monopolio della banca e della borsa? Che garanzie abbiamo che i corsi vengano spinti verso quello che la voce pubblica chiama i corsi veri o giusti? Se pure un qualche significato si vuol dare a queste parole, che per gli economisti non ne hanno alcuno, è chiaro che col favorire la vittoria dei grossi organismi bancari a danno dei medi e dei piccoli banchieri, collo spaventare la piccola e media speculazione non si ridà alle borse la loro fisionomia normale. Il legislatore potrà dire: l’ordine regna nelle borse; ma è l’ordine che nasce dalla desolazione e dal marasma di cui siamo oggi spettatori;

 

 

5)    tende ad abolire una delle due parti, dal cui contrasto zampilla fuori il prezzo di mercato, il prezzo di equilibrio che rende eguali la domanda e la offerta. Io non ripeterò qui la confutazione, mille volte fatta, delle stolidissime insulsaggini che si sono dette contro i contratti a termine. Abolire questi ultimi e lasciar sussistere solo i contratti a contanti vuol dire farci ritornare ad età preistoriche, ed annullare tutti i vantaggi del progresso economico moderno.

 

 

Orbene, il diritto di sconto trasforma tutti i contratti a termine in contratti a contanti. Solo i detentori effettivi dei titoli possono vendere, perché essi soli sono pronti a consegnare sempre i titoli, quando fossero scontati. Mentre la schiera dei compratori si compone di coloro che comprano a contanti, di quelli che comprano a termine ed hanno i denari per esercitare eventualmente, nel proprio interesse, il diritto di sconto, e di quelli che comprano a termine puramente e semplicemente. Come si vuole che, in tanta disparità, i corsi di borsa possano non essere artificiali, e quindi soggetti a ribassi ad ogni stormir di fronde? Un corso di 1,000, che sia il risultato della lotta aperta e dichiarata fra rialzisti e ribassisti, resiste ad un terremoto anche triplo per gravità di quello di Messina e Reggio Calabria. L’identico corso di 1,000, ottenuto terrorizzando i ribassisti colla minaccia del diritto di sconto, è un castello in aria destinato a crollare magari alla notizia di una rivoluzione di negri a Porto Principe.

 

 

Col diritto di sconto si possono fabbricare degli enormi castelli di carta. Se al tempo delle pazzie sulle azioni della Fiat il diritto di sconto avesse trattenuto i ribassisti dal vendere migliaia di titoli che essi non possedevano, il valore delle Fiat sarebbe andato anche al di là delle 2,300 lire, a 3,000, a 4,000 e forse anche a 5,000 lire. E quando i rialzisti detentori li avessero scaricati tutti, i titoli Fiat sarebbero egualmente precipitati a 40 lire; poiché la crisi industriale delle automobili non poteva allontanarsi con nessuna minaccia di sconto. Ma la caduta sarebbe avvenuta più dall’alto, sarebbe stata più improvvisa ed avrebbe seminato rovine in confronto delle quali le rovine verificatesi furono un’inezia. I ribassisti frenarono prima l’ascesa, perché essi, stimandola esagerata, prevedevano corsi più bassi in avvenire; e fecero poi consumare la discesa a piccoli gradini, con vendite e ricompre continue, distribuendole a frazioni su un gran numero di capitalisti e di speculatori;

 

 

6)    provoca le offerte ed organizza il ribasso. Per quanto sembri strano, uno degli effetti più certi del diritto di sconto è quello di provocare le offerte di titoli sul mercato. Il diritto di sconto non viene mai esercitato sui titoli buoni, solidissimi, che il pubblico compra con fiducia. L’annuncio che un titolo è stato scontato è un marchio di sfiducia che si imprime su di esso. Il pubblico degli speculatori ed anche quello dei capitalisti comincia a crollare la testa ed a pensare che ci deve essere del marcio in Danimarca se il tale o il tal altro istituto crede di dover correre alle ultime difese coll’esercizio del diritto di sconto. I ribassisti scontati, se non hanno i titoli, devono pur trovarli e vanno in cerca del capitalista detentore; e, narrandogli che sul suo titolo lo sconto è stato esercitato, lo rendono diffidente e lo spingono a vendere nel timore di peggio. Con queste vendite, il ribassista si è messo al coperto e della sua condotta non gli si può umanamente far torto alcuno. Ma intanto il diritto di sconto ha provocato delle vendite che non si sarebbero verificate; ha sparso la diffidenza; ha operato il «declassement» dei titoli scontati e, accrescendo così il flottante, ha ottenuto lo scopo inverso a quello che il legislatore si proponeva.

 

 

Se gli effetti del diritto di sconto, questo pezzo forte della legislazione borsistica del 1907-1908, sono stati così lacrimevoli, altrettanto è a dirsi degli altri provvedimenti d’occasione che la paura, pessima consigliera, ha dettato ai nostri governanti e dirigenti. Passarono, come le ombre di Banco, i consorzi di difesa: e non riuscirono a difender nulla. Qualche socio, più astuto degli altri, incassò un buon profitto o si sbarazzò della «marocca» invenduta; ma gli effetti non si videro sul mercato.

 

 

Le azioni tenute in piedi colle grucce in novembre e dicembre 1907, quando si trattava di fare dei bilanci buoni, e cresciute persino nel primo semestre 1908, precipitarono dopo ancor più di quanto non sarebbero cadute prima, ove fossero state abbandonate a sé stesse. I processi di aggiotaggio contro i ribassisti, le perquisizioni della polizia negli uffici dei più noti speculatori, l’intervento in borsa di un delegato di pubblica sicurezza non condussero a nessun risultato, all’infuori di qualche servigio reso dalla polizia ai cosidetti rialzisti che avevano bisogno di sbarazzarsi momentaneamente di qualche cosidetto ribassista. I giudici istruttori dovettero fare giustizia dappoi e persuadersi che nessun più ridevole processo può imbastirsi di un processo per aggiotaggio. Queste procedure dovrebbero evitasi il più possibile, perché l’opinione pubblica, indotta e fuorviata da grossi paroloni, è pur troppo propensa a dedurre da queste dichiarazioni di non luogo conclusioni di connivenza fra la magistratura e i ribassisti. Il che per l’onore della magistratura, la quale non può essere costretta ad accertar reati solo per soddisfare al pubblico clamore, dovrebbe essere evitato ad ogni costo.

 

 

L’ultima diga opposta al dilagare del ribasso fu di tutte la peggiore. Voglio accennare all’accesso di paura da cui furono presi i governanti d’Italia ed una parte dell’alta finanza (quest’ultima almeno in apparenza) dopo la sciagura tremenda del 28 dicembre. Allora fu inventato non so da chi, ma certo da un innamorato delle parole lugubri a cui le parole ribassista, banda nera sembravano tinte in rosa, il nomignolo di sciacallo.

 

 

E tutta l’Italia ufficiale, più preoccupata delle borse che degli sventuratissimi che giacevano sotto le macerie di Messina e di Reggio Calabria – almeno questa fu l’impressione nella gente sensata non usa a perdere la testa – mosse in guerra contro lo sciacallismo; decretò la chiusura delle borse, sospese i contratti a termine, minacciò il carcere contro i perturbatori della pubblica fede, contro i succhioni della sventura nazionale. Il baccano fu tale che tutta l’Europa ne fu rintronata; i giornali svizzeri e tedeschi avevano piene le colonne di telegrammi sulle gesta dei salvatori della patria. Il risultato si fu che all’estero ed in Italia tutti si persuasero pel momento che qualche cosa di grosso doveva essere avvenuto sul serio e che la fortuna nostra era al tramonto; ed i compensi di gennaio si chiusero ad uno dei corsi più bassi registrati da parecchi anni in qua.

 

 

Non ammaestrati dagli insuccessi del passato, gli arginatori stanno organizzando da due mesi in qua un’altra impresa, a parer mio funestissima. Come se una parola d’ordine fosse corsa, sono deliberati da ogni parte dividendi raramente in aumento, ma talvolta uguali e spesso almeno più elevati di quanto si sarebbe potuto sperare. Dal che si vuol trarre argomento a dimostrare che, malgrado i clamorosi dissesti e le riduzioni di capitale che non si poterono nascondere e che pur furono numerose, l’industria italiana non attraversa affatto una crisi, o che questa è di gran lunga meno intensa che all’estero, cosicché sarebbero giustificate quotazioni di borsa superiori alle attuali. Io temo forte che l’artificio sortirà, anche stavolta, l’effetto opposto. Il capitalista saggio e prudente sa che una buona amministrazione fa ottimamente a prelevare negli anni cattivi una somma sulle riserve accumulate appunto per far fronte alle evenienze contrarie.

 

 

Ma occorre che le riserve esistano, al di là delle riserve normali, e sieno state accumulate per questo intento. Occorre che il dividendo si sia già consolidato da lunghi anni in una data cifra – per esempio, 20 lire l’anno – cosicché il deviare da quella regola potrebbe nuocere grandemente al buon nome della società, la quale invece merita di conservarlo intatto per l’avvenire. Ma se le venti lire si pagano soltanto da un anno o due, il voler conservare il dividendo a quel tasso è sconsigliabile, anche se le riserve ci sono. Poiché fa subito pensare, e ragionevolmente, che gli amministratori pensino più alla borsa che all’industria; e preferiscono depauperare l’azienda di riserve, utilissime nei tempi di crisi, piuttosto ché vedere ribassare il titolo in borsa.

 

 

Tanto peggio se il pubblico dubita che le riserve, da cui trarre il supplemento di dividendo, non ci siano. Si pensa, ed anche qui con ragione, che gli affari vadano male, che la baracca faccia acqua, che si contraggano prestiti usurai ecc. ecc. La politica degli alti dividendi è insana come la politica degli alti prezzi per far argine alle crisi. È fare troppo a fiducia sulla cecità degli speculatori e dei capitalisti il meravigliarsi che i corsi di un titolo ribassino, quando si annuncia in tempo di crisi un buon dividendo, e si sostengano o magari rialzino all’annuncio di un dividendo ridotto. Tutto ciò è naturalissimo. Il capitalista pensa che l’alto dividendo è pagato sul suo capitale e si affretta a vendere. Ogni persona sensata farebbe altrettanto ed è inutile gridare contro gli sciacalli.

 

 

Mentre scrivo, le borse sembrano più ferme ed una certa ripresa si è delineata in alcuni comparti, dopo l’assalto condotto contro i valori siderurgici. Assalto di cui la colpa non fu dei ribassisti, ma di alcune oscurissime manipolazioni di bilancio in cui nessuno poté veder chiaro, all’infuori di quelli che si illudevano a torto di potere con esse arrestare la discesa delle quotazioni.

 

 

Un qualche effetto benefico ha prodotto lo scioglimento della Camera, che fece cadere per un po’ nel limbo il malaugurato progetto sulle borse, che era stata non ultimissima causa del malumore degli operatori di borsa. Il progetto conteneva alcune cose buone, sovratutto per quanto si riferiva alla riduzione delle tasse ed alla validità esplicitamente riconosciuta dei contratti a termine ed a premio e dei cosidetti contratti differenziali i quali, tra parentesi, non sono mai esistiti salvoché nella fantasia dei legislatori e dei giuristi; ed è da sperare che le parti buone riescano alla perfine ad essere approvate dal Parlamento. Ma lo scioglimento della Camera doveva operare – così speravano almeno tutti coloro che avevano studiato la questione da un punto di vista un po’ largo – un altro gran bene, seppellendo per sempre tutto quell’incoerente ammasso di norme inquisitorie con cui il legislatore si illudeva di moralizzare le borse. Era, il non lacrimato disegno, uno degli argini che la incoltura dominante nel mondo politico e burocratico voleva erigere contro il ribasso. Al solito l’avrebbe invece favorito: coll’orario unico di borsa si sarebbero impediti quei misteriosi delitti che si chiamano arbitraggi fra borsa e borsa; ma si sarebbero provocati dei dislivelli e si sarebbe lasciata perdurare nell’ultima ora unica una incertezza generale, propensa all’inazione ed al marasma.

 

 

Coll’orario multiplo oggi vi è una borsa che, chiudendosi dopo le altre, riassume i corsi di tutte, li parifica, permette le coperture e facilita le contrattazioni. Il diritto di inquisizione poliziesca attribuito ad una moltitudine di gente – dal presidente delle camere di commercio alle delegazioni di borsa ed agli agenti del fisco – avrebbe posto tutti gli operatori di borsa, i banchieri, gli agenti di cambio alla mercé di persone estranee, che sarebbero state in grado di conoscere i loro interessi. Il sospetto di confidenze fatte ai rivali dagli inquisitori, alcuni dei quali provveduti di modestissimi stipendi, si sarebbe purtroppo radicato in tutti, malgrado le promesse solenni della legge e le comminatorie di multe. Per arginare e moralizzare le borse si sarebbero spinti banchieri, agenti di cambio, commissionari a fabbricare doppie serie di libri, a nascondere documenti, a far contratti verbali ed a farli per mezzo di intermediari nullatenenti. Era il regno delle teste di legno che si inaugurava o si affermava, il quale, come ognun sa, è oltremodo confacente a dare sicurezza e sincerità alle contrattazioni e stabilità ai corsi.

 

 

Purtroppo, se lo scioglimento della Camera ha dato un po’ di respiro alle borse, la ripresentazione dell’antico disegno di legge prova che l’esperienza ed il tempo non hanno ammaestrato in nulla la burocrazia centrale incaricata di salvare le sorti dell’economia italiana. Né vi è da sperare affatto nel controllo dell’opinione pubblica e del Parlamento. L’opinione pubblica è malissimo informata in questo campo e la più parte dei deputati partecipa ai pregiudizi della opinione comune o volgare. Pochi si interessano alla discussione dei progetti di legge o delle interpellanze su questa materia.

 

 

I più affermano di non capirne niente o fanno finta di ignorare anche le cose più semplici per paura che si dica che essi giocano in borsa al rialzo od al ribasso. Quando, magari dai banchi del Governo, si pronuncia qualche frase grossa contro i denigratori del credito pubblico o si assicura che la giustizia farà severamente il dovere suo contro i delinquenti annidati nei cupi antri delle borse è un coro di approvazioni non si sa se più ignoranti od ipocrite. I pochi deputati colti, consapevoli della inutilità e dell’artificio ed anzi del danno gravissimo di queste declamazioni a freddo, non osano parlare. Sarebbero sforzi inutili e ne acquisterebbero una nomea fastidiosa di deputati borsisti o borsaiuoli.

 

 

Ci sono sempre i socialisti – i quali confondono insieme allegramente ed inconsciamente il succhionismo e la speculazione, il volgare arricchirsi fraudolentemente a danno dello Stato o dei privati con l’esercizio di una delle più elevate e rare e utili facoltà umane, quella della previsione dei fatti futuri, e tengono l’operatore di borsa come il prototipo dell’infame capitale – pronti ad applicare ai coraggiosi difensori delle sane idee economiche il nomignolo di borsaiuolo o sciacallo.

 

 

Alle ingiurie degli incompetenti in Parlamento e fuori tengono bordone i nonsensi che si leggono ogni giorno nella stampa finanziaria italiana. Uno dei caratteri peculiari dell’economia italiana è la inferiorità della sua stampa tecnica finanziaria. Non voglio accennare ai grandi quotidiani politici, i quali hanno poco spazio per tutto e delle borse non possono fare altro che la cronaca, più o meno incolore. Bisognerebbe che in Italia il giornale si vendesse a 10 o 20 centesimi al giorno perché il reparto di borsa fosse largamente curato e divenisse una guida reputata per il pubblico ed ammonitrice per gli avventurieri.

 

 

Ma da noi è deficientissima sovratutto la stampa tecnica. Io qui mi sono proposto di non far nomi; ma credo che non potrò esser tacciato di esagerazione quando affermo che i migliori, i più onesti dei nostri giornali finanziari non osano dire il vero, se non quando siamo dinnanzi ad un fallimento clamoroso od a una domanda di moratoria. Allora le magagne saltano fuori.

 

 

Prima, tutto deve essere dipinto in color di rosa; si cerca sempre di attenuare, di sfumare, di diminuire in tempi di crisi e non si dicono mai parole di prudenza, di ritegno, di ammonimento nei tempi della follia borsistica. Qualche giornale settimanale vi è che ha tenuto un contegno coraggioso e non ha avuto paura della verità; ma ha un carattere più scientifico che pratico e il discorso era sempre sulle generali. Mentre ciò che importerebbe di più sarebbe l’analisi minuta, precisa di singoli bilanci e delle azioni di questa o quella società, un’analisi, severa sempre e per tutti e non soltanto a tratti, contro i titoli anticipati alla direzione.

 

 

Quand’è che in Italia potremo leggere qualcosa di simile alla Frankfurter Zeitung di Germania, all’Economist di Londra, all’Economiste français di Parigi? Dove non solo si leggono articoli scritti sulle generali; ma si ammirano analisi precise, esaurienti di una determinata impresa X, di un dato titolo Y, coll’intento dichiarato di sconsigliare il pubblico dal comprarlo, di indurlo a sbarazzarsene o di dimostrare la convenienza dell’acquisto. Dov’è che in Italia, su un giornale finanziario reputato per onestà ed indipendenza, si potrebbe leggere, come mi è accaduto di recente su un autorevolissimo giornale francese, un articolo con un titolo di questo genere: Perché le azioni Rio Tinto sono troppo care sia in rapporto ai prezzi del rame metallo che al probabile rendimento dell’azienda? Il meno che potesse toccare ai disgraziati direttore e gerente di quell’ipotetico giornale sarebbe di essere denunciati come sciacalli all’indignazione universale e proposti per un bravo processo al procuratore del Re. È naturale che, dati questi gravissimi pericoli, i quotidiani politici e finanziari ed i settimanali onesti ed indipendenti stiano zitti o si mantengano prudentemente sulle generali e lascino il campo alla fungaia velenosa della stampa prezzolata. Questa denigra i titoli delle aziende che non si sono piegate ancora al ricatto, abbandona a metà le requisitorie appena ricevuto il prezzo del silenzio, loda e magnifica quei valori per cui le è data la consegna dell’esaltazione.

 

 

Questa è forse la diga che più importerebbe di rompere nel momento presente di borsa. L’argine del silenzio imposto alle voci autorevoli ed indipendenti ha operato anche qui alla rovescia. Il pubblico dei capitalisti, il quale era stato abituato negli anni dal 1904 al 1907 a leggere articoli laudativi negli innumeri giornali finanziari che pullulano in Italia, vide seguitare gli elogi e moltiplicarsi le difese nel 1908; e ne trasse la conclusione che i primi erano tutti ingiusti e le seconde tutte sbagliate. La conclusione era esagerata, ma era quale poteva aspettarsi dall’opera nefasta degli arginatori.

 

 

La ripresa, che già si avverte all’estero in quei paesi ed in quei comparti in cui il bisturi del chirurgo tagliò più a fondo le parti incancrenite, non potrà affermarsi in Italia se non quando si saranno abbattuti tutti gli argini e le acque potranno riprendere il loro corso naturale. Vi saranno taluni campi sommersi; ma non mette conto di coltivarli, difendendoli a gran fatica nelle loro bassure e lasciando al secco quelli più fecondi ed elevati, che aspettano il ritorno dell’acqua fecondatrice.

 

 



[1] Traggo questo ed alcuni dei casi seguenti da due articoli pubblicati sulla Gazzetta del Popolo del 19 e 20 maggio 1908 dal signor Giovanni Maffei, ex agente di cambio a Torino e conoscitore acuto del meccanismo borsistico.

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