Opera Omnia Luigi Einaudi

Il peggioramento dei cambi e la difesa della valuta

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/02/1920

Il peggioramento dei cambi e la difesa della valuta

«Corriere della Sera», 3[1], 7[2] e 13[3] febbraio; 10 aprile[4], 30[5] maggio 1920

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 592-606

 

 

 

I

 

Niente prestiti federali americani

 

I cambi dei paesi ex belligeranti passano attraverso ad un periodo che non è certamente confortante.

 

 

L’Italia paga la sterlina 56 lire invece di 25,22, il franco svizzero 2,80, il dollaro 16,25 (parità 5,18); e può soltanto consolarsi pensando che il franco francese – già salito a lire 1,65 – vale ora meno di lire 1,20.

 

 

Il rialzo del valore della lira in termini di franco francese (la lira vale ora 85 centesimi di franco, quando nel giugno 1918 ne valeva solo 61) è spiegato dalla cattiva situazione in cui il franco francese si trova di fronte alla sterlina ed al dollaro. Mentre fino al marzo del 1919, non erano mai stati necessari più di 28 franchi per comprare una sterlina, ora il franco è deprezzato in modo tale che ce ne vogliono 46; e così il dollaro, che non era mai costato più di franchi 5,90 ora ne costa quasi 13.

 

 

Né la sterlina, se guadagna sul franco francese e sulla lira, ride rispetto alle altre monete: occorrevano normalmente 4,80 dollari per comprarla ed ora ne bastano 3,55-3,60; valeva 25,22 franchi svizzeri ed ora non giunge a 20; e del pari vale solo 19,50 pesete spagnuole contro 25.

 

 

Il movimento al ribasso non raggiunge lontanamente il punto a cui sono scesi marco e corona, di cui il primo invece di franchi 1,23 svizzeri vale solo 6,5 centesimi, e la seconda invece di franchi 1,06 vale 1,5 centesimi. La lira italiana, per quanto deprezzata, equivale ancora a quasi 6 marchi tedeschi e 24 corone austriache. Non perciò il ribasso è meno impressionante.

 

 

Molte considerazioni potrebbero farsi: per ora credo opportuno insistere, al solito, su un punto solo: la cura deve cominciare all’interno. Troppi giornali e troppi giornalisti scrivono sulla necessità, sul dovere, sull’interesse dei paesi più potenti di venire in soccorso dei paesi a moneta deprezzata, perché non si abbia il preciso dovere di dire forte, apertamente: col chiedere ad altri, col domandare agli Stati uniti – in fondo sono essi soli gli «altri», con un contorno opaco di piccoli paesi neutrali e sudamericani – noi non risolveremo il problema; anzi, quanto più ci ostiniamo a far dipendere la soluzione della crisi dei cambi dall’aiuto altrui, tanto più allontaneremo l’aiuto peggiorando la crisi.

 

 

Gli americani ce lo hanno detto in tutti i toni. A torto od a ragione, essi hanno dichiarato a tutti coloro che li hanno interpellati, che il governo degli Stati uniti non può più, per legge, dare un soldo a nessuna nazione europea al di là delle assegnazioni già fatte e che l’Italia le ha, ad esempio, per conto suo esaurite tutte, ad eccezione degli ultimi 10 milioni di dollari. Né vi è alcuna speranza che il congresso apra alcun nuovo credito per nessuno. Questa partita è chiusa, definitivamente chiusa. Se si riaprirà, sarà su basi completamente diverse, per ora puramente ipotetiche e su cui nessuna persona ragionevole può fare assegnamento. Le dichiarazioni fatte dal ministro del tesoro americano Carter Glass e riferite ieri l’altro dal «Corriere» sono tali da togliere ogni illusione – in chi ancora ne nutrisse – sulla possibilità di qualsiasi ulteriore azione di governo da parte dell’America.

 

 

Quanto ai privati americani (banchieri e risparmiatori), essi possono e vogliono venire in aiuto con crediti all’Europa. Ma a quali condizioni? Ce lo dice il signor Hoover, l’americano che ha certo le maggiori benemerenze verso l’Europa, colui che la salvò dalla fame nella primavera del 1919. In una intervista recente, egli disse che i bisogni dell’Europa potevano essere soddisfatti con crediti ordinari commerciali; ma che per ottenerli l’Europa doveva:

 

 

  • mettere in ordine i suoi bilanci; ridurre le spese ed aumentare le entrate;

 

 

  • lavorare accanitamente. La demoralizzazione dell’Europa è dovuta in gran parte alla poca voglia di produrre; e solo l’Europa può trovare in se stessa il rimedio;

 

 

  • liberarsi dai controlli governativi. A coloro che farneticano di economie associate, di controlli governativi, di intese fra stati per salvare il paese dalla rovina, dedico il seguente brano dell’intervista di Hoover:

 

 

«Non vi è motivo di agitarsi. Il controllo sulle provviste di merci uccide l’iniziativa. Noi ci ritirammo dall’Europa all’epoca dell’ultimo raccolto precisamente per questo motivo: che bisognava imprimer bene nella mente dell’Europa l’idea della necessità di ritornare al lavoro e agli ordinari metodi commerciali. Il mondo ha bisogno di abbandonare ogni idea di aiuto governativo, sia all’interno che all’estero, e di ritornare al lavoro ed agli affari».

 

 

Parole chiare, di colui che un altro uomo di grandissima levatura ha definito essere il solo uomo di prim’ordine uscito dalla conferenza della pace con una reputazione accresciuta.

 

 

Bisogna fare tesoro di queste parole chiare ed oneste. Avremo quanti crediti vorremo, ristoreremo il valore della lira. Ma a queste condizioni inderogabili:

 

 

  1. Che il ministro del tesoro d’Italia non emetta più una lira di carta – moneta e ne ritiri il più che sia possibile. Pubblicare ancora un conto del tesoro da cui risulti un aumento della circolazione sarebbe un delitto contro il paese. Piuttosto far debiti ad alto interesse e sovratutto mettere imposte. Dar uomini capaci e molti al direttore generale delle imposte perché applichi e migliori i tributi. Diminuire le spese.

 

 

  1. Rimettersi a lavorare. Ogni sciopero inutile è un peggioramento della lira, è un rialzo nel costo della vita. Non basta ridurre i biglietti per far scendere i prezzi. Se teniamo le ferrovie in disordine; se lavoriamo tre giorni su sette, se la merce prodotta non arriva al consumo, i prezzi devono ancora salire.

 

 

  1. Eliminare i controllori, i fabbricanti di consorzi, la gente ostinata a credersi i salvatori del paese. Imparino costoro dal più grande di loro, da chi dopo aver sul serio salvato prima il Belgio e poi l’Europa, si è ritirato, giudicando che il tempo dei controlli era passato e che la gente doveva nuovamente imparare a muoversi da sé e a cercar da sé la propria salvezza. Controlli dei cambi, dei cereali, dei risi, dei latticini, degli oli, ecc. ecc. tutto questo armamentario deve essere demolito. Teniamo bene a mente sovratutto: che gli Stati uniti, i soli possibili fornitori di credito in questo momento, sono ben decisi a non concedere un soldo ai governi europei e neppure ai governati, finché questi continuano a lasciarsi mettere il piede sul collo dai governi e non riducono i governi al loro mestiere: che è di governar bene, rimettere in ordine il bilancio dello stato e non ficcar il naso inutilmente nelle faccende dei privati.

 

 

II

 

Divieti di contrattazione dei cambi e vincoli alla esportazione dei capitali

 

Le interrogazioni che alla camera sono state svolte intorno alla questione dei cambi non hanno davvero illuminato il problema di una luce troppo viva. Importa però dire qualcosa dei provvedimenti che l’on. Schanzer ha annunziato alla camera. Di parecchi di essi gli effetti saranno irrilevanti. Il divieto di importare merci di lusso è importante moralmente; ma disadatto a fornire grandi risultati, sia perché la massima parte delle merci di lusso proviene dalla Francia e dagli altri paesi alleati con cui siamo vincolati da trattati di commercio, sia perché il loro peso è minimo nella massa del commercio di importazione. Né si sa quale portata possa avere il contingentamento delle merci di lusso, essendo evidenti e tante le difficoltà che praticamente il costo dell’operazione finirà di essere superiore al vantaggio. Per ridurre i consumi di lusso, altro metodo pratico, sebbene di limitata efficacia, non v’è fuor di tassare fortemente le merci che si vogliono condannare e di restringere i redditi di coloro che sono dediti ai consumi di lusso e che non sempre appartengono alle classi considerate più ricche.

 

 

Una parte dei restanti provvedimenti non dipende da noi. Se gli Stati uniti sono decisi a non concedere, come governo crediti agli stati europei, non si comprende come si possa riuscire a persuaderli a fare ciò che essi considerano un danno per l’Europa. È opinione dominante nei circoli bancari e politici americani e inglesi che la continuazione dei crediti di stato sia sconsigliabile perché il bisogno più urgente dell’Europa è di ritornare ai metodi privati di credito e d’industria. Ho già dimostrato altra volta che questa opinione americana coincide col vero interesse dell’Italia; né le vertiginose ascese dei cambi mi possono indurre, in un accesso di nervosismo, a dire il contrario.

 

 

La verità è che il governo si è lasciato prendere la mano dallo stesso panico nervoso che ha assalito i mercati italiani e ha spinto i cambi all’insù, appena un piccolo aumento nella richiesta dei cambi ha potuto far temere di non trovare copertura. I privati, che hanno visto salire i cambi, si son messi a comprarne in furia e i detentori si sono ben guardati dal vendere ciò che possedevano. È un fenomeno consueto, che si verifica sempre nei momenti di panico. Invece di un aumento di uno i prezzi salgono a balzi di dieci e di cinquanta. Non c’è altro rimedio in questo caso, fuor che tenere i nervi saldi e non lasciarsi impressionare. Tutt’al più il governo, il quale avrebbe sempre dovuto avere, per i bisogni del suo portafoglio, una scorta di qualche centinaio di milioni di valuta estera, avrebbe dovuto dare ordine di venderne liberamente con calma e con seguito quel tanto che era utile a frenare l’ascesa.

 

 

Invece, con provvedimenti impulsivi, si è ritornati a sistemi tollerabili al più in tempo di guerra, ma esiziali in tempo di ricostruzione.

 

 

Il divieto di contrattazione dei cambi è un provvedimento di fortuna, che è destinato ad avere assai cattivi effetti. Ignorare i fatti fastidiosi non equivale a distruggerli. Né del resto si potrà impedire ai giornali esteri e alle agenzie telegrafiche di farci conoscere le quotazioni della lira in Isvizzera, a Londra, a Parigi e a New York. Il solo effetto pratico è che, nell’oscurità, gli acquisitori forzati di cambi esteri dovranno pagare prezzi più alti del corrente alle banche detentrici di cambi; e i venditori esiteranno a vendere. Il margine tra lettera e denaro si allargherà ; e crescerà il guadagno di quegli intermediari che si vogliono combattere. All’estero si avrà l’impressione che in Italia sia successo il finimondo se il governo si è proprio deciso a sopprimere le quotazioni dei cambi; e una impressione tanto lontana dalla realtà non potrà non riuscirci dannosa. Idee ugualmente errate hanno consigliato di vietare la vendita di merci nei paesi a valuta deprezzata; e così pure l’esportazione dei capitali: provvedimenti di carattere burocratico, i cui effetti saranno l’opposto del preveduto. Una delle cause della ripresa delle nostre esportazioni è l’audacia con cui i nostri industriali sanno conquistare i mercati negli ex paesi austriaci, dei Balcani e del Levante, tutti paesi a moneta deprezzata; paesi che è grande interesse dell’Italia conquistare e conservare e che non si possono né conquistare né conservare se non si attende per lunghi mesi e per anni la riscossione dei crediti. Se, appena iniziato un movimento promettente, lo deprimiamo con pastoie sui cambi, avremo l’illusione di impedire di qualche punto l’ascesa dei cambi, ma arrecheremo danni di miliardi al paese.

 

 

Del pari sono profondamente scettico intorno al vantaggio dei vincoli all’esportazione dei capitali. Il ministro del tesoro non si lasci sopraffare dalle grida degli energumeni e seguiti nella via intrapresa. Non spaventare i capitalisti, tassarli severamente, ma non confiscare i capitali. I capitalisti sono più astuti di qualunque ministro e di qualunque comitato di sorveglianza. Per trattenere i capitali nazionali in un paese bisogna invitare in questo stesso paese i capitali esteri. Questi non entrano in uno stato donde non sono sicuri di poter uscire. Anche qui è pura illusione credere che i divieti di esportazione abbiano il benché minimo effetto utile.

 

 

Se pure, per ipotesi assurda, l’avessero, quell’effetto sarebbe di gran lunga controbilanciato e superato dal dannoso risultato di avere elevato una muraglia ai confini del paese. Si ha un bel promettere l’esenzione dall’imposta patrimoniale ai capitali esteri depositati nelle banche italiane. I capitali esteri non verranno finché non siano sicuri di non cacciarsi in un cul di sacco; finché non siano certi di potersene andare senza bisogno di autorizzazioni dell’istituto dei cambi, del tesoro e simili ingombri. L’Italia, ricordiamolo bene, è un paese che può forse esportare qualche decina di milioni di lire di capitali paurosi, ma ha bisogno di importare le centinaia di milioni e di miliardi di capitale straniero, e questi non verranno finché non sarà cessata la gragnuola dei decreti fastidiosi e vincolisti.

 

 

III

 

Minacce di requisizione e divieti di esportare a credito servono a ribassare i cambi?

 

È augurabile che la commissione parlamentare nominata dalla camera per esaminare il disegno di legge per la cosidetta difesa della valuta sappia almeno sfrondarlo da tutte le disposizioni superflue e dannose che si sono innestate su un provvedimento, il cui pregio maggiore consisterebbe nel cercare di dare quel minimo di soddisfazione ai clamori della gente agitata che sia compatibile col non fare nulla di dannoso al paese. Sommamente dannose possono sovratutto essere due delle disposizioni del decreto: la prima e quella che, col pretesto di regolare i cambi, dà diritto al governo di requisire qualunque azienda «sia ritenuta necessaria ad assicurare la vita del paese». Quale azienda può non cadere sotto questa minaccia di requisizione? Una minaccia così indeterminata non è tale da recidere i nervi ad ogni uomo di intraprendenza e di ardire, così da arrecare ai cambi un danno centuplo di quel vantaggio che i requisitori possono sognare di dare al paese? Sogneranno, dico; perché se un’azienda è veramente necessaria alla vita del paese, appunto perciò bisogna non requisirla, perché requisire vuol dire diminuire la produzione.

 

 

Un altro punto del disegno di legge è ugualmente pessimo ed è quello che dà facoltà al governo di «sospendere l’esportazione dall’Italia e dai territori occupati di merci che non siano effettivamente pagate in valute utili agli acquisti su qualunque mercato».

 

 

L’on. Nitti va ammonendo da tempo che occorre importare di meno ed esportare di più; ma appena gli italiani si mettono a seguire il suo consiglio, ecco il governo alza le mani e dice: alto là. Voi esportate troppo. Dovete chiedere prima il mio consenso per permettervi il lusso di esportare. Ecco le cifre del nostro commercio internazionale sino a tutto dicembre 1919 (in milioni di lire):

 

 

Importazioni Esportazioni Eccedenza
Gennaio-Febbraio

2372,2

486,4

1885,8

Marzo-Aprile

3111,2

609,6

2501,6

Maggio-Giugno

3358,5

699,9

2658,6

Luglio-Agosto

2232,0

835,0

1397,0

Settembre-Ottobre

2483,8

1192,0

1291,8

Novembre-Dicembre

2505,6

1188,4

1317,2

 

 

Il miglioramento è promettente e continuo. Il secondo semestre del 1919 ha un tutt’altro aspetto dal primo semestre e fa concepire le più liete speranze. Poiché, e giustamente, il capo del governo ha ripetutamente, ed ancora l’altro giorno al senato, ammonito gli italiani del gravissimo pericolo che corre la loro economia, finché dura il rapporto bellico da 1 a 5 fra esportazioni ed importazioni, ho voluto ricalcolare quel rapporto sulla base dei dati recentissimi:

 

 

 

Esportazioni

 

 

Importazioni

 

1913

1

a

1,45

1918

1

a

4,79

1° semestre 1919

1

a

4,92

4° semestre 1919

1

a

4,67│

2,08│

2,24

2,16│

5° semestre 1919

1

a

6° semestre 1919

1

a

 

 

L’acme dello squilibrio fu raggiunto nel primo semestre del 1919; e, riferito a quel periodo, il monito dell’on. Nitti è esattissimo. Eravamo davvero da 1 a 5.

 

 

Ma dopo d’allora le cose sono notevolmente migliorate. Il secondo semestre dà un rapporto medio di 1 a 2,24, che per gli ultimi due mesi scende ad 1 a 2,10. Non siamo più troppo lontani dal rapporto normale del 1913 di 1 a 1,45.

 

 

I dati del 1919 sono ancora provvisori, perché se le quantità sono quelle del 1919, i prezzi usati per i calcoli sono ancora quelli del 1918. Ma siccome aumentarono di prezzo tanto le importazioni quanto le esportazioni, così credo che il rapporto fra le une e le altre non potrà variare notevolmente quando si applicheranno i prezzi definitivi del 1919.

 

 

Ho già detto le ragioni del benefico mutamento del secondo semestre del 1919. Il governo lasciò liberamente o, meglio, più liberamente, entrare ed uscire merci da e per l’estero; ed il cambio continuò a salire ed a premiare le esportazioni. Adesso tutto questo movimento promettente è minato alle radici dalle minacce contenute nel disegno di legge. Prima di esportare bisognerà:

 

 

  1. persuadere il governo che il cliente pagherà in valute utili agli acquisti su qualunque mercato;

 

 

  1. dimostrare che le merci sono state o saranno effettivamente pagate.

 

 

Ciò vuol dire il ripristino di tutti quei vessatori controlli che fu gran fortuna avere eliminato in parte e che dovrebbero essere eliminati del tutto.

 

 

Pretendere che la merce sia pagata effettivamente vuol dire pretendere l’impossibile nei moltissimi casi in cui si lavora a credito; vuol dire uccidere le nostre esportazioni verso i paesi del Levante, dei Balcani, verso i paesi ex austriaci, verso tutti quei paesi in genere dove stanno clienti ottimi, ben conosciuti da industriali e banche nostre, clienti che pagheranno a suo tempo, ma non possono pagare oggi. Che pretesa è questa di far giudicare da burocrati o commissari della solvibilità dei clienti dell’industria italiana? Si sprecherà molta carta, si impianteranno uffici, si inasprirà il problema delle abitazioni, si creeranno sinecure e si farà aumentare il cambio, impedendo le esportazioni.

 

 

Perché il governo deve intromettersi nel giudicare se la valuta in cui sono stipulati i contratti è buona o cattiva? Che cosa ne sa il governo?Questo può, forse, trovarsi imbarazzato a negoziare moneta forestiera; è l’unica conseguenza di tale incapacità è lasciare ai privati di togliersi d’impiccio. Del resto, quasi sempre, gli esportatori italiani sanno fin d’ora benissimo togliersi d’impiccio da sé: vendono in lire italiane o in lire-sterline; e se qualche volta l`affare non si potrebbe concludere senza stipulare il prezzo in moneta straniera, sanno benissimo fissare prezzi e condizioni convenienti.

 

 

Finché i maniaci dei controlli statali non si saranno levati di testa il chiodo fisso di essere i soli capaci di salvare il paese e non si saranno convinti che qualunque industriale o commerciante italiano è capace di fare gli affari suoi cento volte meglio di qualsiasi organo governativo, non ci sarà speranza che la bilancia del commercio internazionale ritorni alle sue condizioni normali. Assentandosi il governo, abbiamo migliorato grandemente. Colla nuova ripresa di velleità di interventi statali, c’è gran pericolo che il rapporto spauracchio di 1 a 5 torni a fare la sua comparsa.

 

 

IV

 

«Letterissima» sul mercato dei cambi

 

L’ascesa dei cambi è di questi giorni divenuta impressionante. Si salta su di giorno in giorno di 5 lire sulla sterlina, di 25 lire sul franco svizzero, di 1 lira sul dollaro. A rendere disastrosa l’impressione contribuisce il modo, naturalissimo del resto, come è calcolato in Italia il cambio. Quando la lira italiana vale in Svizzera 50 centesimi di franco, il cambio in Italia è quotato a 200: bisogna dare 2 lire per avere 1 franco. Se la lira ribassa da 50 a 25 centesimi, il cambio sale da 200 a 400; una ulteriore discesa di 1 centesimo in Svizzera fa salire in Italia il cambio di 20 punti. Sono due modi di esprimere lo stesso fatto; ma il secondo è più impressionante del primo.

 

 

Il fatto è del resto grave, in qualunque maniera lo si esprima. Sono tuttavia tentato di credere che il nuovo gran ribasso della lira non sia per sé determinato da emissioni cartacee. Le forti emissioni di biglietti sono l’ambiente in cui nasce e si sviluppa il deprezzamento della moneta; ma ferma rimanendo la massa cartacea, il deprezzamento può variare entro limiti amplissimi.

 

 

Notizie autorevoli fanno ritenere che dal novembre in poi la massa dei biglietti circolanti sia rimasta invariata sui 18 miliardi. Il prestito doveva permettere il ritiro di qualcuno di questi miliardi; ma la speranza non si poté avverare. I 20 miliardi nominali sottoscritti corrispondono, essendo il titolo stato venduto all’85%, a soli 17 effettivi; e di questi 6 furono pagati in denaro contante, il resto in buoni del tesoro. A quest’ora è probabile che sui 6 miliardi forse 4 siano stati spesi; i restanti sono in cassa per parare alle spese correnti. Se non si fosse fatto il prestito e se questo non fosse riuscito così splendidamente, la circolazione sarebbe a 21-22 miliardi di lire ed i cambi veleggerebbero verso l’infinito.

 

 

Dunque non è vero che il prestito non abbia giovato. Ha fermato la circolazione a 18 miliardi; e bisognerà trovar modo che questa cifra non sia superata neppure in avvenire. Economie all’osso sui bilanci militari; rialzo del prezzo del pane per quelli che possono pagare: ecco i due rimedi sovrani. Spalancare le porte all’esportazione. Attuare le nuove imposte, senza ulteriori riforme tali da complicare e variare le dichiarazioni, cosicché i contribuenti siano indotti subito a risparmiare per pagarle. Rialzo ulteriore del saggio dello sconto e dell’interesse sui buoni del tesoro per sollecitare i dubbiosi all’acquisto. Se lo stato farà tutto ciò, avrà fatto le sole cose utili e possibili per moderare l’asprezza del fenomeno che oggi ci angustia.

 

 

In gran parte il fenomeno oggi pare di carattere psicologico. Fino a quando la sterlina non superò le 60 lire, molti compratori di merci all’estero attendevano a coprirsi, sperando nel ribasso. Fu un grave errore, di cui oggi essi scontano il fio. A mano a mano che qualcuno, stretto dalla scadenza, dovette comprare le sterline o i dollari necessari per il pagamento delle merci ricevute, il prezzo si spostava verso l’alto. Coloro che non erano arrivati alla scadenza cominciarono ad impensierirsi e poi ad impaurirsi; e si misero a comprare, terrorizzati dal pericolo di un ulteriore aumento. Ma più correvano a coprirsi, più vuoto trovavano dinanzi a sé. Il motto del giorno sui mercati dei cambi è «letterissima». Vuol dire che c’è unicamente «lettera», ossia richiesta di sterline e di dollari e niente denaro, ossia offerta. I cambi disponibili sono pochi; e coloro che li posseggono se li tengono ben cari. Sperano essi in un ulteriore aumento; essi, ossia non gli stranieri, che non c’entrano, come invano mi sfiatai tante volte a spiegare, ma gli italiani, i quali hanno venduto merce all’estero e posseggono sterline o dollari. Alcuni italiani, che hanno moneta straniera buona all’estero, non la fanno venire in patria per paura del bolscevismo e delle imposte.

 

 

È questo il momento del panico, in cui tutti vorrebbero comperare la sterlina per paura di vederla a 150 o a 200, o il dollaro, per tema di doverlo poi comprare a 30 o 40. Con la paura non si ragiona; e in momenti di paura sono possibili le oscillazioni violente, che oggi vediamo. Solo quando il sangue freddo sarà ritornato, si potrà dare sul fatto un giudizio ponderato.

 

 

V

 

Mettere in ordine bilanci pubblici e privati

 

Estraggo da un prezioso scritto – la seconda edizione delle sue note Su le condizioni della circolazione e del mercato monetario durante la guerra – dell’ on. Bonaldo Stringher, direttore generale della Banca d’Italia, alcune cifre sulle recentissime vicende del nostro commercio internazionale (in milioni di lire):

 

 

 

Importazioni

 

Esportazioni

 

Eccedenza

delle importaz.

1914

2.923,3

2.210,4

712,9

1915

4.703,5

2.533,4

2.170,1

1916

8.390,3

3.088,3

5.302,0

1917

13.991,2

3.308,5

10.682,7

1918

16.038,7

3.344,7

12.694,0

1919 I° semestre

8.841,7

1.796,0

7.045,7

1919 II° semestre

7.674,9

3.392,6

4.282,3

1919 anno

16.516,6

5.188,6

11.328,0

1919 I° semestre

2.430,7

467,7

1.963,0

1920 II° semestre

1.997,9

966,3

1.031,6

 

 

Dal 1914 al 1918 è un peggioramento continuo e progressivo. Siccome le cifre per questi anni sono definitive, così si può ammettere che le eccedenze delle importazioni sulle esportazioni abbiano dato luogo ad un corrispondente indebitamento pubblico e privato dell’Italia verso l’estero. È probabile che l’indebitamento non sia giunto a tanto, perché l’eccedenza poté in parte essere compensata da fonti diverse; ma l’indebitamento ci fu e cospicuo.

 

 

È probabile che anche nel 1919 l’incremento sia continuato; poiché, sebbene l’eccedenza in 11 miliardi e 328 milioni risulti in diminuzione, bisogna ricordare che le cifre del 1919 sono ancora provvisorie, ossia compilate secondo i prezzi del 1918. Siccome i prezzi del 1919 furono un po’, sebbene non molto, superiori a quelli del 1918, potrà darsi che l’eccedenza del 1919 abbia fors’anco ad essere superiore a quella del 1918. Così anche i prezzi usati nel primo bimestre del 1920 sono ancora quelli del 1919; e quindi può darsi che l’eccedenza effettiva sia anche del 20% superiore a quella di 1 miliardo e 31,6 milioni risultante dalla tabella.

 

 

Nonostante questa correzione da farsi, il movimento del commercio internazionale in senso favorevole all’Italia continua. Basta guardare al secondo semestre del 1919 in confronto al primo dello stesso anno; ed al primo bimestre del 1920 in confronto al primo del 1919. Le importazioni si contraggono e le esportazioni crescono; cosicché lo sbilancio scema. Ad ammonimento degli italiani, l’on. Nitti usava dire nei suoi discorsi che le esportazioni erano appena il quinto delle importazioni. Il che era esatto per il 1918 e per la prima metà del 1919; non lo è più per il secondo semestre 1919 e per il primo bimestre del 1920. Oramai battiamo all’incirca sulla metà. Se invece del rapporto, guardiamo alla differenza assoluta, le conclusioni sono le stesse. Lo sbilancio era di 1 miliardo e 174 milioni al mese nel primo semestre 1919; discese a 713 milioni al mese nel secondo semestre 1919, ed a 516 milioni nel primo bimestre 1920. Anche dopo che si saranno fatte le necessarie correzioni, l’andamento nelle grandi linee non potrà essere diverso. La bilancia del commercio internazionale va aggiustandosi; e si aggiusterebbe più velocemente, se il governo non si impacciasse di farla andar bene.

 

 

Ed allora, mi si può chiedere, perché i cambi sono tanto aspri? La bilancia del commercio lentamente ma continuamente migliora. La circolazione totale, di banca e di stato, dopo essere giunta da 2 miliardi e 764,3 milioni al 31 luglio 1914 a 6 miliardi e 329,7 milioni alla fine 1916, a 10 miliardi e 173,8 milioni alla fine 1917, a 17 miliardi e 497,9 milioni al 31 ottobre 1919, toccò il massimo di 18 miliardi e 552,6 milioni al 31 dicembre 1919. Secondo i miei calcoli, al 20 marzo 1919 erasi ridotta a 17 miliardi e 879,3 milioni di lire. Inizio tenue, forse instabile, forse soggetto a qualche ripresa; ma inizio bene augurante.

 

 

Perché dunque il cambio è salito a tanta altezza? Nessuna persona sensata può presumere di dare una risposta netta. Al punto a cui eravamo giunti, piccole cause potevano produrre grandissime variazioni. In Italia ed all’estero non si crede forse ancora che il punto critico dell’Italia sia sorpassato. Il sesto prestito ha dato un risultato meraviglioso; la circolazione cartacea ha cessato di andare su: industriali, commercianti ed agricoltori danno una gran spinta al commercio con l’estero; le nuove imposte cominciano ad essere esatte sul serio. Ma… le spese militari dello stato non diminuiscono abbastanza in fretta ( sebbene nei primi 8 mesi del 1919-20 siano diminuite di 3 miliardi e 629 milioni in confronto al corrispondente periodo del 1918-19 ); e purtroppo le altre spese civili sono cresciute di 473 milioni. Ma… c’è, fuori bilancio, la terribile incognita dei 500 milioni al mese di perdita per la vendita del pane a sotto costo. Le masse proletarie sono catechizzate a muovere all’assalto di una borghesia «incapace e fiacca», e si emettono prestiti comunisti per dare al proletariato le armi – quali «armi»? – per andare con la forza all’assalto della rocca nemica; ed ultimo e più grave tocco del quadro, si diffonde nella media e minuta borghesia la psicologia dello spendere tutto e dello spendere subito prima che i comunisti e le imposte portino via i nuovi risparmi. È molto il già fatto; ma rimane ancor molto da fare. E l’esempio deve venir dallo stato: economie all’osso, finanza rigida, imposte esatte con severità, ma in guisa da dare l’impressione assoluta che il contribuente leale ha interesse a risparmiare, a crescere il suo patrimonio col lavoro e con l’astinenza. Se i privati non risparmiano, come trovare i mezzi per compiere l’opera grandiosa che sta dinanzi a noi?

 

 

 


[1] Con il titolo Cambi cattivi e parole chiave [ndr].

[2] Con il titolo Provvedimenti impulsivi [ndr].

[3] Con il titolo Il problema dei cambi. Difesa od offesa della valuta? [ndr].

[4] Con il titolo L’ascesa dei cambi [ndr].

[5] Con il titolo Il persistente miglioramento del nostro commercio estero e la crisi dei cambi [ndr].

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