Opera Omnia Luigi Einaudi

Il richiesto decreto-legge per gli zolfi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/10/1922

Il richiesto decreto-legge per gli zolfi

«Corriere della Sera», 13 ottobre 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 881-888

 

 

 

L’ing. Enrico Raverta, ci scrive da Palermo:

 

 

Nel n. 217 del «Corriere della sera», il prof. Einaudi, dopo avere accennato fugacemente alla crisi dell’industria solfifera ed alle sue cause, diffida il governo a non emanare alcun decreto legge a favore della medesima, se non vuole, lo stesso governo, ridersi delle garanzie costituzionali, se non vuol mettersi sotto i piedi tutti gli affidamenti di volersi opporre alle spese nuove, ecc. ecc.

 

 

Conveniamo col prof. Einaudi circa l’abuso che si fece dei decreti legge, strumento nefasto della maggior parte delle spese inutili, ma non ci sembra sia ciò argomento sufficiente per una opposizione sistematica estesa anche ai pochissimi decreti che potrebbero essere veramente utili o rispondenti a reali necessità collettive: anzi l’opposizione in questi casi diventa, a nostro avviso, colpa, e colpa tanto più grave in quanto, non essendo riusciti a tempo opportuno a impedir l’abuso, si vorrebbe ora impedirne l’uso.

 

 

Ad ogni modo, quello che interessa di precisare in questo scritto si è che il prof. Einaudi svisa completamente la questione, considerando l’industria solfifera alla stregua delle altre industrie libere, mentre è a tutti noto che l’industria solfifera siciliana è vincolata da quel congegno giuridico, speciale, semistatale, che chiamasi «consorzio obbligatorio per l’industria solfifera siciliana» il quale, in fondo in fondo, altro non è che un organo del ministero dell’industria e del commercio.

 

 

Lo zolfo, man mano viene prodotto e trasportato ai porti, viene in certo qual modo requisito dall’ente consorzio, e quindi, a differenza di tutti gli altri industriali, il produttore di zolfo non è libero di disporre del suo prodotto.

 

 

Il fatto di aver accumulato uno stock di zolfo invenduto, non è imputabile al singolo produttore, ma al consorzio, e quindi al governo, che nelle deliberazioni del consorzio interviene direttamente.

 

 

Ora le condizioni di fatto sono queste:

 

 

  • a) al 30 aprile di quest’anno sono giacenti nei magazzini consortili circa 270.000 tonnellate di zolfo;
  • b) su tale quantitativo le banche, e in modo speciale gli istituti di emissione, hanno anticipato circa 85 milioni di lire, e si rifiutano di fare altre anticipazioni sullo zolfo che si va a produrre;
  • c) le norme che regolano il funzionamento del consorzio stabiliscono che gli zolfi vanno venduti per ordine cronologico di consegna.

 

 

Ne consegue che, se nuove disposizioni non intervengono a modificare le attuali condizioni di fatto, lo zolfo che si produce oggi sarà venduto dopo che si sarà smaltito tutto lo stock di 270.000 tonnellate, vale a dire fra un paio di anni; e siccome non è possibile prevedere ora quale sarà il prezzo fra un paio d’anni, così gli è evidente che in tale stato d’incertezza non è possibile alcuna lavorazione industriale. Da ciò la necessità di distaccare lo stock dal resto della produzione.

 

 

Per le ragioni sopra dette, gli istituti di emissione si rifiutano di fare altre anticipazioni sullo zolfo che si va a produrre. Orbene, è possibile che un industriale affronti spese ingenti per produrre lo zolfo, quando poi è costretto a consegnarlo al consorzio, il quale non è in grado di corrispondere alcuna somma?

 

 

Siam tutti d’accordo nel ritenere che le industrie meritano di vivere solo quando sanno vivere di vita propria,cioè senza artificiosi aiuti che costituiscano oneri diretti od indiretti per la nazione: siamo tutti d’accordo nel ritenere che se l’industria solfifera siciliana non trova da se il mezzo di combattere la concorrenza americana, è destinata a scomparire: quindi il motto del prof. Einaudi «migliorare o scomparire» è pure motto nostro; ma perché l’industria siciliana possa svolgere la propria attività, e tentare con probabilità di successo la lotta contro lo zolfo americano, è necessario che l’industria siciliana venga prima liberata da questa situazione assurda che si è venuta creando per colpa esclusiva di governo. È dal maggio 1921 che lo scrivente con altri industriali si affannano a prospettare, ai diversi ministri che si sono succeduti all’industria e al commercio, la situazione anormale che man mano si andava creando nell’industria; senza parlare poi delle lunghe discussioni avute nella fine del 1919 col ministro di allora, per modificare l’attuale organizzazione del consorzio, con l’istituzione di un ufficio vendite, per dar modo ai produttori di partecipare agli eventuali vantaggi della raffinazione.

 

 

Discussioni se ne fecero molte, promesse se ne fecero moltissime, ma provvedimenti nessuno: le cose rimasero immutate, e ci volle l’accumulo dello stock, ci volle l’arresto del finanziamento da parte degli istituti di emissione per mettere e governo e industriali con le spalle al muro, ed obbligarli a provvedere per evitare la morte dell’industria.

 

 

Il provvedimento proposto dal governo e già approvato dalla camera dei deputati sull’autorizzazione al consorzio ad emettere per 120 milioni di obbligazioni garantite dallo stato, non può certamente da solo risolvere la questione solfifera. Il provvedimento però risponde alla condizione di togliere lo stock dalla circolazione e di rendere possibile la immediata vendita della produzione attuale, per cui un industriale sa a quale costo deve produrre per non incorrere in sicura perdita. Il provvedimento quindi costituisce una condizione necessaria per rendere possibile la ripresa della lavorazione.

 

 

Quando si parla di 120 milioni di obbligazioni garantite dallo stato, sembra ai più che si tratti di 120 milioni dati dallo stato all’industria siciliana: niente di più inesatto.

 

 

Di fronte ai 120 milioni di obbligazioni stanno 270.000 tonnellate di zolfo e sta un fondo di garanzia costituito da attività provenienti unicamente dall’industria solfifera, e quindi di spettanza dei produttori di zolfo, attività che nel loro insieme ammontano a parecchie decine di milioni. Ne consegue che lo stato, pur garantendo le obbligazioni, si è a sua volta talmente garantito contro i produttori siciliani, da lasciare tranquillo ogni cittadino del regno, nel senso che lo stato non corre pericolo di dover rifondere del suo per aiutare questa industria, che pure ha ben meritato della economia nazionale, durante e dopo la guerra.

 

 

Riassumendo:

 

 

L’industria solfifera siciliana non può essere trattata alla stregua delle altre industrie libere, per le condizioni speciali in cui si svolge la sua attività.

 

 

I provvedimenti governativi si impongono, e non possono essere dilazionati per nessuna ragione: ogni ritardo, non solo aggrava le condizioni dell’industria, ma è causa di sperpero del pubblico denaro, sciupato in ingenti sussidi di disoccupazione, ed in ingenti spese per la tutela dell’ordine pubblico.

 

 

Di fronte alla necessità di provvedere subito, la procedura ha importanza secondaria, e non può essere di ostacolo all’attuazione di provvedimenti destinati a dar vita ad un’industria che, come la solfifera, è fonte reale di ricchezza nazionale.

Ing. ENRICO RAVERTA

 

 

In un memoriale aggiunto l’ing. Raverta spiega che il consorzio aveva fissato un prezzo prudenziale di 750 lire, su cui anticipava ai produttori 500 lire. Le altre 250 lire dovevano servire per circa 90 lire a pagare le spese di amministrazione del consorzio e le varie imposte e tasse, mentre 160 lire erano accantonate per essere poi ripartite ai produttori alla chiusura dell’esercizio. In realtà però, il consorzio poté vendere solo lo zolfo consegnatogli fino al 14 dicembre 1920; in seguito per ritirare il nuovo zolfo che seguitava ad essere prodotto e non era venduto, fece anticipi consumando tutti i fondi accantonati per pagare il saldo prezzo sulla vecchia produzione, e quelli destinati al pagamento delle imposte ed alle oscillazioni cambi. Finalmente, esaurito tutto, ricorse ai prestiti delle banche. In tutto spese 120 milioni, parte prelevati sugli anzidetti fondi e parte mutuati dalle banche. I consorziati chiedono che il governo garantisca un mutuo di 120 milioni allo scopo di rimborsare le banche e di ripristinare i fondi consumati. Il consorzio potrebbe in tal modo: 1) accantonare lo stock di 270.000 tonnellate e venderlo in tempi migliori, rimborsando col ricavo il mutuo contratto. Il governo, dando la garanzia, corre bensì un rischio, ma è da ritenere che da ultimo non sopporterà alcuna perdita; 2) ripristinare il fondo tasse e soddisfarle; 3) ripristinare il fondo spettante ai produttori del vecchio zolfo e versare il saldo ad essi dovuto. Dal memoriale Raverta pare si possa dedurre che i produttori sarebbero disposti a rinunciare ad una parte delle 160 lire residue:

 

 

I produttori non chiedono che il governo dia ai consorziati il modo di rifarsi di tutti gli avanzi di cassa, come se si fosse venduto tutto lo zolfo ai prezzi dei listini dal governo sanzionati, ma chiedono che, tenendo conto delle condizioni in cui l’industria svolge la sua attività, il governo provveda in modo da non far subire tutto l’onere su di loro. Il governo avvalendosi della diretta sua ingerenza nell’industria zolfifera siciliana, ha agito da elemento moderatore quando si trattava di elevare i prezzi di vendita, e ciò fece per considerazioni di opportunità internazionale; il governo faccia ora da elemento moderatore nella discesa dei prezzi. Sta bene che questi debbano in definitiva mettersi al livello del mercato, nel senso di rendere possibili le vendite, ma il nuovo equilibrio, invece di raggiungersi con ripercussione brusca sui produttori, può benissimo raggiungersi con ripercussione raccordata … Se il governo ritiene che il mantenere una organizzazione obbligatoria quale il consorzio zolfifero con una conseguente sua ingerenza porti ad un onere che il governo non intende sopportare, padronissimo di scioglierla, mettendo l’industria zolfifera siciliana nelle condizioni di libertà di tutte le altre industrie; ma fino a quando tale organizzazione obbligatoria sussiste, fino a quando il governo obbliga i produttori a consegnare il loro prodotto perché un suo direttore generale od anche un suo regio commissario ne disponga, il governo ha I’obbligo sacrosanto di provvedere a che i produttori siano soddisfatti in base ai prezzi che lo stesso governo ha sanzionato mediante pubblici listini.

 

 

La lettera ed il memoriale dell’ing. Raverta dimostrano come sia necessaria ancora un’intensa opera di propaganda per far penetrare nella testa della gente una idea precisa del danno dei decreti legge. Lo scrittore della lettera considera quella dei decreti legge una questione di semplice «procedura», la quale ha una importanza «secondaria». Sarebbe anzi una «colpa grave» impedire il semplice «uso» dei decreti legge nei casi di «necessità di provvedere subito».

 

 

Vada per l’«abuso»; ma di fronte alla necessità di salvare un’industria, come è possibile fermarsi ad una piccolezza formale quale sembra essere, agli occhi dell’ing. Raverta, la differenza tra legge e decreto-legge?

 

 

Ecco: a leggere di queste cose, cascano le braccia. Se la borghesia lavoratrice, risparmiatrice, imprenditrice non sente che la sua esistenza come classe dirigente, che la esistenza stessa dello stato come organo di giustizia imparziale, che la possibilità di salvare se stessa e la nazione dalla tirannia burocratica e socialistica e dalla espropriazione inavvertita dipendono dalla tenacia con cui si saprà distruggere per sempre il decreto-legge; se essa non comprende che i contribuenti, ossia i produttori di ricchezza, non hanno altra possibilità di difendersi se non attraverso il parlamento, e che il parlamento è morto se il governo può far uso dei decreti-legge; se essa non cessa di lagnarsi della propria rappresentanza politica invece di lavorare a mutarla ed a renderla permeabile ai grandi interessi nazionali; se essa, appena è in vista d’un proprio interesse diretto e privato, dimentica i principii, mette sotto i piedi le adesioni date alle campagne per il ritorno alla vita costituzionale ed economica normale e per l’abolizione dei poteri straordinari ossia tirannici del governo; e subito esclama: i principii vanno bene per tutti gli altri casi, ma nel caso nostro specifico ci occorre e subito il decreto legge; se tutti i Raverta di tutte le industrie italiane hanno in serbo il proprio decreto-legge da imporre come necessario ed urgente; bisogna proprio dire che la nazione ha il governo che si merita e che i produttori meritano di essere derubati, flagellati a sangue e per giunta esposti alla berlina del pubblico sulla piazza maggiore delle loro città e villaggi.

 

 

Se ne persuada il nostro corrispondente: in tema di decreti legge non esiste l’uso o l’abuso. Tutto è abuso, insanabilmente. Un governo che usa il decreto-legge deve essere pronto a dimostrare che senza di esso la patria correva pericolo: non la perdita dei 100 o dei 1.000 milioni, non il fallimento possibile del Banco sconto, non la chiusura di miniere o di cantieri possono giustificare un così villano assalto, non dicasi alle prerogative del parlamento, ma al diritto della nazione di essere tale, dei cittadini di essere uomini liberi invece di schiavi; soltanto il pericolo dell’offesa nemica, dell’invasione straniera, del dissolvimento interno possono legittimare l’atto di un governo che si rende tiranno, di una burocrazia che pretende di sovrapporre se stessa alla volontà dei cittadini manifestata nelle forme legali.

 

 

Detto questo rispetto a quello che per noi era il nocciolo vero del problema, non è inopportuno di avvertire come la lettera del Raverta sia ben lungi dal dimostrare quello «stato di necessità» che erroneamente si vorrebbe addurre a motivo dell’invocato decreto legge. La necessità sarebbe che esistono 270.000 tonnellate di zolfo giacenti, che le banche, creditrici di 85 milioni di lire, si rifiutano di fare altre anticipazioni, e che non è legalmente possibile ai consociati di vendere nuovo zolfo se prima non si è venduto lo stock esistente. Il governo, che ha la colpa di tutto, garantisca il buon fine dello stock e permetta all’industria di vivere.

 

 

Astrazion fatta dalla circostanza già messa in luce dall’on. De Stefani, relatore del disegno di legge dei 120 milioni alla camera, che cioè le 270.000 tonnellate di stocks sono ora notevolmente diminuite e dovrebbe correlativamente essere diminuita la cifra dei 120 milioni, l’argomentazione diabolica come quella dell’uso od abuso dei decreti legge, dimostra una cosa sola: la verità del principio antichissimo del principiis obsta.

 

 

Malauguratamente, nel tempo che fu, lo stato salvò una volta l’industria solfifera costituendo il consorzio obbligatorio. Lo fece ad istanza della grande maggioranza degli industriali solfatai. Il consorzio è, sostanzialmente, in mano degli interessati. Ma poiché il governo ha l’alta sorveglianza ed a lui spetta la scelta ultima del direttore generale, tutti i guai sono sua colpa. Se lo zolfo non si vende, se i produttori gridano per avere anticipi superiori al prezzo probabile futuro degli zolfi, se alla perfine si accumula uno stock enorme, la colpa è del governo. Che cosa c’è di diverso nella crisi solfifera dalla crisi di tutte le altre industrie? Sempre, da che mondo è mondo, una industria è in crisi quando c’è un forte stock invenduto. Sempre, da che mondo è mondo, consorzio o non consorzio, governo o non governo, il prodotto nuovo non si può vendere se prima non è stato venduto lo stock vecchio che ingombra il mercato. Sempre, a fabbricare nuova merce quando non si vende il vecchio stock, la crisi si è aggravata. Starebbe fresco l’erario se intervenisse a garantire il buon esito di tutti gli stocks che di tanto in tanto si trovano sulle braccia dell’industria! Se gli industriali hanno di queste idee storte nella testa, bisogna che se le tolgano. Più presto le butteranno a mare, meglio sarà per l’avvenire della loro industria. Chi ha stocks da vendere, si arrangi. Può darsi che il modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo un’operazione con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi migliori. È accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene. Riuscirà tanto meglio, quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. Se lo stato garantisce una volta, garantisce due volte, perché non dovrebbe garantire la terza e la quarta e la ennesima volta? E perché non darsi allora all’industria elegantissima del fabbricare stocks per farseli garantire dallo stato? Ossia perché non rendere permanente lo stato di crisi nell’industria e di dissesto nell’erario?

 

 

Ma – si obbietta – il consorzio fu creato dallo stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A chi la vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai siciliani. Essi l’hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci ha messo bocca e non osa metterci bocca, per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. È uno di quei casi di leggi, in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare, temendo, se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali. Tutta la responsabilità del cosidetto «governo» è qui: nel non aver osato, se aveva una opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o di fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte quarantotto un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava unanime di quella grande e patriottica e nobile regione.

 

 

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