Opera Omnia Luigi Einaudi

Il problema del riso e l’esportazione all’estero

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/09/1915

Il problema del riso e l’esportazione all’estero

«Corriere della Sera», 18 settembre 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 243-247

 

 

I problemi del commercio internazionale diventano, quanto più procede la guerra, maggiormente complessi ed importanti. Ebbi già a far osservare, rispetto al commercio di esportazione, come si imponesse una revisione dei criteri soverchiamente restrittivi adottati in principio della guerra. Partendo dal concetto che importa moltissimo, a frenare l’ascesa dei cambi ed il rialzo dei prezzi di tutte le cose necessarie alla vita della popolazione ed alla condotta della guerra, aumentare i nostri crediti all’estero, si concluse:

 

 

  • essere necessario togliere tutti i divieti di esportazione, od accordare con facilità somma le licenze di esportare, quando riflettessero merci o derrate non necessarie all’esercito, all’alimentazione nazionale od all’esercizio di industrie indispensabili;
  • essere conveniente non preoccuparsi affatto se talune derrate o merci possono giungere, attraverso alla Svizzera od all’Olanda, ai paesi austro-tedeschi, quando si tratti di prodotti, come gli aranci, i limoni, le frutta, gli oggetti di lusso, ecc., i quali non giovano ad accrescere sensibilmente la loro capacità di resistenza militare e gioverebbero invece a crescere il loro debito verso di noi ed a rendere maggiori i nostri crediti verso l’estero.

 

 

Oggi, il quesito si presenta in una forma peculiare rispetto ad una derrata indubbiamente utile all’alimentazione interna, ma rispetto a cui i produttori affermano esistere circostanze particolari che renderebbero conveniente una eccezione al divieto generale di esportazione: il riso. L’agitazione tra le classi agricole del Vercellese, del Novarese, della Lomellina, del Pavese, del basso Milanese, del Mantovano, del basso Veronese, del Polesine, del Bolognese, del Ravennate va diventando intensa. Il prof. Novelli, direttore della Stazione sperimentale di risicultura di Vercelli, segnala, in un suo recente articolo sul «Giornale di Novara», come più di un milione e mezzo di quintali di risone rimangano invenduti ed in via di deteriorarsi, mentre il nuovo raccolto si annuncia abbondante. Che cosa farne del riso invenduto? è opportuno danneggiare i produttori con ribassi fortissimi di prezzo, quando i consumatori nazionali dimostrano a chiare note di non volere consumare tutto il quantitativo di riso prodotto in paese? Non rischiamo noi forse di danneggiare gli uni senza avvantaggiare gli altri?

 

 

Questo il problema: a chiarire il quale gioverà riassumere i dati essenziali intorno alla produzione ed al commercio del riso nel mondo. Quanto alla produzione essa fu nell’anno agrario scorso 1913-14 la seguente:

 

 

Spagna

q. 2.475.820

Italia

5.447.000

Stati uniti

4.827.234

Messico

249.262

Egitto

598.991

India

437.553.041

Giappone

125 102.317

 

 

I dati sono ricavati dall’ottimo bollettino statistico dell’Istituto internazionale di agricoltura. La produzione in Italia era stata nel 1913-14 suppergiù uguale a quella del 1912-13, in cui era giunta a 5.432.000 quintali. Per l’anno in corso in Italia la superficie seminata è uguale a quella dell’anno passato e le previsioni dell’Istituto sono per un raccolto buono, mentre al primo agosto 1914 erano solo per un raccolto medio. Si può quindi presumere fondatamente che il raccolto del 1915 riuscirà superiore a quello del 1914. Per gli Stati uniti la superficie seminata supera del 21,7% quella del 1914 e nel Giappone la supera dell’1,8%.

 

 

Quanto al commercio internazionale, i confronti fra i diversi paesi sono dal bollettino dell’Istituto basati sul primo semestre dell’anno. Notisi che l’Italia aveva esportato nel 1912 ben 612.000 quintali di riso lavorato e nel 1913 ne aveva mandato all’estero 447.000. I principali paesi di destinazione erano nel 1912 l’Austria-Ungheria per 149.000 quintali e l’Argentina per 278.000; nel 1913 gli stessi paesi per 101 e 183.000 quintali rispettivamente.

 

 

Ed ora diamo i confronti tra l’esportazione avvenuta nel primo semestre del 1915 e quella compiutasi nel primo semestre del 1914:

 

 

Primi sei mesi del

1914

1915

Francia (riso intero, farina e semolino di riso)

166.725

199.990

Gran Bretagna ed Irlanda (riso mondato o macinato nel regno)

143.747

297.931

Riesportazione di riso

425.490

901.896

Italia: riso con lolla e semigreggio

158.980

60

Italia: riso lavorato

290.900

8.680

Paesi Bassi

1.370.850

30.010

Stati uniti

55.924

168.082

India: riso con lolla riso senza lolla e farina di riso

210.738

213.565

15.013.337

9.106.669

Giappone: riso non mondomondo

160.517

474.040

7.200

171.820

Egitto

93.600

21.219

 

 

È facile osservare come, salvo l’India e l’Italia, si noti una tendenza all’aumento nelle esportazioni. Anche l’India, nel mese di giugno, ha partecipato al movimento generale, esportando i 362.933 quintali di riso senza lolla e farina di riso contro i 166.934 quintali nel giugno 1914. Si osservano paesi belligeranti, come la Francia e la Gran Bretagna, esportare o riesportare quantità notevolmente superiori di riso nel 1915 in confronto al 1914. E si nota, fatto assai interessante, che i Paesi Bassi, principalissimo tramite attraverso a cui il riso potrebbe giungere nella Germania, diminuiscono la loro esportazione da 1.370.850 a 30.010 quintali. Si può aggiungere che la loro importazione è scemata nello stesso periodo di tempo da 3.182.170 a 266.230 quintali. Indice questo che gli alleati sanno prendere le loro precauzioni per impedire che l’Olanda rifornisca di riso gli austro-tedeschi. Alla tendenza dei paesi produttori o riesportatori ad approfittare delle favorevoli condizioni del mercato – nei limiti della loro capacità di esportazione – fa eccezione l’Italia, non ultimo tra i paesi produttori, il cui commercio di esportazione si è quasi compiutamente arrestato.

 

 

Quali le logiche conseguenze che si possono dedurre dai dati sovra riferiti? A me pare che si possano così riassumere:

 

 

  • Fa d’uopo innanzi tutto che il ministero della guerra determini il quantitativo di riso che è necessario per l’esercito e per la marina. Probabilmente ciò è stato già fatto; ed è verosimile che già i commissariati militari si siano accaparrate le riserve sufficienti per il presunto loro fabbisogno.
  • è necessario, nell’accordare le licenze di esportazione, assicurarsi che nulla giunga, per via indiretta, ai paesi austro-tedeschi. Trattasi di una derrata d’alimentazione; e noi non possiamo consentire a rafforzare militarmente il nemico. Ritengo che sia possibile evitare in modo assoluto che l’esportazione vada a beneficio della Germania e dell’Austria-Ungheria.
  • Eliminato così il fattore militare, sembra conveniente concedere licenze di esportazione almeno sino al quantitativo medio che si esportava prima della guerra.

 

 

Quale argomento si può addurre contro siffatta conclusione? Questo solo: che la esportazione farebbe aumentare i prezzi del riso all’interno, e danneggerebbe quindi i consumatori nazionali. L’argomento merita di essere chiarito. Certamente il divieto di esportazione deprime i prezzi all’interno, perché costringe i produttori a vendere su un mercato ristretto: ed è perciò che i prezzi dei risoni, i quali prima della guerra oscillavano da 25 a 26 lire per quintale, ora quotano a Vercelli da 20 a 22 lire. Non credo però che il ribasso dei prezzi sia lo scopo dei divieti di esportazione, bensì di assicurare l’alimentazione paesana. Quando questo intento sia raggiunto, volere ottenere inoltre un ribasso di prezzi significa volere l’ingiusto danno dei produttori. Naturalmente, affinché la bilancia sia equa, occorre che i consumatori italiani possano procacciarsi eventualmente riso estero, senza pagare alcun dazio doganale. I produttori di riso non possono pretendere di conservare il mercato estero ed insieme quello interno, profittando dei migliori prezzi dell’interno, senza consentire ai consumatori nazionali di approvvigionarsi, in questi tempi calamitosi, all’estero, dovunque possano acquistare riso ai più bassi prezzi possibili.

 

 

Quando questa condizione essenziale sia osservata, non vedo quale pericolo possa correre la concessione in Italia dai permessi di – esportare riso all’estero in quantità normali. Invero i prezzi del riso potranno forse aumentare sul mercato interno di quattro o cinque lire al quintale; ma noi diventeremo creditori verso l’estero di somme non indifferenti: per 500.000 quintali circa 15 milioni di lire. Sarebbe un fattore non spregevole di raddrizzamento della bilancia commerciale, quindi di attenuazione dell’aggio e quindi ancora di diminuzione nel prezzo del frumento. I problemi economici sono gli uni collegati agli altri: né si possono considerare ognuno per se stesso. Noi non possiamo far diminuire il prezzo del riso coi divieti di esportazione senza contribuire necessariamente all’aumento nel prezzo del frumento; e viceversa per ottenere un ribasso nel prezzo del frumento uno dei mezzi utilmente adoperabili è la concessione di esportare la quantità normale di riso.

 

 

Il problema si riduce perciò al seguente i consumatori italiani preferiscono mangiare riso o frumento? S’intende che il quesito non riguarda le quantità di riso che si usava consumare già prima, bensì le quantità supplementari di riso che si potrebbero consumare in sostituzione di frumento. L’esperienza di un anno sembra aver provato che i consumatori italiani non vogliono assuefarsi a questa sostituzione: preferiscono, anche ad un prezzo maggiore, il pane di frumento al pane di riso, o al pane misto; e le paste alla minestra di riso. Non si cambiano di un tratto le abitudini alimentari di un popolo. E poiché, esportando riso, si compera frumento, non si vede quale danno l’alimentazione paesana debba soffrire da una esportazione regolata e limitata nel modo che sopra si è detto. Provveduto al fabbisogno dell’esercito, tutelati i legittimi interessi dei consumatori con l’abolizione del dazio sul riso, l’esportazione delle quantità normali all’estero gioverebbe a vendere all’Inghilterra i risi di lusso per alimentazione ed all’Argentina questi ed i risi da semenza. La bilancia commerciale se ne gioverebbe: e con essa la nostra capacità di resistenza finanziaria durante la guerra.

 

 

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