Opera Omnia Luigi Einaudi

Il nuovo decreto-legge sull’imposta patrimoniale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 21/02/1922

Il nuovo decreto-legge sull’imposta patrimoniale

«Corriere della Sera», 21 febbraio 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 568-573

 

 

 

Nella seduta del 20 dicembre 1921 l’on. Soleri presentava alla camera un disegno di legge per modificazioni all’imposta straordinaria sul patrimonio. Improvvisamente, la «Gazzetta ufficiale» del 15 febbraio pubblicava un decreto legge con la data del 5 febbraio con cui si dà vigor di legge al disegno presentato alla camera, con alcune varianti di minore importanza. Non voglio aggiunger parole sulla faccenda dei decreti legge; ma non si può non constatare il nuovo passo fatto verso il ritorno alla normalità: un gabinetto, dimissionario fino dal 2, e rimasto in carica per gli affari di ordinaria amministrazione dello stato, emana il 5 un decreto di riforma della imposta straordinaria sul patrimonio, ragguagliando così la riforma medesima ad un «affare di ordinaria amministrazione». È vero, e giova riconoscerlo, che il tempo stringe: dovendosi predisporre il lavoro necessario per le nuove dichiarazioni entro il 30 giugno 1922, i giorni contano e quelli ancora disponibili non sono di troppo; né c’era più speranza che il parlamento giungesse in tempo. Ma è vero altresì che nel futuro dizionario dei termini politici, bisognerà ricordarsi che «affare di ordinaria amministrazione» vuol significare «riforma delle leggi fondamentali in materia di imposte».

 

 

Fatta la quale avvertenza per dovere di commentatore, debbo ripetere l’osservazione già fatta altra volta a proposito del disegno di legge: che la imposta straordinaria patrimoniale è pessima e produce malanni ed ingiustizie irrimediabili, ma che il disegno, ora decreto legge, è buono perché procura di rimediare, nei ristrettissimi limiti del possibile, a parecchi degli inconvenienti verificatisi nell’applicazione della legge. Quando usciranno le istruzioni ministeriali, cercherò di spiegare quali siano i doveri ed i diritti dei contribuenti in occasione delle denuncie nuove a farsi e delle valutazioni definitive dei terreni, dei fabbricati e delle aziende industriali a cui bisogna ora por mano. Faccio l’augurio – e sono sicuro di essere esaudito dal valentissimo D’Aroma, direttore generale delle imposte dirette – che le istruzioni siano chiare e tassative, cosicché costituiscano una guida sicura per funzionari e contribuenti. Ad esempio, leggo nel testo del decreto legge norme che si possono prestare a qualche dubbiezza per quanto tocca la valutazione dei fondi rustici, nei quali si dovrebbero comprendere, oltreché i fabbricati, anche «gli altri strumenti di produzione destinati a servizio del fondo». Da questa norma e dall’omissione delle aziende «agricole» dal novero delle aziende «industriali» potrebbe sorgere il dubbio che si debba capitalizzare al 5% non solo il reddito dominicale dei terreni, ma anche il reddito industriale dell’affittuario o coltivatore diretto. Il che non è, e darebbe luogo a sperequazioni gravi ed a sovratassazioni, in confronto ai commercianti ed agli industriali, contro di cui si rivolterebbero tutti gli agricoltori. Le istruzioni faranno luce su questo punto, risalendo alla origine legislativa dei criteri adottati nel testo del decreto legge originale 24 novembre 1919, che non è altro se non la legge di perequazione dell’imposta fondiaria del 1886, la quale distingueva nettamente fra il reddito netto (detto allora rendita) dei terreni, spettante ai proprietari e gli altri redditi agrari; e soltanto il primo tassava con la imposta fondiaria. Avendo i successivi decreti sull’imposta patrimoniale riprodotto il testo del 1886, è manifesto che il valore tassabile della terra risulta dalla capitalizzazione del solo reddito dominicale; mentre il reddito industriale deve essere capitalizzato a parte – sia mediante stima indiretta ricavata dal reddito, sia mediante stima diretta delle scorte – ed aggiunto al valore dei terreni.

 

 

Ma non è su questi punti specifici che oggi importa richiamare l’attenzione dei lettori. Per ora due sono le norme di cui occorre fare avvertiti i contribuenti: le nuove denuncie ed i riscatti.

 

 

Il decreto riapre invero i termini per le denuncie; sicché tutti coloro i quali non hanno fatta la denuncia od hanno omesso qualche cespite hanno facoltà di riparare alla omissione fino al 30 giugno 1922. Il decreto parla di facoltà del contribuente; ma in sostanza trattasi di obbligo, cadendosi in multe non piccole ove non si ottemperi al dovere tributario. E, quel che più importa, i contribuenti, i quali non abbiano in passato fatto la denuncia, perché, calcolando i terreni a 325 volte l’importo dell’imposta erariale ed i fabbricati a 25 volte il reddito imponibile, il loro patrimonio non superava le 50.000 lire, oggi sono obbligati a dichiarare il valore venale dei loro fabbricati e terreni all’1 gennaio 1920. L’obbligo non riguarda i contribuenti i quali fecero la denuncia in tempo. Per questi la finanza ha già la confessione dei contribuenti di possedere un patrimonio superiore alle 50.000 lire e procederà a poco a poco alla rivalutazione definitiva secondo il valore effettivo all’1 gennaio 1920. Per gli altri, e sono la grandissima maggioranza specie dei proprietari rustici, tale confessione non c’è; ed occorre venga fatta. I contribuenti, che perciò non fecero la denuncia perché, pur possedendo un fondo del valore di 100.000 lire e scorte per 20.000 lire, poterono, col coefficiente 325, calcolare il fondo, ad esempio, solo a 26.000 lire, a cui aggiungendo le scorte in 20.000 e il 6% per denari e mobili, non giungevasi a 50.000 lire, debbono farla ora, dichiarando che il fondo in verità valeva 100.000 lire.

 

 

Non gioverà starsene zitti, perché la finanza procederà alle valutazioni d’ufficio dei fondi e multerà coloro i quali, possedendo un fondo di valore superiore a 50.000 lire non lo avranno denunciato. Ed è necessario ed urgente procedere a tale rivalutazione d’ufficio, anche per ubbidire all’articolo 12, il quale fa obbligo di valutare i terreni «per zone e colture agrarie nei singoli terreni» e con criteri «medi» eliminatori di circostanze eccezionali. Or, come fare tali valutazioni «medie» quando ora in moltissimi comuni di piccola e media proprietà, sono appena tre o quattro i contribuenti denuncianti ed i più, che pur devono pagare, se ne sono stati zitti? Sarebbe ingiusto procedere a valutazioni nei confronti dei soli tre o quattro denuncianti, ai cui terreni, per odio od invidia di parte, si potrebbero, da non benevoli informatori locali, attribuire valori cervellotici; mentre facendosi la rivalutazione per tutti insieme meglio si preciseranno i valori medi. Anche su ciò richiamo l’attenzione del ministro e del direttore generale: sulla necessità, cioè, che prima si proceda ad includere nella rete tutti i contribuenti possibili e poi si proceda alle valutazioni, con criteri uniformi ed equi. Perciò comincio a dubitare della convenienza di far fare ai contribuenti, insieme alle dichiarazioni entro il 30 giugno 1922 per l’imposta patrimoniale, anche quella per l’imposta complementare sul reddito entro il 31 agosto 1922. L’imposta patrimoniale è stata una vera disgrazia per la finanza, perché intralcia il lavoro per le imposte normali e complementari. Non so immaginare gli uffici finanziari sotto il diluvio di queste due serie di denunce, le quali dovrebbero essere coordinate tra loro. Meglio sarebbe apprestare le nuove denunce per la patrimoniale, accelerare gli accertamenti d’ufficio, procedere alle valutazioni definitive, e, sgombrato, col 1922 e nella prima metà del 1923, il terreno da questo ingombro fastidioso, essere pronti ad affrontare nel 1923 il compito ponderosissimo dell’impianto della nuova complementare permanente. Altrimenti, né l’un lavoro né l’altro riuscirà bene; ed otterremo un risultato complessivo minore di quello ricavabile da un’imposta sola.

 

 

Tanto più è necessario dedicarsi a fondo per ora alla sola patrimoniale in quanto il decreto legge incoraggia opportunamente i riscatti e tenta di risolvere la complessa questione del privilegio fiscale (vecchio 53 e nuovo 56).

 

 

Il riscatto dell’imposta è logico in una imposta la quale dovrebbe essere pagata in un unico e dato momento e solo per comodità dei contribuenti viene diluita in 10 o 20 annualità; ed era già ammesso dai decreti 29 novembre 1919 e 22 aprile 1920 con l’abbuono dello sconto al 6% composto. Il nuovo decreto incoraggia ancor più il riscatto volontario e totale con quattro provvidenze: 1) per la prima delle quali il contribuente ottiene l’abbuono del 4% sulle rate già versate entro il 30 giugno 1922; 2) per la seconda, può ottenere di pagare l’importo del riscatto in 12 rate, ossia in due anni, senza aggiunta di interessi di mora, sebbene egli ottenga il beneficio dello sconto del 6%; 3) per la terza, può avere il beneficio del versamento diretto in tesoreria, con l’esenzione dagli aggi di riscossione; 4) e per la quarta, infine, ha il diritto di detrarre sino alla fine del decennio e del ventennio l’importo dell’imposta che avrebbe dovuto pagare, qualora non avesse effettuato il riscatto, dal reddito soggetto all’imposta complementare progressiva sul reddito.

 

 

V’è di più. Il decreto contiene norme per il riscatto obbligatorio, effettuato cioè d’ufficio, quando: 1) si tratti di beni di sudditi ex nemici o di stranieri e vi sia fondato motivo che possa venir meno la garanzia al credito dello stato; 2) i beni cadono in successione o vengono trasferiti per atto tra vivi a titolo gratuito, considerandosi in tal caso l’imposta quasi un onere successorio da solversi subito; 3) possa comunque temersi la perdita della imposta.

 

 

È autorizzato anche il riscatto parziale per singoli immobili o per una frazione di essi, quando la finanza reputi abbastanza garantito il residuo debito del restante patrimonio ovvero venga offerta altra idonea garanzia. È questo un espediente ideato per risolvere l’irta questione del privilegio fiscale dell’articolo 53 (ora 56). È ben noto che l’articolo 53 sanciva un privilegio generico della finanza su tutti i beni posseduti dal contribuente all’1 gennaio 1920; e ciò era da un lato assurdo per i beni mobili, i quali non si potevano perseguire in mano dei compratori di buona fede, e dall’altro poneva un incaglio formidabile al commercio dei beni immobili ed al credito fondiario, perché compratori e creditori ipotecari potevano sempre temere lo spettro incombente del privilegio fiscale, per una somma indeterminata di imposta, la quale aveva la precedenza su tutti e poteva danneggiare gravemente chi aveva pagato il prezzo d’acquisto o mutuato somme su ipoteca. Il nuovo articolo 56 mantiene il privilegio solo sui beni mobili spettanti al contribuente al momento della riscossione dell’imposta (non più all’1 gennaio 1920) e con posposizione ai privilegi generali e speciali di cui agli articoli 1956 e 1957 del codice civile. Quanto agli immobili, il privilegio rispetta i diritti dei terzi costituiti anteriormente alla pubblicazione del decreto 24 novembre 1919; ed il proprietario può liberarsene, sia dando valida garanzia, sia riscattando, come si disse sopra, la parte dell’imposta gravante su quell’immobile. In tal modo, il commercio dei beni immobili diverrà di nuovo possibile: all’atto dell’acquisto, il compratore chiederà al venditore di dimostrargli che l’immobile è libero, oltreché da tutti gli altri pesi ed oneri, anche dal privilegio fiscale; ed il venditore lo potrà fare procedendo al riscatto parziale o dando alla finanza idonea garanzia. Così viene avviato a soluzione un problema gravissimo, che minacciava di arenare il commercio dei beni immobili, con grave nocumento dell’economia nazionale. Perché venga risoluto del tutto, occorre che sia compiuta rapidamente, con criteri uniformi, la valutazione delle case e dei terreni, affinché l’amministrazione sia in grado di effettuare i riscatti parziali per i singoli beni immobili. Questo è oramai il porro unum et necessarium a cui deve essere subordinata ogni altra azione della finanza.

 

 

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