Opera Omnia Luigi Einaudi

Il ribasso della rendita e il rincaro della vita. Considerazioni internazionali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 21/02/1912

Il ribasso della rendita e il rincaro della vita. Considerazioni internazionali

«Corriere della sera», 21 febbraio 1912

 

 

 

La rendita italiana, la quale dal corso medio di 97,4 nel 1897, era salita sino a toccare 105,26 nel 1905, si mantenne a 103,97 nel 1906 anno della conversione dal 4 al 3,75 per cento risalì a 106,1 nel 1908 ed a 104,8 nel 1910, si trova oggi dopo la seconda riduzione automatica al 3,50 intorno al corso di 98,50. È naturale che molti si siano chiesto quale sia la causa di questo ribasso e le teorie più diverse siano state esposte a questo riguardo da coloro che di questi giorni ne hanno scritto in Italia. Parmi interessante perciò esporre le cause le quali all’estero sono state addotte per spiegare l’identico fenomeno, che in ben maggiori proporzioni si è ivi verificato, della caduta dei consolidati. Perché il ribasso è un fatto generale, almeno nei paesi ricchi e potenti. Anzi si può affermare che tanto più i consolidati sono ribassati quanto più trattasi di paesi finanziariamente solidi e godenti elevato credito nel pubblico dei capitalisti: ribassarono invero i titoli francesi, tedeschi, inglesi svizzeri, belgi e rialzarono gli argentini, i brasiliani, i russi ecc., che sino a non molti anni sono erano considerati come titoli di paesi a finanze semi-avariate. Ho già dato di questo fatto, solo in apparenza contraddittorio, la dimostrazione in un articolo pubblicato su queste colonne il 24 ottobre; né, per brevità, vi ritornerò sopra. Certa cosa è che il più antico e famoso consolidato del mondo, quello inglese, ha avuto negli ultimi 15 anni un ben lacrimevole fato. Ecco, a grandi tratti l’andamento di questo titolo negli ultimi venti anni:

 

 

  Media annua di corsi di borsa Reddito effettivo per ogni 100 lire impegnate
1891 2,75 % 95,55 3,87
1897 2,75 % 112,15 2,45
1903 (1 semestre) 2,75 % 92,10 2,98
1903 (2 semestre) 2,50 % 89,25 2,80
1910 2,50 % 81,50 3,06
1912 (febbraio) 2,50 % 76 3,20

 

 

Si distinguono così due periodi nella storia recente del consolidato inglese: il primo che va dalla famosa conversione Goschen del 1888 (dal 3 per cento al 2,75 per 15 anni, con ulteriore riduzione automatica nel 1903 al 2,50 per cento) al 1897. In questo periodo, che fu in tutti i paesi del mondo caratterizzato dalla tendenza al ribasso nel tasso dell’interesse, il corso medio del consolidato sale da 95,55 a 112,15; inversamente quindi il capolista il quale nel 1891, impiegando 100 lire nella compra di consolidato, ne cavava ancora il 2,87 per cento, nel 1897 ne otteneva appena il 2,45 per cento. Dal 1897 comincia un secondo periodo, che non è finito ancora di discesa: da 112,15 i corsi discendono a 78, ed il reddito netto ottenibile da 100 lire di capitale, tenuto conto dell’automatica riduzione del cupone dal 2,75 al 2,50 per cento, risale dal 2,45 al 3,20 per cento.

 

 

Il nuovo periodo è cioè caratterizzato da una tendenza al rialzo nel tasso dell’interesse; lo sconto medio della Banca di Inghilterra, che era stato nel periodo 1894-99 del 2,37 per cento fu nel 1900-09 del 3,72, nel 1910 del 3,72, nel 1911 del 3,47 per cento.

 

 

Ancor più singolare è l’esperienza tedesca. Siccome i Governi dell’impero e della Prussia hanno dovuto frequentemente ricorrere a prestiti pubblici, hanno potuto usufruire prima del ribasso ed hanno dovuto adattarsi poi al rialzo nel tasso dell’interesse. Veggasi il seguente quadretto:

 

 

 

Tipo 4 %

Tipo 3,50 %

Tipo 3 %

 

Corso a Reddito

Corso a Reddito

Corso a Reddito

 

fine anno %

effettivo

fine anno %

effettivo

fine anno %

effettivo

1877

94,75

4,22

1886

106

3,77

1887

107,20

3,73

100,20

3,49

1888

108,25

3,69

103,40

3,88

1889

107,40

3,72

108,10

3,39

1890

105,30

3,79

98

3,57

87

3,45

1894

106

3,77

104,60

3,34

95,75

3,13

1895

105,80

3,78

104,40

3,34

99,60

3,01

1896

104

3,84

103,80

3,37

99

3,03

1897

103,25

3,38

97,30

3,08

1906

98,20

3,55

87,20

3,44

1907

93,60

3,73

82,75

3,62

1908

102,70

3,89

94,75

3,69

85,70

3,50

1909

102,50

3,90

94,20

3,71

85,25

3,52

1912 feb.

100,40

3,98

91,10

3,84

82

3,65

 

 

Dunque il Governo tedesco emette dapprima nel 1876, un 4 per cento che resta per un po’al disotto della pari, raggiunge il 100 nel 1880 e tocca il 106 nel 1886. Visto il momento buono, nel 1886 si emette un 3,50 che si stabilisce subito sulla pari e deve servire, oltreché a procacciare fondi allo Stato, a preparar la via alla conversione del 4 per cento in 3,50 per cento. Anzi nel 1890, avendo visto che il 3,50 superava il 100 da qualche tempo, si concepisce persino la speranza di saltare il tipo 3,50 per cento e di effettuare addirittura la conversione del 4 per cento in un tipo 3 per cento. Così, in quell’anno si emette a saggiare il terreno, un 3 per cento al corso di 87. Le speranze paiono per un momento verificarsi. Il 4 per cento non può più salire, minacciato, com’e` dalla prossima conversione; ma il 3,50 progredisce sino a 104,60 nel 1894 e il 3 per cento va sino a 99,60 nel 1895. A questo punto l’ascesa si ferma. Nel 1896 il 3 per cento regredisce di una frazione, a 99. Il Governo tedesco decide di non attendere più oltre il verificarsi di una speranza palesatasi immatura e converte il 4 per cento in un 3,50 per cento. Il tipo 4 per cento scompare dalla lista dei grandi valori di Stato. La scomparsa dura però solo un dodicennio. I corsi del 3,50 e del 3 flettono e ben presto, nel 1908, sono l’uno più di 5 punti e l’altro 15 punti al disotto della pari. Il Governo, delle nuove emissioni, dapprima timidamente lascia liberi i capitalisti di scegliere tra il tipo 4 per cento e il 3,50 per cento: e poscia, vedendo che i capitalisti preferiscono il 4 per cento, sebbene più caro, risolutamente ritorna nel 1912 al tipo esclusivo del 4 per cento. Il periodo del ribasso del tasso dell’interesse è finito,in Germania, verso il 1895, quando i capitalisti si contentavano di un 3,78 per cento col tipo 4 per cento minacciato da conversione, del 3,34 per cento col tipo 3,50 per cento, che allora sembrava il tipo normale e del 3,01 per cento col tipo 3 per cento, con cui il capitalista cercava di guarentirsi un po’ meglio contro le conversioni che lo minacciavano ad ogni piè sospinto. Come è mutato il quadro, nel 1912! A malapena oggi il capitalista tedesco paga il 4 per cento pochi centesimi al disopra della pari, e pretende, pagandoli solo 91,10 e 82, di ricavare il 3,84 e il 3,65 per cento dai tipi 3,50 e 3 per cento.

 

Possiamo dunque stabilire come una verità di fatto questa: che dal principio del secolo ventesimo si è iniziato un periodo di rincaro nel tasso dell’interesse e quindi di svalutazione dei valori capitali, periodo che è ignoto quando potrà cessare. Della verità di questa tendenza si potrebbero addurre innumere e tutte concordanti prove. Chi ne voglia leggere alcune, scorra un importante articolo di Gino Borgatta, «Il saggio dell’interesse ha tendenza a rialzare?» pubblicato nel febbraio 1911 dalla mia rivista La Riforma sociale. Quell’articolo, come parecchi miei accenni e dimostrazioni, qui e in riviste, passarono inavvertiti: ed anzi si continua ancor oggi da molti a ripetere ed a credere sul serio che la tendenza del tasso dell’interesse sia verso il ribasso. Poiché il vero è il contrario, per ora almeno, è opportuno prenderne nota ed operare, nell’interesse generale, sul fondamento della realtà.

 

 

Opuscoli, articoli, libri sono stati scritti in Inghilterra e in Germania per spiegare il fatto, a tutta prima misterioso, del rialzo dell’interesse e, quindi, della caduta dei valori capitali dei consolidati. Non passa giorno che i grandi giornali inglesi non rechino una o parecchie lettere di assidui, i quali vogliono esporre una causa inavvertita o proporre un rimedio nuovo per spiegare o combattere il fenomeno. Quest’anno, poi, essendo il consolidato inglese per un momento in gennaio precipitato fino a 76, fu una fioritura di lettere: ed in gennaio si lessero numerosi rapporti dei direttori delle principali banche inglesi, i quali dichiaravano di guardare con dolore al rinvio continuo del consolidato, rinvio che li obbligava a prelevare ogni anno somme enormi dai profitti o dalle riserve per ammortizzare le perdite subite nei corsi del loro stock di rendita. La stessa Banca d’Inghilterra deve tenere il dividendo del 2 per cento più basso di quello che potrebbe fornire a cagione delle perdite sui corsi del consolidato.

 

 

Cercherò di esporre, colla maggiore obbiettività le principali e più serie argomentazioni addotte all’estero a spiegare il fatto. Una prima causa sta nella mutata psicologia del capitalista. Quindici, vent’anni fa il capitalista pareva rassegnato alla discesa fatale del tasso dell’interesse.

 

 

Pareva naturale che dal suo capitale non dovesse ricavare più del 3, al massimo del 3,50 per cento; ed avendolo appreso sui libri di illustri economisti, guardava con filosofia al momento in cui il 3 si sarebbe disceso al 2,50 e poi al 2 per cento. Inghilterra e Belgio non avevano già un consolidato al 2,50 per cento differito od attuale? E non c’erano gli Stati Uniti con titoli al 2 per cento? Quasi quasi sembrava non impossibile giungere all’1,50 od all’1 per cento. Ricordo d’aver letto degli studi in cui si preconizzava la soluzione automatica del problema sociale, mercé il ribasso dell’interesse: quale importanza reale poteva infatti avere il capitalismo quando fosse stato remunerato solo coll’1 per cento? Oggi le cose sono profondamente mutate. Il capitalista è divenuto schizzinoso e pretende di avere un interesse maggiore. Disprezza il 3% e mal si contenta del 3,50. Tutt’al più mette in portafoglio un po’ di 3,50% e un po’ più di 4 per cento; ma vuol fare una miscela di quei titoli con altri che rendano il 4 e il 5 per cento. Paolo Leroy Beaulieu, che sente prontissimamente il polso del capitalista medio (parlo sempre, s’intende, del capitalista straniero; ed i discorsi fatti sin qui e da farsi dopo non possono adattarsi se non con parecchie modificazioni al capitalista italiano), pubblica, da anni molti, ogni tanto nel suo Economiste français, un quadro degli impieghi sicuri, a reddito fisso, che può fare un capitalista desideroso di non avere redditi troppo meschini, il quale abbia 100.000 franchi da impiegare. Quei suoi quadri, divenuti popolari in Francia, anni fa davano un rendimento medio inferiore al 3,50 per cento; oggi rendono il 4,20 per cento. I capitalisti non solo possono ottenere il 4,20 invece del 3,50; ma lo vogliono. Lo vogliono, perché la vita rincara per i capitalisti, come per le altre classi sociali. Non è possibile di aprire un giornale finanziario, tedesco, inglese o francese, leggere una circolare di banca senza sentire questo ritornello: la vita rincara. Le 3.000-3.500 lire che quindici anni fa servivano a comperare una data massa di beni, oggi comprano meno; perciò l’interesse deve salire a 4.000-4.500 lire l’anno. I lavoratori, in tempi di prezzi crescenti, chiedono aumenti di salario; perché i capitalisti non chiederebbero aumenti di interesse? Questa la formulazione grezza del rapporto tra il rincaro dei viveri e il rincaro degli interessi, che è confusamente messa innanzi dai capitalisti e dai loro organi. La spiegazione scientifica l’ha data il Fisher, senza dubbio il maggior economista americano vivente, osservatore perspicace dei fatti attuali. Egli ha distinto tra un tasso di interesse apparente, quello che si contratta in denaro; e un tasso di interesse reale, quello che si ottiene in merci. Mi sia consentito di riprodurre una spiegazione che dal fatto ha dato altrove (in Rivista delle Società commerciali, fasc. 3 del 1911): «Supponiamo che un capitalista al primo gennaio 1911 possegga 100 lire e possa comperare con esse 100 unità di merci. La sua ricchezza si misurava perciò all’1 gennaio non in ragione delle 100 lire da lui possedute (le lire sono in sé stesse un nome vano, una merce inutile; ma in ragione delle 100 unità di merci, di beni acquistabili con le sue cento lire. Se questo capitalista impresta ad un imprenditore le sue 100 lire e se il tasso corrente dell’interesse è del 4 per cento, il capitalista alla fine dell’anno riceverà 104 lire in restituzione; e, se i prezzi delle merci non sono variati nel frattempo, con le 104 lire potrà al 31 dicembre 1911 acquistare 104 unità di merci, di servizi domestici, di uso di casa, ecc.. Egli perciò sarà effettivamente ricco, alla fine dell’anno, per l’ammontare di 104 unità di merci, ossia avrà effettivamente ottenuto 4 unità di merci in più a titolo di interesse, il che è appunto tutto ciò che egli poteva pretendere, dato il tasso corrente di interesse. Se i prezzi delle merci sono invece durante l’anno 1911 aumentati dell’1 per cento, e se il tasso dell’interesse in denaro (tasso apparente) è rimasto fisso al 4% che cosa sarà accaduto del tasso di interesse in merci (tasso reale, ed il solo interessante per il capitalista). Costui avrà bensì ricevuto al 31 dicembre in restituzione 104 lire; ma con queste 104 lire potrà comperare soltanto 103 unità di merci circa, dovendole tutte pagare più care dell’1 per cento in confronto ai prezzi di prima. Perché il tasso reale dell’interesse in merci si conservi al 4 per cento, che cosa è necessario avvenga nel tasso dell’interesse in denaro, in un anno durante il quale i prezzi aumenteranno dell’1 per cento? In poche parole, e senza fare il calcolo troppo precisamente, è necessario che il capitalista alla fine dell’anno ottenga 100 lire di capitale, 4 lire di interesse vero e proprio e 1 lira di compenso per la svalutazione avvenuta nella capacità d’acquisto del suo capitale. Poiché in pratica le 4 lire di interesse vero e l’1 lira di compenso di svalutazione si confondono in una cifra sola, si ha che l’interesse (apparente) in denaro deve essere del 5 per cento, e che questo interesse del 5% in denaro, corrisponde ad un interesse reale del 4 per cento. È chiaro ora perché nei periodi di rincaro (non di caro) dei prezzi, come l’attuale, il tasso dell’interesse in denaro deve essere alto, se non si vuole che i capitalisti perdano una parte del loro capitale? Naturalmente i capitalisti non fanno questo ragionamento forse un po’ complesso, ma è certo che essi sentono il caro della vita, e diventano facilmente irritabili contro i redditi troppo bassi e quindi pronti a fare arbitraggi, ossia a vendere titoli a basso interesse per comprare titoli ad alto interesse.

 

 

Lo possono fare, perché nel momento presente la domanda di capitalisti è assai più viva di quel che non fosse dal 1885 al 1895, nell’epoca classica in cui la Banca d’Inghilterra scontava persino il 2% e non trovava chi volesse i suoi denari, neanche per niente. I capitalisti non solo vogliono ma possono acquistare valori a rendimenti più alti di prima, per molte ragioni.

 

 

  • 1) Quando i prezzi delle merci calavano (e in Inghilterra calarono, secondo Sauerbeck, da 100 nel 1881 a 71,8 nel 1896, in Francia secondo March, da 100 nel 1881 a 74 nel 1896, in Germania da 100 nel 1881 a 71,7 nel 1897, in Italia, secondo Necco, da 100 nel 1881 a 70,42 nel 1897) gli industriali erano riluttanti ad estendere le loro imprese, perché ogni anno era un disastro. S’era comprato a prezzi cari la materia prima e si doveva vendere il prodotto finito a prezzi scemati. Fu l’epoca famosa della depressione industriale, in cui le iniziative deperivano e in cui tutti gli economisti ragionavano da crisi, di depressione. Capitò anche a me, proprio negli ultimissimi anni di quel periodo, di scrivere un mio primo saggio discorrendo di crisi. Come è breve la sapienza degli uomini il 1896 e il 1897 furono precisamente gli ultimi anni della discesa dei prezzi: questi risalirono poi, da quel momento al 1910, in Inghilterra da 71,8 a 91,8, in Francia da 74 a 98, in Italia da 70,42 a 86,55. Non siamo ancora ritornati ai prezzi del 1881 e tanto peggio a quelli del 1873, che furono i massimi del secolo diciannovesimo, ma ci stiamo a grandi passi avvicinando a quei livelli altissimi (voglia il cielo che le ipotesi degli economisti siano smentite dai fatti, così come lo furono in senso inverso quelle del 1897); e gli effetti ne sono già evidenti sullo spirito d’intrapresa. Mentre, quando i prezzi ribassavano, gli industriali non osavano iniziare nuove intraprese, l’agricoltura languiva, il commercio internazionale segnava ribassi, ora che i prezzi aumentavano, assistiamo ad un rigoglioso espandersi delle industrie e dei commerci. C’è ancora qualche crisi, come nel 1901, nel 1907, nel 1911; ma solo di breve durata, talvolta (1911) dovute a cause politiche, il rialzo dei prezzi lascia dei lucri nei bilanci degli imprenditori; onde lo spirito d’intrapresa è stimolato. Ferrovie, società di navigazione, imprese di elettricità, imprese di automobili, piantagioni di caucciù fanno appello al mercato. Il capitalista si vede corteggiato e, siccome egli sente d’altro canto gli stimoli del rincaro della vita, rialza le sue pretese.
  • 2) Anche i Governi sono venuti sul mercato a domandare capitali. Il Governo inglese ha dovuto, per la guerra boera, domandare 160 milioni di lire sterline (4 miliardi di lire nostre); ed ogni anno ritorna a domandare capitali per la rigenerazione dell’Irlanda. Il debito degli Stati germanici (compreso l’Impero) è salito da 13.112 a 17.572 milioni di marchi negli anni che volsero da 1901 al 1909. Non parliamo della Russia e del Giappone. Non passa settimana che sui grandi mercati di Londra, Parigi e Berlino sia emesso un prestito di qualche decina o centinaio di milioni di lire. Or sono ferrovie da completare, o colonie da valorizzare, o programmi navali da attuare: cosa certa è che quindici anni fa i capitalisti correvano dietro agli imprenditori pubblici e privati ed ora questi corrono dietro ai capitalisti.
  • 3) Nel frattempo sono aumentate le nozioni economiche e geografiche dei capitalisti. Il francese, l’inglese che nulla vedevano fuor dei propri consolidati sono scomparsi. Hanno cominciato a trovare che c’era del buono nella rendita italiana: e poi si sono interessati nella spagnuola, nella russa, nell’argentina. Oggi neppure la Cina ed il Giappone incutono diffidenza. Purché l’interesse sia alto. Qualche volta c’è dell’esagerazione in tutto ciò; e sel sanno gli inglesi, dei quali fu detto che comprerebbero anche i valori della Luna; ma ogni tanto si scottano le dita attorno alle miniere d’oro del Transvaal od alle piantagioni di caucciù od ai prestiti di un qualunque Stato fallimentario del Centro-America.

 

 

Sono ben lontano dal credere che gioverebbe a noi l’audacia inglese: ma poiché qui non giudico, ma espongo i fatti, dirò che nel 1888 gli amministratori (trustees) di patrimoni pupillari inglesi potevano, all’infuori del consolidato, scegliere soltanto fra 300 milioni di lire sterline di valori. Oggi possono scegliere fra 1.800 milioni. Che meraviglia che abbiano in parte, abbandonato il consolidato 2,50% che rendeva troppo poco ed abbiano comprato valori municipali, ferroviari, coloniali, indiani, tutti valori riconosciuti dalla legge inglese di prim’ordine e che fruttavano, nel 1910, dal 3,60 al 3,95 per cento? In tempo di caro viveri si bada anche al decimo per cento in più od in meno nel reddito! A favorire la quale evoluzione sono intervenuti una volta sconosciuti. La Banca s’è trasformata e si sta vieppiù trasformando. In Italia noi non conosciamo ancora i cosiddetti demarcheurs di Banca. Il banchiere da noi, sta a casa sua e aspetta gli ordini del cliente. Non così in Germania, in Svizzera e in Francia. Come gli industriali inviano commessi viaggiatori a fare le diverse piazze commerciali, così i banchieri hanno i demarcheurs che fanno le piazze, diciamo così, capitalistiche. Cominciano le Banche ad inviare circolari, bollettini di prezzi; poi arriva il commesso viaggiatore, che si presenta di solito con qualche lettera di amici o parenti; e prudentemente si informa del modo con cui il cliente ha impiegato il proprio patrimonio; fa comprendere l’opportunità di comprare altri titoli per ottenere un mezzo per cento o l’1% di più di reddito, a parità di sicurezza. Lascia magari qualche indicazione bibliografica, a cominciare dalla classica Art de placer e gerer sa fortune di Leroy Beaulieu, sino a precisi elenchi di valori raccomandabili.

 

 

In breve, il portafoglio del capitalista «moderno» e assai meno «fisso» d’una volta. Come l’operaio cerca per mezzo delle Camere del lavoro informazioni sui luoghi e sui mestieri dove può ottenere più alti salari, così il risparmiatore cerca di impiegare, per mezzo delle Banche, i propri capitali ottenendone il più alto reddito possibile. L’operaio sciopera contro l’imprenditore che lo paga troppo poco; il risparmiatore contro il titolo 3% che gli sembra oggi inadeguato. Onde accade che i titoli 3% rinviliscono perché abbandonati, ed i titoli 4,50-5% rincarano perché avidamente cercati. E si stabilisce un nuovo equilibrio, dissimile dall’antico in cui accanto a pochi Stati privilegiati che pagavano solo il 2,50-3% ve n’erano altri che pagavano il 6 e più per cento, malgrado la loro intrinseca solidità. Oggi si va da un minimo di 3,20 ad un gruppo compatto che va da 3,50 al 4,50 per cento. In complesso l’interesse è rialzato; ma del rialzo hanno avuto beneficio gli Stati che prima erano disdegnati benché offrissero interessi enormi in confronto dei minimi di cui i risparmiatori si contentavano.

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