Opera Omnia Luigi Einaudi

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte II: I tributi nel Principato di Piemonte

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1908

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte II: I tributi nel Principato di Piemonte

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 45-90

 

 

 

12.- L’essere le gabelle in tempi normali l’entrata di gran lunga più importante dello Stato, ci fece indugiare alquanto nella trattazione che ne facemmo; ed a ciò ci spinse altresì il desiderio di raggruppare insieme tutti i tributi che a quei tempi erano chiamati “gabelle”. Ma in tal guisa, se obbedimmo a ragioni di sistematica intrinseca, -né in tutto potemmo assolvere il proposito, essendovi talune “gabellette” delle quali ci parve opportuno rimandare il discorso a quando si dirà di Nizza e d’Oneglia – male potemmo mettere in luce quanto diversamente i paesi dello Stato contribuissero ai carichi comuni. Qui sotto diciamo perciò da quali paesi si esigessero le gabelle generali, escludendo quelle piccole “gabellette” di cui abbiamo detto per incidenza ed il cui riferimento al solo Piemonte è dichiarato dal loro stesso titolo (dacito di Vercelli, di Trino, d’Ivrea, pedaggio di Carmagnola, ecc.).

 

 

PIEMONTE

SAVOIA

AOSTA

NIZZA

ONEGLIA

Sale (1)

Dogana

Tratta

Entrata ed uscita delle Grassine

Decima delle Canape

Vigesima delle tele, fili e cordaggi

Dritto di un Per cento sugli ori, ecc.

Dazi di transito (2) Transito di tratta
Dacito di Susa
Dritto di Villafranca
Dritto Porto franco di Nizza

 

Carni, corami e foglietta

Imbottato (3)

Ghiaccio e neve (3)

Tabacco e pipe (4)

Acquavite

Candele bollate

Carta bollata

Tabellione

Poste

Gabella stracci e battitori da carta
Gabella vetri
Salnitro, polvere e piombo
Giuochi di carte e tarocchi
Gioco del seminario (lotto)
(1) In Nizza ed Oneglia il sale vendevasi ad un soldo per libbra.(2) I dazi di transito colpiscono merci provenienti in gran parte dall’estero. Li collocammo nei paesi, dove erano esatti.

(3) Queste gabelle erano esatte nella sola città di Torino.

(4) In Nizza ed Oneglia questa gabella fu introdotta solo nel 1702.

 

 

Se si eccettuano i dazi di transito, i quali volevano colpire il traffico internazionale, ed in realtà riuscivano soltanto a restringerlo ed a danneggiare il Piemonte e Nizza, i due paesi attraverso i quali si muoveva maggior quantità di persone e di cose, subito si scorge che sul Piemonte gravava il peso massimo dei tributi sui consumi. All’infuori del sale e in parte del tabacco, ben pochi erano i veri tributi sui consumi (i dritti di posta corrispondevano ad un servizio speciale, le gabelle degli stracci e la privativa del salnitro aveano poca importanza ed erano poco osservate fuori del Piemonte, ed il lotto era un tributo volontario) che oltrepassassero di fatto i confini del Piemonte. Contrada più ricca, più facile ad essere governata, meno pronta a confronti importuni coi paesi vicini, da lungo tempo priva delle franchigie, custodite gelosamente da Nizza, Oneglia e sopratutto Aosta, unificata amministrativamente in guisa quasi perfetta, posta sotto gli occhi del Principe che vi risiedeva di continuo, l’antico Piemonte nelle sue dodici provincie era la colonna più salda della finanza dei Principi di Savoia. Poverissima la Savoia, culla della dinastia regnante, e per di più lontana e trascurata dai governanti, i quali si erano abituati a considerarla quasi un demanio da essere a poco a poco venduto in cambio di più ricche provincie di qua dall’Alpi, non si prestava ad una tassazione forte, che per giunta, scoppiando una guerra, avrebbe giovato soltanto ai nemici, essendo la Savoia disadatta ad una efficace difesa, se si eccettua il castello di Mommelliano, ed ammaestrando la storia che poco dopo la dichiarazione d’una guerra, la Savoia trovavasi in potere di Francia. Già Carlo Emanuele I, ammaestrato dall’esperienza fatta in guerre continue, diceva “Dalla Savoia si ricava ciò che si può, dal Piemonte quanto si vuole “. Provincia marittima il contado di Nizza, legato col Piemonte da un passaggio attraverso aspri colli, assomigliava alla Savoia per la facilità d’essere conquistato da Francia e per di più difendeva le antiche franchigie con la ostinazione grande della gente povera. Il Principato d’Oneglia, piccolo paese quasi tutto racchiuso dai dominii genovesi, viveva di contrabbando e di uno scarso traffico, che non voleva essere disturbato da leggi fiscali troppo vessatorie; né francava la spesa mantenere una legione di doganieri in così piccolo territorio. Il Ducato d’Aosta, il quale conservava, unico dei paesi della Corona, gli antichi Stati generali, che era retto in guisa quasi autonoma da un Consiglio dei Commessi, e, fiero della sua Corte delle Riconoscenze, male piegavasi a riconoscere la suprema autorità delle Corti Sovrane, Senato e Camera, era il più recalcitrante al pagamento dei tributi; e come non era stato possibile imporgli alcun tributo reale, sicché continuava, come vedremo, il sistema dei donativi votati di tempo in tempo dagli Stati generali, così non era stato possibile assoggettarlo ad altro balzello sui consumi fuor del sale, e a privative diverse da quelle del salnitro, polveri e piombi, delle poste e del lotto.

 

 

Rimaneva dunque il Piemonte quasi solo a fornire il nerbo della guerra ai Principi nostri; e con gelosa cura aveanlo questi separato dagli altri paesi dello Stato con barriere doganali a crescere il naturale baluardo delle Alpi e degli Appennini. Su questo territorio abbastanza compatto aveano dessi – securi della fedeltà de’ popoli – moltiplicato i balzelli con nomi e modi differenti.

 

 

Per i tributi che direttamente si imponevano sulla ricchezza noi seguiremo quindi un ordine diverso da quello che parve opportuno per le gabelle generali; e diremo perciòseparatamente dei varii paesi dello Stato, cominciando dal Piemonte che era quello in cui i tributi erano in numero maggiore ed aveano una storia più importante e degna di essere narrata[1].

 

 

13. Diciamo innanzitutto dei tributi reali ordinari pagati in denaro: tasso, sussidio militare ed imposto delle 308 mila lire.

 

 

Ebbe sua prima origine il tasso da un accrescimento di due scudi d’oro il boglio ottenuto nel 1559 dal Duca Emanuele Filiberto all’antichissima gabella del sale. Incontrando difficoltà di esigere il maggior prezzo del sale, il Duca con ordine 18 ottobre 1561 lo commutò in una somma annua di 200 mila scudi d’oro, distribuita su tutte le comunità del Piemonte. Ridotto alla metà con editto 24 dicembre 167, continuò a richiedersi il consenso e l’obbligazione di pagarlo per un certo numero d’anni dalle singole comunità sinché l’infanta Caterina d’Austria, Duchessa di Savoia, lo dichiarò carico ordinario perpetuo con editto del 26 febbraio 1690[2]. Ricordammo l’origine del tasso, perché esso ci spiega il suo difetto principale: la sperequazione antica ed ognora più grande tra le diverse provincie dello Stato. Avendo preso il posto del sale, pare fosse distribuito dapprima con gli stessi criteri con i quali si stabiliva l’obbligo delle comunità di levare una certa quantità di sale, ossia in ragione del numero degli abitanti e delle bestie; e benché subito sia sorta questione sulla sua ripartizione migliore, se sul registro, ossia sulla proprietà fondiaria, o sugli abitanti a guisa di testatico, o sul registro unito alle mercanzie, esercizii, industrie ed opere; e la questione sia stata risoluta nel senso di considerare il tasso come un onere reale, gravante sulle terre del Piemonte, pure la ripartizione era ben lungi dall’avere un uguale rapporto col reddito di questi terreni, e neppure colla ricchezza generale delle comunità. La Camera dei Conti avea bensì parecchie volte osservato che nella distribuzione del tasso si avea avuto riguardo alla quantità e bontà dei territori, ed insieme “alli traffichi delle città e luoghi, numero delle persone, quantità di sale, ch’erano in obbligo di levare e smaltire, opulenze de’ cittadini ed altre considerazioni” (D. XXII. 1033). Era il breve il tasso un’imposta di contingente o ripartizione: e di queste avea tutti i difetti nascenti dalla difficoltà di trovare indizi perfetti della diversa ricchezza territoriale dei singoli luoghi dello Stato, aggravati dal fatto che, mancando allora la pubblicità ed il controllo nelle cose di Stato, e massimamente nelle finanziarie, le comunità non aveano potuto vegliare subito a che la ripartizione del tasso avvenisse giustamente. Ogni comunità si era obbligata al pagamento non d’una quota percentuale del contingente totale dello Stato, ma di una somma fissa, regolata in seguito a trattative particolari col fisco. Per il Marchesato di Saluzzo, venuto a dizione piemontese nel 1601, si stabilì dovesse pagare prima la dodicesima e poi la quattordicesima parte del contingente; e ben presto la quota percentuale fu ridotta a somma fissa. I contingenti comunali, se potevano essere equi nel primo momento, ed è difficile ammetterlo senz’altro, subito diventarono sperequati. “Siccome però”, citiamo il Salonio “per le vicende dei tempi crescono e diminuiscono li traffichi, come pure la popolazione de’ luoghi, non poteva pertanto essere sempre eguale giusta la distribuzione di detto imposto fatta su tali riguardi onde ne venne che dal 1590 in poi molte Comunità cominciarono a dolersi della quota del tasso loro addossato, come ricavarsi da moltiplicati ricorsi e diffalchi in seguito accordati alle medesime, sebbene però provisionali sinché si fosse devenuto ad una generale perequazione, locché dimostra essersi conosciuto, che le Comunità non erano state caricate con una eguale distribuzione (D. XXII. 1033)

 

 

Ed un altro scrittore, funzionario dell’ufficio delle finanze, scriveva precisamente poco prima che incominciasse la guerra contro la Francia, sullo scorcio del 1702 o sul principio dei 1703: “Resta noto a tutti che il Registro d’una Comunità, senza riflesso alla maggior o minor distesa de’ terreni, fertilità o sterilità d’essi, sito in cui restano posti, viene caricato più o meno del dovere e del giusto et equitativo, perchéè mancata la considerazione di tutte le dette qualità che devono regolare la egualità e proporzione de’ pesi[3].

 

 

Il male, già grave in sé stesso, veniva aggravato ancor piùperché al tasso si aggiungevano e quasi vi si innestavano sopra, parecchi altri tributi, ordinari e straordinari: il sussidio militare, l’imposto delle 308 mila lire, il comparto de’ grani, il doppio sussidio, il doppio comparto, il quartier d’inverno, ecc. La sperequazione del tasso voleva dire sperequazione di tutti questi altri tributi ordinari e straordinari, i quali erano quasi altrettanti centesimi addizionali che con diversi nomi e con differenti pretesti venivano ad aggiungersi al principale – come oggi lo si chiamerebbe – del tributo fondiario.

 

 

Lasciando per ora da parte i tributi in natura (comparto de’ grani e doppio d’esso) e quelli straordinari (doppio sussidio e quartier d’inverno), de’ quali si discorreva poi, diciamo ora dei due tributi che giù ai nostri tempi erano divenuti ordinari ed, ancor prima di venire fusi col tasso per l’editto della general perequazione del 5 maggio 1731, formavano con esso di fatto quasi una sola cosa: il sussidio militare e l’imposto delle 308 mila lire.

 

 

Imposto con editto 28 dicembre 1659 (D. XII. 1361) dal Duca Carlo Emanuele II – quando, dopo la pace dei Pirenei, poté abolire i tributi straordinari del quartier d’inverno, del rinfresco, delle sussistenze, delle caserme, della sesta e doppia sesta dei censi e dei soldi 45 per ogni scudo d’oro di tasso alienato imposti durante la guerra il sussidio militare dovea durare per un anno solamente allo scopo di mantenere il corpo delle guardie, con alcune compagnie di cavalleria et alcuni regimenti d’infanteria ne’ presidii e lo stato dell’artiglieria e supplir ad altri bisogni militari”. Ma, non cessando i bisogni che l’avevano fatto nascere, continuò di anno in anno ad essere ordinata l’imposizione del sussidio, esponendo ogni volta nel preambolo degli editti, le ragioni antiche e nuove che impedivano al Principe di abolire quell’imposta, come sarebbe stato suo desiderio vivissimo. Finché, dopo quarant’anni circa di codeste successive rinnovazioni, parve al Duca Vittorio Amedeo II ed al conte Groppello vano l’insistere promessa di abolire un tributo, divenuto oramai consueto ai popoli; e l’ordine dell’1 aprile 1700 fu fatto cominciare, invece che con le solite proteste di dispiacere per la necessità di imporre ancora una volta il sussidio, con l’ovvia osservazione non potersi capire, per qual motivo a differenza di quei altri tributi che si sono imposti una volta per sentire senza prefinizione di tempo e con la sola e vera misura della necessità dello Stato, siasi praticato sin’ora in quanto al sussidio d’imponerlo anno per anno con Editto nuovo e particolare, quasi che noi sperassimo o li sudditi nostri credessero che avesse a durare per quei soli anni un imposto già riconosciuto per tanto tempo non meno necessario degli altri, che sono necessarii”. Necessario tanto che appena bastava a mete delle spese ordinarie delle truppe, ed era considerato come ordinario tanto che in parte lo si era già infeudato; cosicché “non con altra ragione che di seguire l’esempio per avanti introdotto, abbiamo lasciato sin’ora correre lo stile di rinnovarne ogni anno l’imposizione con nuova pubblicazione d’Editti”. Pratica questa inutilmente costosa, cosicché “abbiamo determinato di devenire all’imposizione del detto sussidio non solo per l’anno corrente, ma per tutti gli altri in avvenire” (D. XXII. 1458).

 

 

A diminuire l’impressione cattiva che i popoli doveano certamente risentire da questa dichiarazione di perpetuità di un tributo per l’innanzi annuale, lasciavasi nell’editto sperare la minorazione di qualch’altro imposto, quando cessassero le presenti gravissime urgenze della Corona”. Ma erano speranze illusorie perché subito soggiungevasi che “pur troppo con nostro sommo dispiacere, doppo aver fatto esaminare con diligentissima attenzione tutto ciò che poteva sperarsi col tempo fattibile, tanto per sostegno dello Stato nostro, che per soglievo de’ popoli, abbiamo riconosciuto”, che non solo non era possibile abolire nessun’ imposta antica, ma era necessario rendere, insieme col sussidio militare, perpetua un’altra imposta detta delle 308 mila lire. Già era nota l’arte di governo la quale consiglia di chiamare le cose con nomi al tutto lontani dalla lor natura intrinseca e di circondare gli aumenti o le continuazioni d’imposte con le proteste più vive di volere sollevare i gravami dei popoli!

 

 

Era l’imposto delle 308 mila lire stato ordinato con editto del 24 marzo 1698 allo scopo di togliere i danni gravissimi nati dalle numerose infeudazioni seguite dopo il 1671 e moltiplicatesi specialmente durante la guerra del 1690-96 contro la Francia. Il Principe era stato indotto ad infeudare i terreni di molte comunità, ossia a renderli in perpetuo liberi da qualsiasi tributo prediale, ordinario o straordinario, in denaro o in natura, in tempo di pace o di guerra, perché ne ritraeva grossa somma capitale ragguagliata a 100 lire per ogni 1 1/2 o 2 lire di annuo tasso. Ma il vantaggio per il Principe era momentaneo, perché toglievasi in seguito la potestà di mettere tributi di qualunque sorta sui terreni infeudati; onde questa maniera di contrarre debiti equivaleva quasi ad una vendita di parte del territorio nazionale (Cfr. sotto paragrafo 69). Sommamente danneggiate erano poi le comunitàle quali si vedevano sfuggir di mano una parte del “registro vivo e collettabile” ossia dei terreni imponibili, ed erano costrette a distribuire le imposte regie e le spese locali sul rimanente dei terreni non infeudati. Il male sarebbe stato minore se la proporzione dei terreni infeudati fosse stata la stessa per tutte le comunitàed alcuni editti d’infeudazione aveano perciò disposto che non potesse infeudarsi più del 2 per cento del registro. Ma le necessità delle finanze, il desiderio dei capitalisti d’infeudare più in un luogo che in un altro, aveano fatto nascere disuguaglianze tridenti, cosicché, mentre alcune comunità aveano tutto il proprio territorio libero ed imponibile, altre ne aveano infeudato sino al 22 per cento. L’editto del 1698, a togliere ogni cagione di lagnanze e cessare il danno della progressiva diminuzione del registro tassabile, abolì tutte le infeudazioni successive al 1671 (quelle anteriori erano già state abolite con editto del 2 giugno di quell’anno), dando agli infeudanti come indennità un reddito di cinque lire per ogni 100 lire di capitale (introggio) pagato per l’infeudazione, reddito che dovea essere riscosso dalle comunità. Fin qui l’operazione immutava poco sullo stato di cose esistente, surrogando soltanto all’esenzione da tutte le imposte, di cui prima godevano gl’infeudanti, e che ora era abolita, il diritto di ricevere un frutto del 6 per cento sull’introggio dell’infeudazione. Rimaneva ancora l’inconveniente che le comunità avrebbero dovuto pagare agli ex infeudanti somme diversissime, cosa non equa perché i capitali delle infeudazioni erano stati usati a vantaggio di tutto lo Stato. L’editto del 1698 provvide obbligando lo Stato a rimborsare le comunità di tutte le somme che esse doveano pagare agli ex infeudanti; e siccome il frutto del 6 per cento sulle infeudazioni abolite veniva ad essere in tutto di circa 308 mila lire, cosìè precisamente di questa somma che l’erario veniva a caricarsi.

 

 

Sennonché alle buone intenzioni del Principe si opponeva anche qui l’impossibilità di attuarle: i debiti incontrati durante la sanguinosissima guerra del 1690-96 erano tanti che appena in cinque anni si sarebbero Potuti rimborsare. Quindi, e per questi cinque anni soltanto, era il Principe costretto a mettere su tutte le comunità del Piemonte un nuovo imposto che desse i mezzi di rimborsare alle comunità medesime le 308 mila lire di cui sopra dicemmo. Questo curioso sistema di chiamare “rimborso” un’imposta gravante sulle comunità praticamente veniva à questo: che mentre prima le comunità erano variamente danneggiate fre une nulla e le altre sino al 22 per cento del registro) dalle infeudazioni, oggimai avrebbero tutte dovuto pagare le 308 mila lire di nuovo imposto secondo le regole usate per gli altri tributi; e sarebbero state dall’erario rimborsate della precisa somma dovuta agli ex infeudanti. Era nulla più che un metodo per equiparare le comunità quanto all’onere derivante dalle infeudazioni (D. XXIII. 44).

 

 

Il tributo delle 308 mila lire avrebbe dovuto durare, secondo le promesse del Principe, per cinque anni soli. Dopo i quali, pagati i debiti della guerra, dovea abolirsi, caricandosi le finanze dell’onere del rimborso delle 308 mila lire alle comunità. Qui però non si lasciarono passare i 40 anni che s’erano creduti necessari per dichiarare perpetuo il sussidio militare; e nell’istesso editto 1 aprile 1700 che sanciva la perpetuità del sussidio, si rifletteva che, nonostante la promessa fatta due anni prima, fatto più distinto riflesso alle numerose alienazioni patite dal nostro Demanio, alli gravi debiti, che ancor ci rimangono, alle grandissime spese che ci convien fare per riparazioni di piazze; provisioni d’artiglierie, mantenimento di truppe e molti altri urgentissimi bisogni erasi pur troppo evidentemente riconosciuta l’inevitabile necessità di rendere perpetuo anche l’imposto delle 308 mila lire, unendolo per sempre al sussidio militare. Tanto non era forse codest’imposto dovuto a debiti contratti “per pubblica causa della difesa dello Stato?”. E non doveano i sudditi riconoscere lietamente la necessità di portare essi il peso dei debiti contratti per utilità pubblica, piuttosto che aumentare ancora “le tante diminuzioni che si sono già patite della dote necessaria alla Corona?”.

 

 

Erano dunque tre le imposte reali ordinarie in denaro esistenti nel 1700; e tutte tre portavano le traccie del vizio originario di essere distribuite sul tasso, la cui ripartizione per la sua antichità per la sua origine, non affidava nessuno. Ben è vero che, quando fu imposto il sussidio militare, si era cercato di rimediare alle sperequazoni più stridenti dei tasso, colpendo di più quelle provincie e quelle comunità nelle quali il tasso era troppo leggero in rapporto alla ricchezza ed alla popolazione; ed all’incontro gravando meno le provincie più tribolate dall’imposta antica. Un confronto fra il debito totale delle varie provincie per i tributi reali ordinari dimostra come si fosse cercato di ottenere maggiore giustizia nella ripartizione complessiva. Le cifre si riferiscono al 1704, nel qual anno per la prima volta è completa nei conti di tesoreria generale e di milizia[4] la distribuzione dei contingenti tributari fra le provincie piemontesi.

 

 

PROVINCIE

Tasso

Sussidio militare

Imposto delle 308 mila lire

Totale

Tasso

Sussidio militare

Imposto delle 308 mila lire

Totale

Cifre assolute in lire

Cifre percentuali

Alba

72.797. 7. 1

107.928

18.694. 7

199.419.14. 1

4.39

7.50

6.07

5.86

Asti

122.979.11. 1

75.550.2.2

21.161.10

219.691. 3. 3

7.43

5.25

6.87

6.45

Biella

116.091.17. 6

91.630

21.545.17

229.267.14. 6

7

6.37

6.99

6.74

Cuneo

129.675. 2. 2

133.347

26.716.16

289.738.18. 2

7.82

9.28

8.67

8.51

Foseano

101.477.10

130.686

24.049

256.212.10

6.12

9.09

7.80

7.53

Ivrea

147.220. 0.10

159.183

29.391.11

335.794.11.10

8.88

11.07

9.54

9.86

Mondovi

129.373.19. 6

100.840

23.010.15

253.224.14. 6

7.80

7.01

7.47

7.44

Pinerolo

196.947.18. 1

138.827

31.009. 8

366.184. 6. 1

11.84

9.66

10.06

10.76

Saluzzo

120.296.13. 9

112.331

23.181.12

255.809. 5. 9

7.25

7.81

7.52

7.52

Suta

90.620. 0. 7

84.621

16.557.17

191.798.17. 7

5.46

5.89

5.37

5.63

Torino

283.282. 1. 3

247.697

52.436.14

583.415.15. 3

17.09

17.23

17.02

17.14

Vercelli

147.898.17. 1

55.158

20.402.11

223.459. 8. 1

8.92

3.84

6.62

6.56

Totale

1.658.060.19. 2

1.437.798.2.2

308.157.18

3.404.016.19. 4

100

100

100

100

 

 

È manifesto l’intendimento di riparare con le due ultime imposte alle ingiustizie della cattiva ripartizione del tasso. Varii indizi – fra i quali principalissima la variazione di valore dei terreni in Piemonte dal 1680 al 1717 (Cfr. sotto Capo VI) – ci permettono di asserire che il contingente del sussidio militare e dell’imposto delle 308 mila lire sia stato ridotto, in confronto al contingente del tasso, in quelle provincie dove i valori delle terre erano aumentati meno, e sia stato aumentato in media nelle provincie dove maggiori erano stati i progressi dell’agricoltura, della ricchezza e dei valori terrieri.

 

 

Contuttociò i mali continuavano e con essi le querimonie si facevano sempre più frequenti ed alte; specie negli anni nostri, in che il trascorrere del tempo aveva, col migrare delle popolazioni, col vario trasferirsi della ricchezza, col crescere degli abusi, tolto parecchio del suo valore alla perequazione che erasi, quasi un mezzo secolo prima, ottenuta al momento della istituzione del sussidio[5].

 

 

14. – I mali della sperequazione erano tanto più sentiti allora che oggi, in primo luogo perché non erano ben definite le regole con le quali il contingente comunitativo dei tributi dovesse ripartirsi sugli abitanti: se in ragione della sola ricchezza reale od anche de’ guadagni personali e, supponendo risoluta la questione in favore della realtà delle imposte, perché non tutta la ricchezza terriera era chiamata a contribuire all’imposta, a causa di privilegi di natura ecclesiastica e feudale. Diciamo qui della prima ragione di disuguaglianza tributaria; rinviando al paragrafo seguente la trattazione delle immunità di classe.

 

 

Se i tributi del tasso, del sussidio e dell’imposto delle 308 mila lire insieme al comparto del grano ed a’ tributi straordinari) dovessero imporsi sul reale e sul personale insieme o soltanto sul reale, ossia sulla proprietà catastata e tassabile, era questione antica e non stata mai bene risoluta. Siccome i tributi erano divisi per contingenti comunitativi, ed ogni comunità era reputata debitrice di una certa somma annua allo Stato, questo in origine non ingerivasi troppo nel modo con cui le comunità riuscivano a trar quella somma dagli abitanti; sicché erano invalsi a poco a poco abusi gravissimi laddove nei consigli dominavano i proprietari più agiati, i quali pretende vano di far pagare dei cotizzi (capitazioni a testa d’abitante) e dei gioatici (tributo per capo di bestiame) esorbitanti, a scarico dell’onere gravante sul registro reale. Talvolta era altresì accaduto che gli amministratori delle comunità per evitare d’imporre tributi troppo forti sul registro reale, si impegolassero in debiti contratti ad interessi usurari, che in seguito mettevano in angustie i contribuenti e ritardavano il puntuale pagamento dei tributi all’erario. Questa fu la prima origine dell’intervento dello Stato negli affari comunitativi, intervento che, saltuario in sul principio, divenne in seguito regolare e continuo, quando furono istituiti i direttori delle provincie, il cui incarico precipuo era appunto di vegliare all’esatta riscossione dei tributi, allo scrutinio ed all’approvazione annua dei causati o bilanci comunali, senza la quale i causati non diventavano esecutivi. Sarebbe un capitolo importante di storia amministrativa del Piemonte quello che narrasse gli sforzi con i quali si riuscì dalla fine del secolo XVII al principio del secolo XVIII a disciplinare questa materia ed a ridurre le comunità da uno stato assai simile, nei rispetti tributari, a quello che sarà in seguito descritto per la Savoia (paragrafo 25) ad una condizione di ordine contabile, di equità tributaria, di prontezza nei pagamenti che per quei tempi poteva dirsi soddisfacente. Il merito principale fu anche qui del Groppello, il quale manteneva una corrispondenza assidua coi direttori provinciali, risolveva dubbi, verificava e statuiva in ultima istanza sui causati che davano luogo a quistioni gravi ed abituava le parti più lontane del Piemonte all’idea che a Torino esisteva un potere centrale che voleva l’osservanza delle leggi, puniva i malversatori del pubblico denaro e male tollerava che i deboli ed i poveri fossero ingiustamente angariati dai potenti. Per quanto ha tratto alla ripartizione dei carichi pubblici, l’intervento del potere centrale era inspirato in massima a questo concetto: che al pagamento dei “carichi comunitativi”, che oggi direbbonsi “spese locali”, si dovesse far fronte con tributi imposti di preferenza sul personale, mentre i tributi dovuti allo Stato ripartire si dovessero sul registro reale. Erano però consentite eccezioni e deviazioni da cotesto concetto fondamentale; ed a guidarci attraverso a queste incertezze, naturali in un periodo di trasformazione accentratrice dello Stato sabaudo, ci sono guida preziosa le due istruzioni ai direttori delle provincie dettate dal Groppello in data del 21 giugno 1711 e del 7 marzo 1712[6].Parecchie erano le norme che quivi erano statuite ad ordinare la materia dei bilanci comunali ed a procacciare giustizia ai sudditi:

 

 

  • togliere le spese inutili: e perciò si ordinava ai direttori di diminuire, in occasione della disamina annua del “causato”, sia il numero che lo stipendio di tutti gli ufficiali della città e comunità, e di cancellare qualunque partita che fosse imposta nei causati “sotto titolo di donativi a chi che sia, né tampoco di utensili o recognitioni a favore de’ Governatori, Comandanti e Maggiori”, regalie e donativi che eransi aboliti col R. B. del 4 novembre 1702;

 

  • consentire alle comunità diritto di rivalsa contro chi aveva cagionato spese evitabili. E così, mentre si proibiva a’ commissari togati, che s’inviavano per le compulsioni (esecuzioni forzate in caso di ritardo nel pagamento dei tributi), di esigere vacazioni superiori a quelle stabilite dall’editto del 17 aprile 1676, si ordinava di accollare quelle spese ai contribuenti morosi. E similmente le spese dei commissari per le contravvenzioni al dritto della macina doveano essere messe a carico dei segretari e notari che avevano contravvenuto; le spese per la contumacia dei comunisti arruolati nelle regie truppe doveano bensì anticiparsi dalle comunità sul fondo degli “urgenti” (era questo un capitolo dei bilanci comunali che ora si direbbe delle spese impreviste o fondo di riserva per le spese straordinarie”); ma alle comunità era consentito il diritto di rivalsa sul registro dei contumaci. Norme salutari, le quali vietavano che la negligenza di pochi andasse a documento dell’universale e facevano uno strappo a quel principio della solidarietà dei comunisti nel pagamento dei tributi che era stato ereditato da tempi antichi ed era grave impaccio sulla via del progresso economico;

 

  • impedire che l’onere del tributo gabellario cadesse sul registro reale. Oggi se si riuscisse a far pagare il tributo sul sale dai contribuenti alle imposte dirette invece che dai consumatori, si reputerebbe da taluni di aver conseguito un intento di giustizia sociale. Nel primo settecento era vero in parte il contrario, perché al tributo sul sale nessuno sfuggiva, mentre i tributi reali colpivano il registro e lasciavano esente il feudo e gli altri beni immuni; cosicchéè spiegabile che nelle nostre istruzioni si vietasse di caricare sul registro il costo del trasporto, lo stipendio del gabellotto e le altre spese (avarie) che le comunità dovevano sopportare per la distribuzione del sale, e si imponesse invece di accrescere il prezzo del sale sino ad un massimo di 4 soldi e 4 denari per libbra. Così pure è spiegabile lo stesso divieto per i diritti di carne, corame e foglietta, rispetto ai quali già vedemmo (paragrafo 6) come gli editti facessero obbligo alle comunità di mantenere, occorrendo a loro spese, i macelli necessari per la vendita delle carni. Siccome quest’obbligo era imposto per facilitare l’esazione del canone gabellario, così talune comunità, per sottrarvisi, usavano pagare il canone al fisco, riportandolo poi sul registro insieme colle altre spese comunali. Il che era come un alleviare i consumatori di carni e di vino a danno dei proprietari fondiari, due classi che potevano non essere identiche. Di qui il divieto delle istruzioni del 1711 di ripartire sul registro reale il canone della gabella delle carni, corami e foglietta, divieto che era tolto solo nel caso che per la picciolezza dei luoghi fosse impossibile tenere aperto un macello;

 

  • impedire che le spese degli ufficiali e degli stipendiati cadessero sul registro. Città e comunità doveano mantenere l’organismo amministrativo locale coi redditi locali e quindi stipendiare giudici, tesorieri, uscieri, medici, chirurgi, maestri di scuola, ecc. nella misura consentita dai redditi locali censi attivi, diritti di forni, mulini, acque, gabellette comunitative, diritti di peso, ecc., ecc.). Solo nel caso che i redditi locali, di solito meschini, non bastassero alle pur misere spese locali, era consentito di caricare o il registro reale, o il personale. Ad esempio potevano le comunità stipendiare i maestri di scuola a carico del registro reale, quando però non possedessero redditi propri oppure fondi e censi di frutti legati a tale scopo. Quanto ai medici e chirurgi era lecito stipendiarli sul registro se doveano servire gratuitamente solo i poveri. Quando la condotta era piena, i non miserabili doveano pagarsi medici e chirurgi con convenzioni particolari, ovvero la comunità dovea fare un cotizzo esteso a tutti, anche i privilegiati;

 

  • togliere i privilegi rispetto alle opere pubbliche locali. Strade e ponti erano di spettanza dei corpi locali, poiché lo Stato non erasi ancora, come fece poi in seguito, accollato la spesa di talune grandi strade interregionali, come quelle da Torino a Nizza e da Torino a Casale. Anche qui il giudizio che si volesse dare con concetti moderni su istituti antichi sarebbe erroneo. Le prestazioni personali di uomini e bestiami per la costruzione e la riparazione delle strade sono oggidì condannate perché contrarie alla giustizia tributaria e fonti di sperpero economico per l’irregolarità e la malavoglia della maestranza non pagata. Il quale ultime difetto riscontravasi anche allora ed avea condotto allo spediente di rendere bensì obbligatorie le prestazioni personali, ma di pagarle in contanti con denaro delle comunità. La spesa ripartivasi poi non sul registro reale catastato, ma su tutto “il registro catastato e non catastato nuovo et antico”, ossia anche sui beni privilegiati. Siccome questi ultimi non potevansi colpire direttamente, si tassavano i mezzadri ed in genere i coltivatori, cosa che naturalmente riduceva il fitto delle terre privilegiate. Dal che si vede che le prestazioni personali potevano essere un mezzo per costringere a contribuire indirettamente alle spese pubbliche le classi privilegiate;

 

  • restrizioni rispetto alle spese locali che indubbiamente cadevano sul registro reale. Riflettevano specialmente i censi e crediti passivi delle comunità, le quali ne erano talvolta estenuate, in guisa da non potere più pagare i tributi regi con la necessaria sollecitudine. Alcune comunità aveano fallito, destando alto rumore tra i creditori; ed altre, non potendo pagare tutti gli interessi, li pagavano in parte, favorendo a libito degli amministratori più gli uni che gli altri creditori. Di qui la necessità di regole uniformi, sulle quali inutile dilungarci. Basti il dire che si doveano imporre sul registro reale integralmente gli interessi dovuti a sacerdoti per ragione di patrimonio ecclesiastico, a luoghi più, alberghi dei poveri, a privati che avessero rinunciato già a parte del capitale e a interessi decorsi col patto del pagamento intiero del resto; in proporzione più elevata, a giudizio dei direttori, gli interessi dovuti a sacerdoti o altre persone miserabili e per doti di figlie nubili; in proporzioni ugualmente ridotte, a norma delle forze delle comunità, per tutti gli altri creditori. Censi e crediti doveano essere soddisfatti con imposte messe sul registro reale, essendo obbligazioni contratte per lo più per soddisfare a spese riflettenti il registro stesso;

 

  • tutti i tributi regii doveano di regola essere distribuiti sul registro reale. La regola era universale e si estendeva quindi ai tributi straordinari, come il quartier d’inverno, anche se questi tributi fossero esatti in natura durante la guerra, a cagione delle requisizioni forzate di fieno, paglia, biade e altre somministrazioni. Però per le “condotte” ossia per trasporti eseguiti per conto dell’ufficio generale del soldo, vigeva la regola sopra indicata per le opere pubbliche locali, potendosi le “condotte” assimilare alle prestazioni personali obbligatorie. Alla regola che i tributi cadevano sul registro rispondeva l’altra che le “bonificazioni sui tributi regii, le quali si concedevano alle comunità che avevano fornito vettovaglie, condotte, alloggi, ecc. all’ufficio generale del soldo, si doveano pure distribuire a vantaggio del registro reale, senza poterle divertire ad altri fini.

 

 

La regola della ripartizione dei tributi regii sul registro reale collettabile subiva però qualche eccezione. Quantunque si fosse cercato di restringere la imposizione del personale alle spese locali, tuttavia poteva accadere che in talune comunità il registro reale fosse troppo esiguo per sopportare il carico del contingente comunitativo di tasso, sussidio, imposto delle 30 mila lire, comparto del grano, tributi straordinari, senza notare le spese locali che le istruzioni del 1711 e 1712 consentivano di riportare sul registro. Specialmente dove i beni immuni erano molto estesi poteva darsi che i tributi regii fossero tali da rendere impossibile la cultura laddove si fossero integralmente fatti pagare al registro reale. Perciò in talune località la consuetudine favoriva la imposizione del personale, la quale – ripetiamolo ancora una volta poteva essere un mezzo per far contribuire ai tributi regii le classi privilegiate. Le leggi sanzionavano coteste consuetudini. Ancora di recente le lettere patenti della Camera de’ Conti del 21 maggio 1700 imponevano alle comunità di procedere ogni anno alla consegna degli abitanti e del bestiame, facendo pagare per ogni abitante di pia di 7 anni un cotizzo di 2 lire, per ogni paio di buoi 5 lire e per ogni paio di vacche 2 lire. L’ammontare del cotizzo doveva essere versato all’esattore del sussidio, affinché questi potesse alleggerire d’altrettanto il registro reale. L’obbligo però di imporre il cotizzo era limitato alle comunità che da antica data lo osservavano, e dove non era stato trascurato dopo l’ultima guerra del 1190-96 (D. XXIII. 979). Quando, coll’editto di perequazione del 5 maggio 1731, sarà attuato il nuovo catasto, la pertinace battaglia sostenuta per mezzo secolo dai successivi generali delle finanze per rendere i tributi regii esclusivamente reali avrà il suo coronamento. Quell’editto – anticipiamo a guisa di conchiusione su ciò che in altro volume ampiamente sarà esposto – considererà invero il tasso, nel quale saranno stati fusi ed unificati tutti gli antichi tributi ordinari, come carico esclusivamente reale e proibirà in modo assoluto l’imposizione di cotizzi e gioatici. A temperare la severità del precetto, che metteva a disagio molte comunità, sarà soltanto disposto col R. B. 31 maggio 1732 che il personale potesse essere chiamato a contribuire col reale per i debiti contratti dalle comunità a pro delle persone per causa di guerre ed epidemie, e per le altre spese d’indole locale. Il cotizzo, differenziandosi alquanto, non potrà superare L. 1 per persona, esclusi i minori di anni 7 ed i miserabili, elevandosi al massimo di L. 15 nelle città, L. 10 nei luoghi più cospicui e L. 1 negli altri luoghi per i mercanti ed artisti in proporzione del traffico; ed il gioatico non potrà superare L. 2.15 per ogni paio di buoi e L. 1.5 per ogni paio di vacche da giogo[7].

 

 

Altre eccezioni alla realtà dei tributi regii ammettevansi ed anzi favorivansi dal fisco solo quando con esso si riusciva indirettamente a colpire beni ecclesiastici e feudali che altrimenti sarebbero sfuggiti all’imposta. Così vi erano comunità le quali avevano diritto di imporre sui “massari” un tributo del 3%, sul grano di parte colonica[8]; e tale norma era vista di buon occhio, come quella che non faceva distinzione fra massari o coloni di beni allodiali e massari di beni ecclesiastici e feudali. I proprietari di beni ne muovevano aspre lagnanze, come di un peso che in definitiva veniva a gravar su di essi, perché i coloni ne traevano argomento per pretendere una quota più elevata del prodotto della terra.

 

 

Così pure lagnavansi acerbamente gli ecclesiastici di un tributo detto traffiggio, che esigevasi, insieme col tasso, nel Vercellese, ed era imposto in ragione dell’utile che poteva ricavarsi dal bestiame, pretendendo che il traffiggio, il quale era assai più forte del gioatico, scemasse la parte dominicale dalla metà ai due quinti del prodotto lordo dei fondi. Il che poteva essere ed anzi era probabilmente vero; ma non toglieva che il fisco si rallegrasse di poter così colpire un reddito immune. La ragione del quale utile risultato tributario si trovava in ciò che nel Vercellese il traffiggio era quasi un’imposta mobiliare di Stato, altrove sconosciuta, sul reddito dei massari ed in genere della coltivazione della terra; cosicché la proprietà allodiale pagava il tasso e gli altri tributi, mentre il valore dei bestiame, valutato talvolta in ragione dei numero effettivo dei buoi e dei massari e tal’altra in ragione di un dato reddito di bestiame per giornata di terra, pagava il traffiggio, il quale, per conseguenza, aderendo idealmente alla coltivazione e non alla proprietà della terra, colpiva anche i beni feudali ed ecclesiastici[9].

 

 

15. Questa diversità di norme nella distribuzione dei tributi in ragione della ricchezza reale o personale – norme che oramai erano divenute fisse e non più suscettibili di gravi abusi – era assai meno nociva di quell’altra sperequazione che nasceva dall’esistenza di beni privilegiati. Quel tributo, che sarebbe parso tollerabile se fosse stato pagato da tutto il territorio dei paese, diventava gravosissimo per quella parte che solo io pagava; e più acerbe riuscivano le lagnanze e le contese tra i contribuenti. S’aggiunga che, coll’andar del tempo, il “registro – questo era il nome del territorio soggetto a tributo – tendeva a diventar sempre più sparato, per gli sforzi dei nemici che d’ogni parte lo assalivano: immuni e privilegiati che pretendevano allargare le loro immunità e privilegi, favoriti alle potevano farsi concedere in pensione un qualche tasso, comunità che allegarano ad ogni momento corrusioni, incendi, tempeste, pur di non pagare i tributi dovuti.

 

 

Resisteva lo Stato per mezzo dei suoi Magistrati supremi contro siffatte usurpazioni dei registro, ossia dei patrimonio o dote perpetua, come dicono le fonti, concessa alla Corona a sostegno dei popoli. Ma se già era trascorsa l’epoca delle grida verbose e reboanti e non mai osservate alla foggia spagnuola, se già si sapeva che il timone dello Stato era retto da un Principe fermo, secondato da avveduti finanzieri, ancora non è possibile vedere nei tempi di cui discorriamo l’attuazione di profonde riforme.

 

 

Gli anni tra la pace dei 1696 e la guerra di successione spagnuola sono testimoni soltanto di una rinnovata lotta per la conservazione del registro. Si rinnovano le antiche leggi e di esse si chiede pronta attuazione. Le lettere patenti del 19 giugno 1697 (D. XXII. 149) lamentano lo spesseggiar dei contratti conchiusi dalle comunità, dai quali aveano queste ricevuto gravi danni, come “minoratione di registro”, obbligo di “esentione a possessori di contribuire meno nel concorso de’ carighi di quello erano tenuti in riguardo dell’allibramento primo de’ beni” concedono alle città, comunità e terre dello Stato “restitutione in intiero contro il trascorso del tempo e più atti e giudicati” e per risolvere secondo giustizia le questioni che potessero insorgere, nominano una commissione di otto alti funzionari dello Stato, presieduta dal Gran Cancelliere, marchese di Bellegarde.

 

 

Grande fu lo scalpore che menarono gli atti di questi delegati, specialmente indirizzati contro gli abusi gravissimi della immunità ecclesiastica. Non è qui il luogo di recitare in lungo la storia di queste controversie, alle quali diede occasione il manifesto del 18 settembre 1697, in cui i delegati ordinavano alle comunità: di inviare entro due mesi uno specchio dell’estimo di tutti i beni del territorio, con descrizione minuta del catasto; di spiegare le cause per le quali il registro fosse variato in meno od in più a partire dal 1625; di compilare una nota delle diminuzioni del registro, indicando il nome degli immuni od esenti, il loro allibramento, la data dell’atto che sanciva l’immunità o l’esenzione, l’essere i beni tenuti da ecclesiastici, o da persone immuni per il numero di 12 figliuoli, o infeudati, o esenti per privilegio concesso dal Principe o per contratto conchiuso con le comunità, o per corrusioni od inondazioni; di indicare se qualche terreno, una volta coltivato, fosse attualmente ridotto a pascolo (gerbido) od a bosco, o viceversa se terreni prima sterili, corrosi da fiumi o torrenti, o adoperati ad uso di pascolo fossero stati ridotti a cultura e quale ne fosse il reddito tassabile; di non accordare per l’avvenire più alcun placet per far chierici o per promuovere chierici agli ordini sacri, e neppure fare convenzioni sopra i loro patrimoni ecclesiastici, senza informarne prima il patrimoniale generale, il quale darà le opportune istruzioni, tenuto conto del numero delle parrocchie, degli ecclesiastici, dei chierici, dei loro beni, ecc., ecc.; di comunicare le note dei ministri, ufficiali pubblici, vassalli, i quali possiedono beni senza pagare i tributi, per iniziare procedimento contro di essi; di trasmetter copia di tutti quei contratti che potessero essere stati dannosi alle città ed alle comunità col diminuire il registro di taluni contribuenti, o col togliere dal registro beni registrabili, o concedere a taluni proprietari il diritto di far la compensazione tra il debito di tasso ed i propri crediti verso le comunità (D. I. 526).

 

 

Nulla di più opportuno di queste norme le quali aveano per intento di far contribuire ai carichi pubblici non quelli che aveano veramente diritto alle immunità – allora non si era ancor pensato a toccarle – ma solo quelli che godevano delle immunità in maniera abusiva. Ma sembra che il manifesto, come tanti altri che l’aveano preceduto, non abbia raggiunto lo scopo se due anni dopo i delegati si vedono costretti a ricordarlo con altro del 17 dicembre 1699 ed a minacciare di “più degna e rigorosa punizione” gli amministratori delle comunità recalcitranti (D. I. 531). Le minacce sortirono scarso effetto, perché gli amministratori delle comunità, interessati la più parte alla prosecuzione degli abusi, fecero di questi ordini del 1697 e del 1699 io stesso conto che aveano fatto di tanti altri editti, ordini e patenti che aveano ordinato la rinnovazione dei catasti, a spese delle comunità[10].

 

 

Tanto meno si affrettarono ad osservare il nuovo manifesto quando videro, il 20 marzo 1700, affisso nei luoghi pubblici di Torino un violentissimo contra editto dell’arcivescovo Vibò, il quale dichiarava nulli, invalidi, irriti ed insussistenti i due editti del 1697 e dei 1699 come ripugnanti e contrari all’immunità, libertà e giurisdizione ecclesiastica; ed i vescovi di Saiuzzo, Fossano, Aosta ed Ivrea protestare anch’essi con argomenti capziosi contro le norme emanate dai delegati. Il patrimoniale generale denuncia l’operato illegale dei vescovi ed i delegati, con ordine del 12 maggio 1700, senza ammettere che “li pretesi narrati ordini di monsignore Arcivescovo ed altri Vescovi possino essere stati fatti”, dichiarano “non potere essere stata mente di monsignore Arcivescovo di annullare li Editti nostri, et havendolo voluto, non haverlo potuto” e perciò essere “nullo, invalido, irrito ed insussistente il suo contra-editto come pure quello degli altri vescovi (D. XXII. 152).

 

 

L’arcivescovo di Torino resiste, ed in data del 17 luglio 1700 pubblica un monitorio nei quale conferma il suo contra editto, impugna ed annulla nuovamente con termini ingiuriosi l’editto dei delegati ed ardisce persino citare innanzi al suo tribunale ecclesiastico i delegati, l’avvocato patrimoniale, il procuratore camerale e tutti gli altri compartecipi negli editti regi, sino allo stampatore Valletta “con la monizione perentoria di quindici giorni per comparirvi personalmente, a dir cause per le quali non dovessero essere dichiarati incorsi nelle censure e pene ecclesiastiche, come usurpatori, violatori, perturbatori della giurisdizione, libertà ed immunità ecclesiastica, e conseguentemente contro di essi pubblicare li ceduloni!” I vescovi del Piemonte, non paghi di ciò, comandano a tutti gli ecclesiastici ed amministratori di luoghi pii, sotto pena di scomunica od altra a loro arbitraria “di non pagare per i beni da essi posseduti alcun peso o colletta imposta dall’autorità laica”.

 

 

L’arcivescovo era stato spinto a questi estremi dagli inviti e lettere che avea ricevuto dalla congregazione romana dell’immunità, la quale encomiava singolarmente la sua coraggiosa difesa dei privilegi ecclesiastici. Ma Roma ed i vescovi aveano fatto i conti senna conoscere l’ostinatezza del Principe e dei magistrati piemontesi nella difesa delle ragioni dello Stato. Il Senato di Torino con rescritto del 3 agosto 1700 ordina di strappare i monitori vescovili, commina all’arcivescovo di cassare dai suoi registri la citazione lanciata contro i delegati sotto pena della riduzione dei suoi beni temporati, e proibisce a tutti i magistrati citati dinnanzi ai foro ecclesiastico di comparirvi “sotto pena della vita attesa la notoria nullità” ed evidente ingiustizia della citazione arcivescovile (D. I. 534 e segg.).

 

 

La controversia, vivacissima da ambo le parti, a questo punto rimane in sospeso. La guerra interrompe le querele ecclesiastiche; e non risoluta in parte se non dopo le negoziazioni accorte del marchese d’Ormea, sanzionate dal breve 23 marzo 1727 o dall’editto 28 giugno 1728. Ma ottime ragioni militavano a favore del Governo piemontese, il quale nulla blu pretendeva fuorché togliere gli abusi che eransi introdotti numerosi in questa materia. In una circostanza scritta nel maggio 1700 dai delegati a difesa degli editti attaccati così violentemente dalla Chiesa, leggonsi considerazioni le quali dimostrano sino a che punto si fossero spinte le esenzioni tributarie del chiericato, annuente il Principe, e come si volesse dai magistrati mettere soltanto un freno al dilagare di abusi peggiori. Se in Piemonte, notavano i delegati, non solo i beni dotali, ossia di prima erezione delle chiese, ma anche i beni posteriormente acquistati, purché prima del 1560, non sono per nulla tassati, non è ragion sufficiente per dar lo stesso privilegio agli acquisti che si sono fatti dappoi e che tuttodì si vanno facendo in Piemonte dai regolari. Il clero secolare gode pel suo patrimonio, subito dopo la promozione agli ordini sacri, della esenzione da tutti i carichi pubblici, eccetto il tasso; non si restringe il patrimonio clericale a quanto stabilito dai sinodi, largheggiandosi assai più che non si faccia nello stesso Stato pontificio e nella più parte degli altri Principati italiani. I chierici di Roma, di Firenze e di altre città italiane non godono dell’esenzione concessa in Torino per il vino di lor consumo, non si fanno ad essi le restituzioni da noi costate della gabella delle carni. Il Principe non si è nemmeno valso della facoltà datagli dal Pontefice Alessandro VIII di esigere ogni quinquennio la decima dei redditi ecclesiastici, e neppure volle giovarsi dell’autorizzazione ricevuta da Innocenzo XII durante la guerra del 1690-96 di far contribuire gli ecclesiastici alle spese comuni “il che non è stato certamente praticato in virtù di simili concessioni negli altri Principati d’Italia, ancorché meri spettatori di questo incendio, che, minacciando l’intiera rovina di tutta l’Italia, fu gloriosamente estinto dall’animo ugualmente forte e prudente di questo gran Principe”.

 

 

Che più vogliono gli ecclesiastici Godano pure essi di queste immunità, delle quali “ha il suo Principe riempita la misura”; ma che poi “li beni acquistati dal Clero regolare dopo la dotazione e fondazione delle loro chiese, e che vanno continuamente acquistando, debbano godere della stessa immunità e senza alcun freno e moderazione”, che “li chierici secolari vogliano oltre il patrimonio clericale estendere la loro esenzione dai carichi pubblici ai beni pervenutili con qualsivoglia titolo civile e profano, ne’ quali non si trova pure l’ombra d’alcuna qualità’ ecclesiastica”; ecco quanto “vieta ogni diritto civile e canonico, non può ciò praticarsi senza la distruzione del Principato e del ben pubblico” (D.

XXII. 169)[11].

 

 

16. – A qual punto avessero condotto nel passato le indulgenze de’ Principi rispetto alle immunità ecclesiastiche, reso manifesto da un quadro compilato quando furono conchiuse le misure generali, e che si può ritenere risalga al 1711 od al 1713. Il quadro scolpisce la situazione tributaria dei Piemonte in sull’aprirsi dei secolo XVIII. Il territorio del Piemonte (le 12 antiche provincie di Torino, Asti, Alba, Biella, Cuneo, Fossano, Ivrea, Mondovì, Pinerolo, Susa, Saluzzo e Vercelli misurava giornate 3.454.668.28.10 (1 giornata = ettari 0.38009) per un reddito dominicale totale di lire 20.634.812.17.11[12]. Le immunità diverse riducevano la superficie interamente tassata a giornate 1.914.196.67.2 ed il reddito tassabile senza eccezione a L. 15.385.470.2.8.

 

 

Venivano prime le immunità ecclesiastiche. Il quadro seguente ne dimostra la specie e l’importanza:

 

 

Superficie in giornate

Reddito in lire

(1) Beni non catastrati e pretesi immuni dagli ecclesiastici, non concorrenti a nessun peso laicale Posseduti immediatamente dagli ecclesiastici, la maggior parte pretesi immuni per ragioni di antiche doti

208.709.78

1.573.21 . 0.11

Posseduti dalle confraternite e dalle compagnie secolari

12.475.68.

8.54.384. 4.10

Posseduti da secolari a titolo di emphiteotici, che pagano canoni alle chiese

12.396.52. 5

79.723.16. 5

TOTALE dei beni non concorrenti

233.581.99. 1

1.707.320. 2. 2

(2) Beni catastrati e concorrenti al pagamento del solo tasso Posseduti da mani morte

69.311.56. 5

683.714.12. 3

Posseduti da confraternite e comp. secolari

2.430.38. 8

18.782. 8.

Posseduti da ecclesiastici con immunità temporanea

78.835.50.10

791.324. 8. 6

TOTALE dei beni concorrenti al solo tasso

150.577.45.11

1.493.821. 9. 6

TOTALE GENERALE dei beni ecclesiastici

184.159.45

3.201.141.11. 8

 

 

Dubbi fondati si aveano sulla giustizia della immunità totale o parziale di cui godevano questi beni. Fra i primi, il nucleo più grosso era dato dai beni posseduti direttamente dagli ecclesiastici, i quali ne pretendevano l’immunitàperché erano antiche doti delle loro abbazie, commende, conventi, monasteri e beneficii. Alcuni di questi beni non erano ne meno menzionati nei catasti comunali; di altri era bensì fatta menzione, ma ad essi non era dato alcun “allibramento”, ossia non era fissata la quota di concorso nei carichi pubblici; e solo per alcuni vi era contesa fra le comunità ed i possessori ecclesiastici, pretendendo le prime e negando i secondi che i beni fossero stati in passato descritti ed allibrati. Ma nessuno avea dato la prova che quei beni fossero mai stati costretti al pagamento dei tributi; sicché l’immunità ai nostri tempi continuava. I dubbi maggiori si aveano per i beni posseduti dalle confraternite e compagnie secolari, le quali avrebbero dovuto godere dell’immunità solo per i beni destinati alla celebrazione di messe od altre opere sacre, mentre erano esenti di fatto anche i beni ricevuti per cause profane, per acquisti volontari, o destinati ad elemosine ai poveri, non sempre eseguite. Rispetto poi ai beni dati dalla Chiesa in enfiteusi a secolari, l’immunità si darebbe capita – date le leggi in vigore – per i canoni pagati alla Chiesa, ma non per il reddito dell’utile dominio degli enfiteuti; eppure anche a quest’ultimo si estendeva abusivamente.

 

 

Le stesse cose si ripetano per i beni catastati, i quali pagavano il solo tasso. Innanzitutto quest’esenzione parziale non era piccolo beneficio se si pensi che oramai il sussidio, insieme all’imposto delle 308 mila lire, superava l’ammontare del tasso, e che a somme ancor maggiori giungevano il comparto dei grani, il quartier d’inverno e le altre imposizioni di guerra. Da tutti questi gravami erano esenti i beni ecclesiastici della seconda categoria. Per i beni posseduti da manimorte giustamente si osserva in una relazione dei tempo: “Questi sono beni che altro volte eran tenuti da secolari, che concorrevano per essi indistintamente; essendo in varii tempi da detti secolari essi beni passati a mani morte, alcuni con obbligo di celebratione di messe o altre opere pie, altri per causa etiandio meramente profana, ed in questo capo de’ beni si conosce l’aggravio patito dalle Comunità nella notabile diminutione seguita del loro registro et sottrazione d’esso dal pagamento di quei tributi, quali riuscivano più leggieri e soffribili, allorché tutto il registro ne sentiva la sua portione”[13].

 

 

I beni concorrenti al solo tasso posseduti dagli ecclesiastici con immunità temporanea eran quelli intorno ai quali principalmente s’era agitata la controversia narrata nelle pagine antecedenti. Erano questi infatti beni allodiali catastati, i quali sarebbero stati soggetti a tutti i tributi se non fossero stati costituiti in patrimonio agli ecclesiastici all’epoca della loro ordinazione, o non fossero ad essi pervenuti a titolo di successione legittima, o per acquisto od altra causa volontaria o profana. L’immunità cessava, vero, colla morte degli ecclesiastici; ma, poiché sempre si ordinavano nuovi sacerdoti al luogo dei defunti, per il fisco avea indole perpetua. Gli abusi nascevano dal fatto che l’immunità volevasi estendere con raggiri a tutti gli acquisti fatti da ecclesiastici, anche per cause profane; e non vi si rinunciava, come imponevano le leggi, quando l’ecclesiastico veniva provvisto di qualche beneficio. Ed era un’immunità specialmente dannosa, perché questi beni aveano un reddito netto unitario cospicuo: lire 10.0.9 per giornata, secondo appena al reddito dei beni dei padri di 12 figli che era di L. 12.2.3, e superiore notevolmente a quello dei beni allodiali in genere di L. 8.0.9.

 

 

Le immunità feudali erano anch’esse cospicue, benché non avessero l’importanza che alcuni sogliono immaginare fondandosi su descrizioni vaghe e retoriche di tempi posteriori:

 

 

Superficie in giornate Reddito in lire
Beni immuni da tutti i pesi e non catastrati Beni feudali,sia di feudo  antico, che di  nuova legge

180.526.92. 6

1.308.732. 9. 7

Beni enfitheotici verso il feudo, al quale pagano qualche canone

13.729.36. 6

90.162.10. 7

Beni immuni non affetti né al feudo né al catasto

45.684.16.11

237.051. 0.11

TOTALE dei beni immuni

239.940.45.11

1.635.946. 1 1

 

 

Forse i dati non sono del tutto esatti, perché non essendo questi beni catastabili e tassabili, i misuratori non andarono tanto pel sottile nel conoscere la superficie ed il reddito; ma il divario non doveva essere rilevante, se si pon mente a ragguagli posteriori.

 

 

La prima categoria è dei beni feudali propriamente detti, ed erano esenti da tutti i tributi che colpivano il registro “come patrimonio di nostra nobiltàed uno degli ornamenti di nostra corona”. Così si esprimeva l’editto del 4 marzo 1606 (D. XXII. 43) il quale avea posto ordine in questa materia ed avea dichiarato feudi antichi quelli che al tempo della imposizione del tasse o sessant’ anni prima erano stati compresi nelle investiture e nei consegnamenti camerali; e feudali di nuova legge i beni che in quei tempi non erano né descritti nel registro come beni allodiali, né compresi nelle investiture o consegnamenti camerali come beni feudali, purché fossero situati nelle terre di vassalli investiti della giurisdizione. Scopo della legge era quello di togliere di mezzo i beni detti di terza specie, i quali, per gli abusi dei feudatari, non erano considerati allodiali e non pagavano quindi il tasso, ma non erano consegnati come feudali e sfuggivano quindi ai tributi feudali della cavalcata, del quarto d’annata, e dei laudemi. L’abuso era stato tolto e tutti i beni feudali antichi e di nuova legge erano oggimai descritti nelle investiture e nei consegnamenti camerali; essendo scomparsi così i beni di terza specie. Disegna eccettuarne però il Monferrato vecchio, ossia il territorio pervenuto a Casa Savoia col trattato di pace di Cherasco del 1631; dove non essendo mai stato promulgato l’editto del 1606, continuavano ad esistere de’ beni che nello specchietto precedente son chiamati “immuni non alletti né al feudo né al catasto”. Quest’ultima categoria di beni immuni era ingrossata anche da terreni a pascolo od incolti (gerbidi), i quali non erano catastati e che erano stati venduti dalle comunità col patto di perpetua immunità; come pure dal sito delle case di taluni villaggi, spopolati da guerre e contagi, e dichiarati liberi da ogni tributo dai principi vogliosi di invitare i popoli ad abitarli nuovamente. Ma erano questi beni i men numerosi, prevalendo di gran lunga i beni feudali propri od abusivi.

 

 

L’immunità dei beni posseduti dei padri di 12 figliuoli era antica e regolata da consuetudini e da leggi che quelle aveano coordinate, procurando di impedire gli abusi che si erano subito, qui come altrove, diffusi. L’immunità non era ristretta ai tributi reali, ma estendevasi a “tutti i carichi reali, personali e misti, patrimoniali, ducali, militari, pubblici e communi, ordinari e straordinari, tanto istituiti che da istituirsi, imposti e da imporsi, sì in tempo di pace che di guerra, alloggi, contributioni, sussidii, sussistenze, donativi, caserme, tassi, comparti de’ grani et altre collette, pedaggi, daciti, gabelle, dugane, macine, lede, foglietta, passaporti et altri di qualunque sorte et conditione si siano, si pensati che impensati”. Erano esclusi solo i laudemi, canoni, livelli, cavalcate ed altri diritti dovuti alla Corona per ragioni feudali, enfiteutiche o livellarie. I beni esenti dai tributi reali – per impedire le finte vendite dei beni tassati a padri di 12 figlioli si limitavano a quelli posseduti al momento della concessione della patente d’immunità, ed agli altri ricevuti dopo per successione legittima od ab intestato, oppure in pagamento di crediti veri, esistenti fin dapprima. L’immunità dal pagamento delle gabelle, daciti o pedaggi era ristretta alle vettovaglie e robe introdotte od estratte per uso proprio e della famiglia, escluse quelle possedute a scopo di traffico dai mercanti. Variavano poi da caso a caso le norme relative alle immunità dei tributi locali e comunitativi, volendosi con temperamenti particolari conciliare la consuetudine dell’esenzione coll’interesse delle comunità a non essere troppo danneggiate quando a uno dei più ricchi e importanti contribuenti il numero dei figlioli cresceva sino a dodici[14]. Ai nostri tempi l’esenzione in discorso non era fra le più gravose al fisco per quanto riflette i tributi reali; erano giornate 8.382.91.7 di un reddito dominicale netto di L. 101.544.13.7 che venivano sottratte al dovere tributario.

 

 

Non era di gran rilievo nemmeno l’esenzione, concessa da lungo tempo, da tutti i tributi ordinari e straordinari ai Cattolici e Cattolizzatidelle Valli, nell’intento di favorire le conversioni dalla religione valdese alla cattolica. A grande stento potevano i cattolici conservare la proprietà territoriale nelle Valli, per l’interesse che essi – avevano a vendere terreni ai valdesi, i quali li potevano comperare a più caro prezzo “del buon giusto valore a causa de soccorsi et elemosine che si ricavano da paesi stranieri”. Fenomeno questo simile a quanto oggidì accade in molte valli delle montagne piemontesi, dove i prezzi dei terreni coltivabili sono altissimi e fuor di ogni proporzione col reddito a cagione della gran domanda che ne fanno gli emigranti ritornati in patria col denaro accumulato all’estero. Per invogliare i cattolici a tenere per sé i loro terreni non erasi trovato metodo migliore che esentarli dai tributi, dando ai terreni un maggior valore che avrebbero perduto passando in mano dei valdesi[15].

 

 

Poco estesa era l’esenzione del territorio della città di Torino[16]; ma assai importante perché l’immunità tributaria abbracciava anche le case dei cittadini, il cui reddito per quei tempi era cospicuo. In verità per le case non può parlarsi di un diritto singolare per la città di Torino, perché esse erano immuni da ogni tributo, salvo quelli gravanti sul terreno edilizio, pure nelle altre città e in tutte le comunità del Piemonte. Ma nei borghi rurali il reddito esente era tenuissimo e quasi sempre connesso col reddito della terra; mentre l’esenzione delle case delle città e sovratutto della Capitale significava la sottrazione di un’ingente massa di ricchezza all’onere tributario. Ricchezza che difficile valutare, ma che in un progetto del tempo[17]calcolata in una cinquantina di milioni di lire, i quali avrebbero dovuto gittare, alla stregua degli altri tributi in tempo di pace, almeno un mezzo milione di lire pel fisco. Di questa esenzione godevano gli ordini religiosi, la nobiltà e la borghesia grassa e minuta, che possedevano quasi tutte le case di reddito del Piemonte.

 

 

I Beni comuni esenti da tutte le imposte misuravano giornate 581.560.81.1 di un reddito presunto netto di lire 310.710.8.11, ossia di appena 10 soldi ed denari per giornata. Erano per lo più beni incolti (gerbidi), pascoli e boschi “di pochissimo rilievo, ne quali resta permesso a cadun abitante di pascolare e boscheggiare; onde l’utile che ne proviene non tanto cede a beneficio de’ possidenti li beni allodiali, ma anche a favore dei feudali, ecclesiastici et altri, anzi per lo più a beneficio di quelli abitanti che non possedono beni”. Gli abusi, che si erano qui infiltrati, erano meno avvertiti quando andavano a beneficio della gente povera, o quando, affittandosi i pascoli alpini dalle comunità proprietarie, queste si servivano del fitto per far fronte alle spese locali o badare in parte i tributi allo Stato. Ma accadeva altresì che dei beni comuni si fossero impossessati facoltosi privati, i quali non pagavano tributi[18], ed era altresì probabile che le misure e le stime fossero tutt’altro che esatte, specie per i luoghi montuosi e poco accessibili ai misuratori.

 

 

Così pure non sappiamo quanta fede meriti la misura in giornate 326.427.98.1 dei beni infruttiferi che erano quei beni “che non solo non danno frutto di presente, ma etiandio non ne ponno dare, come sono le rocche, giare nude, montoni di pietre et siti di simil natura”. Per non sapere dove metterli, si erano collocati in questa categoria anche i siti occupati dalle chiese e dai cimiteri, e, cosa curiosa, i beni che il Duca possedeva alla Veneria, a Moncalieri ed a Mirafiori.

 

 

Fatte tutte queste deduzioni, i beni allodiali concorrenti al pagamento di tutti i tributi si riducevano a giornate 1.914.196.67.2. Erano anche i beni migliori perché, dando un reddito complessivo di lire 15.385.470.2.8, la media per giornata del reddito dominicale netto risultava in L. 8.0.9. Siccome i tributi gravanti in tempo di pace sui beni allodiali, – deduzione fatta del tasso pagato dai beni ecclesiastici, e non tenendo conto delle grazie e dei diffalchi di cui si dirà in seguito ammontavano, fra il tasso, il sussidio militare, l’imposto delle 308 mila lire, il comparto dei grani, i fuogaggi, gli utensili ed il dritto d’ordini, a circa 3 milioni e 635 mila lire, l’imposta media per giornata era di L. 1.17.11 in media per giornata e del 23.63 per cento del reddito dominicale fondiario[19].

 

 

Ma le medie, s’intende, hanno un valore d’indole tutt’affatto generale; e già abbiamo visto quanto fossero viziati l’origine e l’assetto del tasso e del sussidio in rapporto alla loro distribuzione equitativa. Le diseguaglianze eran cresciute per altre cause ancora. Tra i beni allodiali ve n’erano di quelli che, per essere troppo gravati d’imposta, erano stati abbandonati dai proprietari; onde le imposte erano state riversate sugli altri beni del territorio comunale. Ed era accaduto che in certi casi le comunità, per non perder tutto, di fronte alla minaccia dei proprietari di abbandonare le terre, diminuissero il carico dei tributi per queste, salvo colpire maggiormente le altre. Vi erano poi beni detti convenzionati, che prima erano comunali ed erano stati venduti col patto che i proprietari non potessero essere sottoposti a tributo maggiore d’una somma fissa per il tempo di pace e per quello di guerra. Ancora: certi beni allodiali eran soggetti a canoni e fitti annui enfiteutici verso la Chiesa ed il feudo; e per questi il registro comprendeva solo il reddito dell’utile dominio. Per altri ai tributi da pagarsi allo Stato si aggiungevano decine laicali e sacramentali di 1/20, 1/80, 1/40 del prodotto, cosicché i contribuenti vedevano i raccolti dileguarsi per gli accatti di tanti esattori prima di poterne ricavare un qualche pro in compenso delle fatiche trascorse. A quanto ammontassero i carichi privati che colpivano la proprietàterrieraè difficile dire. Un conto dell’epoca valuta “a calcolo a tre milioni di lire all’anno l’importo dei “censi, erediti, decime ecclesiastiche e laicali, canoni, fitti, stipendiati et altre avarie comunitative “[spese comunali]”[20]; e sarebbe cifra enorme che agguaglierebbe quasi il tasso ed il sussidio presi insieme.

 

 

Concludendo, ecco in un quadro riassunta la condizione della proprietà fondiaria piemontese – eccettuata la proprietà edilizia – al principio del secolo XVIII.

 

 

SUPERFICIE IN GIORNATE

REDDITO IN LIRE

MEDIO DEL REDDITO PER GIORNATA

Tributi normali gravanti in tempo di pace sulla proprietà fondiaria (tasso, sussidio, imposto delle 308 mila lire, fuogaggio, utensili, dritto ordini e comparto del grano

Altri carichi gravanti sulla proprietà fondiaria (censi, crediti, decime ecclesiastiche e laicali, canoni, fitti e spese comunali)

Cifra assoluta

%

Cifra assoluta

%

Lire

Lire

Lire

Beni allodiali

1.914.196.67. 2

55.42

15.385.470. 2. 8

74.57

8. 0.9

3.635.000

3.000.000

Beni ecclesiastici concorrenti al pagamento del solo tasso

150.77.4.11

4.36

1.493.821. 9. 6

7.23

9.18.4

120.000

?

Beni ecclesiasticinon concorrenti al pagamento d’alcun tributo

233.581.99. 1

6.77

1.707.320. 2. 6

8.27

7. 6.2

?

Beni feudali ed immuni non concorrenti al pagamento d’alcun tributo

239.940.45.11

6.90

1.635.946. 1. 1

7.93

6.16.4

Laudemi, trezeni, vintenni,cavalcate, quarti, annate

?

Beni posseduti dai padri di 12figlioli

8.389.91. 7

0.25

101.544.13. 7

0.49

12. 2.3

?

Beni comuni

581.560.81. 1

16.84

310.710. 8.11

1.51

0.10.8

Usi civici

Beni infruttiferi

326.427.98. 1

9.46

TOTALI

3.454.668.28.10

100.00

20.634.812.17.11

100.00

5.19.5

?

?

 

 

Certo, questo tutt’altro che l’ideale della giustizia tributaria, tanto più che i beni feudali ben di rado erano sottoposti ai tributi feudali di guerra (cavalcate, mezze annate e quarte d’annata), né vi furono soggetti durante la guerra di successione di Spagna, come si dirà poi, e le somme pagate per i laudemi ed altri diritti di trasmissione erano esigue. Certamente arbitrii, ingiustizie e frodi non facevan difetto nei riparto dell’imposta, se, quando l’opera della perequazione per il Piemonte giunse nel 1730 in fine, si poterono scoprire 315.736.54 2 giornate che abusivamente erano state sottratte ai tributi, sotto pretesto quasi sempre di immunità ecclesiastica o feudale, per un reddito di lire 2.483.904.3.7[21]. Ma si rifletta che i primi decenni del 1700 furono certamente in tutto il sec. XVIII i soli nei quali le ingiustizie tributarie erano tuttora gravemente sentite, avendo la guerra interrotta l’opera della riforma iniziata con le lettere patenti dei 19 giugno 1697 sulla riunione dei registro, di cui si discorse sopra[22], e con le misure catastali compiute quasi tutte dal 1698 al 1711, volute da Vittorio Amedeo II, appunto perché a lui sembrava insopportabile la sperequazione esistente ed impossibile porvi riparo finché all’antico e vanissimo sistema di ordinare alle comunità la formazione di nuovi catasti, che esse né volevano né potevano compiere, non si fossero sostituite le misure generali fatte a spese dello Stato. Ma i beneficii di queste non poterono essere palesi nel periodo che ora ci occupa, benché l’opera della perequazione sia stata iniziata e proseguita attivamente in anni che a quel periodo attengono strettamente. Se infatti fin dall’aprile 1697 si danno le prime istruzioni[23]e le misure si conducono innanzi attivamente durante gli anni dal 1098 al 1709, si interrompono dal 1703 al 1707, riprendono in fine del 1708 e sono quasi conchiuse nel 1711, i frutti dell’ opera grandiosa non cominciarono a vedersi prima dell’editto di perequazione del 6 maggio 1731 e in tutti gli anni dal 1700 al 1713 durarono immutati gli ordinamenti antichi[24]. Si rifletta a tutto questo e si vedrà che le sperequazioni tributarie in Piemonte, se non erano piccole, erano però destinate a scomparire presto in gran parte ed erano tuttavia minori che in altri paesi.

 

 

Nei Regno di Napoli sembra che un terzo delle rendite territoriali del paese spettasse intorno al 1710 al clero e un altro terzo si può calcolare appartenesse alla nobiltà, ed erano beni od esenti del tutto o leggerissimamente colpiti dall’imposta[25]. In Francia, alla vigilia della rivoluzione francese, il Taine calcola che un quinto dei territorio spettasse al clero, un quinto alla nobiltà, un quinto al terzo stato, un quinto al popolo delle campagne ed un quinto alla corona ed ai comuni. Detraendo quest’ultima parte, i privilegiati, immuni in tutto od in parte, possedevano la metà del territorio[26].

 

 

In Piemonte eravamo ben lontani da tutto ciò. I beni ecclesiastici che concorrevano al pagamento del solo tasso occupavano il 4.36% della superficie e fruivano del 7.23% del reddito; quelli del tutto esenti il 6.77% e l’8.27% rispettivamente; ed i feudali si estendevano al 6.90 dei territorio ed al 7.03% del reddito. Era certamente un danno per la tassa dei contribuenti; ma non vi era nulla di simile a quello che gli storici raccontano per altri paesi. Nobiltà e clero possedevano, oltre agli immuni, altri beni; ma, essendo questi soggetti a tutti i tributi ordinari e straordinari, niun nocumento ne veniva alla generalità dei registranti.

 

 

17. – Se, a porre riparo ai malanni più grossi della sperequazione tributaria e degli abusi a poco a poco invalsi sotto il coverto delle immunità legali, fu d’uopo attendere gli anni dopo la pace del 1713, erasi però nei primi anni dei secolo concepita e condotta a termine un’iniziativa più modesta, ma pur utilissima, del conte Groppello. Tasso, sussidio militare ed imposto delle 308 mila lire, erano tributi gravi certamente, ma oramai antichi, almeno i due primi, e le popolazioni si erano assuefatte a pagarli. Né il reddito per il fisco era esiguo: circa 3 milioni è 37 mila lire, a cui si aggiungevano un 380 mila lire di tributi reali minori (tassi di terre separate, comparto del grano, utensili, fogaggi, dritto d’ordini), a’ quali s’è già accennato e di cui si discorrere in seguito. Purtroppo le finanze erano ben lungi dal riscuoter questa cifra, tante erano le grazie che i Principi avevano dovuto concedere a comunità colpite da inondazioni od altri disastri e tante le alienazioni che s’eran fatte dei tasso a privati. Grazie ed alienazioni erano in sé stesse spiegabili; perché le prime rispondevano alla necessità di non torturare invano contribuenti già per altra via disagiati e ridotti a miseria; e le alienazioni del tasso di regola potevansi fare solo quando per la difesa dello Stato la Corona era costretta a vendere le sue entrate fiscali (fra cui il tasso) per procacciarsi capitali da privati. Era l’alienazione del tasso una forma di debito pubblico, per cui il privato pagava un capitale di 100.000 lire, ad esempio, ed avea in cambio il diritto di riscuotere, invece delle finanze, tanto tasso per L. 4000 all’anno da una comunità a sua scelta. Anche in questa materia gravi abusi si erano infiltrati; e, quel che è piùcurioso, le grazie e le alienazioni erano state fatte in tempi e in modi tanto svariati, che nei primi anni del 700 non si sapeva di preciso quale somma le finanze fossero in diritto di riscuotere.

 

 

Mettere in chiaro la vera quantità delle grazie e delle alienazioni: ecco il compito modesto che si volle assolvere subito, senza attendere la fine dell’opera di perequazione. Affidato l’incarico di venire in chiaro dell’imbrogliata matassa al conte Silvestro Olivero, mastro auditore alla Camera dei Conti, quegli stesso che assunse poi nel 1703 insieme col banchiere Gamba l’appalto delle gabelle generali, questi vi pervenne dopo non breve né facile lavoro; dal quale risultarono parecchie cose assai curiose. Risultò ad esempio, che vi erano tassi per l’ammontare di L. 3328.18.4.8 all’anno, i quali erano stati un tempo alienati a privati, e poi da questi ceduti di nuovo al fisco, senza che però le finanze l’avessero mai saputo e fossero state poste in grado di farsi pagare dalle comunità le somme nuovamente dovute all’erario sicché per non breve periodo di tempo le comunità o si erano trattenute quelle somme o aveano continuato a pagarle agli alienatari, i quali non vi aveano alcun diritto; ed erasi accumulato il non indifferente residuo di L. 38.155.13.3.9 a credito delle finanze. Si scoprì ancora come talune pensioni vitalizie o temporanee, che il principe avea costituito a favore di persone a lui bene accette per mezzo di una cessione di tasso, fossero spirate o per la morte dei vitaliziato o per lo scader dei termine; ma ciò nonostante gli eredi o gli assegnatari seguitavano a riscuotere la pensione, come se nulla fosse: danno per l’erario di L. 3032.17.4 all’anno, con L. 12.815.14.8 di arretrati indebitamente percetti. Alcune comunità aveano ottenuto, per un certo numero d’anni, la grazia o condono di parte dei tasso da esse dovuto; il termine era spirato e le comunità continuavano a goder della grazia per L. 2839.10 all’anno, con arretrati indebiti di L. 14.355. Altre comunità, le quali godevano già, all’insaputa della Camera, di qualche grazia, erano riuscite ad ottenerne delle nuove, le quali erano state computate sul tasso intiero e non, come dovevasi, sul tasso purgato dalle grazie antecedenti: danno pel fisco L. 111.2.8.2 all’anno oltre 540.12.8.6 di arretrati. In alcuni luoghi il tasso era stato alienato pressoché tutto, sicché le comunità doveano pagare a privati quasi tutta la somma da loro dovuta, ed al fisco una cifra minima; in provincia di Torino, ad esempio, la comunità di S. Moro dovea L. 900 all’anno di tasso, delle quali essendo state alienate a privati L. 899.7.1 rimanevano pel fisco soltanto 12 soldi ed 11 denari. Per somma così piccola non valeva la pena che i partitanti facessero ingiunzioni o inviassero commissari e soldati; sicché rimaneva quasi sempre inesatta[27]. In tutto il Piemonte la perdita per l’erario ammontava a L. 234.1.7.2.6 all’anno. Siamo già a più di 9500 lire all’anno di perdita, con un arretrato, eccettuate le piccole partite ora dette di tassi non alienati, di L. 65.873.0.8.3. Si aggiunga che per mancanza di notizie precise non si conosceva quale fosse la natura di tutte le alienazioni che eransi fatte del tasso, sicché le finanze male potevansi difendere contro le proteste degli alienatari, i quali tutti pretendevano di godere del tasso annuo di loro spettanza, senza dover mai pagare cavalcate e senza essere soggetti a diffalchi per causa di tempeste, inondazioni, siccità occorse nei territori su cui il tasso gravava. Se succedeva che una comunità, gravata da un tasso di L. 1000 all’anno, di cui 900 alienati a privati, ottenesse una grazia del 50% a causa di una tempesta caduta su quel territorio e che avealo spogliato di gran parte del raccolto, la comunità per quell’anno dovea pagare solo 500 lire; essendo le quali insufficienti a soddisfare gli alienatari, le finanze dovevano pagare esse la differenza di L. 400, cosa che si presumeva non doversi far sempre, essendoci alcuni, se non tutti, gli alienatari del tasso doveano correre la sorte del terreno su cui gravava il tasso di loro spettanza, ricevendolo dimezzato o diminuito quando la Camera avea giudicato doversi fare, per tempesta od altra calamità, grazia di parte del debito tributario.

 

 

A togliere tutti gli abusi per l’avvenire, il conte Groppello avea proposto che il libro dei tassi fosse tenuto sempre al corrente, trascrivendo in esso tutti i decreti di grazia, di alienazione, di diffalco temporaneo relativi al tasso delle singole comunità, in guisa che si sapesse in ogni momento quale fosse il loro debito netto verso le finanze. Più ancora propose che nell’altro libro detto delle mutazioni del tasso venissero man mano trascritti tutti i contratti con i quali si trasferiva da uno ad altro alienatario la proprietà del tasso alienato o concesso in perpetuo o temporaneamente a privati; che nessuna vendita di tassi fra privati fosse valida se prima non fosse trascritta su quel libro; e che le comunità non potessero pagare i tassi ad alcun nuovo alienatario se questi non presentasse un certificato comprovante che il suo contratto d’acquisto era stato riconosciuto valido dall’ufficio delle finanze[28]. Le proposte del conte Groppello furono concretate in un regio biglietto dell’1 dicembre 1702 alla Camera dei Conti, la quale subito le approvò e pubblicò un ordine in data del 6 dicembre che le sanciva, avvertendone privati e comunità[29].

 

 

A chiarire a qual punto si trovassero ridotti, nell’epoca nostra, il tasso ed il sussidio militare a causa delle successive alienazioni, grazie ed appannaggi, riportiamo qui due tabelle quali risultano dai libri del conte Olivero presentati nel dicembre 1702 alla Camera[30]. In queste due tabelle, dopo avere riferito la cifra del contingente intiero d’ogni provincia per il tasso, il sussidio e l’imposto delle 308 mila lire, diciamo da quante alienazioni, proventi ossia interessi di introggi, grazie fisse e di corrusione, grazie temporanee concesse in seguito a parere dei direttori provinciali e pretesi privilegi fossero gravati quei tributi, in guisa da conoscere alla fine il contingente netto di debito tributario verso le finanze.

 

 

TAB 2 p 22

TAB 3 p 22-23

 

 

I due tributi portavano marcatissimi i segni della erosione progressiva esercitata dal tempo. Più antico il tasso, da secoli considerato come un onere reale gravante sulla terra, quasi parte del demanio che il Principe poteva alienare in caso di guerra o di altra necessità, era stato per la maggior parte venduto; e sul resto cadevano grazie d’ogni sorta, sicché da 1 milione e 648 mila lire, il reddito delle finanze erasi ridotto ad appena 638 mila lire. Più recente il sussidio militare, non era visto altrettanto di buon occhio dai capitalisti come garanzia dei mutui fatti allo Stato, avendosi il timore che da un anno all’altro potesse venire abolito. Col 1700 il dubbio era scomparso; e sul sussidio, a cui erasi unito in perpetuo il nuovo imposto delle 305 mila lire, gravavano gli gl’interessi (proventi) dei capitali impiegati nelle infeudazioni abolite in cifra quasi eguale all’aggiunta fatta nel 1698[31], cosicché il reddito netto riducevasi da 1 milione e 726 mila lire ad 1 milione e 310 mila lire. In complesso, tasso, sussidio ed imposto che doveano fruttare lire 3.375.001.5.11.3 rendevano appena al fisco lire 1.951.307.4.2.9 ed anzi nemmeno tanto perché da questa cifra si debbono ancora dedurre le grazie per tempeste, le grazie diverse e le quote inesigibili.

 

 

La diminuzione del reddito, che in questa guisa ne veniva alla Corona, di 308 mila lire sul tasso e di 305 mila lire sull’imposto unito al sussidio, sarebbe stata meglio comportabile, se non fossero sorti dubbi fortissimi sulla legittimità dell’origine di quelle alienazioni. Abusi nuovi non potevano nascere, perché la Camera aveva adottato severissime norme nella determinazione delle cause per cui potevansi alienare il tasso e le altre entrate fiscali; e, salvo rarissime eccezioni, solo la necessità di una guerra contro lo straniero od altro pericolo imminente per lo Stato potevano giustificare siffatte alienazioni. Ma il male veniva dalle condiscendenze del passato. Nel 1702, quando il conte Olivero lavorava alla compilazione del libro del tasse, erasi messa insieme una lunga lista di alienatari, nobili la più parte, i quali godevano dei tassi per virtù di patenti dubbie, talché il conte Groppello aveva proposto che s’iniziasse processo per l’incameramento al fisco[32]. La guerra impedìche si attuasse il proposito coraggioso, il quale fu ripreso solo dopo la pace del 1713, quando si riconobbe, dopo un attento esame, che delle alienazioni antiche, anteriori al 1090, erano nulle tante per L. 180.644.1.9 l’anno, e dubbie ben L. 117.233.17.5[33]. Ma di questa riforma e dei clamori altissimi che essa suscito tra la nobiltà, che ne fu fieramente colpita, non è qui il luogo di discorrere. Basterebbe porre in luce come il reddito de’ tributi ordinari fosse a’ nostri tempi grandemente scemato dalle alienazioni, tra le quali alcune dobbiamo considerare illegittime.

 

 

18. – Le grazie per corrusioni e per tempeste – altra causa di diminuzione grande dei redditi fiscali – formavano una delle cure più assi due degli uffici finanziari e della Camera, non potendosene negare l’opportunità e l’ingiustizia, ed importando altra parte impedire gli abusi frequenti che ne nascevano. Ecco come bellamente nell’italiano dialettale del tempo un anonimo funzionario dell’ufficio delle finanze dimostrava alla vigilia della nostra guerra la necessità delle grazie “È noto a tutti che la situazione di questo paese è tale che si ritrova circondato da’ Monti, in modo che il Piemonte pare un giardino cinto da siepe ed una Città custodita da un muro. Da questi monti derivano fiumi che lo vanno irrigando e, se rendono le sue pianure fertili et dilettevoli nella maggior parte, in qualche altra lo devastano e lo rendono sterile alla produzione de’ frutti; ma, più di tutto ciò, causano i danni più irreparabili li torrenti, che da quelli precipitosamente ne vengono. Questi, o per causa di piogge o per liquefazione di nevi, de’ quali sono essi monti per lo più carichi, si vanno diramando ove non trovano rupi per ingrossarsi, e, sia nell’ uno che nell’altro modo, dove vanno a fondere causano ruine indicibili; né solo danneggiano, li territori di que’ luoghi che si trovano più prossimi al loro principio, ma anco quelli che restano alle falde d’essi monti senza lasciarne de’ più discosti dalla pianura. È pur troppo vero che il Piemonte ha varie parti soggette a simili disavventure, onde in alcuni luoghi può dirsi che poco giovano i ripari che dall’industria si fanno, perché l’impeto, con cui essi torrenti precipitano, è così furioso che, rompendo ogni argine, ne vanno buona parte de’ terreni fruttiferi corrosi ed altra ingiariata. Se il terreno dunque, che è quello qual produce i frutti e per essi deve soffrire il peso de’ carichi e taglie, viene ad essere o corroso od ingiariato e con questo perisce spesse volte la speranza de’ frutti che sono sul suolo; non è egli di ragione che cessino li carichi per quel terreno che più non è?”[34].

 

 

Dicasi lo stesso per le tempeste che anche allora infierivano, malgrado il diboscamento delle montagne fosse appena iniziato, e che ogni anno distruggevano da una decina ad una ventesima parte del raccolto; e si avranno sufficienti motivi per spiegare la pratica invalsa da lungo tempo e ridotta a legge scritta coll’ordine dell’8 marzo 1683[35]. Per le corrusioni si dovea badare ai casi singoli, concedendosi la riduzione de’ tributi di solito per anni 10 per i terreni portati via dai torrenti e d’anni per i terreni coperti da ghiaia, od altrimenti resi infruttiferi. Per le tempeste non si bonificavano i danni inferiori alla decima parte dei frutti se la comunità pagava meno di 2000 scudi d’oro di tasso, od alla decina quarta se il contingente del tasso superava i 2000 scudi d’oro. La somma delle grazie per tempeste non avrebbe dovuto superare la cifra stanziata nei bilanci di previsione e che oscillava dalle 80 alle 180 mila lire l’anno (in Einaudi, B e C. T. 1700-713, pag. 31), ossia ai tre quarti della somma graziata in media nel quinquennio 1678-82; ma in pratica il limite non era osservato. La Camera de’ Conti mandava i delegati alle visite, scegliendoli fra i mastri auditori residenti in provincia, i referendari provinciali od anche fra i giudici togati: ed i delegati avrebbero dovuto visitare personalmente, in compagnia d’indicatori non proprietari e non interessati, del segretario catastraro e dei procuratori degli alienatari deI tasso, tutte le regioni colpite da tempesta per valutare i danni e proporre la grazia opportuna. Sembra però che anche allora la burocrazia fosse amante del quieto vivere e delle facili indennità di visita; tanto che si leggono acerbi lamenti contro l’avidità e la trascuraggine dei delegati alle visite. Per far di molte visite erano costoro corrivi ad accettare le asserzioni delle comunità, le quali, ben sapendolo, usavano far ricorsi al primo comparir di poca grandine sovra il loro territorio e tallor fors’anche sovra il territorio vicino”. Giunti sul luogo, ci contentavano i delegati di andare alquanto a passeggio per le strade più comode senza internarsi nelle campagne, appagandosi delle testimonianze degli indicanti, i quali naturalmente, a ciò bene ammaestrati, “temerariamente insistono esister il maggior danno in quelle parti dal Delegato non vedute”. Le comunità, a cui era nota la poca voglia di faticare dei delegati, non si curavano che tutta la giornata fosse spesa nelle visite; ma lasciando alla sua discrettione il gradito riposo, alcune delle volte ottengono in ricompensa la permissione di far visitar da soli testi, con intervento forsi dei segretaro, alcune regioni; et altre volte, confingendo e suponendo regioni più che disastrose, obligano il Delegato a passar per la gran strada, fuori anco tallor delle stesse regioni; et, per poter far in più breve tempo ciò che ne richiedeva una parte del consonto in riposo, lo portano indi a conferir la facoltà a soli testi di visitarne alcune altre, quali, abusando via più di tal permissione, nel riunirsi poi al Delegato molte per lo più riferiscono haverne visitate, e rammostrando spicca ad arte rotte e sgranate, con altri segnali di fiera tempesta sovra li respettivi frutti a disegno conservati fissano il supposto danno a talento loro, poi che vedono astretto il Delegato ad acquietarsi senz’aItro”. La professione di teste indicante falso era divenuta in ogni provincia un monopolio di due o tre faccendieri, i quali, pel grido che correva della loro abilità a fuorviare i delegati, erano chiamati a gara da tutte le comunità col salario di 4 o 5 lire al giorno. Sicché le grazie per tempesta, che avrebbero dovuto riparare a’ danni dell’inclemenza delle stagioni, erano sovente concesse in maggior copia a quelle comunità che meno erano danneggiate[36]. Le grazie di corrusione davan luogo ad altro pessimo effetto: che le comunità, i cui tributi erano stati diminuiti a causa delle inondazioni de’ fiumi o torrenti, più non aveano alcun interesse a porre riparo agli straripamenti, a ridurre di nuovo a cultura i terreni corrosi e coperti da ghiaia, anzi desideravano che nulla si facesse per non pagar di nuovo i tributi condonati; cosicché i danni crescevano ognor più e con essi le grazie[37]. Talvolta le corrusioni, che aveano dato motivo alla grazia, da anni erano state riparate; ciò nonostante seguitavasi a non pagare il tributo, finché un accidente impensato, a cagion d’esempio l’ira delle fazioni locali avverse, non denunciava la frode all’ufficio delle finanze[38].

 

 

19. – Ultima causa di diminuzione del reddito tributario erano le quote inesigibili. Il Piemonte trovavasi sotto questo rispetto in condizioni assai migliori della Savoia, dove l’inesigibilità delle taglie era oramai divenuta consuetudine universale. Due erano le norme principali che fermamente applicate dal Groppello e dai direttori delle province avevano finito per ridurre in tempi normali i residui inesatti alla fine dell’anno ad assai poca cosa: l’obbligazione collettiva delle comunità, e la regola del non riscosso per riscosso.

 

 

Non il contribuente singolo era tassato, ma le comunità erano costrette a pagare in cumulo una certa somma di tasso, sussidio, ecc. Naturalmente le comunità per mezzo dei propri esattori si rivelavano sugli abitanti; ma nel modo della distribuzione individuale del carico tributario lo Stato più non ingerivasi, salvo dettando quelle poche norme generalissime, che sopra vedemmo (paragrafo 14).

 

 

Affinché ci fosse poi una persona direttamente interessata a costringere le comunità al pagamento, affidavasi l’esazione a ricevitori provinciali, secondo le regole, ancor oggi seguite, dei compenso ad aggio e dell’obbligo dei non riscosso per riscosso. Le Finanze incaricavano per ogni provincia o gruppo di provincie un ricevitore, detto “Partitante” da ciò che gli aspiranti alla carica facevano loro partiti o proposte, fra le quali era scelta la migliore per il fisco. I partitanti si obbligavano di esigere, evacuare, e pagare a loro risigo e pericolo l’ammontare dei tributi nelle mani del tesoriere generale e di quello di milizia nelle epoche fissate dalle leggi regolatrici di ciascun tributo, e che erano di solito per il tasso, sussidio ed imposto delle 30 mila lire il 20 luglio, 20 agosto, 20 settembre, 20 ottobre; 20 novembre, 20 dicembre e 20 gennaio, e per il quartier d’inverno pure in sei rate scadenti però il 15 e il 30 dei mesi di maggio, giugno e luglio. Il partitante era liberato dall’obbligo di versare nelle epoche fissate l’intiero ammontare dei tributi solo quando fosse stata fatta dalla Camera grazia di una parte di essi, o il tributo fosse alienato a terzi che aveanoimprestato capitali allo Stato, perché allora erano i creditori incaricati dell’esazione a proprio beneficio con tutta l’autorità spettante al partitante. Così pure l’obbligo della «evacuazione», ossia del «non riscosso per riscosso» cessava «in caso di peste o di guerra guerreggiata»; ed allora il partitante era obbligato a rendere conto solo del riscosso, a guisa di semplice ricevitore. Riceveva il partitante talvolta uno stipendio fisso ed insieme un diritto dell’1% da pagarsi dalle comunità per il porto ed il risigo del denaro nelle tesorerie generali; talvolta o l’uno o l’altro soltanto; alcune volte non riceveva niente, obbligandosi persino in taluni casi a pagare qualcosa alle finanze. Ad esempio nei partiti pel 1701 e 1702 il partitante di Biella riceveva uno stipendio di 3500 lire l’anno, più l’aggio dell’1% sul riscosso, più ancora avea il diritto di lasciare 15 mila lire inesatte all’anno (Biella era la provincia più renitente al pagamento delle imposte); diritto che scompare nei partiti pel 1703-705, rimanendo immutati stipendio e aggio. Il partitante di Pinerolo, che riceveva prima lo stipendio di 1250 lire oltre l’aggio dell’1%, perde lo stipendio e si obbliga per giunta a pagare alle finanze lire 1400 all’anno. Quello di Cuneo, invece di ricevere 300 lire di stipendio, le paga alle finanze, conservando solo il diritto dell’1%. Il partitante di Fossano e Saluzzo nel secondo periodo non riceve più alcuno stipendio, ha l’aggio dell’1% solo per Fossano e si obbliga per giunta a pagare lire 1100 alle finanze. È chiaro che i partitanti facevano conto di aver qualche guadagno dal fondo dei tributi durante il tempo che rimaneva a loro disposizione; e sovratutto guadagnavano venendo a patti con le comunità morose. Gli ordini generali recitavano che, essendo una comunità in ritardo nel pagare i tributi, poteva il partitante ottenere dalle finanze un ordine di compulsione e pagare entro tre giorni; e, non ottenendosi lo scopo, avea il diritto di esigere 2 lire da ogni comunità morosa a proprio beneficio; e di mandare in seguito,col permesso dei direttori provinciali, delegati o commissari a spese delle comunità ovvero anche soldati, ai quali si dovea pagare la vacazione fissata dagli ordini generali per i delegati e non per i delegati al giorno, ovvero cibarie, letto e coperto, per i soldati. Ma le carte del tempo son piene di lagnanze per l’ingordigia dei delegati e commissari, i quali in uno stesso giorno andavano a fare atti esecutori contro parecchie comunità, e da ognuna d’esse si facevano pagare la vacazione di 10 o 15 lire al giorno, e contro la brutalità della soldatesca che faceva d’ogni erba fascio, ed alloggiando nelle migliori case, ne vuotava le cantine e terrorizzava le donne.

 

 

I partitanti erano, rispetto alle comunità, garantiti dalla norma che rendeva privilegiato il debito dei tributi regii rispetto a tutti gli altri debiti delle comunità, qualunque fosse la persona e la classe sociale del creditore; e dall’obbligo fatto ai giudici di ogni luogo di sequestrare i frutti pendenti e raccolti dei proprietari, nominandone consegnatari responsabili terzi idonei, quando i frutti spettassero interamente ai proprietari coltivatori, ovvero i mezzadri od affittavoli per l’imposta dovuta dai loro padroni. Il sequestro dovea essere fatto ad istanza dei sindaci, consiglieri e segretali delle città e comunità; e se costoro erano trascurati nel garantire con gli opportuni sequestri il pagamento dei tributi, erano tenuti in proprio a pagare le quote non riscosse dai contribuenti. Anzi, se nessun esattore si trovava che volontariamente in cambio di scarsa mercede si offrisse per la riscossione dei tributi, di tal bisogna doveano incaricarsi sindaci e consiglieri; talché non di rado costoro rischiavano di andare in carcere a meditare sulla renitenza dei contribuenti a pagare i tributi pubblici.

 

 

Più spesso i partitanti non venivano a questi estremi: ed anticipavano le somme pattuite al fisco, stipulando more con le comunità. Volevano le leggi che in tal caso il partitante non potesse esigere più del 6 per cento all’anno delle somme anticipate; ma non è a meravigliare se in tempi di scarso controllo dello Stato sugli enti locali, i partitanti trovassero modo di stipulare patti più grassi con le comunità morose[39].

 

 

La severità delle norme vigenti in Piemonte per la riscossione dei tributi aveva prodotto questo buon frutto: che, dopo alcuni tentativi, riusciti inutili, di continuare nella trascuraggine e nei ritardi antichi, le comunitàs’erano persuase che era d’uopo pagare puntualmente, se non volevano vedersi abbattere su di loro la forza delle leggi fiscali, rappresentata dai direttori delle provincie e dai partitanti. E che puntualmente si pagasse, è provato dalla tenuità dell’aggio richiesto dai partitanti per incaricarsi dell’esazione dei tributi e dalla bassa proporzione dei residui inesatti risultanti alla fine d’ogni anno dai conti dei tesorieri. Dal 1700 al 1703 i “reliquati” inesatti nel Piemonte variavano dal o.4 al 4.7 per cento dei tributi da esigersi nell’anno; e la percentuale scema di valore se si riflette che in taluno di quegli anni si riscossero inoltre a conto dei residui degli anni precedenti somme maggiori di quelle che si lasciarono da esigere agli anni seguenti (cfr. paragrafo 97). E che il congegno tributario agisse bene è provato ancora dal fatto che il Groppello usava additare l’esempio del Piemonte agli altri paesi dello Stato, ed avrebbe voluto adottare in quelli i metodi di esazione qui invalsi.

 

 

20.- Diciamo ora del comparto del grano, altro tributo fondiario di antica data, come quello che rimonta a lettere patenti del 29 luglio 1572 del Duca Emanuele Filiberto. Era il comparto del grano l’unico tributo che nel primo settecento s’esigesse in natura in tempi di pace. Imposti e requisizioni di foraggi e di quadrupedi erano durante le guerre cose solite, con le quali amici e nemici andavano a gara nell’angariare le popolazioni; ma il comparto dei grano era una imposizione che, giustificata dai governanti in sull’origine per la necessità di mantenere l’esercito nei quartieri d’inverno durante le guerre o di accumular grani nei magazzini pubblici negli anni di abbondanza, avea oramai perso ogni carattere di straordinarietà per convertirsi in un carico ordinario perpetuo delle terre del Piemonte. Levavasi l’importo per contingente, il quale era nel 1702 (cfr. EINAUDI, B. e C. T. 1700-713, Tabelle XVI e XVII) distribuito nella seguente maniera tra le diverse provincie:

 

 

Ripartizione Comparto del grano

Ripartizione del totale dei tre tributi in denaro (tasso, sussidio ed imposto 308.000 lire) in cifre percentuali

 

Cifre assolute in

Cifre percentuali

sacchi

emine

coppi

Provincia di Alba

1.992.

3

6.62

5.86

” Asti

9.210.

2

7. 4

6.45

” Biella

1.724.

4.

6

5.73

6.74

” Cuneo

2.578.

3

8.56

8.51

” Fossano

2.813.

4

9.34

7.53

” Ivrea

2.763.

2.

2

9.17

9.86

” Mondovì

2.391.

4

7.94

7.44

” Pinerolo

3.003.

1

9.97

10.76

” Saluzzo

2.052

6.81

7.52

” Susa

1.602.

3.

2

5.32

5.63

” Torino

5.874.

3.

7

19.50

17.14

” Vercelli

1.113.

2.

4

3.70

6.56

Totale Piemonte

30.121.

3.

5

100.00

100.00

 

 

Il contingente complessivo negli anni di pace aggiravasi quindi sui 30 mila sacchi all’anno, ed era distribuito tra le provincie e le comunità con criteri, che poco si discostavano in massima da quelli che regolavano la ripartizione dei tributi ordinari in denaro.

 

 

Il tributo dovea essere pagato in grano “formento”, buono, netto, secco e del migliore che si raccogliesse nel territorio di cadun luogo. Le comunità dovevano farne il riparto su tutti i proprietari registranti; e quelle, la cui quota toccava o superava i trecento sacchi all’anno, erano obbligate ad esigere, in sollievo del registro, il tre per cento del raccolto da tutti i massari, senza distinzione se erano coloni di registranti o di persone o corpi privilegiati. I massari reputavansi sequestratari della quota dominicale del raccolto del grano e non potevano lasciarla asportar dal fondo, sinché non si fosse pagato il comparto, sotto pena di doverlo pagare del proprio. La consegna del grano doveva farsi dalle comunità, metà in luglio e metà in agosto, nei luoghi o città di tappa dove risiedevano i ricevitori; ed il trasporto dalle località di produzione alle tappe si faceva a rischio e spese delle comunità (D. XIII, 367-374).

 

 

Molti erano i difetti di questo tributo in grano, talché, venuta la pace, fu la sola delle imposte reali ordinarie ad essere abolita colle lettere patenti del 29 giugno 1720 (D. XXIII, 379). Innanzi tutto, poiché era esatta in natura ed il prezzo del grano variava grandemente da un anno all’altro, il carico dei contribuenti variava di continuo. Anche se non si tenga conto che negli anni di guerra il contingente era raddoppiato e fu portato infatti per gli anni dal 1704 al 1712 da 30 a 60 mila sacchi), si notino i prezzi diversi del grano negli anni dal 1700 al 1713:

 

 

Prezzo dei grani sul mercato di Torino secondo la media di certi giorni della prima quindicina di novembre (1)

Prezzo dei grani convenuti dalla ricevidoria del general comparto colle comunità (2)

Prezzo dei grani comprati in diversi luoghi del Piemonte dalla ricevidoria del general comparto (2)

Lire per emina

Lire per emina

Lire per emina

1700

1.19.10

da 2. 8 a 2.15

da 1.16 a 2. 9

1701

2.11.

” 3 ” 3. 5

” 1.18 ” 2.18

1702

2.11.10

” 2.15 ” 3. 5

” 2. 7 ” 2.18

1703

2. 8. 1

” 2. 7 ” 3. 5

” 2 ” 2.15.6

1704

2.12. 1

” 2. 8 ” 3. 5

” 2. 1 ” 3. 5

1705

3. 6. 6

– –

” 2.10 ” 4

1706

4.11.11

” 4 ” 4.10

” 2. 1 ” 4.16

1707

4.16. 6

” 4.15 ” 5

” 3.18 ” 4.16

1708

5. 7. 6

” 4.15 ” 4.15

” 4.15 ” 4.15

1709

5. 4. 8

” 5 ” 5

” 4.10 ” 5

1710

3. 5

” 3.15 ” 3.15

” 2. 8 ” 2.12

1711

2. 5

– –

” 1.19 ” 2.11

1712

2. 7. 6

” 2. 6 ” 3

” 2. 5 ” 2.18

1713

2. 7. 7

” 2.10 ” 2.18

” 2.12 ” 2.15

(1) A. C. T. Inventario, Divisione I, vol. 17, pag. 597.(2) A. S. C. Conto del Ricevitore dei grani del general Comparo dal 1700 al 1713, passim.

 

 

Confrontando le tre serie le quali, tenendo conto delle località diverse e dei costi dei trasporti, sono abbastanza concordanti fra di loro, si vede che nel periodo 1700-1713 il prezzo del grano per semina oscillò da 2 a 5 lire circa, ossia da 10 a 25 lire per sacco; cosicché il contingente normale di 30 mila sacchi che si ragguagliava a 300 mila lire l’anno in principio, venne a valere ben 750 mila lire negli anni in cui il prezzo dei grano era più caro. Se si tien conto che la carestia dei 1707-709 fu uno degli effetti più tristi della guerra devastatrice, si può immaginare quanto duro riuscisse il pagare questo tributo negli anni dal 1705 al 1710; e si noti che in quegli anni il contingente era stato cresciuto a 60 mila sacchi il cui valore negli anni 1707, 1708 e 1709 poté giungere a 1.500.000 lire, cifra quasi uguale all’ammontare intiero del tasso.

 

 

Né qui finivano le cagioni di lagnanza contro il comparto. Come tutte le imposte esatte in natura, conduceva all’inconveniente che certe comunità, le quali non producevano grano, avrebbero dovuto comperarlo con grave dispendio nei luoghi di tappa; o, se anche possedevano grano, avrebbero dovuto condurlo traverso a strade spesso impraticabili, con spese enormi, fino ai luoghi di tappa; mentre all’intendenza militare avrebbe giovato più l’avere i denari in contanti per poter comprare i grani dove erano a più buon prezzo o dove erano alloggiate le soldatesche. All’inconveniente si era cercato rimedio permettendo alle comunità di convenire col ricevitore di pagare il prezzo dei grani del comparto in contanti; e s’era stabilito[40] che il prezzo dovesse essere calcolato secondo le mercuriali dei luoghi di tappa, con l’aggiunta di dite soldi per emina, data la qualità ottima dei grani che dovean consegnarsi pel comparto, e con altra aggiunta delle spese necessarie per il trasporta e della quota di calo dai luoghi di produzione alle tappe. Da ciò nasceva lo sconcio che le comunità poste nei luoghi più lontani dalle tappe erano gravate assai più delle comunità vicine a causa dei cali e delle spese di trasporto[41].

 

 

S’aggiunga che certe volte, quando era l’epoca di fare le convenzioni sul prezzo da pagarsi pel grano comparto, comparivano dinanzi al ricevitore dei partitanti, o meglio faccendieri, i quali facevano credere d’essere stati inviati dalle comunità per intendersi sul prezzo; e, convenutone uno moderato, – si recavan nei borghi lontani e, con arti diverse, persuadevano i sindaci e i consiglieri di fidarsi in loro per ottenere buoni patti; mentre, a farla breve, si facevan invece pagare dalle comunità un prezzo superiore a quello che sborsavano al fisco. Quando poi le convenzioni non riuscivano o non erano permesse dagli ordini di imposizione del comparto, gli stessi faccendieri accaparravano per tempo tutto il grano disponibile nel territorio di certe comunità; e, quando giungeva il momento di pagar il comparto, lo rivendevan a prezzo più caro magari a quelli stessi che l’avevano loro venduto; o, se lo fornivano allo stesso prezzo od anche a minore, era di qualità cattiva, tantoché non poteva macinarsi senza grosse perdite nella crivellatura.

 

 

Altra piaga del comparto erano gli esattori comunali ed i ricevitori delegati dalle finanze. V’eran degli esattori i quali si facevano dai registranti consegnare il grano con tutto rigore et indi sul riflesso di un lucro certo nella vendita dei grani, quali sono sempre d’ottima qualità, li medemi esattori comprano altri grani per sodisfare la debitura del comparto; in modo che si fanno lecito di negotiare et appropriarsi un fondo pubblico, al quale sono solo preposti per la riscossione”[42]. Gli ordini e le istruzioni camerali tuonavano bensì contro l’ingordigia degli esattori del grano, e, ben sapendosi che la sostituzione di grano cattivo consegnato dai proprietari poteva avvenire solo colla connivenza dei ricevitori fiscali, proibivano a costoro di far commercio di grano o di fornirne alle comunità, nemmeno per interposta persona, e di deteriorare in qualsiasi maniera i frumenti posti nei magazzini delle tappe. Ma per quanti castighi si minacciassero ed accorgimenti di doppie chiavi e di controlli si escogitassero, il tributo dei grani dava luogo pur sempre ad abusi ed era esatto a stento. Cause queste forse non ultime della sua abolizione nel 1720, colla quale scomparve l’ultimo residuo delle imposte in natura nel nostro Piemonte.

 

 

21. – Più breve sarà il discorso sui tributi minori, dei quali si fa menzione nei conti dei tesorieri (cfr. Einaudi, B. e C. T., 1700-1713).

 

 

I fogaggi (da non confondersi coifocages del Ducato d’Aosta) erano un tributo antichissimo che alcune regioni dei Piemonte s’erano obbligate volontariamente a pagare al Sovrano quando vennero sotto la dizione di Casa Savoia. Ad es. nel 1378 e 1379 Bioglio, Graglia, Miagliano, Mongrando, Mortigliengo, Mozzano, Occhieppo, Pollone, Sordevolo, Tollegno, Vergnasco, Zumaglia, tutte comunità del Biellese, s’erano obbligate a pagare al Conte Amedeo VI un fiorino per fuoco. Si sa che un diritto di focaggio era pagato da Vercelli e sua provincia; e il Duboin pubblica (XF1II, 913) un elenco di comunità della provincia di Cuneo (fra cui le principali, oltre la città di Cuneo, erano Acceglio, Borgo San Dalmazzo, Boves, Peveragno, Valdieri), le quali dovevano pagare fogaggi. Vi erano poi dei borghi sparsi qua e là in Piemonte che aveano lo stesso obbligo: Asigliano, Cavour, Santhià, Borgo d’Ales, Gattinara, ecc. Ma non facile venire in chiaro dell’ammontare esatto dei fogaggi per più ragioni. Da lungo tempo infatti l’imposta del fogaggio, che era prima della ricostituzione dello Stato ad opera di Emanuele Filiberto assai di frequente consentita in occasioni straordinaria dagli Stati generali, era caduta in disuso; ed al suo posto si imponevano il tasso e gli altri tributi prediali ordinari e straordinari. I fogaggi che ancor rimanevano erano solo quelli che risultavano, come dicemmo or ora, dagli atti di dedizione di certe parti del Piemonte a Casa Savoia; né dopo d’allora, l’ammontare ne era variato. Era accaduto poi che, per le gravi strettezze in cui i Principi si trovarono a parecchie riprese nei tre secoli decorsi dall’istituzione di questo tributo, la maggior parte dei fogaggi fosse stata alienata a privati, per lo più nobili, i quali li possedevano alla pari di altri diritti feudali, censi, o pedaggi. Al fisco rimaneva una somma troppo esigua, che nei bilanci dell’epoca nostra vediamo portata in L. 2059.15.4 sino al 1710 e poi in L. 3683.7.10 nel 1711 e 1712 e in L. 3846.10.4.8 nel 1713. L’ammontare del tributo che si pagava dalle comunità soggette era assai superiore. In un conto per la perequazione, probabilmente compilato nel 1711, troviamo iscritta la cifra di L. 49.000. Ma doveva essere sbagliata, se altrove si afferma che dal 1544 al 1638 si erano alienati fogaggi per un capitale di L. 1.118.548.10 ed un reddito annuo di L. 65.473.17.2 ad un tasso d’interesse variabile dal 0 `13 al 19 per cento. Il conto definitivo della perequazione – compilato quando i fogaggi furono soppressi, indennizzando gli alienatari, e compenetrati nel tasso – dà per i fogaggi la cifra di L. 80.567.6.1, nella quale sono compresi però certi altri censi ed antichi diritti dovuti dalle città di Chieri, Mondovì e Savigliano. Certa cosa che i fogaggi ai nostri tempi assai poco rendevano al fisco[43].

 

 

Altro fossile dei tempi trascorsi erano gli utensili, dei quali trovasi memoria nei bilanci generali e nei conti del tesoriere di milizia. Nei torbidi anni della prima metà del secolo XVII ai governatori ed altri ufficiali delle città e delle provincie erasi dato il diritto di farsi dare dalle comunità legna e fieno in natura e denari per il proprio mantenimento; prestazioni che erano state abolite quando ai pubblici funzionari il fisco si trovò in grado di pagare uno stipendio in maniera continua (D. XXllI, 692 e 710). Però, e il motivo dell’eccezione ci sfugge, ai nostri tempi la città e la provincia di Vercelli dovevano ancora pagare L. 4139 per utensili al governatore; e la città e provincia d’Ivrea L. 1.467.18 per utensili al governatore del ducato d’Aosta e della provincia d’Ivrea, e L. 400.16.4 per alloggiamenti (fitto di casa) al comandante ed all’aiutante della città. Le somme non erano però versate a questi funzionari, ma al tesoriere di milizia insieme al sussidio militare, col quale avevano finito per compenetrarsi.

 

 

Sotto nome di Dritto ordini tutte le comunità dello Stato doveano pagare alle finanze una somma annua di L. 10.10, ossia in totale 7896 a guisa di compenso per l’invio degli ordini, editti, manifesti pubblicati per ordine del Sovrano, del Senato o della Camera.

 

 

Il Tasso Hebrei era pagato dall’Università degli ebrei del Piemonte in una somma fissata ogni decennio nelle lettere di condotta e nei memoriali con i quali si confermavano gli antichi privilegi e si concedeva agli ebrei il diritto di rimanere per i dieci anni successivi, e due altri chiamati di contrabbando, nelle dodici provincie del Piemonte. Terminando la condotta precedente colla fine del 1702, gli ebrei ottennero con memoriale a capi e risposte del 31 gennaio, e lettere patenti del 14 febbraio, interinate dal Senato il 9 e dalla Camera il 27 maggio del 1701, la rinnovazione dei privilegi soliti e della condotta per altri dieci anni dal 1703 alla fine del 1712, oltre i due anni di contrabbando; si obbligarono a pagare 8000 lire all’anno di tasso, insieme a 3160 lire versate il 4 febbraio 1701 in tesoreria generale per ottenere la rinnovazione della condotta[44]. Notiamo che il tasso era un tributo prelevato dall’Università stessa su tutti gli ebrei del Piemonte in proporzione del registro, compresi gli ebrei del Monferrato antico ed i forestieri che venissero ad abitare in Piemonte. L’Universitàa mezzo dei propri eletti, agenti e cotizzatori stabiliva il tributo individuale; e potevano i cotizzatori deferire il giuramento a quegli ebrei i quali fossero “sospetti di nascondigli e di frodi” per occultare parte delle proprie sostanze in occasione del pagamento del tasso, e senza che l’uno possi scansarsene, con allegare che l’altro non ha giurato, il che faciliterà l’esazione e puntual pagamento del tasso ogni terziere. Il tasso era un tributo universale sulle sostanze, anche mobiliari, degli ebrei; né era impossibile perciò che qualche parte fosse occultata dai renitenti, i quali nascondevano il loro registro “non consegnando con quella fedeltà che si deve li loro effetti “. Siccome l’Università era solitamente responsabile pel pagamento dei tributo al fisco, per evitare i rischi maggiori il conservatore generale degli ebrei, che era un alto magistrato del Senato o della Camera, poteva autorizzare i cotizzatori eletti dall’Università a fare nelle case dei renitenti “la perquisizione di loro fondi ed effetti con queste regole, il tasso degli ebrei era uno dei tributi che più puntualmente venivano pagati alle dovute scadenze anche durante gli anni terribili della guerra.

 

 

Fra i tributi minori – e qui si potrebbe dire tributi “speciali” data la specialità del fine che lo Stato si proponeva di raggiungere con quei proventi, amministrati a parte e distinti contabilmente dal resto delle entrate regie – possiamo ricordare il contributo per un ponte sulla Ceronda fatto pagare ad alcune comunità interessate, per, ordine 25 maggio 1903, dal sovraintendente generale delle strade, ponti e porti, Giuseppe Felice Angiono. Il fisco incassò lire 6362.13.2 nel 1703 e lire 1560.42 nel 1704[45]. Il dubbio però se il ponte sia stato costretto per comodità dei borghigiani, ovvero del Principe, il quale possedeva nelle vicinanze il castello della Veneria Reale. Ma lo ricordammo come esempio minuscolo di ciò che saranno in seguito i contributi di gran lunga maggiori per le strade di Nizza e di Casale.

 

 

Fra i tributi speciali deve noverarsi altresì il contributo imposto dal marchese di Caraglio, con ordine dell’11 giugno 1706, per l’olio delle lanterne pubbliche poste nella città di Torino. Il tributo, che in verità dovrebbe dirsi straordinario ed imposto in occasione dell’assedio, consisteva in ciò che ogni proprietario di casa doveva fornire a suo turno tre oncie d’olio per notte in guisa che le lanterne ardessero di continuo. Se i proprietari erano assenti, l’obbligo spettava agli inquilini, salvo rivalsa contro il proprietario sul canone di fitto. Fra fatto obbligo ai cantonieri di farsi ogni sera consegnare l’olio a turno dai proprietari[46].

 

 

Natura somigliante di tributo speciale ha l’imposto per le spese di sanità che compare, a vero dire, solo in L. 90.568.5 nel bilancio del 1715, ma di cui s’era già cominciato a discorrere sullo scorcio del 1713 per indennizzare le finanze delle spese fatte per difendere gli Stati dall’invasione della peste; ed il conte Groppello opinava dovesse imporsi in 60 mila lire l’anno, distribuendolo nella Savoia come aggiunta alla capitazione e nel Piemonte in ragione del registro, così da renderlo tenue e facilmente esigibile[47].

 

 

Chi volesse rintracciare nella finanza piemontese del 1700 in istituto rispondente ai moderni contributi di miglioriaodimposta sulle aree fabbricabili, dovrebbe poi mente ad alcune piccole partite, delle quali è ricordo nei conti di tesoreria generale e della tesoreria di fortificazioni e fabbriche[48]sotto il nome di pagamento dei tre quinti della maggior valenza dei siti di Torino. Quando si iniziò sotto il regno di Carlo Emanuele II e di Madama Reale il nuovo ingrandimento della città di Torino da piazza Castello verso il Po, accadde che i terreni e le case che, per essere prima fuori la porta di piazza Castello e soggetti a servitù militare, aveano scarso pregio, ne acquistarono uno assai maggiore col trovarsi posti entro la nuova cinta fortificata, e perciò divenuti terreni fabbricabili o case d’affitto per la densa popolazione che eri soffocata entro le mura e costretta a prendere d’assalto le case dei vecchi quartieri. Più ancora crebbe il pregio dei terreni nuovamente incorporati alla cittàpel divisamento posto in atto dai principi di abbattere le piccole e brutte case che già eransi irregolarmente edificate lungo la strada che dalla porta Castello conduceva al Po, e costruire quella bella e maestosa contrada di Po che ancora oggi per i suoi portici regolari, la sua ampiezza e regolarità ed il magnifico sfondo della collina forma uno dei maggiori vanti edilizi della capitale piemontese. Grosse spese dovette sopportare l’erario per la sistemazione del nuovo vasto quartiere che veniva così formandosi a levante della città; e – malgrado si fossero, coi metodi spicci dell’assolutismo illuminato, obbligati i proprietari dei terreni posti ai lati della gran contrada di Po ad erigere entro un certo termine, parecchie volte prolungato, i nuovi edifici secondo il piano uniforme ed approvato dai delegati speciali o dal consiglio delle fortificazioni e fabbriche, ovvero a vendere i loro terreni a chi possedesse i capitali occorrenti per le nuove costruzioni – doveva tuttavia il fisco pagare somme non piccole per indennizzare i proprietari delle case antiche abbattute, per sistemare le strade, per costruire le nuove mura e per concorrere all’abbellimento delle facciate delle case. Alla spesa si provvide in parte imponendo un contributo uguale ai tre quinti del maggior valore (“valenza”) che i terreni situati nel nuovo ingrandimento acquistarono passando dalla condizione di terreni suburbani a quella di aree edilizie urbane.

 

 

Per dimostrare chiaramente come il contributo era regolato, daremo qualche esempio tratto dalle misure ed estimi che si erano fatti dal 1698 al 1713 in ordine al pagamento del contributo dei tre quinti ed alla liquidazione dei danni sofferti dai proprietari le cui case erano state abbattute:

 

 

a)    Quando le case non erano demolite e le vie non erano allargate.

 

 

Il medico Gayna, per una casa ed un sito di tavole 23.2.2 (ogni tavola=mq. 38) paga L. 48 per tavola, che sono i 3/5 della maggior valenza di L. 80 ed in tutto L. 1112.13.4.

 

 

Gli eredi del mastro Matteo Passaglia per una casa ed un passaggio di tavole 10, che fuori di città valevano L. 40 e dentro cinta L. 200 per tavola, pagano L. 96 per tavola, che sono i 3/5 della maggior valenza di L. 160, ed in tutto L. 960.

 

b)    Quando le case doveano demolirsi e parte delle aree era espropriata.

 

 

In questo caso i conteggi sono più complicati, perché le finanze doveano pagare al proprietario il prezzo della casi demoliti, considerata come costruzione ed astrazione fatta dal valore dell’area che rimaneva al proprietario, più il valore delle aree che eventualmente rimanevano occupate dalla strada[49], ed indennizzarlo ancora per il danno di non poter ricostruire in parte al pianterreno ed ai mezzanini per la servitù dei portici. Le finanze si accreditavano poi del contributo dei  della maggior valenza dell’area stessa, e dei prezzo corrente delle demolizioni della casa.

 

 

Esempi:

 

 

Una casa del signor Demagistris, posta sulla gran contrada di Po, “qual si deve demolire a causa dei portici, continente a piano di terra 3 botteghe con 2 retrobotteghe e crotte sotto, al primo piano 3 stanze, al secondo ed ultimo 3 stanze, estimata”

L. 4200 –

Più il danno dei portici

“200 –

Più tavole 3.5 di “sito” od area da occuparsi per la strada di Maroles a L. 6 per tavola

” 20.10

Totale credito del signor Demagistris

L. 4420.10

 

 

Il credito del patrimoniale regio era il seguente:

 

 

Contributo dei 3/5 della maggior valenza di tavole 4 occupate dalla casa, e valutate L. 300 in città e L. 60 fuori. L’aumento, essendo di L. 240 per tavola, il contributo dei 3/5 equivale a L. 144 che per 4 tavole fanno

L. 576 –

Contributo per il “sito” di altra casa che resta in piedi con corte e giardino. A L. 200 in città, meno L. 60 fuori, l’aumento è di L. 140, di cui i 3/5 sono L. 84 che per tavole 13.7 fanno

” 1141 –

Contributo per altro “sito” oltre la strada di Maroles. A L. 150 in città e 60 fuori, l’aumento è di L. 90, di cui 3/5 sono L. 54 che per tavole 5.1.10 fanno

” 278.5

Più il valore delle demolizioni

“ 884 –

Totale credito del patrimoniale

L. 2879.5

L. 2879.5

Credito residuo del signor Demagistris

L. 1541.5

 

 

In questo caso siccome l’area della casa demolita e dell’altra rimasta in piedi e l’area fabbricabile erano vaste, il Proprietario finiva per ricevere uno scarso indennizzo per la demolizione della sua casa, essendo la maggior parte del danno compensata dal vantaggio dell’incremento di valore della sua area.

 

 

L’esempio seguente si riferisce ad un caso in cui il danno invece è di gran lunga superiore al vantaggio per il proprietario:

 

 

Casa della vedova Lucia Pngna, contenente cantine, 4 botteghe al piano terreno e 12 stanze in 3 piani quale havuto riguardo al posto, qualità, bontà e reddito d’essa, atteso anche che nel rimanente corpo di casa si devono rialzare tutti li solari, sterniti, usci, finestre e loggie, si è estimata

L. 11.000

Più il danno della servitù dei portici

” 500

Totale credito della vedova Pugna

L. 11.500

Riporto credito della vedova Pugna

L. 11.500

 

 

Il credito del patrimoniale regio era il seguente:

 

 

Contributo della maggior valenza dell’area della casa demolita, della parte di casa conservati, del cortile e della “portione di vietta”: L. 225 valore entro cinta meno L. 60 valore fuori cinta=L. 165 d’aumento per tavola. Li3/5 sono L. 99 per tavola che per tavole 14.1.6 fanno

L. 1398.7.6

Più le demolizioni

” 1217 –

Totale credito del patrimoniale

L. 2615.7.6

2.615. 7.6

Credito residuo della vedova Pugna

L. 8.884.12.6

 

 

Gli esempi ora citati ed altri che si potrebbero addurre[50] dimostrano come fino dallo scorcio del secolo XVII e dal principio del secolo fosse stato accolto il principio di assoggettare ad un contributo speciale i proprietari favoriti da un’opera pubblica, la quale aumentava il valore delle aree edilizie. Si noti – e questi son caratteri che distinguono il contributo antico dai contributi moderni di miglioria quali s’usano applicare in Italia oggidì – che:

 

 

  • il contributo era imposto non per causa di un’opera pubblica speciale che aumentasse il valore delle aree poste sulla fronte di una nuova strada ed in proporzione del costo dell’opera pubblica; ma per il beneficio che ad un vasto quartiere derivava dal trovarsi in una determinata situazione economica (antro cinta) piuttosto ché in un’altra (fuori cinta);

 

  • il contributo era imposto in una proporzione assai elevata (3/5) di questo plusvalore; ed il plusvalore stimavasi dai periti in cifre che rappresentavano di solito un salto assai brusco dai valori antichi ai valori nuovi;

 

  • nella stima del plusvalore tenevasi conto, oltreché del fatto generico di trovarsi fuori cinta, anche dell’altro fatto specifico di essere situata l’area sulla gran contrada di Po o su una via secondaria. Nell’esempio, ora citato, del Demagistris, due aree, che prima erano fuori cinta valutate L. 60 per tavola, erano poscia, entro cinta, valutate L. 300 quella situata sulla gran contrada di Fo e L. 150 quella posta sulla strada di Maroles. Diguisaché per la prima area due contributi erano in effetto pagati: l’uno per essere oramai entro cinta, e l’altro per essere posta su una via divenuta principale della nuova Torino;

 

  • nel calcolare gli indennizzi per le demolizioni, si badava allo schietto valore del fabbricato, ed obbligavansi i proprietari a ricevere, in sconto dell’indennizzo, i materiali cavati dalla demolizione ad un prezzo non piccolo, se si bada che va dal 10 al 30% del valore di stima della casa.

 

 

Non fra i tributi minori, ma tra quelli straordinari dovrebbonsi annoverare il donativo per la nascita del serenissimo Principe di Piemonte e la sesta e doppia sesta dei censi. Mapoiché nel discorso dei tributi straordinari ci restringiamo quelli che furono imposti a causa della guerra di successione spagnuola, qui parliamo di quelle due entrate che ben si possono chiamare minori per la picciolezza dell’aiuto che ai nostri tempi fornirono al Principe. Non erano esse infatti entrate che tuttodì si imponessero sui popoli, ma residui di tributi che in altri anni, sia pur recenti, in occasioni diversi erano esatti.

 

 

Il donativo per la nascita del serenissimo Principe di Piemonte era l’ultimo di quei donativi in occasione di nascite, maggiori età, sposalizi, ecc., che alcuni secoli prima erano tanta parte della finanza pubblica. Con lettere patenti dei 18 maggio 1639, in occasione della nascita, avvenuta il 6 di maggio, di Vittorio Filippo, primo figlio del Duca regnante, questi riconosceva che “fra le pubbliche e cordialissime acclamationi dei popoli…… spicca così manifestamente il pubblico giubilo ch’il nostro, se potesse, ne verrebbe notabilmente accresciuto per le dimostrationi tanto palesi del zelo et affetto d’essi popoli per la nostra persona e casa”. Ne traeva egli argomento che i popoli fossero disposti a confermare queste dimostrazioni “con gli attestati consueti in simili casi, onde ci siamo volontieri disposti ad eccitare il loro fervore e farceli apparire con gl’effetti in questa pregiatissima congiontura con un donativo di ciò ch’ogni Città e Comunità vorrà spontaneamente dare. Siamo persuasi che li nostri ben amati popoli che ci hanno dato così copiose prove del loro sviscerato affetto nella passata ultima guerra, per il sostegno di questa Corona, non saranno meno generosi in questa tanto privilegiata occasione, che ci lascierà impresso nel cuore un perpetuo gradimento, che goderemo di far loro apparire in ogni riscontro con gli effetti della nostra più distinta e valida protettione”. (D. XXII, 1801).

 

 

Noi non sappiamo se l’invito di offrire un donativo, invito al quale dovevasi rispondere entro quindici giorni, sia stato accolto con giubilo uguale a quello dimostrato alla notizia della nascita dell’erede al trono; certo che si offrirono in tutto 265 mila lire, le quali esigevansi talvolta con molto ritardo[51].

 

 

Esigevansi altresì nel periodo nostro i residui della getta e doppia getta de’ censi, che i Principi solevano imporre ne’ casi di guerra. Nell’ultima guerra contro la Francia era stato ordinata con l’editto del 97 marzo 1691 (D. XXII. 1477) e colpiva i censi dovuti dalle città e comunità del Piemonte a privati, collegii ed università nella misura del terzo (sesta e doppia sesta) dell’annuo censo dovuto; ed i fogaggi e tassi alienati nella proporzione di soldi 55 per ogni scudo d’oro alienato. Erano esenti solo gli alienatari del tasso o di fogaggi che aveano ottenuto il patto dell’immunità speciale da questo tributo ed alcuni appannaggi e doti di Principi reali. L’imposta dovea essere pagata dalle comunità, che se ne compensavano mediante ritenuta d’ufficio sui censi e tassi dovuti ai creditori. Finita la guerra, l’imposizione sui censi fu abolita con ordine del 6 dicembre 1690 e non fu ripetuta più durante la guerra di successione spagnuola, forse per non disgustare i capitalisti, da’ quali aveasi bisogno in quei frangenti d’ottenere grosse somme a mutuo.

 

 

22. – Piccolo è pure il provento di un’altra categoria di tributi, quelli feudali, che aveano nella prima metà del secolo precedente fornito entrate ragguardevoli al pubblico erario. L’ultima cavalcata era stata imposta nel 1691 (ordine del 27 marzo in D. XXII. 886) sui feudi e beni annessi alle giurisdizioni feudali nella misura seguente:

 

 

Sui feudi aventi il titolo di

SI PAGAVA

se il luogo aveva meno di 100 fuochi in ragione di

se il luogo aveva 100 fuochi o più in ragione di

Signoria

un quarto di celada

mezza celada

Baronia

un terzo      » »

due terzi di »

Contado

una metà    » »

una             »

Marchesato

tre quarti» »

una e mezza »

 

 

La celada era l’unitàdi imposizione feudale, come la lira del registro allodiale; ed era stata fissata in cento scudi d’oro del sole da L. 7.10 l’uno, ossia in 750 lire piemontesi. I feudi peròpei quali nelle concessioni originarie era stato fissato un contributo determinato, questo dovevano pagare e non altro. Quanto ai beni feudali non annessi alle giurisdizioni, ai feudali di nuova legge o di terza specie, non contribuenti né col feudo né coll’allodio, fu imposto il pagamento del quarto d’annata, ossia del quarto d’un’annata di reddito netto, dedotta la parte colonica ed i pesi del fondo.

 

 

Dalle contribuzioni feudali erano esenti i tassi infeudati con l’esenzione esplicita, i pascoli e boschi servienti agli usi comuni, i beni dei vassalli che servivano di persona il Sovrano in guerra, e di questo servizio facevano prova presentandosi ogni quindici giorni a rivista insieme col dovuto equipaggio, i feudi immuni dai tributi feudali per virtù delle originarie concessioni. Ai feudatari che per causa di guerra aveano i loro beni danneggiati, si aveva riguardo; ma a quelli che non pagavano si minacciava l’immediata caducità con devoluzione del feudo al fisco.

 

 

Malgrado le minaccie, le cavalcate e le mezze annate pagavansi assai straccamento e di mala voglia, sicché ancor nel 1715 abbiamo ordini ai vassalli di pagare, colla promessa di condono della caducità in cui erano incorsi per la loro trascuranza (D. XXIII. 690).Ma il ricavo della cavalcata del 1691 dovette essere tenue, se durante la nuova guerra di successione spagnuola più non si credette opportuno imporre alcun tributo feudale. Vittorio Amedeo non era per fermo tenero degli abusi della nobiltà, né si sarebbe arrestato dinanzi ai clamori di questa, quando avesse sperato di ricavare dalle cavalcate un discreto profitto. Mancava la consuetudine di pagare questi pesi, o meglio era venuta meno da circa un mezzo secolo, l’ultima cavalcata, prima di quella del 1691, rimontando al 1652. Secondo afferma un anonimo scrittore se ben i feudi siano di sua natura e per legge obbligati di contribuire per mezzo non solo dei reali che personali servitii in ogni non men lieve che grave urgenza delle Corone, a’ quali si trovano soggettati, massime di guerra, reparatione di fortezze, acquisti di nuove terre, apparati ne’ Regi Matrimoni, ricuperatione di fondi o redditi impegnati et altri accidenti, che annualmente nascer ponno alle medesime, come si pratica quasi da tutti i Potentati d-Europa, e si è sempre da Vassalli in questi Stati praticato fino all’anno 1650 circa a segno che li Beni Feudali erano in certo modo più tagliabili degli stessi allodiali, nulladimeno da anni 50 in qua s’osservano dalle R, Contribuzioni esimiti in maniera che sol di passaggio in occasione della scorsa [quella del 1690-96 quando si impose la cavalcata di cui sopra dicemmo] si è da Vassalli conseguito per essi il tenue provento di una semplice cavalcata, in regio e pubblico pregiudizio, come se i feudi fossero per sé stessi indipendenti dalla Corona e non legalmente sottoposti alla manutenzione e sostegno della medesima”. Lo scrittore attribuisce l’abuso al torbido delle pupillari Reggenze” delle due Madame Reali, ed alla “tacita intelligenza tra i Regi Ministri et Officiali nel stimar spediente di lasciar immuni correre le obligazioni degl’altrui feudi per non scemar i redditi dei loro propri”, tantoché nelle recenti raccolte di legge e decreti [forse si allude alla raccolta del Borelli] non si trova traccia di leggi riguardanti i pesi dei beni feudali; ché anzi appaiono “involati da Regi Archivi gli originali e premunito il lor collettore di non ravvivare alla luce ciò, che si va inoltrando nelle tenebre dell’oblio”. La complicità della magistratura, quasi tutta composta di nobili, è fatta palese anche dall’”insolita freddura con cui si esigette la cavalcata del 1691 e negli sforzi compiuti per farla riuscir di tenue emolumento per svogliar il regio animo in avvenire a richiamarla”. Per ritornare all’antico reddito sarebbe mestieri che nelle nuove consegne dei beni feudali – erano state ordinate con editti del 30 novembre 1695 ed 5 maggio 1700 – si descrivessero i beni secondo la loro bontà intrinseca, il numero delle giornate di prima, seconda e terza qualità, in guisa da poteri colpire secondo giustizia e non più in ragion di “celade” e di “castellate”, ch’erano stime oramai non corrispondenti più al vero reddito dei feudi. Adesso sono troppi i beni feudali che sfuggono al tributo della cavalcata, o perché gravati troppo o troppo poco; ma quando se ne fosse fatta una giusta stima, ben più frequentemente – si potrebbe ricorrere a simil forma di tributo. Dal quale l’anonimo nostro scrittore s’aspetta grandi benefici perché se i feudatari dovranno pagare una o due lire per giornata anche sui loro beni feudali incolti, saran costretti a farli coltivare od a cederli alle comunità, ossia a privati, i quali li renderanno fruttiferi. E dopo aver fatto questa considerazione, nella quale si potrebbe, volendo, trovare un accenno alle moderne dottrine sulla tassazione dei beni incolti, il nostro scrittore conclude: “Io come Registrante non dico che si carighin li beni feudali per alleggerir li Allodiali, ma che si faccino contribuir i Ricchi a ciò che d’equità e giustitia restano tenuti per aggravar quanto meno sarà possibile i poveri in quelle occasioni, quali mediante la dovuta sussistenza ponno per altro riuscire di soddisfatione, utile e gloria al Principe a Vassalli et a sudditi in generale[52]. L’onesto desiderio non dovea essere soddisfatto durante la guerra di successione spagnuola, nemmeno da quel Principe che pur seppe in seguito ricuperare al registro tassabile 300 mila giornate di beni considerati abusivamente feudali od ecclesiastici, ed iniziare e condurre a termine l’opera certo coraggiosa, seppur criticata, del l’indemaniamento dei beni feudali concessi a titolo non oneroso. Tante erano le difficoltà che si opponevano alla tassazione dei corpi privilegiati!

 

 

23. – A conchiudere l’argomento delle entrate piemontesi, si dovrebbe qui tenerdiscorso di quelle che nei documenti finanziari dei tempo (EINAUDI, B. e C. T. 1700-1713, Tabelle da I a VI) sono raggruppate sotto il titolo di Giuridico eBeni demaniali demani uniti a feudi. Delle gabellette e delle privative s’è già parlato sopra (paragrafo 5 e 8, 11), e delle entrate provenienti dalla vendita delle piazze e cariche si discorrerà poi nel capitolo dei debiti pubblici, poiché la vendita di una piazza o carica poteva assomigliarsi alla istituzione d’un debito il più delle volte vitalizio, su una o più vite, o perpetuo (cfr. paragrafo 70).

 

 

Alle entrate provenienti dal giuridico appartengono tutte quelle che si ritraevano dagli emolumenti e diritti delle magistrature superiori ed inferiori, dai dritti che s’esigevano per la concessione di grazie, privilegi, titoli di nobiltà, immunità, ad es., le finanze per la esenzione dalla legge ubena che confiscava in certi casi i beni degli stranieri defunti, la conferma dei privilegi di tolleranza o condotta duodicennale concessa agli ebrei, le finanze ed i quos (diritto del 5 per cento) per la commutazione o il condono di pene afflittive, le finanze per le contravvenzioni alle leggi gabellarie, ecc. avrebbero dovuto far parte di questa categoria i diritti di insinuazione o del tabellione, che erano stati dati in appannaggio al Serenissimo di Carignano e che fruttavano all’anno 50 mila lire. L’esporre però questa materia in disteso ci condurrebbe assai in lungo per la complicazione delle tariffe numerosissime ed assai voluminose; e scarso sarebbe il giovamento che ne trarremmo per illuminare la finanza del Periodo nostro di guerra. Erano queste infatti entrate consuetudinarie che non potevano durante le guerre in verun modo accrescersi; ché anzi per le diminuite contrattazioni e cause civili e criminali davano un reddito anche minore di quello esiguo che normalmente fornivano[53]. A titolo di curiosità riportiamo qui alcuni casi tipici della più interessante partita delle entrate del giuridico: “le finanze e quos per gratia”. Sono estratti dai conti di tesoreria generale.

 

 

Data

Reo graziato

Titolo della grazia

Finanza pagatalire

Quos lire

1703-19 aprile Sig. Francesco Bonesca e Francesco Laugeri di Cariglio Grazia per la pena del porto di armi

200

10 –

10 ottobre Giuseppe Farizio di Favria Grazia per l’omicidio nella persona del fuGiovanni Francesco Bima

150

7.50

10 ottobre Pietro Paolo Bertetto della Rocha. Grazia per l’omicidionella persona del fu Giovanni Battista suo fratello

120

6 –

13 ottobre Felice Vercellone di Dezana Grazia per aver dato alcuni colpi di bastoneal Sig. Canonico nella Collegiata d’esso luogo Andrea Pasquale

200

10 –

31 ottobre Giovanni Pietro Capello di Rivoli Grazia per aver rubato quattro gerbe di grano in paglia in un campo dei Padri Domenicani di detto luogo

50

2.10

13 novembre Sig. Paolo Antonio Ferraris Grazia per avere ucciso accidentalmente la signora vedova Ferraris, sua madre

500

25 –

2 dicembre Sig. Notaio Luigi Francesco di Chieri Vachieri Grazia per avere in qualità di Archivista della Città di Chieri sottratto ossia omesso qualche quantità di registro

3500

175 –

1703-3 dicembre Francesco Ant. Sacco di Ivrea Grazia per aver tirato un calcio e dato due schiaffi a Giovanni Antonio Zanello serviente d’Albiano

30

17.10

22 dicembre Giovanni Battista Genovese e VincenzoPorta di Palazzolo  Grazia per avere conun tizzone acceso dato fuoco ad un pagliaio di Giovanni Girardi

200

10 –

31 dicembre Sig. Giovanni Battista Galiziano Grazia per avere con un colpo di spada ucciso il fu sig. Refferendario Simone Meinardi

10.000

500 –

1704-30 gennaio Pietro Francesco Rea Grazia d’ogni pena di mali trattamenti fatti a sua moglie

150

7.10

5 aprile Spirito Antonio Garella di Morozzo Grazia per la spendita di monete false

500

25 –

8 giugno Domenico Agostino Velasco di Torino Grazia per aver ferito con un colpo di spada Domenico Borgiotti, come pure per avere sopra le fini di Druent con pistola alla mano minacciato ed ingiuriato Giovanni Battista suo padre e ferito con un colpo di spada il luogotenente Pietro Paolo errero, nel quale è morto

300

15 –

 

 

Le più cospicue finanze per grazia furono quelle che si esigettero nel 1704 dallacontessa Maria Maddalena Bensa in lire 25 mila, e nel 1712 dal banchiere Marcello Gamba in lire 250 mila e dal conte Silvestro Olivero in lire 100 mila. Di Giuseppe Antonio Benso conte di Mondonio, già consigliere di Stato, segretario di Guerra, auditoro e sovrintendente generale delle milizie e finalmente primo presidente della Camera dei Conti, le storie narrano che si fosse macchiato di peculato e di altri delitti. Arrestato il 10 giugno 1697 e sostenuto nelle torri di porta di Po, riuscì a fuggire e ricoverarsi nel convento di S. Domenico, luogo d’asilo. Condannato il 7 novembre 1698 al bando dallo Stato, alla privazione di tutti i suoi ufficii, alla confisca dei beni e, dove venisse in mano della giustizia, alla decapitazione; il privilegio dell’asilo salvollo da morte e le istanze pietose della moglie Maria Maddalena Alberi gli procurarono il 23 gennaio 1704 la grazia, mediante il pagamento di una finanza di lire 25 mila – che son quelle che figurano ne’ nostri conti e la relegazione a perpetuità nel luogo di Montenera[54].

 

 

Di quali delitti si fossero macchiati il banchiere barone Marcello Gamba ed il conte commendatore e mastro auditore Silvestro Olivero non è detto chiaramente nelle patenti di grazia; ma si può arguire si trattasse di gravi malversazioni nella gestione delle gabelle generali, poiché le patenti narrano che contro i due soci erasi dal fisco formata l’inquisizione per delitti in dipendenza dell’Economia et amministrazione delle gabelle”. Le accuse doveano essere gravi e fondate se il Gamba e l’Olivero furono tratti in arresto il 21 gennaio 1712 d’ordine del Duca ed il Gamba dovette ricorrere il 22 gennaio alla fidejussione dei banchieri Giovannetti e Durando per 150 mila lire[55]. I due ricchi banchieri, spaventati dalla severità del Duca, si affrettarono infatti ad offrire grosse finanze per ottenere la soppressione del processo. Le offerte dovettero parere cospicue poiché con patenti del 19 aprile 1712 il barone Gamba veniva graziato, obbligandosi al pagamento di 250 mila lire di finanza; e con altre del 28 luglio 1712 l’istessa grazia era concessa al conte Olivero, il quale pagava 100 mila lire in contanti e trasmetteva gratuitamente al fisco la proprietà del suo feudo e castello di Montaldo, con tutti i beni, ragioni e miglioramenti da lui acquistati ed aggiunti. Quanto valesse il fondo di Montaldo non è detto; ma è probabile fosse tale da eguagliare il valore complessivo della finanza da lui pagata a quella del suo socio in malversazioni gabellarie[56].

 

 

Redditi mediocrissimi si traevano dai demani della Corona, dai terreni annessi ai feudi venuti a mano regia, dai terreni delle fortificazioni demolite. Anche qui non ci dilungheremo affatto, bastando l’esame del quadro riassuntivo dei fondi (paragrafo 92) per far vedere come a pochissima cosa fossero ridotti i beni demaniali. Sparpagliati qua e là, di non grande estensione, essi esigevano un’amministrazione spesso più costosa del frutto che da quei beni si ricavava, sicché il fisco finiva per trascurarli e per perderli onninamente. Talvolta si tentava di ricuperare od almeno di avere indicazioni esatte su di essi, come quando verso il 1700 il Groppello fece eseguire un’inchiesta sui terreni delle fortificazioni demolite, inchiesta dalla quale si trasse che quei terreni avrebbero dovuto rendere lire 23.931.8.9 ogni anno[57]. Pur troppo il reddito che se ne ricavava era di gran lunga minore e il più delle volte non giungeva nemmeno ad un migliaio di lire all’anno. Di qui la determinazione di vendere, quando ciò era possibile, i beni demaniali. Un editto del 1698 (D. XXVI 80) dà come ragione della vendita di alcuni beni demaniali in Savoia il fatto che “les domaines qui nous restent en Savoie nous rendent fort peu et se vont perdant insensiblement, parceque nous ne sommes pas en état de faire les dépensesconsidérables qu’exigeroit la rénovation de nos livres terriers”. Ma se l’amministrazione era costosa, la vendita dei beni demaniali procedeva più straccamente ancora, sia perché contraria all’interesse degli amministratori, sia perché dai possessori di fatto preferivasi il godimento usurpato, senza nulla pagare, all’acquisto oneroso dei beni[58].

 



[1]La maggior ampiezza della trattazione dei tributi nel Piemonte si spiega, oltreché per la maggiore importanza del paese e della materia, anche pel fatto estrinseco della maggior copia di documenti conservati su di essi negli archivi torinesi.

[2]Relazione dell’archivista dell’ufficio della Perequazione delle provincie del Piemonte, Giulio Cesare Salonio, in A. S. F. I, a. Perequazione Piemonte. M. I e alcuni brani staccati di essa in D. XXII 1030.

[3]A. S. M. E.Donativi e feudi, M. IV, n. 13, sotto: Misure generali in tutte le città e terre del Piemonte.

[4]Einaudi B, e C. T. 1700-713. Tabelle V e XII.

[5]A. S. F. Ia. Perequazione del Piemonte M. I, n. 13, sotto Sistema che sembra il più beni aggiustato per una ben regolata perequazione ed Origine dell’imposizione del tasao e dal sussidio.

[6]A. S. F. II a. Capo 58, n. 162, Registro biglietti S. M. 1708 in 1713.

[7]A. S. F. Ia. Perequazione Piemonte, M. I, n. 6 ed A. S. M. E. Finanze, M. I di seconda Addizione, n. 21.

[8]Era questo tributo del 3% sul grano dei massari parte del tributo detto del comparto del grano. Qui si accenna solo al fatto che tale imposizione sui massari alleviava il carico gravante sul registro reale collettabile. Quanto alla natura del tributo cfr. sotto paragrafo 20.

[9]Vedi sul traffiggio un’attiva corrispondenza tra il conte Groppello ed il comm. Groppello ed il comm. Bolgaro, direttore della provincia di Vercelli, nel 1702. La corrispondenza si rinnova nel 1711, finita la guerra; senza però giungere ad una conclusione definitiva, che si ebbe solo col catasto del 1731. A. S. F. II a, Capo 57, Lettere diverse, n. 654 e 663.

[10]Delle lettere patenti del 5 gennaio 1677 (D. XXII. 122) che ordinavano la rinnovazione del catasto, ignoravasi ancora il 24 febbraio 1702 l’effetto all’ufficio delle finanze. Veggasi in A. S. F. II a., Capo 54, n. 16, una lettera circolare di Groppello ai direttori delle provincie per essere informato in proposito.

[11]La controversia, limitatamente all’epoca che ci interessa, può ricostrirsi sui documenti pubblicati in D. I. 526, 541, XXII. 149-169, XXV. 218. Forma questa controversia tema del capitolo V della pregevole monografia di Francesco Dindo, Il primo catasto italiano geometrico particellare. Legnago, Tipografia E. Mercati, 1904.

[12]A. S. F. Ia. Perequazione del Piemonte. M. 10, n. 2.

[13]A. S. F. I a, Perequazione del Piemonte. M. I, n. 2.

[14]Ciò risulta dalle combinate disposizioni della sentenza senatoria 2 maggio 1642, dell’editto 2 giugno 1648, delle lettore patenti 7 ottobre 1651, con l’interinazione camerale del 23 novembre 1651 (D. XXV. 170-78). Dopo la pace, la materia fu regolata dalle Regie Costituzioni dell’11 luglio 1729, Lib. VI, titolo X.

[15]Cfr. la supplica dei cattolici e cattolizzati della Valle di S. Martino fatta nel 1711 per ottenere la continuazione dell’esenzioue goduta sino al 1713 da più di 50 anni; e la risposta favorevole del Sovrano in A. S. F. II a. Capo 48. Registro Ricorsi e Pareri, n. 6, pag. 119.

[16]Sulle esenzioni di cui godeva Torino – era esente altresì dal tasso, sussidio e da tutti i tributi ordinari e straordinari reali per le terre situate nei propri “borghi” e “finaggio” – cfr. D. XXII. 1071-1081.

[17]A. S. M. E. Finanze, M. I, a. 8. Cfr. sotto, Capitolo II, 35 e 36.

[18]Sulla tentata usurpazione di 1996.78 giornate di beni comuni di Pamparato da parte di Garessio dei padri della Certosa di Garessio, veggasi una vivacissima lettera dell’avvocato G. Battiano che nel 1703 attendeva alle misure generali in quel di Garessio. La lettera (del 30 giugno 1703 in A. S. F. II a. Capo 57. Lettere diverse, n. 655) se prova che nobili, ecclesiastici ed amministratori comunali univansi in far scempio delle proprietà comunali “con esclamatione de Poveri, i quali urlano contro il mal maneggio (le malversazioni) degli Amministratori”, prova altresì che la nascente burocrazia centrale vegliava attentamente alla tutela dell’interesse generale e correva al riparo ovunque era possibile. Veggansi a questo proposito le lodi che un Gio. Michele Appiano di Crescentino tributa alla “gloriosa comparsa dell’Ill.mo e riveritis.mo sig. Conte General di Finanze [Groppello] nel gran Ministero [dinanzi a cui] tremorono tutti gli abbusi e malversationi perché che poco per volta doveano essere gietati a terra”. Le lodi si riferivano a certi tentativi che pare il Groppello avesse incoraggiato per venire in chiaro di parecchie centinaia di giornate di terreni comuni usurpate da privati in quel di Crescentino (Lettera del 24 marzo 1704 in A. S. F. II a. Capo 57. Lettere diverse, n. 656).

[19]Ciò nell’ipotesi che tutti i tributi menzionati nel testo cadessero sul registro reale collettabile. La quale ipotesi, in fondo, può considerarsi corretta. Veggasi sopra paragrafo 14.

[20]A. S. F. Ia. Perequazione del Piemonte. M. I, n. II.

[21]Cfr. F. Dindo, op. cit. pag. 23 e D. XXII. 260.

[22]Con editto del 14 gennaio 1701 la competenza attribuita ai delegati per la conservazione e riunione del registro veniva restituita al Senato, dal quale più non partiva nessuna vigorosa iniziativa al riguardo. A. S. C. Inv. Gen. art. 693. Ordini, n. 122, p. 3.

[23]Secondo narrasi in A. S. M. E. Donativi e Feudi, M. IV, n. 13. Misure generali, ma le prime istruzioni al conte Graneri, delegato per la provincia di Cuneo, esistenti in A. S. F. I a. Perequazione del Piemonte. M. I, n. 1, sono del 14 maggio 1698 e le altre a delegati diversi risalgono al 5 maggio 1700 come conferma anche il Salonio. D. XXII. 178.

[24]Perciò in questo volume nulla si dice della perequazione dei tributi, miglior partito essendo parso quello di rimandarne la trattazione al volume di questa serie nel quale si dirà dell’opera riformatrice di Vittorio Amedeo II. Cfr. per le spese sostenute anno per anno per la perequazione G. Prato, Il costo della guerra, etc. Parte II, Capitolo 5.

[25]Michelangelo Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone. Napoli, Pierro, 1904, pag. 628/30 e 661.

[26]H. Taine, Les origines de la France contemporaine. L’Ancien regime, pag. 18.

[27]Per queste piccole somme di tassi, la Camera dei Conti diede con ordinanza del dicembre 1712 incarico al generale di finanze di venderli agli alienatari della restante somma di tasso delle comunità, allo stesso saggio d’interesse 5% o meno. Il capitale ricavato dovea accumularsi e adoprarsi al riscatto d’altri tassi alienati Cfr. A. S.C. Sessioni Camerali, Registro del 1702-703, sotto li 6 dicembre 1702.

[28]Le notizie esposte nel testo furono ricavate da A. S. M. E. Donativi e feudi, M. 4, n. 13, sotto: Vero stato del tasso per diligente recognitione fatture e capitoli seguenti.

 

 

Al Refferendario Chiaverotti, direttore della provincia d’Ivrea, il quale lagnavasi della difficoltà incontrata nel procurarsi i titoli degli alienatari, il Groppello, colla solita sua prontezza, rispondeva: “quanto ai titoli degli alienati dè tassi, Ella suppone molto difficile il poterli havere ed io trovo esser facilissimo, ed in fatti basta che V. S. Ill.ma con sua lettere circolare dica a tutte le Comunità od esattori del suo dipartimento di non pagare a detti alienatori il loro tasso, salvo le diano copia che ciò fatto non tarderà certo 15 giorni ad havere tutti documenti”. Il metodo era sbrigato e pare anche efficace. Cfr. lettere del 14 agosto 1972, In A. S. F. 2 a. Capo 54, Registro lettere Piemonte, n. 17.

[29]A. S. C. Sessioni Camerali, volume dal 1702-703 sotto 6 dicembre 1702 e D. XXII, 1186.

[30]Le cifre discordano lievemente da quelle che sono contenute in Einaudi B. e C. T. 1700-713, Tabelle IV, V, VI, XI, XII, XIII; tuttavia le riportiamo perché sono il punto di partenza di tutte le variazioni che si fecero in seguito. Le tabelle del testo sono ricavate dal manoscritto citato in questa pagina alla nota (1).

[31]Non tutti questi proventi poterono trovar luogo sul sussidio; perché ad esempio in una comunità, un ex infeudante avea diritto di esigere. L. 1404 all’anno, e la comunità dovea di sussidio ed imposte delle 308 mila lire solo 1400 lire. Il compenso si faceva allora per le residue 4 lire col tasso. Questa è la ragione che spiega come L. 381.16.5 di proventi di capitali introggi cadano sul tasso.

[32]A. S. M. E. Donativi e feudi, M. 4, n. 13.

[33]A. S. M. E. Demanio, donativi e sussidi, M. 1 e 2 addizione, n. 6.

[34]A. S. M. E. Donativi e feudi, M. IV, n. 13, sotto: Succinto discorso attorno le corrusioni.

[35]In D. XXII, 1001. Cfr. a pag. 1005 il Manifesto Camerale del 31 marzo 1683, insieme con l’istruzione ai delegati per le visite alla medesima data.

[36]A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 36. Memoria degli abusi che corrono nelle visite di tempeste.

[37]A. S. M. E. Donativi e feudi, M. 4o, n. 13. Succinto discorso cit.

[38]Vedi una lettera del Groppello in data del 2 marzo 1702 (A. S. F. 2 a. Capo 54, Registro lettere Piemonte, n. 16) al senatore Brichanteau, nella quale gli raccomanda di appoggiare a Borgofranco una delle due “fattioni” che si contendevano il predominio nel Consiglio “con procurare che alcuni d’essi restino nel Consiglio acciò siano in stato di puoterci somministrare quei lumi” che potevano far d’uopo per andare in fondo ad una grossa frode consumata in fatto di corrusione e denunziata contro la fazione avversa.

[39]Le cose esposte in questo numero son ricavate dal D. XXV, 78 (Ordine del 7 maggio 1700, fondamentale, per gli anni nostri, su questo tema); da A. S. F. II a. Capo 40, n. 6, Registro Memorie e Contratti, pag. 21 verso e segg. e pag. 61 e segg.; e da A. S. C. Sessioni Camerali, vol. 1700 in 1702, sotto 13 maggio 1701 e vol. 1702-1703, sotto 5 marzo 1703; id., Ordini, vol. 1710 in 1711, n. 133, pag. 24.

[40]Veggansi ad es. l’ordine camerale del 10 giugno 1704 in D. XXIII, 372, e le istruzioni al mastro auditore Buonfiglio, direttore del comparto dei grani, in data 12 agosto 1712, in A. S. M. E. Finanze, M. 4, n. 41.

[41]L’ingiustizia era rilevata in una memoria critica delle istruzioni date al Buonfiglio e citate nella nota precedente. Cfr. A. S. F. 1 a. Annona, Comparto Grani e Diritto di Macina, M. 2, n. 4; ma il rilievo non approdò a niente, non avendo voluto il Duca variare l’istruzione. Talvolta la Camera dei conti, a temperar il danno per le comunità più distanti dalle tappe, stabiliva che dovessero essere trattate a paro di quello entro le 15 miglio. Cfr. A. S. C. Sessioni Camerali, vol. dal 1703 in 1705, sotto il 23 giugno 1704.

[42]Vedi una memoria del conte di S. Laurent, direttore nel 1713 del comparto del grano, che si legge in A. S. M. E. Macina e Comparto, M. 1, n. 6, e in A. S. F. 1 a. Annona, Comparto Grani e Dritto di Macina, M. 2, n. 6.

[43]Consultisi su questo argomento D. XXIII, 908-917, XXXII, 238; A. S. M. E. Demanio, Donativi e Sussidi, M. IV, n. 23. Memoria (del 21 maggio 1710) dell’auditore Cullet sopra l’origine dei gogaggi che diverse città e comunità del Piemonte pagavano annualmente alla Camera (insufficiente e priva di dati precisi che probabilmente egli non conosceva); id. n. 17. Ricavo (dell’1 luglio 1702) di tutte le alienazioni seguite sopra li redditi demaniali; A. S. F. I a. Perequazione Piemonte, M. I, n. 2.

[44]D. II, 401-410. Ricordiamo qui in nota che l’Università si obbligò all’atto della rinnovazione della condotta di ritirare per 40 mila lire di mercanzie di lana della regia fabbrica de’ panni ed a pagarle nel 1702 e 1703; e ciò serve a spiegare alcune impostazioni che in quegli anni si leggono nei conti di tesoreria generale (Einaudi, B. e C. T. 1700-1713, Tabelle IV, V, VI). Notisi ancora che nel 1713 in tasso fu portato a 10 mila lire all’anno in virtù della nuova condotta dal 1713 al 1722 (D. II, 411).

[45]A. S. C. Ordini Camerali, n. 126, n. 14, ed Einaudi, B. e C. T. Tabelle IV e V, pag. 93 e 104. Durante la guerra di successione spaguola, lo Stato costruì a sue spese anche la strada di Rivoli (1712-1713); ma a cagion d’essa non fu imposto nessun tributo speciale.

[46]A. S. C. Ordini Camerali, n. 128, pag. 104.

[47]A. S. F. 1 a. Relazioni a S. M., M. 1, n. 5.

[48]Einaudi, B. e C. T. 1700-713. Tabelle (pag. 92-93), VI (123) e XIV (186).

[49]Le aree che rimanevano nella strada si pagavano dalle finanze a prezzi assai più miti delle aree fabbricabili. Così nel primo esempio che vien dato nel testo della casa del signor Demagistris, l’area fabbricabile era stimata L. 300 in città e L. 60 fuori, ed invece l’area della strada L. 6 per tavola. Il sistema adottato si avvicinava per tal modo all’occupazione gratuita delle aree stradali che si usa adesso nella stessa città di Torino. Notisi però che anche adesso quando un’arteria è eccezionalmente ampia, come accade per i viali, il municipio paga ai proprietari il valore della parte centrale, occupando gratuitamente solo i controviali, il che in fondo equivale al metodo antico di pagare tutta l’area a prezzo mitissimo, inferiore assai persino al valore che aveva fuori cinta.

[50]Ricavandoli dai documenti conservati in A. S. C. Inv. Gen. Art. 192 e 193. Son diversi “membrotti” che riguardano questo interessante istituto della finanza piemontese. Vuolsi osservare che in parecchi casi i calcoli degli stimatori sono sbagliati, cancellati, corretti, sicché pare trattarsi piuttosto di appunti che di liquidazioni definitive ed autentiche. Noi abbiamo però scelto quegli esempi sui quali, per indizi diversi, non potevano cader dubbi quanto alla esattezza dei conteggi.

[51]A. S. M. E. Demanio, Donativi e Sussidi, M. I di II addizione, n. 3.

[52]Vedi in A. S. M. E. Finanze, M. IV, n. 2 il Discorso (in data 4 dicembre 1700) di un anonimo sulli seguenti punti, cioè sulli redditi feudali, allodiali, incerti, Zecche, Militie e Porti marittimi.

[53]Sul reddito proveniente dal Giuridico veggasi EINAUDI, B. C. T.1700-1713, Tabelle IV a VI.

[54]A. S. C. Inv. Gen. Art. 659, Controrolo Finanze, vol. 205, 1702 in 1704. Patenti del 23 gennaio 1704, datate da Coconato e registrate il 6 febbraio 1704. Cfr. EINAUDI, B. e C. T. 1700-713, Tavv. V.

[55]Ferdinando Rondolino, Vita torinese durante l’assedio. 1703-1707. Estratto dalle Campagne di guerra, etc., vol. VII, pag. 85.

[56]A. S. C. Inv. Gen. Art. 690, par. 5. Registro Gratie Criminali, 1708 in 1717, fol. 44 verso 53 recto.

[57]A. S. M. E. Donatici e Feudi, M. 4, n. 13. Redditi de’ siti provenienti dalle fortificazioni o demolizioni loro nelle Città e Terre del Piemonte.

[58]Cfr. in Einaudi, B. e C. T. 1700-713, Tabelle da IV a VI, le cifre contenute nella categoria: Alienatione Demanio.

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