Opera Omnia Luigi Einaudi

Il problema della carne

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/05/1918

Il problema della carne

«Corriere della Sera», 5 maggio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 660-666

 

 

Il recente decreto – il quale attribuisce allo stato l’approvvigionamento carneo della popolazione civile, affidando l’incetta degli animali bovini alle commissioni d’incetta già esistenti per l’esercito e la ripartizione al commissario generale per i consumi, ai prefetti ed ai sindaci, proibisce la vendita delle carni dalle ore 13 del martedì al mattino del sabato, vieta la macellazione di animali non forniti ai macellai dal sindaco ed incarica le giunte comunali di fissare il prezzo massimo per la vendita al pubblico – è l’indice di una situazione oramai divenuta grave e richiedente provvedimenti immediati riparatori.

 

 

Il provvedimento, il quale era già meditato da tempo, secondo le dichiarazioni dell’on. Crespi alla camera e fu emanato, sembra, dopo pressanti richieste di qualche sindaco di grandi città di frenare la corsa vertiginosa all’aumento nel prezzo delle carni al minuto, è frutto di un pensiero contradittorio: ed è assai dubbio possa risolvere un problema il quale si presenta, a chiunque lo mediti serenamente, irto di formidabili difficoltà. Prezzi moderati e diminuzione di consumo sono due fatti i quali si escludono a vicenda, ove non si proceda ad un tesseramento rigoroso, con assegni minimi di consumo a persona, tesseramento che per parecchi motivi, i quali saranno accennati sotto, si deve praticamente escludere per le carni. Ho cominciato a parlare della necessità di ridurre i consumi e di aumentare il prezzo quando a quasi tutti pareva naturale di seguitare a consumare come prima. Oggi che, almeno a parole, la necessità della riduzione dei consumi è entrata nella coscienza di tutti, temo si debba riconoscere che si è, per taluni generi, cominciato troppo tardi a fare economia e che, essendo oramai il male irreparabile, l’economia debba essere spinta a limiti durissimi, che forse sarebbero stati evitabili, ove si fosse usata previggenza fin da principio.

 

 

Certamente i prezzi delle carni sono divenuti fantastici: da 8 a 14 lire il chilogrammo al minuto; da 400 a 700 lire al quintale i buoi a peso vivo. Un paio di buoi da lavoro costa da 5.000 ad 8.000 lire, a seconda del peso; una vaccina fresca di latte si paga da 2.000 a 3.000 lire. Che cosa significhino questi prezzi, è agevole immaginare quando si ricordino i tempi in cui un paio di buoi si poteva acquistare con 1.200 lire ed una vacca valeva 400 lire. Per il piccolo ed il medio proprietario – ed in Italia la grande proprietà è un’eccezione – l’acquisto dei buoi da lavoro diventa una preoccupazione finanziaria non piccola; il prezzo altissimo spinge a farne uso assai discreto, per paura di malattie e di depauperamento di un capitale così prezioso. Come si concilia l’altissimo prezzo dei buoi da lavoro con i consigli e gli ordini di aumentare la superficie seminata? I trattori possono giovare in talune piaghe pianeggianti, a superficie unita, senza alberatura; ma sarebbe un’illusione sperarne molto nei terreni a proprietà divisa, alberati, con siepi e fossi e canali e capezzagne, che sono la gran maggioranza. Con le vacche da latte e da allevamento salite a 2-3.000 lire, quanto verranno a costare il latte, il burro, il formaggio, la carne?

 

 

Sovratutto, i latticini e le carni in quale misura saranno disponibili nel prossimo avvenire? L’aumento dei prezzi non è, come immaginano molti, il puro frutto della speculazione. Contro di questa si può fare la voce grossa sui giornali ed in parlamento; ma la verità si è che gli speculatori operano nel senso indicato di cause da essi non determinate. Vendono al ribasso, quando la merce deve ribassare, accaparrano, come si dice comunemente, quando la merce deve aumentare per cause indipendenti da essi. Gli speculatori possono accelerare un movimento di rialzo, far sì che si giunga da 5 a 10 in un minor numero di giorni o di mesi, ma non possono spingere in definitiva, salvo qualche punta occasionale, i prezzi al disopra di quel livello a cui sarebbero naturalmente giunti. Se lo facessero, vi sarebbero altri speculatori, in senso inverso, i quali nel proprio interesse farebbero pagare loro il fio dell’errore commesso. Se non vi sono cause effettive l’aumento dei prezzi non può durare.

 

 

Ci sono e quali sono cause effettive di aumento nel prezzo delle carni? Ricordiamo che il prezzo di una qualunque cosa, e quindi anche delle carni, è un rapporto fra una certa quantità di una merce ed una certa quantità di moneta. Se vi sono sul mercato molti chilogrammi di carne e poca moneta, la carne varrà 4 lire al chilogrammo (1 chilogrammo di carne = 4 dischetti di argento, a cui si dà il nome di 1 lira l’uno). Se invece sul mercato vi sono pochi chilogrammi di carne e molta moneta, la carne varrà 10 lire al chilogrammo (1 chilogrammo di carne = 10 buoni di cassa da 1 lira, ognuno dei quali sostituisce nel nome e nell’ufficio gli antichi dischetti d’argento). Non ci sono speculatori, né decreti, né calmieri che valgano ad impedire che il rapporto finisca di essere di 1 chilogrammo a 10 lire, se la carne è scarsa e la carta-moneta è abbondante.

 

 

Ora, precisamente questo è accaduto durante la guerra. Non mi diffonderò sulle note cifre dell’aumento della carta-moneta in circolazione in Italia: da 4 miliardi e 200 milioni nel luglio 1915 eravamo giunti ad 8 miliardi e 200 milioni nell’ottobre 1917. Probabilmente oggi abbiamo superato, e non di poco, i 10 miliardi. Si può discutere sulle cifre, ponderare l’efficacia della carta-moneta cresciuta sui prezzi. Ma un fatto è, all’ingrosso, indisputabile: che la carta-moneta che la gente ha in tasca è in media notevolmente cresciuta; persino gli impiegati ricevono dal 30 al 10% di più di stipendio, e fanno domanda di merce con una massa maggiore di moneta. Anche se la carne esistente fosse rimasta invariata in quantità, i prezzi avrebbero avuto la tendenza a salire, per la domanda maggiore di carne da parte dei consumatori. Estraggo alcune cifre da assai documentati articoli pubblicati sul «Sole» del 16, 20 e 21 aprile.

 

 

Prima della guerra il consumo totale in Italia si ragguagliava a 2 milioni di capi all’anno. Nel suo discorso del 4 marzo al senato, l’on. Crespi valutò il consumo dell’esercito a 540.000 capi nel 1916 ed a 780.000 nel 1917. Quanto al consumo attuale, il ministro della guerra lo valutò recentemente in senato a 78.000 capì in dicembre, 98.000 in gennaio, 88.000 in febbraio e 116.000 in marzo. Si spera di ridurre il consumo a 70.000-100.000 capi al mese, a seconda del quantitativo di carne congelata, che si potrà fare arrivare dall’estero. Il consumo è però sempre altissimo: circa milione di quintali in ragione d’anno. Nel frattempo, la popolazione civile non ha cessato di consumare carne.

 

 

Taluni dati ufficiali calcolerebbero il consumo medio annuo a 900.000 capi; ed i nuovi provvedimenti farebbero sperare di ridurre il consumo al 30% della quantità ante-bellica. Ma è lecito dubitare della attendibilità delle cifre ufficiali di consumo. A Milano, i capi macellati scemarono dal 1915 al 1917 soltanto da 90.836 a 62.139, e, quel che è più significativo, il peso scemò appena da 269.603 a 248.781 quintali, perché si ammazzarono meno vitelli giovani e più buoi grossi. La mattazione clandestina dovette prendere gran voga nel 1917 e nel 1918; e non mai come in questi ultimi tempi furono frequenti i traumi violenti, i quali condussero a morte improvvisa, e quindi al consumo forzato, gli animali bovini.

 

 

Contro ad una cresciuta offerta di carta-moneta, e ad un consumo non diminuito e forse cresciuto di carne, come si comportano le esistenze di bestiame? In attesa dei risultati del censimento in corso – ed è opinione diffusa tra i competenti che le cifre così ottenute non saranno attendibili – fa d’uopo ricorrere al censimento del 1908, il quale aveva dato un’esistenza di 6.200.000 capi di bestiame grosso (1.276.346 buoi e manzi, 128.583 tori da monta, 3.403.377 vacche e giovenche, 1.390.555 vitelli e vitelle sotto l’anno). Suppongono i tecnici di questo ramo che al momento dell’entrata in guerra dell’Italia (fine maggio 1915) il patrimonio totale nostro in bovini fosse cresciuto a 7.200.000 capi.

 

 

Per mantenere intatto questo patrimonio zootecnico sarebbe stato necessario ridurre subito violentemente il consumo della popolazione civile al 30% di quello ordinario e cioè a 600.000 capi all’anno, sì da lasciare un margine per il consumo dell’esercito e per una capitalizzazione maggiore del solito. Oggi, che il consumo dell’esercito è notevolmente cresciuto, si potrebbe seguitare a dare 50.000 capi alla popolazione civile, consumando in tutto circa 2 milioni di capi all’anno. Sarebbe, ora, qualcosa di più dell’incremento naturale del bestiame bovino, che si calcolava in 1.200.000 capi, ed oggi deve essere notevolmente minore per lo sfollamento delle stalle; ma forse si consumerebbe solo il maggior risparmio del 1915 e del 1916.

 

 

Invece nel 1915, nel 1916 e nel 1917 nulla si risparmiò sull’incremento naturale; anzi si intaccò per cifre notevoli il capitale bestiame iniziale. Ogni diminuzione del bestiame riproduttore implica una diminuzione negli allevamenti, sicché l’incremento naturale scema, ed il capitale si intacca sempre più. A dirla in breve, evitando troppi conteggi, le stime del capitale bestiame esistente probabilmente alla fine del 1918 variano, secondo i periti, da 1 a 5 milioni di capi e parecchi reputano esagerata anche la cifra dei 4 milioni di capi. Come si può pretendere che con una esistenza di bestiame bovino che si avvia alla metà di quella ante-bellica e con mezzi di acquisto (carta-moneta) quasi triplicati, quel tale rapporto fra chilogrammi di carne e lire di carta-moneta non sia variato?

 

 

Ma il danno più grosso non sta nell’aumento de! prezzi. Oramai bisogna riflettere a ben altro:

 

 

  • che, se il consumo continua nella presente misura, ben presto giungerà il giorno che il latte delle poche vacche residue dovrà essere tutto impiegato per gli indispensabili allevamenti. In quel giorno mancherà in modo assoluto il latte per il consumo umano; burro e formaggio scompariranno. Pare a me che questi danni siano assai più gravi di una ulteriore riduzione del consumo della carne;
  • il patrimonio zootecnico del paese sarà gravemente intaccato. Come compiere i lavori agricoli necessari per produrre il grano, il granoturco e gli altri cereali indispensabili alla vita con un numero troppo ridotto di buoi da lavoro?
  • come ristabilire nel dopo guerra il patrimonio zootecnico, in quella corsa inevitabile all’accaparramento delle materie prime e degli strumenti da lavoro, tra cui importantissimi gli animali da lavoro, che si sferrerà fra tutti i paesi belligeranti?

 

 

Urge dunque provvedere. I calmieri ed i tesseramenti a poco servono. La tessera del pane e dello zucchero è possibile, perché si tratta di merci abbastanza uniformi. Ma la carne è di tante qualità diverse! Peggio, la tessera della carne farebbe aumentare il consumo. Già si verificò l’inconveniente per lo zucchero, che oggi viene acquistato da molti che prima non vi pensavano affatto. Una tessera di 100 grammi di carne alla settimana a persona darebbe porzioni invisibili per coloro che oggi mangiano carne e sembrerebbe scarsa anche a quelli che non la consumano ora e subito acquisterebbero tutta la quantità assegnata, non fosse altro che per rivenderla. Eppure, 100 grammi alla settimana equivalgono a 5,2 chilogrammi all’anno, il che, moltiplicato per 32 milioni di civili, è uguale a chilogrammi 166.400.000 di carne all’anno. Supponendo che il peso medio degli animali incettandi sia di 300 chilogrammi e che la resa sia del 50%, per ottenere quella massa di carne macellata, occorrono 1.200.000 capi di bestiame all’ anno. Aumentiamo pure il peso medio, diminuiamo il numero delle persone aventi diritto alla tessera, è chiaro che una tessera di 100 grammi alla settimana difficilmente darebbe luogo ad un consumo minore di 600.000 capi. Il consumo sarebbe oggi troppo superiore al possibile e le lagnanze salirebbero ai sette cieli.

 

 

Perciò non vedo altri provvedimenti efficaci fuor dei seguenti:

 

 

  • Ridurre ancora di più il consumo della carne per la popolazione civile. Vi devono essere due soli giorni con carne alla settimana. Invece che dalle 13 del martedì la vendita delle carni deve essere proibita dalle ore 13 della domenica alle prime ore del sabato, così che si possa comprare carne solo il sabato e la domenica od in altri due giorni consecutivi per settimana. Eccezioni si facciano soltanto per gli ospedali ed i malati e siano rigidamente fatte osservare. Meglio rinunciare per cinque giorni su sette alla carne che al latte, al burro ed al formaggio. Meglio rinunciare tutti, che i soli poveri, e gli impiegati salariati e redditieri con poco reddito. Meglio i soli sani oggi, che dopo, coi sani, anche i malati.
  • Intensificare le importazioni di carni congelate dall’estero per uso dell’esercito. Il ministro della guerra spera di riuscire ad importare 12.000 tonnellate di carni congelate al mese. Auguriamolo, affinché si possa ovviare al pericolo di vedere depauperarsi troppo il patrimonio zootecnico italiano.
  • Sorvegliare attentamente, specie nei piccoli borghi e nelle campagne, la macellazione clandestina e le ingegnose maniere di condurre a morte il bestiame bovino.

 

 

Ed i sindaci la smettano di far gite a Roma per chiedere aumenti e conservazioni del contingente carneo e moderazioni di prezzi, ossia alimenti del consumo.

 

 

Torna su