Opera Omnia Luigi Einaudi

Il problema finanziario della Società delle Nazioni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/01/1919

Il problema finanziario della Società delle Nazioni

«L’Unità», 18 gennaio 1919[1]

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 187-194

 

 

 

 

Forse uno dei problemi più difficili da sormontare per la costituzione della lega delle nazioni è quello di creare la sua finanza. Nessun corpo politico può esistere senza il fondamento di un bilancio di entrate e di spese. Una lega delle nazioni, la quale non avesse redditi, non potrebbe spendere, e quindi non potrebbe efficacemente esercitare quella qualunque autorità che gli Stati collegati volessero delegarle.

 

 

Se la polizia dei mari sarà un compito della lega, essa dovrà costruire navi proprie da guerra, ripararle, mantenere gli equipaggi e lo stato maggiore. Non gioverebbe che un consiglio internazionale di ammiragli sovraintendesse ad una flotta mista di navi appartenenti alle nazioni collegate. Gelosie, confusione, inefficacia, sarebbero le conseguenze inevitabili della mancanza di unità di comando e di esecuzione. Avrà la lega l’ufficio di decretare il boicottaggio commerciale di uno Stato recalcitrante alle regole comuni? Siccome il boicottaggio danneggia, insieme al paese messo all’indice, anche i paesi, i quali prima esportavano verso di esso, e li danneggia in misura diversa, così dovrà escogitarsi qualche mezzo per ripartire uniformemente sui confederati il danno prodotto dall’azione voluta nell’interesse di tutti; così da evitare i malcontenti e gli screzi di una incidenza disuguale sui singoli. E così via.

 

 

Qualunque funzione, di gestione dei porti internazionali, dei fiumi, dei canali, degli stretti; di amministrazione delle colonie; di tutela della proprietà industriale ed artistica; delle poste, dei telegrafi e dei telefoni, implica una spesa e quindi un’entrata corrispondente.

 

 

Talvolta, l’entrata è fornita dal servizio stesso, come nel caso delle poste, dei canali, dei fiumi ecc.: ma tal’altra no, come per compiti politici di polizia internazionale.

 

 

Due sistemi principali possono essere messi innanzi per provvedere alla formazione di una finanza della costituenda lega delle nazioni: quello che italianamente si direbbe dei ratizzi e quello delle imposte proprie.

 

 

Dicesi sistema dei ratizzi quello, per cui le nazioni collegate si obbligherebbero a versare in un fondo comune un contributo annuo determinato in ragione della popolazione, superficie, ricchezza o reddito nazionale rispettivo. Il metodo delle imposte proprie si ha quando la lega delle nazioni direttamente si rivolge ai cittadini degli Stati collegati, e loro richiede tributi, che i cittadini versano nella cassa della lega, senza passare attraverso alle casse del proprio Stato. Col primo sistema i contribuenti sono i singoli Stati; col secondo invece i contribuenti sono i cittadini degli Stati collegati. Il primo metodo è meglio ossequente all’idea della sovranità statale: il secondo suppone che i cittadini si considerino nel tempo stesso sudditi del proprio Stato, ad esempio, l’Italia, e dello Stato mondiale, detto della lega delle nazioni.

 

Pare più agevole accogliere il metodo dei ratizzi, come quello che meno perturba l’assetto vigente, meno urta il senso di indipendenza delle singole nazioni, e non richiede la formazione di un sistema tributario superstatale, con proprie imposte, propri esattori, controllori e proprie tassazioni per i contribuenti. Costoro non si inquieterebbero troppo, qualora potessero superficialmente riflettere che chi paga le spese della nuova società delle nazioni è lo Stato; mentre potrebbero rimanere sorpresi nel vedere che il primo e più tangibile risultato della costituzione della lega è stata, l’iscrizione nella bolletta delle imposte dell’esattore di una quarta finca, accanto a quelle del comune, della provincia e dello Stato, recante l’imposta dovuta alla lega delle nazioni.

 

 

Il metodo dei ratizzi, più semplice, più agevole ad introdursi, meno urtante contro i sentimenti comunemente nutriti dagli uomini di oggi, offre tuttavia il fianco ad obbiezioni gravi. Le hanno sentite tutti gli uomini di Stato i quali hanno dovuto lavorare e governare alla sua mercè.

 

 

Si potrebbero moltiplicare gli esempi storici. Io mi limiterò a qualche citazione, indubbiamente cara al presidente Wilson. Scriveva Alessandro Hamilton (Works, vol. I, p. 262) che in una società politica il potere senza entrate è un puro nome. Ed Alessandro Hamilton è una grandissima autorità in argomento, poiché fu egli massimamente che, insieme con Jay e Madison, col suo giornale The federalist, promosse la trasformazione della Confederazione delle 13 colonie nord-americane del 1781, col metodo dei ratizzi, nello Stato federale del 1787, governato col metodo della finanza propria. Eransi bensì nel 1781 gli Stati obbligati ad obbedire alle leggi del congresso dei delegati, e ad osservare in perpetuo le norme fondamentali della costituzione federale. Di fatto gli Stati non ubbidivano, la costituzione non era osservata: sicché in pochi anni l’unione, la quale intendeva essere «perpetua», sembrava «destinata a cadere sul capo di coloro, che l’avevano formata, ed a schiacciarli sotto le sue rovine» (The federalist, N. XV). Washington, il grande fondatore dell’Unione, era ridotto alla disperazione dagli ostacoli frapposti dagli Stati a pagare puntualmente i loro ratizzi, e dalle condizioni impossibili, a cui subordinavano il pagamento. «Malgrado la grandezza del compito – scrisse il suo biografo Marshall – la urgenza dei bisogni e la influenza benefica che un reddito sicuro in mano del governo avrebbe sulla guerra, mai accade, finché durò la confederazione (del 1781), che gli Stati si mettessero d’accordo per attribuire al congresso i poteri richiesti; tanto mal disposti sono gli uomini provveduti di potere ad investirne altri, e tanto difficile è di fare qualunque cosa, anche importantissima, la quale dipenda dal consenso concorde di parecchie distinte sovranità». Il biografo riassume in tratti lapidari le lagnanze di cui riboccano le lettere di Washington: «Su qual parte del nostro continente troveremo un uomo od un corpo di uomini, il quale non arrossisca nel proporre provvedimenti calcolati appositamente per derubare i soldati del loro soldo ed i pubblici creditori delle somme loro dovute?… Nessuna visione più melanconica e pungente di quella degli uomini, i quali hanno versato il sangue o sono rimasti mutilati al servizio del paese, rimasti senza asilo, senza amici, privi dei mezzi di ottenere le cose necessarie o confrontanti della vita, costretti ad elemosinare di porta in porta il pane quotidiano…». Eppure agli estremi, così commoventemente descritti in questo brano di lettera di Washington, concludeva la mala volontà degli Stati sovrani nel pagare i dovuti ratizzi alla cassa federale.

 

 

Alla mala volontà degli Stati a privarsi della loro sovranità ed a fornire i mezzi di vita allo Stato federale, si aggiunga la perpetua gelosia di uno Stato contro l’altro. È difficilissima già la prima ripartizione del contingente totale tra i vari Stati. I criteri della superficie territoriale e della popolazione sono troppo grezzi e riescono ingiusti contro i popoli più poveri. Il criterio della ricchezza o del reddito nazionale rispettivo dei vari Stati, si fonda su valutazioni statistiche certamente disformi e non comparabili e per lo più anche soggette a dubbi gravi intorno alla loro esattezza. Ad ogni variazione delle basi di calcolo dei ratizzi, ad ogni triennio o quinquennio, ogni Stato farebbe sforzi sovrumani per dimostrare la propria povertà ed impossibilità a pagare. Troppe volte vedemmo irrigidirsi il provento di imposte ripartite con questo metodo nell’ambito dei singoli Stati, per potere sperare una diversa conclusione nel caso della lega delle nazioni. Ratizzi irrigiditi, fissi, velenose periodiche controversie, malanimo fra gli Stati associati, pagamenti in ritardo o mai fatti: ecco ciò che l’esperienza storica ci insegna essere il risultato meglio probabile dell’adozione del primo sistema.

 

 

«La funzione di un ostacolo è quella di essere superato», ha detto il presidente Wilson in una di quelle sue frasi semplici, scultorie, destinate a restare. Occorre solo che l’ostacolo non sia rinascente, periodico, inasprito dalle meno buone qualità della natura umana, come sarebbe nel caso dei ratizzi.

 

 

Gli ostacoli del secondo metodo, quello delle imposte proprie, sono tutti iniziali, sono di quelli che si devono e si possono superare con un atto di volontà e di rinuncia. Basta che gli Stati collegati rinuncino, una volta per sempre, ad una data entrata e la trasferiscano al tesoro della lega.

 

 

Supponiamo, ad esempio, che questa entrata sia il provento di certi o di tutti i dazi doganali, di certe imposte sulla produzione di talune merci o su date mutazioni della ricchezza, come le successioni. È un sacrificio rinunciare a cotal reddito; ma non è senza compenso. Gli Stati singoli dovranno spendere meno per l’esercito, per la marina da guerra, per la sorveglianza degli Stretti. Il bilancio si alleggerisce all’attivo ed al passivo, e le partite ritornano ad equilibrarsi.

 

 

Dopo la rinuncia iniziale, il meccanismo fiscale funziona da sé, all’infuori dei singoli Stati. La lega delle nazioni non deve lottare con ognuno degli Stati per ottenere l’aumento ed il pagamento del dovuto ratizzo. Tratta con i singoli contribuenti, i quali più facilmente sono costretti a fare il loro dovere. Non sorgono più quistioni intorno alla quota spettante ai singoli Stati, poiché essa è determinata automaticamente dai pagamenti, che alla cassa federale ogni “cittadino del mondo” farà in ragione dei propri consumi o delle proprie ricchezze. Lo Stato, i cui cittadini consumeranno più carbone o più caffé – supponendo che queste due merci, cito a caso, siano scelte per una tassazione federale – pagherà di più; quello, i cui cittadini riceveranno eredità più cospicue, pagherà di più.

 

 

Se dapprima il sistema tributario federale sarà zoppicante, il difetto col passare dei decenni e coll’accumularsi dell’esperienza, sarà migliorato; così come si migliorano i sistemi tributari statali.

 

 

Il miglioramento di esso sarà sempre un problema di più equa ripartizione dei tributi tra varie categorie di contribuenti, non mai tra Stati, e si potrà risolvere sulla base dei criteri generali, con cui si risolvono tutti i problemi di ripartizione dei tributi.

 

 

Fa d’uopo non esagerare neppure troppo l’importanza degli ostacoli, i quali dovranno essere superati nel mettere in moto la macchina fiscale della lega. Ho detto dianzi che gli Stati dovrebbero rinunciare a qualcuna delle loro entrate. Occorrendo, basterà che trasferiscano alla lega il diritto di imporre, entro certi limiti di ammontare o di percentuale, su certe merci o certe ricchezze; nulla vietando che, ad es., oltre il 5 o il 10 per cento sul valore, riservato alla lega, i singoli Stati possano poi sovrimporre dazi o tributi addizionali, così, come parrà opportuno ai singoli legislatori.

 

 

Non è nemmeno necessario che la lega crei di sana pianta una propria nuova amministrazione fiscale. Le esistenti amministrazioni dei singoli Stati – dogane, ricevitorie del registro – potrebbero incassare, insieme colle proprie, le imposte federali e versarle nella cassa comune. La lega potrebbe dapprincipio contentarsi di mandare in giro propri controllori per verifiche e rese di conti periodiche.

 

 

A poco a poco, col crescere dell’importanza delle funzioni della lega, coll’abituarsi dei popoli alla sua esistenza, col graduale migliore apprezzamento dei suoi utili risultati, sarà possibile creare una amministrazione finanziaria federale, diversa da quella statale. I singoli problemi di applicazione si risolvono strada facendo.

 

 

Qui ho voluto solo, in rapidi tocchi, segnalare l’importanza del problema fondamentale della necessità di una finanza della lega, ed indicare i vantaggi e gli inconvenienti precipui delle due vie, che si possono percorrere per risolvere quel problema.

 

 



[1] Con il titolo Per la Società delle Nazioni. Il problema finanziario. [ndr]

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