Opera Omnia Luigi Einaudi

Il piano dei lavori pubblici e l’indeterminazione dell’onere

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/01/1923

Il piano dei lavori pubblici e l’indeterminazione dell’onere

«Corriere della Sera», 2 gennaio 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 3-8

 

 

 

Furono comunicate alcuni giorni or sono alla stampa delle informazioni relative al nuovo piano di lavori pubblici preparato dall’on. Carnazza e approvato in linea di massima dal consiglio dei ministri. Il ministro dei lavori pubblici, assumendo il suo ufficio, aveva ritenuto necessario rivedere l’elenco di tutti i lavori incominciati, progettati o semplicemente allo studio lasciatigli in eredità dai suoi predecessori. Secondo le sue dichiarazioni, si proponeva non solo di distribuire in maniera diversa, tra le varie regioni, le somme disponibili per lavori pubblici, ma anche di ridurre la spesa complessiva; sennonché, rivoltosi agli uffici competenti del suo ministero per la formazione di tre elenchi – opere indifferibili, necessarie, utili – ebbe a constatare, secondo le cifre comunicate alla stampa, che le sole opere indifferibili importavano una spesa di 4 miliardi 662 milioni di lire. La massima parte di questa somma, sempre secondo le suddette informazioni, dovrebbe essere spesa in quattro esercizi a cominciare dal 1922-23.

 

 

Se le cose stessero come le informazioni ufficiali farebbero ritenere, ci sarebbe da dubitare che il programma dell’on. Carnazza rappresenti un’economia. Ma un’accurata indagine ci ha permesso di constatare che nei 4.662 milioni sono comprese somme che non hanno nulla a che fare con le opere pubbliche e corrispondono invece a stanziamenti della parte ordinaria del bilancio dei lavori pubblici. Per fermarsi alle cifre relative al primo esercizio, per il quale è prevista una spesa di lire 2.228 milioni, si può constatare che 915 milioni riguardano spese attinenti alla parte ordinaria del bilancio per i servizi tranviari e automobilistici, mentre altri 332 milioni riguardano le ferrovie in costruzione o allo studio a cura dello stato: adunque la vera e propria spesa per le opere pubbliche (opere edilizie, stradali, idrauliche e marittime, bonifiche, consolidamento abitati, opere in dipendenza di terremoti) ammonterebbe a 981 milioni.

 

 

Si può dire di passaggio che dei 915 milioni previsti per i servizi tranviari e automobilistici, 592 costituiscono una partita di giro riferentesi all’equo trattamento ora soppresso, 30 milioni riguardano la regolarizzazione di pendenze per sussidi di caro esercizio ora ugualmente soppressi, ma che devono essere ancora pagati per l’esercizio in corso, e gli altri concernono sovvenzioni per le ferrovie concesse a industrie private, sovvenzioni per concessioni di sole costruzioni, sovvenzioni per servizi lacuali, sussidi straordinari di esercizio, sussidi a servizi automobilistici, ecc., ecc.

 

 

Ritornando ai 981 milioni che dovrebbero erogarsi in vere e proprie opere pubbliche, era interessante sapere se queste somme si riferiscono ad opere già iniziate o anche soltanto approvate dal parlamento o per decreto legge, o semplicemente ad opere nuove allo studio. Ed era del pari interessante conoscere se il nuovo piano avrebbe costituito, e sino a qual punto, un maggior o minor onere per l’erario. Purtroppo non siamo in grado di fornire informazioni precise in proposito, perché il piano del quale è stata data ufficialmente notizia con l’indicazione anche delle varie opere e delle somme corrispettive non è un piano finanziario, ma semplicemente un piano tecnico. Né il ministro del tesoro né lo stesso ministro dei lavori pubblici hanno potuto ancora valutare esattamente quali nuove spese il piano tecnico importerebbe, ciò che non può meravigliare chi consideri la mole del lavoro previsto.

 

 

Ad ogni modo si può dire che il ministro dei lavori pubblici ha riscontrato di aver a disposizione circa due miliardi e mezzo che avrebbero dovuto essere spesi entro l’esercizio corrente. Questi due miliardi e mezzo sono costituiti dallo stanziamento del bilancio 1922 – 23 e dai residui degli esercizi precedenti; e comprendono anche la parte ordinaria del bilancio, cioè non soltanto le spese per le vere e proprie opere pubbliche. Anche qui è difficile dire di quale somma l’on. Carnazza possa disporre per lavori pubblici veri e proprii; tanto più se si consideri che se questi 2 miliardi e mezzo non sono stati spesi, sono stati però assegnati a fini determinati, e quindi non costituiscono una vera e propria disponibilità. In altre parole l’on. Carnazza per fare eseguire tutti i lavori indifferibili assegnati dal piano tecnico per il primo esercizio, dovrebbe probabilmente farne sospendere alcuni che sono già in corso. Ciò dipende dal fatto che, come abbiamo detto in principio, non tutti i lavori indifferibili sono già in corso, ma alcuni riguardano opere nuove, anzi opere non ancora approvate.

 

 

Infine si deve tener presente che il piano pubblicato per essere un piano tecnico, non ha riferimento a un esercizio finanziario. Laddove le informazioni comunicate alla stampa parlavano di primo esercizio, doveva più propriamente dirsi primo anno solare, avendo gli uffici tecnici inteso appunto dire che la spesa di 981 milioni era commisurata ai lavori che si potrebbero eseguire nel primo anno dopo l’approvazione del piano.

 

 

Quanta parte dei 981 milioni dovrebbe essere imputata all’esercizio 1922-23? Ecco un altro punto che non potrà essere chiarito finché non sarà compilato un piano finanziario.

 

 

In conclusione le informazioni fornite alla stampa sul piano dei lavori pubblici sono premature. Il ministro del tesoro non ha dato la sua approvazione a nuove spese. Lo stesso on. Carnazza sostiene ch’egli non intende aggravare l’erario. Conviene dunque attendere ulteriori informazioni per poter pronunciare un giudizio.

 

 

Fu bene limitarsi, giorni or sono, a fare seguire alle cifre pubblicate sui giornali intorno al programma del ministro dei lavori pubblici un commento di indole tutt’affatto generale intorno all’allegata dipendenza fra disoccupazione e lavori pubblici. Le informazioni comunicateci da Roma sminuiscono grandemente la portata che a prima vista poteva darsi alla cifra di 4.662 milioni di lire che alcuni giornali avevano messa avanti come rappresentativa del valore delle opere pubbliche «indifferibili». Nella realtà quella cifra è assai minore. Dedotte le partite di giro, dedotti gli stanziamenti obbligatori di bilancio, rimangono per il primo esercizio 332 milioni per le ferrovie in costruzione o allo studio e 981 milioni per opere edilizie, stradali, idrauliche e marittime, bonifiche, consolidamento abitati, opere in dipendenza di terremoti. Non sono cifre piccole, ma notevolmente minori di quelle, che avevano impressionato molti, dei 4.662 milioni di lire.

 

 

Ma la circostanza principale che le nostre informazioni romane mettono in chiaro è che anche queste cifre non sono impostazioni definitive di bilancio, concordate fra il ministro delle finanze – finalmente si può riprendere l’antica tradizionale terminologia, senza essere più imbarazzati da quella duplicità di vocaboli, finanze e tesoro, che imbrogliava le idee e faceva dire a qualche forestiera lingua maledica: voi siete ben ricchi in Italia, poiché vi prendete il lusso di due ministri delle finanze! – ed il ministro dei lavori pubblici. Sono semplici sbozzi preliminari degli uffici tecnici, su cui i ministri debbono lavorare per scegliere, scattare, ordinare secondo un piano organico.

 

 

Dato ciò, è possibile continuare nella esposizione delle idee generali, le quali certamente sono tenute presenti nel fare quella scelta per il raggiungimento della cifra minima veramente irreducibile. Un gran passo sarà fatto, ripetesi, quando scartato il preconcetto di dar lavoro ai disoccupati, si ammetta la verità opposta che per dar lavoro ai disoccupati bisogna invece ridurre al minimo i lavori pubblici. Questa verità fu dimenticata e negata da governi deboli, timorosi di qualsiasi minaccia all’ordine pubblico; ma deve invece essere tenuta ferma da un governo, il quale non ha bisogno di procacciarsi artificiosa popolarità.

 

 

Un altro feticcio conviene sia abbattuto: quello dei «residui». La pratica amministrativa ha oscillato sempre tra due estremi: quello dei tempi draconiani, di finanza dura, spietata, in cui ogni somma non spesa nell’anno deve essere mandata ad economia, ossia non più spesa; e l’altro dei tempi facili e molli, per cui lo stanziamento di una spesa non eseguita doveva essere mantenuto in vita, nella partita dei residui, sino ad esaurimento. L’amministrazione ha sempre avuto un debole per il secondo sistema, il quale permette di seguitare a spendere, senza bisogno di un nuovo stanziamento, le somme fissate originariamente in bilancio; ed anche di far passare in conto residui spese effettivamente nuove.

 

 

È certo che per i lavori pubblici non si può seguire senz’altro la via draconiana della soppressione dei residui. Se si è cominciata a costruire una banchina di porto, e se l’opera non fu potuta finire al 30 giugno 1922, non perciò si può piantar lì tutto e mandare ad economia i residui non pagati. È questione di misura. Caso per caso, bisogna esaminare ogni residuo per quello che esso è; e fare tutti quegli scarti che non rispondono più a necessità attuali, anche se un tempo parvero ragionevoli. L’eliminazione dei fossili, ecco un compito urgente in un ministero che deve pensare all’avvenire, come è il ministero dei lavori pubblici.

 

 

Tra i lavori in corso e quelli ancora da cominciare, è meno dannosa in principio la eliminazione dei lavori non iniziati. A parità di altre circostanze, ciò che non è ancora nato può attendere a nascere. Non sono tempi questi in cui urga lasciare il proprio nome a nessuna opera pubblica. Diventerà invece famoso il nome di quel ministro che avrà operato tagli più profondi nelle opere in corso e che si sarà astenuto dall’iniziare una qualsiasi novità dispendiosa.

 

 

Tra le opere iniziate, bisogna dare la preferenza ai lavori di più pronto rendimento. Viviamo in tempi in cui il saggio di interesse è alto ed in cui lo stato fa debiti – ogni opera pubblica è un debito, ripetiamolo a noi stessi senza stancarci mai della ripetizione, allo scopo che nella testa si radichi il salutare terrore delle cose che fanno far debiti – a caro prezzo. Quando si possono far debiti al 3% sono lecite opere che rendono poco e che rendono a lunga scadenza: ci vogliono quasi 24 anni prima che 1 milione venga per il gioco degli interessi composti a costarne 2 e 78 anni prima che ne costi 10. Ma, oggi che il danaro costa almeno il 6%, bastano 12 anni per trasformare un costo di 1 in un costo di 2 milioni e sono sufficienti 38 anni per trasformare in un costo finale di 10 una spesa iniziale di 1 milione. Epoche brutte, si dirà; ma non possiamo cambiarle di punto in bianco. Bisogna rinunciare alle opere a lunga scadenza ed appigliarsi a quelle che rendono presto e su cui poco pesano i carichi di interessi.

 

 

Perciò, dovendo sospendere, è meglio sospendere le opere in cui si è al principio della spesa e su cui quindi gli interessi pesano relativamente poco. Se si è speso 1 milione, a piantar lì si spendono 60 mila lire all’anno; se si sono spesi 100 milioni, a sospendere si perdono ogni anno 6 milioni di lire. Se, con una piccola aggiunta, i 100 milioni, ora inattivi, possono cominciare a fruttare, il ritardo sarebbe troppo nocivo; mentre si perde poco a rinviare l’opera appena al principio e su cui occorrerebbero cospicue aggiunte per arrivare alla fine.

 

 

È meglio sospendere 9 opere su 10 e condurne a termine 1 sola, quella più importante o vicina alla fine, che continuare straccamente tutte le 10. Se si può bisogna tacconare il già fatto, perché non vada alla malora e concentrarsi su ciò che più urge, che promette di fruttar di più e che, con la sua sospensione, mangerebbe troppi danari tra interesse e deperimento.

 

 

Regole generali, queste, puramente indicative, che è compito dell’uomo di governo applicare con quella discrezione che in tali materie si richiede e con l’occhio fisso all’esigenza prima del momento: non spendere, per costruire la prima e vera opera pubblica che il governo attuale si è imposto di dare al paese: il risanamento del bilancio.

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