Opera Omnia Luigi Einaudi

Il sistema tributario statale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1933

Il sistema tributario statale
Il sistema tributario italiano, Ed. La Riforma sociale, Torino 1932, pp. 3-154


Introduzione

Il presente libro primo intende a delineare assai sobriamente la struttura del sistema tributario dello stato italiano. Conviene, a tal uopo, informarsi alla classificazione delle entrate quale è adottata nella pratica amministrativa italiana e quale risulta dai documenti ufficiali finanziari – bilanci di previsione e rendiconti consuntivi del ministero delle finanze – di cui il più accessibile agli studiosi è il Conto riassuntivo del tesoro pubblicato mensilmente dal ministero delle finanze in appendice alla Gazzetta Ufficiale del Regno.
Tabella di collegamento fra la classificazione teorica e quella amministrativa. – è naturale che la classificazione delle entrate pubbliche accolta dalla nostra amministrazione differisca da quelle accolte dalla dottrina. Se queste variano a seconda delle concezioni diverse degli autori, la prima è il risultato di una elaborazione storica secolare e reca le traccie delle variazioni legislative succedutesi nel tempo. Allo scopo di consentire allo studioso il collegamento fra l’ordine tenuto nel volume dei Principii di scienza della finanza dello scrivente ed in generale nei manuali o trattati di scienza delle finanze e quello osservato nella pratica amministrativa e seguito nei presenti lineamenti si confrontano qui sotto le due classificazioni:
Classificazione teorica
(cfr. Principi) Classificazione amministrativa
(cfr. Conto del tesoro) Gettito delle entrate nell’esercizio 1931-32(incassi di bilanciosecondo il conto del tesoro)
Entrate ordinarie: Entrate ordinarie: % %
Entrate non derivanti da imposta Prezzi quasi privati Categoria I – entrate effettive: Redditi patrimoniali dello stato
Prodotti netti delle ferrovie, delle poste e dei telegrafi, dei telefoni e dei monopoli di stato 105,3
Prezzi pubblici 225,2
Prezzi politici 331,2 1,5
Imposte sul reddito Imposte dirette
sui capitali permanenti 3.862,3
26,1
sui consumi transitorie 472,2
Tasse sullo scambio delle ricchezze (sugli affari) 2.238,4 13,5
Tasse sullo scambio della ricchezza 1.391,5
60,4
Imposte indirette sui consumi 5.060,6
Privative 3.020,3
Lotto 525,8
16.571,1 100 – 74,5
Varie Proventi di servizi pubblici minori 140,8
Rimborsi e concorsi sui consumi 283,7
Entrate diverse 453,7
878,2 3,9
Entrate straordinarie: Totale entrate effettive ordinarie 17.780,5
Varie e massimamente «prezzi» da gestioni straordinarie Entrate straordinarie: 291 1,3
Categoria I Entrate effettive
Totale entrate effettive ordinarie e straordinarie 18.071,5 81,2
Categoria II – Movimento di capitali
Vendita di beni ed affrancazioni di canoni 33,6
Alienazioni patrimoniali Riscossione di crediti 0,8
Rimborso di somme anticipate dal tesoro 37,3
Accensione di debiti
Accensione di debiti
Emissione di monete 3.919,4
1,2
Partite che si compensanonella spesa 123

Somme dovute alla cassadi ammortamento del debito pubblico 28,2
[Varie] Ricuperi diversi 20,2
Capitali aggiunti perresti attivi al 30 giugno1931 2,6
Totale delle entrate per movimento di capitali 4.166,2 18,8
Totale generale 22.237,7 100 –
In altri trattati accade che alle «entrate non derivanti da imposta» si diano intitolazioni più vicine alla nomenclatura legislativa italiana; chiamandosi, ad es., entrate patrimoniali, quelle che nei Principii dello scrivente si dissero «prezzi quasi privati», tasse quelle che ivi son dette «prezzi pubblici e politici». La varietà delle nomenclature è infinita; e giova perciò fissarsi su quella che è la nomenclatura legislativa italiana.
Il linguaggio osservato nei Principii aveva indole prevalentemente economica, la nomenclatura seguita nella pratica amministrativa ha indole prevalentemente giuridica e rimane più aderente agli istituti vigenti nel nostro paese.
Entrate effettive. – Volendo analizzare le principali differenze, si può innanzitutto osservare che se amendue le classificazioni distinguono le entrate in ordinarie e straordinarie, sulla quale distinzione basti richiamare quanto è detto nei Principii (libro terzo, capitolo I), il conto del tesoro suddistingue poi le seconde in entrate effettive ed entrate da movimento di capitali.
Chiamansi entrate effettive quelle le quali arricchiscono, fino a concorrenza del loro ammontare, il pubblico erario e correlativamente spese effettive quelle le quali lo impoveriscono. Ad esempio, se l’erario incassa in un dato anno 3 miliardi di lire a titolo di imposta di ricchezza mobile, esso vede di altrettanto aumentare la sue disponibilità e il suo patrimonio; e, correlativamente, se lo stato eroga 5 miliardi di lire a titolo di interesse sul debito pubblico, d’altrettanto diminuiscono le sue disponibilità. Le entrate effettive sono quasi soltanto ordinarie; riducendosi le entrate effettive straordinarie agli occasionali proventi di imprese economiche gestite dallo stato saltuariamente (ad es., gestione approvvigionamenti e consumi durante la guerra) ed a quello di imposte straordinarie stabilite in occasione della guerra. Anzi, poiché le imposte straordinarie, per es., quelle sul profitti di guerra, e quella patrimoniale, stabilite, insieme ad alcune minori, durante la guerra, ebbero vita più lunga della durata del tempo proprio di guerra e, per i loro residui, ancora si trascinano oggidì, l’amministrazione finanziaria preferì addirittura collocarle fra le entrate effettive ordinarie sotto la intitolazione di imposte dirette transitorie.
Entrate da movimento di capitali. – Chiamansi invece entrate da movimento di capitali quelle le quali traggono origine da operazioni di semplice trasformazione degli elementi patrimoniali, per cui ad ogni entrata, fa riscontro un aumento di passività od una diminuzione di attività. Così alla alienazione di beni patrimoniali od alla riscossione di crediti per il valore di 1 milione di lire, la quale procaccia entrata al tesoro dello stato, fa riscontro la diminuzione di 1 milione di lire nel patrimonio dello stato; all’accensione di 1 miliardo di lire di debiti la quale fa entrare, in quel momento, 1 miliardo di lire nella cassa pubblica, fa riscontro l’aumento del debito dello stato per altrettanta somma. Così pure se lo stato emette, come fece sino al 31 dicembre 1932, milioni di lire 2139,6 di monete d’argento, di nichelio e di rame, all’entrata di quella somma corrisponde l’indebitamento dello stato per altrettanto, fatta appena detrazione della relativamente piccola somma la quale potrebbe essere realizzata in seguito alla vendita del metallo risultante dalla fusione.
Al contrario, alle spese da movimento di capitali corrisponde un aumento di attività ad una diminuzione di passività. Così, se lo stato costruisce, spendendo 100 milioni di lire, una linea ferroviaria, alla spesa fa riscontro un uguale aumento nel suo patrimonio. Se lo stato rimborsa vecchi buoni del tesoro scaduti per 4 miliardi di lire, alla spesa fa riscontro un miglioramento patrimoniale, sotto forma di diminuzione delle passività.
Perciò una differenza positiva fra entrate e spese effettive ha significato di vero e proprio avanzo, e una negativa di disavanzo nel bilancio statale; laddove una differenza positiva fra entrate e spese da movimento di capitali, sebbene contabilmente sia avanzo, in realtà significa peggioramento nella situazione patrimoniale dello stato, ed una differenza negativa, pur essendo disavanzo contabile, corrisponde ad un miglioramento nella situazione patrimoniale.
Differenze specifiche fra le due classificazioni e in specie della classificazione delle imposte dirette ed indirette – delle imposte sullo scambio della ricchezza. – Venendo a confronti più specifici si noti che:
 1) le entrate dette nei Principii da prezzi quasi privati corrispondono all’incirca alla categoria dei «redditi patrimoniali dello stato»;
 2) le entrate dette ivi da prezzi pubblici e politici rispondono suppergiù ai prodotti netti delle aziende delle ferrovie, della posta e dei telegrafi, dei telefoni e dei telefoni dello stato; oltrecché alle entrate classificate nel conto del tesoro come proventi di servizi pubblici minori, ed entrate diverse. La categoria dei «contributi» trova scarso riscontro nel bilancio statale italiano, essendo propria degli enti locali.
 3) Le imposte sul reddito dei Principii trovano corrispondenza in quelle chiamate nel conto del tesoro «imposte dirette»; e parimenti quelle sui consumi hanno riscontro nelle imposte dette «indirette sul consumo» con l’aggiunta delle privative dei sali, dei tabacchi e degli apparecchi di accensione. La nomenclatura di dirette e di indirette ha per iscopo di distinguere tra le imposte le quali colpiscono subito quello che il legislatore ha inteso essere l’oggetto loro; e quelle le quali lo colpiscono indirettamente attraverso una sua manifestazione. Perciò nel nostro linguaggio amministrativo si chiamano dirette le imposte: sul reddito dei terreni, dei fabbricati, di ricchezza mobile, sul reddito complessivo, sui celibi, sui profitti di guerra, perché colpiscono o colpirono direttamente il reddito dei contribuenti, che è il vero oggetto a cui il legislatore mirava; sul patrimonio e sugli aumenti di patrimonio derivanti dalla guerra (divenuta poi avocazione dell’intiero aumento) perché colpirono direttamente i patrimoni o gli aumenti di essi che si volevano appunto tassare; e si chiamano invece indirette sul consumo quelle che nei Principii sono dette «sui consumi», per mettere in rilievo la circostanza che il consumo di una merce o derrata è solo l’indice o la manifestazione del reddito del contribuente che è sempre il vero oggetto dell’imposta nell’intenzione del legislatore. Si tassa lo zucchero o lo spirito o il vino o la carne non perché si voglia tassare quelle derrate ma perché, attraverso ad esse, si vuole colpire il reddito del contribuente. Alla categoria delle imposte sui consumi appartengono anche le «privative», essendoché la privativa, ovvero assunzione del monopolio della produzione e della vendita del sale e del tabacco, è il mezzo tecnico adottato per colpire con una imposta il consumo dei sali e dei tabacchi. Della entrata del lotto potrebbe disputarsi se essa sia un’imposta sul consumo delle speranze di vincita al lotto o sui guadagni delle medesime vincite; epperciò essa potrebbe indifferentemente collocarsi, dal punto di vista teorico, nelle imposte sui redditi o sul consumo.
 4) Una importantissima categoria amministrativa è quella detta nel conto del tesoro «tasse sullo scambio della ricchezza» o sugli «affari». Essa comprende in primo luogo le tasse di registro, di bollo, ipotecarie, in surrogazione del bollo e registro, sulle concessioni governative, di successione e manomorta, che in massima appartengono, nella classificazione teorica, a quelle che ivi furono dette imposte sui capitali. Ma occorre fare in proposito due avvertenze. L’una sostanziale ed è che queste entrate non soddisfano alla condizione delle imposte in senso stretto, ossia di essere esatte senza alcun particolare corrispettivo al contribuente. Lo stato rende al contribuente qualche particolare servizio apprezzabile di registrazione e di pubblicità dei contratti registrati, degli atti di concessione e di trasferimento di proprietà a titolo gratuito, ecc. Da questo punto di vista tali entrate rientrerebbero anche nel novero dei prezzi pubblici o politici della classificazione teorica. Perciò, forse, o piuttosto per tradizione queste entrate si chiamano tasse e non imposte. La distinzione fra tassa ed imposta non è né universale né chiara. Non è universale perché, ad es., nei paesi di lingua inglese non si conosce la parola imposta ed al luogo di essa si adopera sempre quella di tax. Non è chiara, perché, se nella dottrina italiana invalse l’uso di chiamare imposta i tributi coattivi, pagati dal contribuente senza sua domanda e per comando dello stato (imposta sui terreni, sui fabbricati e simili) e tassa i tributi pagati in seguito ad una domanda (la tassa di registro si paga solo se si stipula un contratto di compra vendita, ossia si compie un atto volontario), d’altro canto l’elemento della volontarietà è evanescente, date le sanzioni contro i contravventori e dato che la parola «imposta» si adopera per i tributi sui consumi, i quali sono, se ben si guarda, atti ben più volontari che non i trasferimenti a titolo oneroso e più a titolo gratuito. Che cosa c’è di volontario nella imposta di successione? Il raggruppamento di certe entrate sotto il titolo di «tasse» ha perciò soprattutto un valore tradizionale.
Accanto alle sopracitate entrate, le quali hanno in sostanza natura di imposte saltuarie sui capitali, in occasione del loro trasferimento (cfr. Principii, libro secondo, capitolo VII, sezione quarta), il gruppo delle tasse sullo scambio della ricchezza – e perciò nella tabella la denominazione fu ripetuta due volte, sebbene non lo sia nel conto del tesoro – comprende anche le tasse sugli scambi, di bollo, sui trasporti ferroviari, tranviari ed automobilistici, sugli autoscafi, motocicli, autovetture ed autocarri, il diritto erariale sui biglietti dei cinematografi, pubblici spettacoli e stabilimenti termali, le tasse di bollo sulle carte da giuoco, le tasse sul prodotto del movimento dei servizi di trasporto concessi all’industria privata, le quali sono in sostanza vere e proprie imposte sui consumi, distinte dalle altre consimili soltanto per il modo di esazione che è l’apposizione di un bollo, effettivo o virtuale, sui documenti che testimoniano il consumo di merci o di servizi di trasporto o di divertimento. Anche qui a farle chiamare «tasse» influirono tradizioni od opportunità di amministrazione di queste entrate piuttosto da una branca dell’amministrazione finanziaria (direzione generale delle tasse sugli affari) che da un’altra (direzione generale delle imposte sui consumi).
Importanza comparativa delle varie categorie di entrate. – In due colonne furono nella tabella indicati i proventi che per le varie specie di entrate si ebbero nell’esercizio 1931-1932, quali risultano dal conto del tesoro, ossia incassi per entrate proprie o di competenza dell’anno e residui degli anni precedenti. La indicazione ha per iscopo di mettere in luce la scarsa importanza concreta delle altre specie di pubbliche entrate e quella dominante di entrate da imposte, che sono l’81,2% (nell’esercizio 1930-931 l’85%) delle entrate ordinarie e straordinarie, comprese quelle da movimento di capitali. Nelle entrate da imposta è visibile il maggior peso delle imposte sui consumi, che forniscono il 60,4% (nell’esercizio 1930/931 il 57,7%) delle entrate medesime, le imposte sui redditi e sui capitali gittando il residuo 39,6% (nell’esercizio 1930/931 il 42,3%).
Vuolsi notare che le somme segnate sotto il titolo di entrate da movimento di capitali non danno però un concetto completo delle entrate in conto capitale dell’erario. Occorrerebbe perciò tener conto del movimento delle varie partite del conto del tesoro. Ma ciò ci porterebbe troppo lungi dall’assunto del presente volume .
Capitolo I
Redditi patrimoniali e prodotti netti delle imprese industriali

I redditi patrimoniali dello stato (cfr., per nozioni teoriche, Principii, libro primo, capitolo I) hanno scarsa importanza: nel 1930-1931 appena 107 milioni su un totale di 18.225 milioni di lire e nel 1931-932 appena 105,3 su un totale di 17.780,5 milioni di lire di entrate effettive ordinarie.
Demanio e patrimonio dello stato. – Passando sopra a particolarità minori, importa notare che il demanio pubblico ed indisponibile è amministrato dalla direzione generale del demanio pubblico e dalle aziende patrimoniali; il patrimonio disponibile, e cioè i beni che possono essere alienati, affittati e trasformati, a seconda delle norme di legge, è gerito dal provveditorato generale dello stato; e il patrimonio forestale dall’azienda del demanio forestale dello stato.
Gran parte dei beni immobili viene utilizzata per uso diretto dalle amministrazioni dello stato, talvolta sono affittati. I beni mobili sono amministrati dalle singole amministrazioni che li hanno in uso; e quando diventino inservibili, messi a disposizione del provveditorato generale.
Prodotti netti delle imprese industriali. – Più importanti sono i proventi delle imprese industriali esercitate dallo stato, che nel 1930-1931 toccarono i 331 e nel 1931-932 appena 225,9 milioni di lire per le sole ferrovie, poste, telefoni, telegrafi e monopoli di stato.
Alcune di queste imprese sono gerite variamente sotto la direzione della Direzione generale del demanio. Le Regie terme di Salsomaggiore e di Montecatini, le Regie fonti di Recoaro, le Regie grotte di Santa Cesarea (Lecce), la Regia azienda demaniale del mar piccolo di Taranto, furono concesse a società anonime le quali versano al tesoro dal 30 all’80% dell’utile netto. Le Regie grotte demaniali di Postumia sono costituite in azienda autonoma, la quale fino all’1 gennaio 1937 devolverà ad incremento delle grotte tutti gli eventuali utili netti. I Canali Cavour, che il Conte di Cavour nel 1853 aveva dato in concessione alla associazione di irrigazione dell’agro ovest Sesia, 50D0 amministrati direttamente dallo stato, a cura di un amministratore con stanza in Torino.
L’amministrazione delle ferrovie dello stato, con circa 16.750 Km. di linea (altri 5000 m. sono gestiti da imprese private concessionarie), affidata al ministero delle comunicazioni, coadiuvato da un direttore generale ed assistito da un consiglio di amministrazione. L’amministrazione è autonoma; epperciò è esente dal controllo preventivo delle spese da parte della corte dei conti ed ha un bilancio proprio di entrate e di spese distinto da quello generale dello stato. Esso versa al tesoro i suoi avanzi di esercizio, i quali nei quattro esercizi 1927-1928, 1928-1929, 1929-1930 e 1930-1931 raggiunsero i 110, 207, 92 e 10 milioni di lire, per dar luogo ad un disavanzo di 198 milioni di lire nel 1931-932. Anche negli esercizi in cui l’azienda si chiude con un avanzo, non si tratta di un avanzo vero e proprio, perché il tesoro deve con questi versamenti provvedere al pagamento degli interessi e all’ammortamento dei debiti contratti per la costruzione, e la dotazione della rete ferroviaria prima dell’1 luglio 1905, data del passaggio delle ferrovie dall’esercizio privato a quello statale.
Siccome questo capitale che può dirsi «vecchio» in contrapposizione a quello «nuovo» investito dopo l’1 luglio 1905, a cui provvede direttamente l’amministrazione ferroviaria, ammonta a circa 5 miliardi di lire prebelliche, è chiaro che l’azienda ferroviaria non basta a se stessa. Il che per altro può essere perfettamente plausibile, bastando all’uopo richiamarci alle considerazioni svolte nei Principii . Anche l’amministrazione delle poste e telegrafi è gerita separatamente con un direttore generale ed un consiglio di amministrazione. Il bilancio è allegato a quello del ministro delle comunicazioni. Gli avanzi di gestione nei cinque esercizi dal 1927-928 al 1931-932 furono di 88, 126, 156, 121 e 182 milioni di lire.
L’azienda di stato per i servizi telefonici è diretta da un direttore tecnico, posto alle dirette dipendenze del direttore generale delle poste e dei telegrafi. Complessivamente nei primi cinque anni della gestione l’azienda versò allo stato 100 milioni di lire; e 17,4 milioni versò nel 1931-1932.
Utile netto del monopoli statali. – Per le aziende finora elencate, l’utile od avanzo versato al tesoro dello stato è uguale alla differenza fra le entrate e le spese proprie di ognuna di esse e risultanti da un bilancio apposito istituito per registrare i fatti amministrativi pertinenti ad esse. Natura alquanto diversa ha un’altra entrata industriale che nei conti pubblici appare sotto la denominazione di «utile netto industriale dell’amministrazione autonoma dei monopoli di stato». Il prodotto complessivo dei monopoli del sale e dei tabacchi si divide in due parti:
 a) la quota versata al tesoro dello stato a titolo di imposta di privativa. Essa ha indole di imposta esatta col metodo della privativa o monopolio e viene registrata nei conti pubblici sotto la denominazione di entrata da «privativa» (imposta di consumo esatta col metodo della privativa). Questa quota è quasi un canone percentuale fisso che l’amministrazione autonoma dei monopoli di stato versa al tesoro in compenso del monopolio ricevuto di fabbricazione e vendita dei sali e tabacchi;
 b) la quota residua del prodotto totale, dopo versato il canone imposta al tesoro. Con essa l’amministrazione del monopolio deve provvedere a coprire tutte le spese di fabbricazione e di vendita. L’avanzo eventuale costituisce l’utile industriale dell’azienda ed è quello che nei conti pubblici è registrato nella categoria dei «prodotti netti delle aziende industriali».
Ma è chiaro che l’utile industriale essendo l’avanzo di una quota percentuale è più o meno elevato a seconda che la quota canone imposta sia stata fissata ad un livello maggiore o minore. Col variare la percentuale di canone lo stato può far passare da una categoria all’altra una parte del reddito netto dei monopoli. Il concetto informatore della distinzione è di assegnare ad imposta quella parte del prezzo che supera il prezzo che esisterebbe se la fabbricazione e la vendita fossero libere. Sul resto, uguale al prezzo di mercato, l’amministrazione del monopolio può guadagnare o perdere; e se guadagna, il lucro è vero utile industriale.
Nella categoria dei proventi netti industriali rientra anche il reddito netto dell’azienda del chinino di stato che lo stato esercita, in regime non di monopolio, a scopi igienici e di lotta contro la malaria. Il reddito medesimo netto si aggira sui 16 milioni di lire all’anno.
L’amministrazione dei monopoli di stato esercita alcune gestioni accessorie; come quella della imposta di fabbricazione sui fiammiferi a mezzo di una industria privata riunita in consorzi sopravegliati dallo stato, della imposta di fabbricazione sulle cartine e tubetti per sigarette e del monopolio di importazione e vendita degli apparecchi d’accensione e delle pietrine focaie. Anche per queste gestioni l’amministrazione versa al tesoro la più grossa parte dei proventi a titolo di imposta; sulla quota ad essa assegnata per la gestione, l’avanzo eventuale è considerato utile industriale.
Capitolo II
Le imposte dirette permanenti

Come fu chiarito nella introduzione, la nostra amministrazione chiama imposte dirette quelle le quali colpiscono direttamente l’oggetto che il legislatore ha voluto assoggettare a tributo; e queste distingue in permanenti, le quali fanno parte del sistema tributario in modo permanente; e transitorie, istituite durante la guerra e destinate ad essere eliminate progressivamente, a mano a mano che vengono meno gli ultimi resti del debito tributario passato dei contribuenti.
Classificazione teorica e classificazione amministrativa. – Dicasi prima delle imposte permanenti. Nei conti pubblici esse compaiono secondo il seguente elenco, al quale, per comodità dello studioso, si contrappone la classificazione teorica adottata nei Principii.
Classificazione teorica Elenco delle imposte dirette permanenti secondo la classificazione amministrativa

 

Imposte reali sui redditi dominicali fondiari; sui redditi dei fabbricati civili;
sui redditi di ricchezza mobile (compresi i redditi agrari); Imposta sui fondi rustici
Imposta sui fabbricati

Imposta sui redditi di ricchezza mobile (compresa l’imposta sui redditi agrari)

esatta per ruoli
per ritenuta
Imposte personali
sul reddito complessivo; Imposta complementare progressiva sul reddito
addizionale sul reddito dei celibi Imposta personale progressiva sui celibi
In questo gruppo la classificazione teorica non aggiunge a quella amministrativa null’altro fuor della qualifica di reali e di personali data ai due sottogruppi. Intorno ad essa non è mestieri indugiarsi dopo quanto è stato esposto nel volume dei Principii (cfr. libro secondo, capitoli V e VI). L’amministrazione non ha bisogno di «qualificare» le imposte che essa deve gestire; né quel bisogno è sentito dal legislatore medesimo, il quale stabilisce le imposte secondo un dato ordinamento, con date caratteristiche, dall’esame delle quali la dottrina trae argomento alle qualifiche di realità o personalità od altre ancora. Notisi anche che quando si dice che le imposte sui fondi rustici, sui fabbricati e di i ricchezza mobile sono «reali», non si vuole affermare che siano tutto e in tutto reali; ché nell’imposta di ricchezza mobile vi sono elementi di personalità, come la esenzione di taluni redditi minimi. Né, quando si dice che le imposte complementari progressive sul reddito e quella sui celibi sono personali, si vuole affermare siano in tutto tali; ché la tassazione dei redditi da fonti italiane goduti da stranieri o da italiani dimoranti all’estero, la aliquota costante per i redditi degli impiegati attenuano quel carattere di personalità e lo rendono meno puro di quanto teoricamente si potrebbe supporre. Si vuole soltanto dire che quei due gruppi hanno prevalentemente i caratteri della realità e della personalità.
Vuolsi ancora osservare tra le due classificazioni questa differenza: che quella amministrativa parla di imposte sui fondi rustici, sui fabbricati, sui redditi di ricchezza mobile, laddove la classificazione teorica aggiunge, anche per i fondi rustici ed i fabbricati, la indicazione sui redditi dei … a chiarire che la imposta colpisce il reddito netto che al loro proprietario danno i fondi ed i fabbricati medesimi. Si vedrà poi la ragione dell’aggettivo civili aggiunto al sostantivo fabbricati.
Capitolo III
L’imposta sui terreni (fondi rustici)

Nel gruppo delle imposte dirette, la più antica imposta è quella fondiaria sui terreni detta anche sui fondi rustici. Era anche la più importante quando la fonte principale del reddito nazionale era la terra. Oggi l’imposta sui terreni conserva grandissima importanza, sovratutto per le provincie ed i comuni.
I. – oggetto dell’imposta sui terreni (fondi rustici).
Classificazione dei redditi derivanti dalla terra. – Per conoscere quale sia l’oggetto proprio dell’imposta sui fondi rustici, occorre avere un’idea complessiva dei redditi che si ricavano dalla terra. Questa non dà redditi, ma prodotti (frumento, uva, erba, ecc.), i quali sono divisi fra tutti coloro i quali variamente conferiscono fattori produttivi e danno origine ad altrettanti redditi distinti, su cui cadono o dovrebbero cadere altrettante imposte, di cui quella «sui terreni» è una sola.
L’imposta sui fondi rustici colpisce il reddito dominicale. – Vi è innanzitutto un reddito detto reddito dominicale, che è oggetto dell’imposta fondiaria ed è distinto dagli altri redditi derivanti dalla terra e che sono o dovrebbero essere colpiti dalla imposta di ricchezza mobile e da quella sui redditi agrari. L’imposta sui terreni colpisce il solo reddito dominicale, ossia quella parte del prodotto totale della terra che rimane, dopo aver pagato tutte le spese, al proprietario come tale, astrazione fatta della sua qualità di eventuale coltivatore diretto della terra.
A meglio chiarire l’argomento, giova il seguente quadro:
Fattori produttivi Persona che impiega quei fattori produttivi Reddito netto relativo Imposta

 

Capitale fondiario I. – Terreno in condizioni naturali II. – Capitali stabilmente investiti ed incorporati nel terreno(costruzioni rustiche, piantagioni, dissodamenti, prosciugamenti opere di irrigazione, muri di sostegno livellazioni, ecc.).
Proprietario Reddito dominicale Imposta sui fondi rustici osui terreni
III. – Capitale mobile o cosidette scorte vive e morte (bestiame da lavoro e da allevamento, mangimi, concimi, semenze, fondo anticipazione salari, macchine ed attrezzi agricoli, ecc.)e lavoro di direzione. ³ Imprenditore agricolo o coltivatore(proprietario in quanto gestisce in economia i suoi fondi; affittavolo, mezzadro, se fornitore di tutte o parte delle scorte) Reddito industriale agricolo Imposta di ricchezza mobile di cat. B sui redditi misti di capitale e lavoro per, gli affittavoli e imposta sui redditi agrari per il proprietario coltivatore diretto od in economia e peri mezzadri ed altri coloni parziari
IV. Lavoro Amministratore, fattore, contadino, impiegato ad anno oda giornata Stipendio o salario Imposta di ricchezza mobile in categ. C per i redditi di lavoro puro dello amministratore o fattore. I redditi dei contadini braccianti praticamente non sono tassati.
Il reddito dominicale tassato è quello ordinario –È d’uopo però, ai fini tributari, notare che il reddito tassato con l’imposta terreni deve essere oltreché dominicale anche ordinario, ossia stimato secondo un termine medio. L’agricoltura, si sa, è industria la quale muta lentamente nei suoi metodi tecnici e nella sua produttività. Da un anno all’altro si può, forse, raddoppiare la produttività di un opificio industriale; basta comprare nuove macchine e salariare nuove maestranze. Non sempre gli sforzi riescono anche nell’industria; ma nell’agricoltura i rapidi progressi sono certamente impossibili. Bisogna tener conto delle stagioni, delle rotazioni agricole, del lento crescere delle piante, ecc., ecc. Di qui la necessità di tenersi stretti ad una media, la quale non può non essere basata su un periodo assai lungo di anni; e di aggiungere al concetto del reddito dominicale il connotato «ordinario», per modo che nella stima «si rispecchino sempre le condizioni ordinarie e durature della rendita fondiaria e non le sue condizioni accidentali e mutevoli».
Parole queste della commissione censuaria centrale italiana, la quale è incaricata di rivedere definitivamente le stime che si vanno compiendo in virtù della nuova catastazione.
Il concetto del reddito «ordinario» non implica che si debba guardare al reddito che si può ottenere in perpetuo. Il reddito, diceva il Messedaglia, insigne economista che fu relatore alla camera del progetto di legge per la nuova catastazione, «deve essere continuativo, duraturo, il più permanente che sia possibile; e perciò determinato, con sufficiente larghezza, nei suoi elementi meno variabili; duraturo fra certi limiti di tempo e non alla perpetuità».
Il connotato di «ordinario», che deve avere il reddito imponibile, rende necessario ancora che si debba fare astrazione dalle variazioni che il reddito può presentare a seconda delle attitudini personali del proprietario.
Noi dovremo, non solo fare la media oggettiva dei redditi, ma anche la media soggettiva; supporre cioè che i fondi siano posseduti da un proprietario né troppo diligente né troppo negligente, non innovatore e neppure troppo attaccato ai metodi antiquati di coltura; da un buon padre di famiglia, insomma. Come diceva ancora il Messedaglia: «il reddito deve essere ordinario; ed ordinario non già in modo generico, astratto, ma tenuto conto di speciali elementi che si devono considerare nelle stime catastali; tenuto conto degli usi e delle consuetudini del luogo, del metodo di coltura praticato, e di ogni altro dato che possa influire come che sia sull’entità del reddito stesso». Intorno alle conseguenze economiche del concetto di ordinarietà già si disse a suo luogo nel trattato dei Principii (libro secondo, capitolo VIII).
II. – Valutazione ed accertamento del reddito dominicale ordinario.

Valutazione ed accertamento del reddito dominicale. – Il reddito dominicale è in Italia accertato col metodo del catasto ossia della valutazione fatta, secondo criteri uniformi ed oggettivi, da organi speciali a ciò delegati, in cui sono rappresentati contribuenti e fisco. (Cfr. per maggiori particolari Principii, libro secondo, capitolo XII).
Il catasto è un libro nel quale sono descritti i fondi con l’indicazione del possessore, della estensione, della coltura e del reddito. Se alla descrizione si aggiunge anche la raffigurazione del fondo in planimetria su una carta; si dice che il catasto è geometrico.
I difetti dei vecchi catasti. – In Italia l’imposta era ripartita sulla base di ventidue catasti principali, i quali tra di loro differivano:
 a) per l’epoca a cui risalivano. Il catasto della Garfagnana risale al 1533, il piemontese antico fu attivato nel 1730, il milanese nel 1760, il mantovano nel 1783, l’estense di pianura nel 1791, il ligure nel 1788. Mentre assai più recenti sono il parmense del 1830, il romano del 1835, il toscano del 1832-1833-1834, il nuovo censo lombardo veneto del 1846 e 1864, il lucchese recente del 1864 e 1869. Non è possibile che gli estimi del reddito, risalendo ad epoche così svariate, fossero perequati. Terreni una volta fertilissimi ora sono sterili; e per contrario ai terreni prima sterili i nuovi metodi colturali han dato valore;
 b) per il metodo di valutazione dei terreni. Talvolta è valutato il reddito effettivo, tal’altra l’ordinario. E In taluni luoghi invece si accerta il valore capitale dei terreni;
 c) per il metodo di formazione del catasto, che qua è descrittivo, là geometrico particellare; in una regione compiuto d’autorità dal principe ed altrove fondato sulle denuncie dei proprietari;
 d) per il contenuto dell’estimo, che talora comprende e talora esclude le case rustiche, i canali irrigatori, i terreni incolti. Al momento dell’unificazione si riscontrò che estensioni cospicue di territorio coltivato e fertile sfuggivano all’imposta perché, quando il catasto fu compiuto, erano incolte!
Il conguaglio provvisorio e la legge di perequazione. – A questa confusione inenarrabile si cercò di ovviare in parte con la legge del 14 luglio 1864, n. 1831, che fu detta del conguaglio provvisorio, perché, fatta una massa unica delle imposte pagate in Italia, lo si redistribuì nelle varie regioni con un po’ più di giustizia.
Ciò non bastando, si provvide con la legge 1 marzo 1856, n. 3682, ad ordinare un nuovo catasto, basato sul duplice concetto: che alla stima del reddito ordinario del terreno deva precedere una esatta misurazione geometrica dello stesso e che misura e stima devano essere compiute per l’estensione minima possibile, ossia per l’unità detta particella catastale.
I catasti, i quali operavano la stima per quelle estensioni di terreno, che, possedute da uno stesso proprietario, formano anche una unità di coltura, una azienda agricola a sé stante, hanno il difetto che ad ogni divisione del fondo è d’uopo di fare una nuova valutazione del reddito delle diverse parti. Per evitare tale inconveniente si pensò di assumere ad unità di misura e di stima la particella catastale, che è definita dalla legge come una porzione continua di tirreno, situata nel medesimo comune, appartenente allo stesso possessore, di uniforme qualità o classe e con la stessa destinazione. Deve essere cioè: 1) una porzione continua di un terreno; 2) essere situata nel medesimo comune, per potere ripartire facilmente, insieme con l’imposta erariale o di stato, anche le sovrimposte comunali e provinciali; 3) appartenere allo stesso possessore, almeno nel momento in cui si fanno le operazioni catastali; 4) di qualità uniforme; 5) e di uguale classe. Le quali due ultime caratteristiche intendono a far sì che la particella sia in tutti i suoi punti destinata alla stessa coltura (qualità) e dello stesso grado di produttività (classe). Le due condizioni sono necessarie affinché la particella abbia lo stesso reddito in ogni suo punto, cosicché quando la particella venga in seguito divisa fra due o più possessori, il reddito e quindi la imposta possano essere automaticamente divisi nelle proporzioni medesime della superficie. A differenza di quanto accadeva assumendo l’intiera azienda agricola come unità catastale, la divisione dell’imposta avviene qui con tutta facilità; perché, se la particella ha la superficie di un ettaro ed è valutata per un reddito di 100 lire, ove essa venga divisa in due parti di cui l’una sia di 37 are e l’altra di 63 are, niun dubbio che la prima parte avrà il reddito di 37 lire e la seconda di 63 lire.
Operazioni di misura. – Le operazioni catastali si distinguono in operazioni di misura e di stima.
Quelle di misura comprendono:
 1) la delimitazione o ricognizione delle linee di confine: a) dei territori comunali e delle singole frazioni di comuni, aventi patrimonio separato, e b) delle proprietà comprese nei singoli comuni e questa è compiuta dall’amministrazione del catasto in concorso delle commissioni censuarie comunali e in contraddittorio delle parti interessate;
 2) la terminazione ossia l’apposizione dei termini nella detta linea di confine che è eseguita dalle amministrazioni comunali per i territori comunali e dai possessori per le proprietà private;
 3) il rilevamento particellare per cui si suddivide ogni proprietà in particelle come sopra definite e nella loro esatta misurazione;
 4) la formazione della mappa per cui si rileva di ogni particella la esatta figura geometrica su una carta planimetrica.
Le mappe sono planimetriche, ossia raffigurano il terreno in posizione orizzontale, di solito nella scala da 1 a 2000. Nelle mappe sono indicati i punti trigonometrici a cui sono collegate le misure, i confini dei territori e delle proprietà coi relativi terreni, le linee le quali circoscrivono ogni particella, e le varie altre particolarità rilevate che sembri utile ricordare.
 5) il sommarione o documento nel quale sono indicati i numeri dei fogli in cui la mappa del comune si divide; i numeri applicati ad ogni particella di terreno compreso nella mappa; il cognome e nome del possessore ed il suo titolo di possesso; la denominazione della località in cui è situata la particella, la qualità e la classe di essa.
Operazioni di stima. – Esse si distinguono in:
 1) qualificazione, ossia distinzione dei terreni di ogni comune secondo le varie qualità per coltura, destinazione o prodotto spontaneo: prato, prato arborato, seminativo semplice, seminativo arborato, seminativo semplice irriguo, vignato, olivato, bosco d’alto fusto, bosco ceduo, pascolo, ecc., ecc.
 2) classificazione, ossia distinzione di ogni qualità in varie classi corrispondenti ai diversi gradi di bontà. Di solito non più di due o tre, a seconda delle circostanze, per non eccedere nelle distinzioni. Giova ad una buona classificazione la preliminare scelta di particelle tipo in ogni comune, o zona agraria di esso, se il territorio comunale abbraccia zone nettamente distinte, alle quali particelle tipo paragonare le singole particelle.
 3) classamento, che consiste appunto, dopo avere distinto le particelle tipo in classi, nell’attribuire le singole particelle alla classe loro propria, mediante confronto con le particelle tipo;
 4) formazione delle tariffe d’estimo, ossia determinazione del reddito dominicale medio ordinario continuativo ritraibile dalla particella tipo prescelta per ogni qualità e classe. Il reddito delle particelle risulta dalla applicazione alla loro superficie della tariffa di estimo così determinata.
Dell’epoca censuaria rispetto alla stima del prodotto lordo. – Per la misura del fondo, si ha riguardo alle condizioni del fondo al momento in cui si fa la misura. Ciò non reca alcun inconveniente. Invece per la stima il legislatore adottò il criterio dell’epoca censuaria unica iniziale affermando all’articolo 11 della legge 1 marzo 1886 che «i fondi saranno considerati in uno stato di ordinaria e duratura coltivazione secondo gli usi e le condizioni locali e la qualità del prodotto sarà determinata sulla base della media del dodicennio 1874-1885, ovvero di quel periodo più lungo di tempo che per alcune speciali colture fosse necessario a comprendere le ordinarie vicende delle medesime».
Il concetto del legislatore era corretto, perché non vi ha perequazione possibile se i prodotti dei terreni non siano tutti stimati riferendoli al medesimo tempo. Il legislatore italiano scelse, come tempo di riferimento, il dodicennio anteriore al 1886, anno in cui fu promulgata la legge di perequazione, considerando che un dodicennio è un periodo abbastanza lungo di tempo perché possano compensarsi le annate buone colle cattive, e verificarsi gli infortuni ordinari nella misura solita.
La commissione censuaria centrale non aveva mancato di temperare la rigidità assoluta del criterio del dodicennio legale 1874-1885 il quale, sia detto di passata, vale non solo per la stima del prodotto lordo, ma anche per la valutazione delle spese quando insorgevano «speciali circostanze» valutabili, a norma dell’art. 190 del regolamento, dalla stessa commissione, che potessero persuadere a tener conto di fatti posteriori al 1885 e tali da esercitare una profonda influenza sulle sorti dell’agricoltura. Così, sebbene la peronospora della vite sia stata segnalata la prima volta in Italia nel 1879 in un vigneto della provincia di Pavia, riscontrata l’anno dopo nel Veneto e di poi su vasta scala in Piemonte, ove negli anni 1881/1882 e seguenti arrecò danni gravissimi, a stretto rigore non si sarebbe potuto tener conto, nel calcolo delle spese, di quelle occorrenti per il trattamento cuprico (col solfato di rame) perché questo cominciò ad attuarsi solo dopo il 1885 e si generalizzò in seguito dopo il 1890. Tuttavia la commissione centrale deliberò che si dovessero ribassare ed in molti casi sensibilmente, le tariffe predisposte per tutte le qualità nelle quali entri in modo esclusivo o notevole il prodotto dell’uva.
Così pure la commissione censuaria centrale riconobbe che erano necessarie notevoli diminuzioni nelle tariffe dei castagneti, per tener equo conto della malattia dovuta alla presenza di piante crittogamiche, che, sebbene non avessero nel dodicennio 1874-1885 invaso i castagneti italiani in guisa da preoccupare il coltivatore, sono andate sempre progredendo di intensità, assumendo un carattere duraturo, e portando un danno alla produzione del castagno.
Cosicché si può concludere che, se il sistema adottato per le stime fu quello dell’epoca censuaria unica iniziale (dodicennio legale 1874-1885), si apportarono poscia al principio rigido della legge modificazioni atte a tener conto di quei fatti d’ordine generale posteriori al 1886 che possono esercitare una influenza notevole sui prodotti e sulle spese.
Conversioni del reddito in natura in reddito in moneta. – Dopo che si sono determinati i prodotti delle particelle tipo sulla base del prodotto mediamente ottenuto nel dodicennio legale, i prodotti in natura vanno convertiti in prodotti in moneta legale. Quale sarà il criterio che servirà di base nella fissazione dei prezzi dei prodotti agricoli? Anche qui si era applicato il criterio dell’epoca censuaria unica iniziale. La legge 1 marzo 1886 disponeva infatti che la valutazione dei prodotti si facesse sulla media dei tre anni di minimo prezzo compresi nel dodicennio 1874-1885.
La scelta dei tre anni di prezzo unitario era stata suggerita al legislatore dalla considerazione che in quel periodo i prezzi delle derrate agricole si mantennero, in generale, a un livello eccezionalmente alto. In generale i prezzi erano elevati in tutto il mondo a causa delle scoperte delle miniere di oro della California e dell’Australia, che avevano fatto svilire la moneta e valorizzare le merci e le derrate. Per l’Italia valeva inoltre una causa speciale ed era il corso forzoso della carta monetata col conseguente disagio della carta, per cui i prezzi in carta italiana erano più elevati che in oro estero. Per tener conto di quest’ultima circostanza fu stabilito che si dovesse calcolare il disagio medio della carta rispetto all’oro e diminuire di altrettanto la media dei tre anni di minimo prezzo; così che la valutazione delle derrate agricole si facesse sulla base di prezzi moderati e ridotti a moneta buona d’oro.
Gravi difficoltà sorsero però ben presto intorno all’applicazione di questo concetto. Il legislatore era partito dal concetto che per ogni regione o mercato si avessero mercuriali dei prezzi, così esattamente e regolarmente compilate, da permettere che da esse si potessero direttamente desumere i prezzi del dodicennio 1874-1885 di tutti o dei principali prodotti agricoli.
La pratica oramai compiuta in molte provincie dimostrò invece che sulle mercuriali dei prezzi non può farsi che un parziale assegnamento.
Inoltre, quand’anche si trovino mercuriali di prezzi, o registri di amministrazione, i prezzi conseguenti o non rispecchiano il complesso della produzione locale o devono essere rettificati. Invero i prezzi, per essere adatti agli scopi della stima, devono essere in rapporto alle qualità dei prodotti ed ai vari gradi di bontà dei medesimi, devono tener conto della maggiore o minore distanza dal luogo di produzione a quello di mercato o di smercio. Inoltre i prezzi di mercato risultanti dalle mercuriali devono essere resi netti e comparabili per ogni comune, depurandoli delle spese di trasporto, di pesatura, di facchinaggio, di senseria, di posteggio, le quali sono variabilissime da luogo a luogo secondo gli usi e le consuetudini locali.
È chiaro perciò che i prezzi vengano in gran parte a dipendere non dalla pura e semplice constatazione dei fatti sulla base delle statistiche e delle mercuriali, ma dal criterio peritale degli organi incaricati di fare le stime. Il qual criterio peritale soggettivo ha ancor più largo campo di applicazione quando il prezzo di una derrata debba ricavarsi, per via di analisi, dal prezzo di altri. Il prezzo dell’uva è spesso ricavato da quello del vino o del mosto; quello delle olive dal prezzo dell’olio. Invero non bisogna dimenticare che, nel sistema della legge dell’1 marzo 1886, il reddito fondiario imponibile è quello dato dai prodotti grezzi della terra e non dai prodotti già manipolati, sia pure con una prima elaborazione; è dunque reddito della foglia di gelso e non dei bozzoli, dell’erba o del fieno e non del bestiame o del formaggio o burro, ecc., ecc. Si comprende perciò come questo sistema implichi difficoltà non lievi per la determinazione dei prezzi, quando si conoscano i prezzi dei prodotti derivati e non dei prodotti primi; e come quindi i prezzi di questi ultimi siano soprattutto il risultato di valutazioni peritali e rimangano ben lontani dalla certezza di un dato positivo ed indiscutibile.
III. – La revisione degli estimi fondiari.

Inconvenienti derivanti dal ritardo nella esecuzione del catasto. – Se il catasto ordinato con la legge dell’1 marzo 1886 avesse potuto essere eseguito in una decina d’anni, i risultati sarebbero stati ottimi. Ma la crisi finanziaria ed i conseguenti disavanzi nel bilancio statale pronunciatisi nel decennio 1890-1900 condussero ad economie. La crisi economica verificatasi nel mezzogiorno in seguito alla rottura del trattato di commercio con la Francia (1897) e l’invasione filosserica, resero necessari sgravi per il mezzogiorno. Le sole provincie settentrionali chiesero l’acceleramento delle operazioni catastali, sicché alla fine del 1922 il nuovo catasto era ultimato solo in un terzo circa del territorio nazionale; e gli antichi catasti sperequati vigevano ancora in gran parte.
La revisione degli estimi. – Fu perciò, con decreto 7 gennaio 1923, n. 17, ordinata la revisione generale degli estimi in tutto il regno, sia per le provincie dove si era già attivato il catasto nuovo sia in quelle dove ancora vigevano i vecchi catasti.
Le tariffe d’estimo furono, con procedimento rapido, portate a rappresentare la parte dominicale del reddito medio ordinario continuativo ritraibile dai terreni all’1 gennaio 1914. Dunque le stime oggi non si riferiscono più al dodicennio catastale 1874-1885, ma alla data unica dell’1 gennaio 1914.
Però la quantità del prodotto fu determinata normalmente in base alla media del decennio 1903-1912 e così si tenne conto della media del decennio per la determinazione delle detrazioni dalla rendita lorda e cioè:
 a) le spese di produzione, conservazione e trasporto;
 b) le spese ed i contributi per opere permanenti di difesa, scolo e bonifica;
 c) le spese di manutenzione del fondo e dei fabbricati rurali e di reintegrazione delle colture;
 d) le spese di amministrazione;
 e) una quota per i danni provenienti da infortuni ordinari;
 f) una quota per i danni provenienti da ordinarie inondazioni, frane, lavine, servitù militari, vincolo forestale, fenomeni vulcanici e meteorologici.
Con rapidità grandissima, nel termine di 18 mesi, la rivalutazione fu completata; e il reddito dominicale dei terreni italiani il quale era segnato dai vecchi catasti nella cifra, di significato ignoto perché derivata da metodi ed epoche diversi, di 728 milioni di lire, fu stimato in 1467 milioni di lire oro riferite tutte all’1 gennaio 1914.
Deviazioni dalle regole classiche. – La revisione così rapidamente compiuta, si riferì in gran parte agli estimi sulla base delle colture risultanti dai vecchi e dal nuovo catasto. Quindi se c’è perequazione per quanto si riferisce ai prezzi dei prodotti ed alle spese, può darsi che sussistano sperequazioni perché terreni iscritti come seminativi in catasto possono essere stati trasformati in frutteti o vigneti. Ma l’amministrazione finanziaria va a poco a poco aggiornando le colture, così da avvicinare i dati catastali alla realtà. Aggiungasi che un precedente decreto 16 dicembre 1922, n. 1717, disponeva che i miglioramenti arrecati ai fondi, invece di poter essere tassati solo in seguito ad una revisione generale, potranno d’ora innanzi dar luogo ad una revisione particolare di classamento, da avere effetto però solo dopo cinque anni dall’epoca in cui il possessore dimostrerà di averli introdotti. Si viene anche a ridurre il peso del criterio dell’unicità dell’epoca censuaria, essendoché ora i terreni sono rilevati nello stato di coltura e di destinazione in cui si trovano nell’atto del rilevamento. E postoché i catasti sono continuamente aggiornati, si viene così a scemare quella lunga fissità del reddito imponibile che era uno dei vantaggi principali del catasto. In concreto, tuttavia e per fortuna, siccome anche la revisioni parziali fondiarie sono opere di lunga lena, l’intervallo tra la avvenuta miglioria e la sua entrata in tassazione continuerà ad essere sufficientemente lungo.
Misura dell’imposta. – Dopo molte variazioni, che qui non importa esaminare, con effetto dall’1 gennaio 1925, in virtù del r. decreto legge 16 ottobre 1924, n. 1613, l’aliquota dell’imposta erariale sui terreni fu fissata al 10% dell’estimo riveduto a norma del citato decreto 7 gennaio 1923.
Capitolo IV
L’imposta sui fabbricati

Oggetto dell’imposta sui fabbricati. – L’imposta sui fabbricati ha per oggetto i frutti periodici dell’ente «fabbricato» dedotte le spese, ossia il reddito netto che i proprietari ricavano dai fabbricati ad uso di abitazione, di ufficio o di negozio. Ed ha per soggetto i possessori dei fabbricati medesimi. Tale sua caratteristica si deduce chiaramente dalla legge organica del 26 gennaio 1865, n. 2136, modificata successivamente con leggi 11 agosto 1870, n. 5784, 6 giugno 1877, n. 3864, 11 luglio 1889, n. 6214, r. decreto 30 dicembre 1923, n. 3069, e r. decreto legge 16 ottobre 1924, n. 1613, ecc.
I. – Oggetto dell’imposta sui fabbricati e confini tra questa e l’imposta di ricchezza mobile.
L’imposta sui fabbricati colpisce i fabbricati destinati ad uso di abitazione. – Infatti storicamente l’imposta sorse quando il reddito assunse una fisonomia particolare, autonoma, in guisa che dall’ente «fabbricato» derivò il reddito «fitto o pigione» dei fabbricati, reddito a sé stante, che può essere ottenuto senza bisogno dell’esercizio di altre industrie od occupazioni. Razionalmente intanto è concepibile un’imposta autonoma in quanto abbia un oggetto proprio; come è appunto il caso dei fabbricati costrutti a scopo di abitazione, di ufficio, di negozio, il cui «frutto», caratteristico e periodico, è appunto la pigione o fitto. Teoria e pratica legislativa si accordano nell’affermare che oggetto dell’imposta sui fabbricati è il reddito delle case d’abitazione o destinate a negozio od ufficio e feconde di fitti.
Fabbricati che sono necessario complemento dell’esercizio di altre industrie. – Dubbi ragionevoli sorgerebbero quando si volesse estendere il campo di tassazione dai fabbricati destinati ad uso di abitazione o di commercio, ai fabbricati destinati ad uso industriale. Per i primi il fitto è la regola; per i secondi il fitto è l’eccezione, sicché dalle eccezioni non si saprebbero ricavare regole per la determinazione del fitto della maggior parte dei fabbricati usati a scopo d’industria dal proprietario stesso. Ma soprattutto i fabbricati industriali diventano fruttiferi solo se essi vengono messi in combinazione con altri fattori. Donde logica discende l’illazione che, essendo unico il reddito, del fabbricato e dell’industria insieme congiunti, unica deva essere la tassazione.
L’esenzione di fabbricati rustici. – La qual verità fu accolta subito dal legislatore per quanto si riferisce ai fabbricati rustici. Per i quali si disse: quale è il reddito di un fabbricato inserviente ad un fondo agricolo? Consiste nell’incremento che dà al reddito fondiario.
Il fabbricato rurale che serve ad un fondo rustico non ha un reddito per sé stante, come fabbricato; il reddito suo è congiunto, connesso, con il reddito del terreno; si tratta di beni che in economia si chiamerebbero beni complementari l’uno dell’altro; che non si possono pensare separatamente.
Perciò si è detto: il reddito del fabbricato è un reddito che si confonde, che è parte del reddito del terreno e siccome questo è già scolpito dall’imposta fondiaria è inutile far duplicati. Si dichiarino perciò esenti da imposta i fabbricati rustici che non hanno un reddito autonomo né pur minimo, ma l’hanno solo congiunto con il reddito fondiario.
In verità i fabbricati rustici legalmente sono esenti da ambedue le imposte; sul terreni e sui fabbricati. Infatti la legge 1 marzo 1886 sulla perequazione fondiaria esclude da tassazione l’area occupata dal fabbricato rustico e sue immediate adiacenze, e di nuovo l’art. 2 della legge 26 gennaio 1865 li esenta dall’imposta fondiaria sui fabbricati. Ma è evidente che l’esclusione dall’imposta fondiaria sui terreni è solo formale ed ha per iscopo di impedire che dei fabbricati rustici si tenga conto due volte: prima nell’estimo delle particelle coltivate e poi di nuovo della particella destinata ad uso di fabbricato rustico. È chiaro che nell’estimo delle particelle destinate alla coltura si tiene conto del fatto che la particella stessa è servita da una casa vicina o lontana, che più o meno forti sono le spese di manipolazione e di trasporto a seconda della distanza della casa rustica. Quindi questa è già entrata come fattore inseparabile nella determinazione del prodotto del terreno e delle sue spese, né se ne può tenere calcolo a parte per tassarla di nuovo con l’imposta sui terreni o con quella sul fabbricati.
Requisiti del fabbricato rustico esente. – La esenzione è però naturalmente limitata in modo stretto ai fabbricati che hanno le caratteristiche di rustici. Le quali caratteristiche sono le seguenti:
 a) in primo luogo essi devono servire per abitazione di coloro che attendono col proprio lavoro alla manuale coltivazione della terra. Ciò per escludere quelle case che, pur trovandosi in campagna, anzi sul fondo stesso, servono per l’abitazione del proprietario;
 b) in secondo luogo sono considerati come fabbricati rustici anche le parti del fabbricato rurale che servono al ricovero del bestiame. Qui però bisogna definire qual sia il bestiame che può essere ricoverato in un certo fabbricato per dare ad esso il carattere di fabbricato rustico. Occorre cioè che quel bestiame serva alla coltivazione del fondo o si alimenti della produzione del fondo. Se invece si trattasse di bestiame che non serve alla coltura del fondo ed è alimentato con foraggi provenienti dall’infuori, il fabbricato destinato al suo ricovero sarebbe soggetto all’imposta sui fabbricati. Il proprietario invero che abbia un fabbricato destinato al ricovero di bestiame che non serve alla coltura ed è alimentato con foraggi provenienti dal di fuori, deve essere sottoposto ad imposta, perché in tal caso il fabbricato è destinato all’industria autonoma dello allevamento del bestiame senza alcun nesso logico col fondo;
 c) inoltre sono considerati rustici quei fabbricati che servono alla conservazione ed alla prima manipolazione dei prodotti del fondo nonché alla custodia e conservazione delle macchine che servono alla coltivazione dei terreni medesimi. Sono tali i fienili, i porticati per gli attrezzi rurali, le cantine per il vino, il frantoio per le olive, che servono per la prima manipolazione e non per l’elaborazione ulteriore. Si comprende come sia considerato fabbricato rustico la cantina od il frantoio perché senza questo fabbricato il produttore non potrebbe vendere il prodotto del fondo. Non si considera invece come fabbricato rustico quello che sia destinato non alla fabbricazione del vino, ma alle sue ulteriori trasformazioni in altre sostanze, come liquori, spiriti, ecc., poiché queste sono manipolazioni industriali indipendenti dalla proprietà del suolo. Sarà considerata come prima manipolazione non solo la fabbricazione del vino usuale corrente, ma anche la fabbricazione di vini fini di tipo speciale che sono la caratteristica e l’unica produzione di certe località, come il marsala, il barolo, anche se questa manipolazione abbia già carattere industriale e richieda cognizioni tecniche speciali. Non si potrebbe certo obbligare un produttore di barolo o di marsala a fare un prodotto inferiore per non procedere oltre la prima manipolazione;
 d) condizione necessaria all’esenzione dei fabbricati rustici è che essi appartengano allo stesso proprietario del terreno a cui servono. Non è necessario invece che la casa sia situata sul fondo stesso e nemmeno vicina ad esso.
Con leggi 15 luglio 1906, n. 357 e 9 luglio 1908, n. 434, fu allargato il campo dell’esenzione dai fabbricati, che sono per il proprietario uno strumento di coltivazione dei terreni, ai fabbricati anche situati in centri abitati e destinati ad abitazione di contadini che ne siano i proprietari e che ritraggano l’abituale sostentamento dalla manuale coltivazione di terreni altrui. Tale esenzione non muove però dal criterio di esentare i fabbricati che non danno un reddito autonomo, ma quei fabbricati che appartengono a persone che posseggono un reddito piccolo. Criterio personale dunque e non reale. Notisi che tale esenzione è limitata ai contadini delle provincie meridionali, della Sicilia e della Sardegna.
Fabbricati destinati ad uso di opificio industriale. – Ma non dei soli terreni i fabbricati possono essere un bene complementare strumentale. Anche per i fabbricati inservienti ad opificio o manifattura si sarebbe dovuto applicare il medesimo concetto che per i fabbricati rustici. Come si era riconosciuto che il fabbricato rustico non dà reddito per se stesso, ma solo in quanto è congiunto con una certa quantità di terreno, così il legislatore logicamente avrebbe dovuto riconoscere che per il fabbricato industriale non esiste alcun reddito autonomo a sé. Infatti, se non vi è esercitata l’industria, un fabbricante industriale non può essere atto ad altra cosa. Anzi il carattere di complementarità è tale che un dato fabbricato non può servire indifferentemente a parecchie industrie; sarebbe assurdo destinare un mulino alla fabbricazione della seta o viceversa. Ogni edificio industriale insomma, per essere utilizzato al massimo della sua potenzialità, ha bisogno di un’industria determinata.
Ragioni pratiche per cui si erano voluti tassare i fabbricati industriali con l’imposta sui fabbricati. – Invece si è voluto per lunghi anni, per motivi pratici, dar vita a due entità fittizie, teoricamente assurde. La prima è quella di un fabbricato industriale che dà reddito per sé stante astraendo dall’industria entro esso esercitata. la seconda quella di un’industria che dà reddito per sé stante astraendo dal fabbricato industriale. Sono queste, ripeto, due finzioni, due astrazioni teoriche. Non esiste invero industria senza fabbricato industriale e fabbricato industriale senza industria.
Le ragioni per cui si è andato contro a questa chiara premessa erano due:
 1) Anzitutto l’imposta sui fabbricati industriali era stabilita in un’aliquota più elevata di quella la quale gravava sul reddito industriale di R.M.
 2) Un’altra considerazione pratica è quella riferentesi agli enti locali che avevano diritto di sovraimporre centesimi addizionali alla imposta fondiaria e alla imposta sui fabbricati; ma per l’imposta di ricchezza mobile solo i comuni avrebbero avuto il diritto di servirsi di una imposta sugli esercizi. Quindi, se il reddito del fabbricato industriale fosse stato conglobato col reddito industriale, gli enti locali non avrebbero praticamente avuto modo di colpirlo.
Difficoltà di trovare la linea di distinzione tra fabbricato industriale ed industria.- Certo però la distinzione poneva problemi singolari. Dove finisce il fabbricato industriale? Che cosa sarà considerato come fabbricato e che cosa come industria? Il fabbricato comprenderà solo tetto, mura e pavimenti, ovvero qualche cosa di più? La tecnica moderna costruisce fabbricati che non sono di mattoni e di calce, ma di cemento armato, di ferro, di acciaio, ecc.; quindi gli antichi criteri distintivi non bastano più. Inoltre vi sono certe parti che ordinariamente si intende facciano parte del fabbricato industriale, ma sono anche strumenti dell’industria.
Per es., una caldaia in parte è rivestita di mattoni e di cemento ed è incastrata entro il muro: il suo reddito sarà reddito del fabbricato o reddito dell’industria?
Ecco quali problemi fece sorgere l’irrazionale criterio seguito dal nostro legislatore.
I criteri seguiti dal legislatore italiano. – Il legislatore aveva cercato di fornire all’uopo definizioni. Infatti l’art. 5 della legge 26 gennaio 1865 diceva: «saranno considerati come opifici tutte le costruzioni specialmente destinate all’industria e munite di meccanismi o apparecchi fissi». Che valore si doveva dare a queste ultime parole? Erano messe lì per servire da contrassegno del fabbricato industriale, senza però che si intendesse di includere i meccanismi ed apparecchi fissi nel concetto del fabbricato industriale, ovvero erano adoperate per indicare che i meccanismi ed apparecchi fissi fanno parte integrante del fabbricato? Evidentemente gli industriali preferivano la prima interpretazione, gli agenti del fisco seguivano la seconda. I primi affermavano che le parole «munite di meccanismi ed apparecchi fissi» furono inserite per indicare che dove esistevano quei tali meccanismi ed apparecchi, ivi era il fabbricato industriale e non quello civile. Quindi, poiché quelle parole avevano un significato puramente di connotato, il fabbricato munito di meccanismi ed apparecchi fissi era bensì un «fabbricato industriale»; ma essi meccanismi per il reddito che davano dovevano essere sottoposti all’imposta di ricchezza mobile e non a quella sui fabbricati. Il fisco invece, favorito dalla giurisprudenza, opinava in contrario che quelle parole «munite di meccanismi ed apparecchi fissi» erano state inserite per indicare che il fabbricato industriale comprendeva altresì essi meccanismi ed apparecchi fissi.
La questione fu risolta con la nuova legge dell’11 luglio 1889, che diede un’interpretazione autentica contraria agli industriali, in quanto stabilì all’art. 7 che «nell’accertamento dei redditi degli opifici debbano considerarsi come parte integrante dei medesimi i generatori della forza motrice, i meccanismi e gli apparecchi che servono a trasmettere la forza motrice stessa, quando siano connessi od incorporati nel fabbricato. Non sono da considerarsi come tali le trasmissioni o le macchine lavoratrici».
Venne perciò fatta una grande distinzione: da una parte il fabbricato con gli apparecchi che generano o trasmettono la forza motrice. Tutto ciò era fabbricato, era parte integrante di esso e doveva essere colpito con l’imposta sui fabbricati.
Dall’altra parte si aveva l’industria, con i fattori produttori del lavoro, dell’intelligenza direttiva, delle materie prime e di tutte le macchine lavoratrici, delle macchine che servono cioè a manipolare la materia prima introdotta nella fabbrica. Tutto ciò è colpito coll’imposta di ricchezza mobile (categ. B).
Era tuttavia difficilissimo trovare una linea di distinzione precisa, netta tra il fabbricato da una parte e l’industria entro esso esercitata dall’altra. Onde sempre nuove questioni tra il fisco, il quale voleva estendere il concetto di fabbricato industriale ed il contribuente il quale voleva restringerlo, il primo per applicare e il secondo per sottrarsi all’imposta sui fabbricati e rifugiarsi sotto le ali protettrici dell’imposta di ricchezza mobile, che, vista di malocchio per ogni altro verso, qui diventava simpatica ai contribuenti.
Nuovo sistema del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3069. – Le critiche sopra fatte al metodo fino allora seguito sembrarono persuasive al legislatore il quale col decreto sopra citato dichiarò che il reddito degli opifici industriali non dovesse più, a partire dall’1 gennaio 1925, essere assoggettato alla imposta ed alle sovrimposte fabbricati, ma alla imposta mobile, quale parte del complessivo reddito di categoria B derivante dall’industria esercitata nell’opificio stesso. Vengono meno così le sottili questioni che si facevano in conseguenza della artificiosa distinzione tra fabbricato ed industria. Ove il fabbricato appartenga ad una persona diversa dall’esercente l’industria, il reddito sarà stimato a parte – cosa in tal caso facile – e iscritto al nome del proprietario nella categoria B dell’imposta di ricchezza mobile.
Alle provincie ed ai comuni si consentì, con provvedimento transitorio, di non essere danneggiati dal trapasso dei fabbricati industriali all’imposta mobiliare. L’imposta sulle industrie e sul commercio consentì loro in seguito opportuno permanente indennizzo.
Concetto del fabbricato industriale. – è considerato fabbricato industriale od opificio e quindi stralciato dal catasto fabbricati:
 a) quel fabbricato il quale, essendo destinato ad industria o manifattura, sia munito di apparecchi o meccanismo inamovibili per necessarie infissioni; o formato in guisa da non poter servire ad altri usi industriali o manufatturieri, oltre a quelli a cui è destinato;
 b) appartenga alle seguenti categorie di opifici per disposizione di legge: ponti soggetti a pedaggi, mulini, bagni natanti, ponti volanti, chiatte, scali ed ogni altra costruzione galleggiante assicurata a punti fissi del molo.
II. – Valutazione del reddito dei fabbricati e l’imposta decima.

Come dovrebbe valutarsi il reddito dei fabbricati. – Il reddito netto dovrebbe essere calcolato col solito procedimento dell’analisi del prodotto lordo e di detrazione delle spese, come si fa per i terreni col metodo catastale. Dovrebbe cioè farsi l’analisi del prodotto lordo che si presume pagato dagli inquilini o affittuari e da quel prodotto lordo detrarre le spese che ad esso sono inerenti, in guisa da ottenere il reddito netto.
Perciò se si dovesse procedere correttamente, si dovrebbe formare un catasto delle case. In esso dovrebbe essere descritta e raffigurata, nelle sue varie parti, ogni casa. Si dovrebbe compiere un’analisi del reddito lordo di ogni casa e delle spese relative. L’analisi potrebbe essere facilitata, compiendola per gruppi di case che si assomiglino: per posizione, esposizione, vicinanza a stabilimenti industriali ed uffici pubblici, metodo di costruzione, classe di inquilini, ecc., ecc.
Quale sia stato invece il sistema seguito dal legislatore italiano: si accerta prima il reddito lordo. – Tutte queste operazioni sono parse troppo complicate al legislatore italiano, sì ch’egli si è limitato a dire che debba essere accertato il reddito lordo della casa.
Infatti il contribuente tenuto a presentare dichiarazione la quale dica:
 a) il cognome, il nome, la paternità, la residenza del possessore privato o la denominazione dell’ente possessore, nonché il titolo del possesso;
 b) la situazione del fabbricato;
 c) la natura, l’uso e la destinazione sua;
 d) il numero dei piani e dei vani (per ogni piano);
 e) il numero di mappa;
 f) la data in cui la costruzione divenne abitabile o servibile;
 g) l’ammontare annuo del reddito lordo. E questo si determina a norma:
o del fitto reale;
o se il fabbricato non sia affittato, ma sia ordinariamente capace di dare un reddito effettivo, a norma del fitto presunto, per paragone al reddito reale di fabbricati posti in condizioni analoghe;
o se il fabbricato, per la sua speciale natura o destinazione, non sia comparabile ad altri consimili (ospedali, collegi, teatri, luoghi di delizie, ecc.), a norma del reddito che si ricaverebbe affittandoli per il loro stato o per altro uso di cui potrebbero essere capaci.
Detrazione delle spese. – Dal reddito lordo viene detratta una percentuale per le spese di manutenzione, riparazione, deperimento, amministrazione, assicurazione ed altre perdite a cui il proprietario può andar soggetto. La percentuale sino al 31 dicembre 1927 era di ¼ del reddito per i fabbricati ordinari e di ⅓ per gli opifici. Stralciati gli opifici dal catasto e dall’imposta fabbricati, in virtù dell’art. 5 del R.D. 12 agosto 1927, n. 163, e con effetto dall’1 gennaio 1928, tale detrazione fu determinata in ⅓ del reddito lordo per tutti i fabbricati soggetti ad imposta.
Conseguenza della detrazione uniforme del terzo. – Ciò ha prodotto la conseguenza che due case di abitazione le quali danno amendue un fitto lordo di 10.000 lire, pagano amendue l’imposta su 6666 lire, sebbene i veri redditi netti possano forse essere di 8000, 7000 e 6000 lire.
L’imposta italiana sui fabbricati in apparenza perciò è una imposta uniforme sul reddito netto; in realtà è uniforme solo sul lordo e variabile sul netto.
Poiché il reddito netto legale non ha nessuna importanza; è una finzione del legislatore che non esiste nella realtà, nella quale esistono solo i redditi lordi di 10.000 lire od i netti effettivi di 8000, 7000 e 6000 lire.
Ragguagliata a questi ultimi, l’aliquota dell’imposta è variabile. Noi conosciamo già il nome di questo tipo d’imposta: decima; e altrove ne abbiamo esaminati i difetti ed i danni (cfr. Principii, libro secondo, cap. IV).
Difetti e danni del metodo della decima applicato all’imposta sui fabbricati. – I medesimi inconvenienti allora segnalati per la decima sui terreni si riscontrano per la decima sui fabbricati vigenti in Italia.
Innanzi tutto l’imposta è sperequata. L’imposta deve ragguagliarsi al reddito netto e non al lordo; e sul reddito netto effettivo le differenze possono essere notevolissime.
Inoltre l’imposta decima danneggia i fabbricati che costano molto per spese annue di amministrazione, ecc., ecc., e in genere si può dire che la proporzione dell’imposta al reddito netto effettivo, la quale indica la vera pressione dell’imposta sui contribuenti, tanto più cresce quanto più si elevano le spese effettive in confronto al reddito lordo. In altre parole l’imposta decima è più pesante per le case dove le spese sono gravi che per le case in cui le spese sono leggiere; e quindi favorisce la costruzione delle seconde a danno delle prime.
Ciò è già in se stesso dannoso, perché l’imposta non ha per ufficio di favorire più l’uno che l’altro impiego di capitali; anzi deve mantenersi imparziale dinanzi alle diverse maniere di agire del contribuente. Ma il danno cresce, quando si pensa che le case ad alte spese sono le case destinate ad abitazione di famiglie operaie e numerose, mentre le case a basse spese sono abitate da famiglie ricche e scarse.
III. – Esenzioni e sospensioni di imposta.

L’esenzione per il biennio iniziale. – Il legislatore italiano si è trovato però dinanzi a taluni casi di spese importanti od eccezionali che in nessuna maniera possono essere contenute nel terzo di detrazione normale.
Ed in questi casi ha concesso sospensioni o condoni temporanei d’imposta. Uno dei casi più importanti è quello del periodo iniziale di tempo dopo la costruzione della casa. Nei primi anni in cui una casa è costrutta, non sempre si riesce ad affittarla del tutto; ci sono perdite iniziali da sopportare, spese di avviamento dell’industria edilizia da ammortizzare.
Perciò il legislatore saggiamente ha voluto in generale che le case civili fossero assoggettate ad imposta solo dopo due anni dalla data in cui lo stabile fu dichiarato abitabile.
Esenzioni di lunga durata. – Tale esenzione è l’originaria stabilita nella legge fondamentale del 165 e sempre dopo d’allora conservata. Circostanze posteriori, particolarmente verificatesi in occasione della guerra, persuasero il legislatore ad estendere notevolmente le esenzioni allo scopo di incoraggiare le costruzioni. Epperciò si hanno ora, in aggiunta a quella generalissima biennale ora detta e che si riferisce a tutte le costruzioni le quali non godano di particolari vantaggi, le seguenti esenzioni temporanee:
 a) trentennale a favore dei fabbricati destinati ad uso abitazioni civili, alberghi, uffici, negozi e relative sopra elevazioni, la cui costruzione sia stata iniziata e condotta a termine fra il 5 luglio 1919 ed il 31 dicembre 1926 sia direttamente dai comuni, sia a mezzo di Istituti autonomi per le case popolari e non abbiano goduto alcun contributo dallo stato;
 b) venticinquennale, dal primo giorno in cui si siano resi abitabili ed utilizzabili, a favore dei fabbricati indicati sotto a, da chiunque siano costruiti, privati o società di qualsiasi specie, la cui costruzione sia stata iniziata fra il 5 luglio 1919 ed il 25 agosto 1925 e siano stati resi abitabili od utilizzabili non oltre il 31 dicembre 1928 (R.D. del 30 agosto 1925, n. 1548). Col R.D. 23 gennaio 1928, n. 28, l’esenzione medesima è stata estesa ai fabbricati, di cui si sia iniziata la costruzione dopo il 25 agosto 1925, purché siano dichiarati abitabili dalle competenti autorità comunali entro il 31 dicembre 1935 e rientrino nelle categorie seguenti:
o 1) costruzioni e relative sopraelevazioni di fabbricati ad uso di abitazione civile, anche comprendenti negozi, purché non abbiano carattere di lusso facilmente riconoscibile, da chiunque, privati, società od enti, costruiti;
o 2) costruzioni intraprese da enti pubblici ad uso di alberghi popolari;
o 3) ricostruzione di case dichiarate inabitabili;
o 4) alloggi ricavati dalla demolizione e ricostruzione di locali terreni già adibiti ad uso di negozio, botteghe, magazzini ed abitazioni infette e malsane. L’inabilità, di cui ai n. 3 e 4, deve essere dichiarata dall’autorità competente e la trasformazione preventivamente denunziata all’ufficio delle imposte;
o 5) costruzioni compiute od acquistate dai comuni od enti autonomi per le case popolari ed economiche le quali non avessero potuto precedentemente essere ammesse all’esenzione perché non soddisfacevano ai requisiti di limitazione nel numero dei vani, di prezzo di affitto e diversi che al tempo della loro costruzione erano richiesti per dar luogo all’esenzione. Tali fabbricati acquistano, purché non siano di lusso, il diritto alla esenzione venticinquennale, senza alcun diritto però a rimborso del già pagato;
 c) decrescente (per 16 anni) a favore degli edifici esclusi dalla esenzione venticinquennale disposta dal R.D. 30 agosto 1925, n. 1548, né da quella disposta dal R.D. 23 gennaio 1928, n. 20, perché, essendone stata iniziata la costruzione posteriormente al 25 agosto 1925, appartengono alle categorie degli alberghi di lusso (non popolari), edifici ad uso esclusivo di negozi od uffici. Questi edifici, se ultimati entro il 31 dicembre 1940, godranno di una esenzione, la quale, cominciando dall’essere totale per i primi due anni, si limiterà a riguardare nel terzo anno i 14/15 del loro reddito, nel quarto i 13/15, e così via crescendo di anno in anno di 1/15 la quota tassata del loro reddito, cosicché al 17esimo anno essi saranno tassati sull’intiero loro reddito;
 d) quindicennale, a favore delle case economiche e popolari costruite da cooperative anteriormente al 5 luglio 1919 (legge 19 luglio 1914, n. 727);
 e) decennale, a favore delle case ad uso di abitazione e relative sopra elevazioni, di cui la costruzione sia stata iniziata tra il 5 luglio 1918 ed il 4 luglio 1919 ed ultimata non oltre il 31 dicembre 1925;
 f) quinquennale, per i fabbricati riparati o ricostruiti in seguito a danni di guerra.
Esenzioni permanenti. – Oltre a quella per le costruzioni rurali, la quale, sebbene sia tale formalmente, sostanzialmente non è esenzione, ma riconoscimento che non si tratta di ente produttivo di reddito, sono esenti permanentemente:
 1) i fabbricati destinati all’esercizio dei culti;
 2) i cimiteri con le loro dipendenze;
 3) i fabbricati demaniali dello stato costituenti le fortificazioni e le loro dipendenze;
 4) i fabbricati dello stato, delle provincie e dei comuni, destinati ad uso pubblico;
 5) i fabbricati costituenti la dotazione della corona;
 6) i fabbricati di proprietà degli stati esteri, in quanto servono ad uso della loro rappresentanza;
 7) gli edifizi annessi alle basiliche patriarcali di S. Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e S. Paolo, il palazzo pontificio di Castel Gandolfo ed altri edifici contemplati dai trattati lateranensi.
Sgravi per sfitti. – Causa di perdite rilevanti per il proprietario è lo sfitto. Del quale trattandosi di sfitti parziali o di breve durata, già si tiene conto nella deduzione del terzo. Ma sorge il legittimo quesito, se queste detrazioni possano tener conto degli sfitti duraturi per lungo tempo ed estesi a tutto il fabbricato. Ed anche qui correttamente il legislatore, con l’art. 9 della legge 11 luglio 1889, prescrisse doversi accordare il rimborso dell’imposta quando un fabbricato civile destinato ad affitto rimanga intieramente non affittato pel corso non interrotto di un anno. Come si deduce dal contesto della norma ora citata:
 1) l’esenzione per sfitto si concede solo per i fabbricati destinati ad essere affittati, quindi non per le case o palazzi abitabili normalmente dal proprietario medesimo; né per i teatri, i casini di campagna, i castelli, i luoghi di delizie e di villeggiatura, non destinati ad affitto;
 2) lo sfitto deve essere assoluto ossia deve verificarsi per tutto un dato fabbricato civile, spettante allo stesso proprietario. Quindi se una casa composta di 10 appartamenti ne ha nove sfitti ed uno solo affittato o magari abitato dallo stesso proprietario, non può fruire dell’esenzione per sfitto;
 3) la durata dello sfitto e della inattività deve essere di un anno non interrotto. A provare questa condizione il proprietario deve presentare domanda di sgravio entro 30 giorni da quello in cui il fabbricato cessò di essere affittato; ed uguale denuncia deve essere presentata durante il mese successivo a quello durante il quale il fabbricato non venne affittato, né occupato.
Contro questa condizione e contro l’altra che lo sfitto sia totale si mossero molte lagnanze dai proprietari, i quali non del tutto a torto si lamentano di dover pagare imposta anche quando ottengono solo metà od un terzo dei fitti consueti. D’altro canto fare larghe concessioni di condoni per sfitti potrebbe incoraggiare a tenere i locali vuoti nella speranza di ottenere fitti più elevati.
IV. – Revisioni ed aliquota dell’imposta.

Revisione generale dell’imponibile. – Un difetto pratico dell’imposta fu che le revisioni del reddito imponibile si susseguirono a troppo lunga distanza di tempo. Dopo quella ordinata nel 1889 e compiutasi nel 1890, più non si era fatta alcuna revisione generale. Quindi gli imponibili erano sperequati risalendo gli uni al 1890, gli altri ad epoche posteriori a mano a mano che i fabbricati nuovi entravano in tassazione. La sperequazione era stata aggravata dalla guerra e dalla conseguente svalutazione monetaria.
Perciò con il R. decreto 30 dicembre 1923, n. 3069, si ordinò una rivalutazione generale provvisoria, col seguente criterio:
Per ogni 100 lire di reddito imponibile accertato nel periodo Il nuovo reddito imponibile provvisorio fu determinato in lire
1 gennaio 1891 – 31 dicembre 1910 400
1 gennaio 1910 – 31 dicembre 1918 350
Anni 1919 e 1920 250
Anni 1921 e 1922 150
Dall’1 gennaio 1932 in poi 100
La ragione della scala decrescente si è che quanto più noi ci avviciniamo all’epoca presente, tanto più gli imponibili accertati sono vicini al vero.
Anche per i fabbricati riveduti nel 1923 e 1924 si applicò l’aumento come sopra, nel caso che il reddito stabilito per revisione fosse stato inferiore a quello portato dall’applicazione dei suddetti coefficienti. La rivalutazione ebbe effetto dall’1 gennaio 1925.
Trascorso un quinquennio dalla rivalutazione generale provvisoria si sarebbe dovuto procedere ad una revisione generale, la quale scadeva nel 1930. Ma anche questa revisione generale, per la gravità e difficoltà di essa, per tutto il territorio dello stato, fu rinviata.
Revisioni parziali. – Si preferisce ricorrere a revisioni parziali per singoli fabbricati, e queste si fanno quando concorrano le seguenti due condizioni:
 1) una causa con effetto continuativo. – Per essa deve intendersi un fatto non accidentale, e se anche non permanente, almeno di lunga durata: restauri, incremento o impoverimento della zona in cui il fabbricato esiste, aumento o decremento della popolazione, nuova o speciale destinazione delfabbricato;
 2) un aumento o una diminuzione di almeno ⅓ del reddito accertato. – Il contribuente ha l’obbligo di denunciare gli aumenti e la facoltà di denunciare le diminuzioni. In principio la variazione ha effetto dall’1 gennaio dell’anno successivo a quello in cui si deve effettuare la revisione.
Aliquota dell’imposta. – Eseguita la rivalutazione provvisoria, l’aliquota dell’imposta erariale, ossia spettante allo stato, fu fissata nel 10% del reddito rivalutato.
Capitolo V
L’imposta sui redditi di ricchezza mobile

Preliminari. Come essa sia una imposta generale residuale sui redditi. – L’imposta sul redditi di ricchezza mobile, benché ultima venuta in ordine storico (1864) e logico, è diventata la più importante delle tre imposte italiane sui redditi. Il qual fatto è dovuto al crescere dei redditi di lavoro e degli impieghi di capitali non investiti in terreni o fabbricati.
L’agricoltura si è industrializzata; e quindi sono cresciuti i redditi degli affittaiuoli e degli altri coltivatori della terra, redditi che, non essendo dominicali, non sono colpiti dall’imposta sui terreni. Commerci, industrie hanno importanza assai più grande d’un giorno; le popolazioni che si affittiscono nelle città e nei borghi industriali hanno redditi professionali, impieghi pubblici e privati, di lavoro, ecc., ecc., che non derivano dalla proprietà terriera od edilizia. Si sono moltiplicate le forme di impiego di risparmio; il capitalista oltre che terre, case, oggi può far mutui, comprare azioni, obbligazioni, titoli di stato. Di qui la necessità di un’imposta la quale colpisca tutti gli svariatissimi redditi che non rientrano nel ristretto campo di quei due che sono tassati colle imposte fondiarie.
In sostanza, essa è una vera imposta generale sui reddito, sul tipo della income tax inglese; è, cioè, un conglomerato di parecchie imposte, le quali vogliono esaurire l’intiero campo tributario, nulla lasciando immune da tassazione. Salvo due eccezioni: i redditi dominicali dei terreni e dei fabbricati, per cui esistono già due organismi speciali tributari. Ma ogni qualvolta i terreni ed i fabbricati medesimi diano luogo ad un reddito – sia quello del fittaiuolo o del segretario di case, o dello speculatore su terreni o case – che non sia già colpito dalle due imposte fondiarie, essi soggiacciono all’imposizione mobiliare. L’imposta di ricchezza mobile è dunque, quando non si dimentichi la contemporanea esistenza delle altre due imposte, una vera imposta generale sui redditi; e può anche essere detta residuale, perché vuol colpire tutti i redditi, che non siano stati tassati dallo altre due imposte.
Essa è retta principalmente dal R.D. 24 agosto 1877, n. 4021, che approvò il testo unico della legge sull’imposta di ricchezza mobile; dal R.D. 11 luglio 1907, n. 560, che approvò il regolamento per l’applicazione dell’imposta; del R.D. 4 gennaio 1923, n. 16, sull’applicazione dell’imposta sul reddito agrario; dal R.D. 30 dicembre 1923, n. 3070, che modifica l’aliquota di R.M.
I. – Soggetto dell’imposta di ricchezza mobile.

Persone fisiche e persone giuridiche come soggetti d’imposta. – La questione del soggetto d’imposta aveva poca importanza per le due imposte fondiarie; poiché dovendosi pagare il tributo su tutte le terre e gli edifici esistenti nel regno, nulla poteva sfuggire all’imposta, qualunque definizione si fosse data del soggetto dell’imposta.
Invece i redditi mobiliari sono spessissimo legati alla persona di chi li produce, e, scomparsa od ignorata la persona, scompaiono o rimangono ignoti altresì i redditi; ed è perciò evidentemente necessario definire quali sono i soggetti tenuti a pagare l’imposta di ricchezza mobile.
Il problema principale è il seguente: sono soltanto le persone fisiche od anche le persone giuridiche e gli altri enti creati o riconosciuti dal legislatore e non aventi vita fisica, gli obbligati a pagare l’imposta. La risposta al quesito derivava dalla natura del tributo. Questa non è già un’imposta personale sul reddito, esatta all’arrivo del reddito presso chi ne potrà godere; nel qual caso sarebbe stato logico che percuotesse solo le persone fisiche, le quali unicamente possono godere la ricchezza. Essa invece è una imposta sulle diverse categorie di reddito, esatta, possibilmente, alla partenza del reddito presso chi lo paga. Onde convenne dichiarare che soggetto dell’imposta potessero essere tanto le persone fisiche, quanto le persone giuridiche, in guisa da poter imporre l’obbligo tributario anche agli enti o società che pagano il reddito alle persone fisiche.
Epperciò l’art. 2 della legge fondamentale (del 24 agosto 1877, n. 4021) afferma: «Ogni individuo od ente morale, sia dello stato che straniero, è tenuto all’imposta sui redditi della ricchezza mobile che ha nello stato».
II. – Il luogo dell’imposta.

Territorialità dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile. – Dal carattere della realtà delle imposte sui terreni e sui fabbricati discende che il loro campo di tassazione è esclusivamente nazionale. Come, invero, sarebbe possibile che lo stato italiano potesse colpire d’imposta il reddito di terreni e di case situati all’estero?.
Poteva dubitarsi se il medesimo concetto dovesse applicarsi ai redditi mobiliari, posseduti all’estero. Ma la discussione parlamentare, soprattutto in senato, mise in chiaro come, essendo l’imposta di ricchezza mobile una imposta reale, la quale colpisce le cose e non le persone, essa può colpire soltanto i redditi che si producono, che hanno la loro provenienza, la loro origine nello stato, non quelli che si producono all’estero.
Prevalse perciò il concetto della territorialità; come è messo in chiaro dall’art. 2 della legge, il quale fa obbligo di pagare l’imposta sui redditi mobiliari che il contribuente ha nello stato. Ed a dirimere i dubbi che potevano sorgere dall’uso della frase avere nello stato, la quale non prescriveva che i redditi originassero ovverosia si producessero nello stato, da qualunque luogo fossero proceduti, valgono altre norme contenute nell’art. 3, il quale esplicitamente spiega doversi colpire da imposta «i redditi procedenti da industrie, commerci, impieghi e professioni esercitate nel regno» ed ancora «gli stipendi, pensioni, annualità, interessi e dividendi pagati in qualunque luogo e da qualunque persona per conto dello stato, delle provincie, dei comuni, dei pubblici stabilimenti e delle compagnie commerciali, industriali e di assicurazione che abbiano sede nel regno».
Controversie intorno alla territorialità della imposta di ricchezza mobile. Produzione e realizzazione del reddito. – Senonché è naturale che, per la dizione non del tutto chiara dell’art. 2, la finanza cercasse di estendere l’applicazione dell’imposta anche ai redditi non strettamente territoriali.
Caso tipico è quello della società per azioni che ha sede in Italia ed esercita imprese all’estero, come cotonifici in Argentina o Brasile, cavi sottomarini in Spagna, commercio di prodotti italiani in Cina, ecc., ecc. Diremo noi che il reddito è tassabile in Italia, perché ivi ha sede la società che gode il reddito e lo ripartisce fra i suoi azionisti ed obbligazionisti, ovvero che il reddito non è tassabile, essendo desso stato prodotto all’estero?
Altrove fu osservato (cfr. Principi, libro secondo, capitolo V, sezione prima), come la dottrina abbia dovuto elaborare un criterio per decidere la questione ed il criterio fu trovato nella distinzione fra ciò che è produzione e ciò che è realizzazione del reddito. La società o ditta con sede in Italia produce in un cotonificio situato in Italia i tessuti che sono poi venduti all’estero? Si reputa che in Italia il reddito sia stato prodotto, perché ivi furono prodotti i tessuti ed il reddito si può dire conseguito integralmente, sebbene ancora sotto la forma di prodotto in natura. All’estero si ebbe soltanto la realizzazione del reddito, ossia lo scambio dei prodotti contro il loro equivalente monetario.
Quindi la vendita all’estero non aggiunse nulla al profitto o reddito che già era stato prodotto all’interno.
Ove però questa ditta abbia istituito, per la vendita all’estero, una filiale straniera, con proprio capitale e con proprio personale, allora non può più dirsi che tutto il reddito sia stato ottenuto all’interno; poiché indubbiamente la filiale straniera ha contribuito col proprio lavoro di organizzazione e di propaganda, con i suoi commessi viaggiatori o negozi alla produzione del reddito. La questione è soprattutto di fatto, dovendosi dal contribuente e dalle agenzie delle imposte equamente apprezzare la quota di reddito prodotto in Italia e la quota ottenuta all’estero.
Che dire delle imprese le quali hanno sede in Italia, qui hanno la loro organizzazione centrale, i loro stabilimenti più importanti, i loro organi rispettivi; ma esercitano la loro industria in notevole parte all’estero, in guisa che mal si possa distinguere il reddito prodotto in Italia da quello che fu ottenuto all’estero? è il caso delle imprese di navigazione, le cui navi battano bandiera italiana, i cui cantieri di raddobbo siano in Italia, che abbiano i loro organi di direzione in Italia, ma esercitino la loro industria un po’ in tutti i porti del mondo, pel traffico tra porti italiani ed esteri od anche tra soli porti esteri. Qui fu considerato che solo criterio del decidere poteva essere la prevalenza delle operazioni compiute o concepite, prevalenza che indubbiamente si aveva per l’Italia, sede della società. Le vie del mare essendo aperte a tutte le bandiere, il reddito prodotto dalla navigazione non poteva essere considerato più straniero che nazionale; onde in caso dubbio, venne accolto il criterio della nazionalità.
Le cose dette giovano a risolvere problemi relativi alle ditte o società straniere che vendano in Italia i prodotti, che esse hanno fabbricato all’estero. Poiché in Italia ha luogo solo la realizzazione del reddito già ottenuto all’estero, questo non deve essere colpito coll’imposta italiana. Se però la ditta estera non si contenta di vendere in Italia dietro ordinazioni dirette della clientela italiana, ma istituisce in Italia una filiale, una casa di rappresentanze, una organizzazione qualsiasi intesa a procacciarle ordinazioni, è chiaro che si avrà in Italia la produzione di una quota del reddito, dovuto ad un’opera che si è svolta in Italia, ed in Italia ha contribuito a rendere più alto il reddito della ditta straniera. Valutare la parte di reddito che in Italia si è prodotto è problema di fatto, che dovrà essere deciso a seconda delle particolari circostanze d’ogni caso.
III. – L’oggetto dell’imposta.

Difetto di una definizione autentica. – Il legislatore italiano, trovandosi di fronte a una imposta che ha carattere insieme generale e residuale, si astenne appositamente dal dare una definizione dei redditi di ricchezza mobile che pur intendeva colpire con imposta.
Prima elaborazione del concetto di reddito mobiliare: frutti netti delle Cose mobiliari. – La dottrina concepì il reddito mobiliare come qualche cosa di simile ai redditi fondiari; e come questi sono esclusivamente i frutti netti dominicali delle cose madri, terreni e fabbricati, così si opinò che i redditi mobiliari fossero soltanto i frutti netti delle cose mobiliari o degli enti mobiliari che si reputano produttivi di reddito, mistici dei capitali, imprese industriali e commerciali, professioni, impieghi, ecc., ecc., produttivi di frutti netti periodici simili ai frutti dei terreni e delle case.
Come da lordi i prodotti dell’industria si riducano a netti, sarà più largamente spiegato qui sotto per i redditi industriali e commerciali. Per i redditi professionali saranno da prendersi in considerazione le spese per i locali d’ufficio, per i commessi, aiuti e coadiutori; laddove per i redditi di impiego o di lavoro il lordo è per lo più anche netto, e solo si dovrà tener conto in deduzione dei contributi obbligatori a casse pensioni, previdenza, malattia, infortuni, ecc., quando le detrazioni siano effettivamente eseguite.
Richiede invece qui particolare attenzione il concetto del reddito mobiliare. In generale redditi sono le ricchezze nuove che nascono, o, per così dire, escono da una fonte capace di produrre quei frutti. Di qui la notissima definizione del reddito, dominante nella dottrina italiana ed accolta dal Quarta nel suo Commento alla legge sulla imposta di ricchezza mobile (tre volumi editi dalla Società Libraria), che è il più reputato riassunto della dottrina e della giurisprudenza patria in materia. Reddito si ha quando concorrano tre condizioni:
 1) che vi sia una ricchezza novella;
 2) che tale ricchezza sia in relazione di effetto a causa con una energia o
forza produttiva;
 3) che vi sia la possibilità del ritorno o successiva produzione di altra somigliante ricchezza.
Le quali tre condizioni indubbiamente giovano a raffigurare il concetto del frutto. La prima pone in chiaro che una ricchezza già esistente nel patrimonio del contribuente non può considerarsi frutto tassabile.
La seconda condizione dichiara che la nuova ricchezza ottenuta dal contribuente durante l’anno deve essere l’effetto di una energia o fonte produttiva. Ciò allo scopo di escludere le eredità e le donazioni.
Ma una terza condizione fa d’uopo, secondo i commentatori: non solo deve esistere la connessione della ricchezza nuova con una fonte produttiva, ma deve ancora esistere la possibilità del ritorno della medesima nuova ricchezza, finché la fonte permanga in grado di produrre i medesimi effetti. «Possibilità» diciamo, non «certezza», poiché se è certo che il capitale dato a mutuo ad un certo tasso di interesse frutterà ogni anno gli interessi pattuiti, per il periodo convenuto, non è niente affatto certo che i clienti continuino ogni anno a frequentare la bottega del commerciante Tizio.
Si vuol dire con ciò soltanto essere presumibile, che finché esista la fonte produttiva, azienda commerciale, abbia a riprodursi l’effetto: guadagno industriale, commerciale.
Mentre invece è ignoto se abbiano a ripetersi le eredità, le donazioni, le vincite al gioco, ove anche continui la medesima causa la quale un tempo produsse il risultato di arricchimento. Così se noi supponiamo che la causa produttiva di un’eredità sia il fatto dell’esistenza di uno zio ricco, o della vincita al giuoco il fatto della giuocata, non perciò la eredità o la vincita diventeranno reddito, perché il nipote abbia parecchi zii ricchi o il giuocatore seguiti a giuocare.
Così pure non sarebbe reddito il tesoro trovato in un campo; perché il ritrovamento del tesoro non è l’effetto della forza produttiva del campo che è atto produrre frumento e non tesori e nessuna probabilità vi è che il ritrovamento del tesoro abbia a riprodursi nel medesimo campo.
Anche i proventi avventizi possono essere frutti imponibili. – La condizione della possibilità del ritorno non è però la stessa cosa di quella della necessità del ritorno stesso. Anzi si può dire che il campo più ampio di applicazione dell’imposta mobiliare sia quello dei redditi che non debbono necessariamente ritornare.
Se essa comprendesse solo i redditi che hanno natura costante e regolare e che sono dovuti per contratto, il suo campo di applicazione sarebbe ristrettissimo: potrebbe colpire solo l’interesse dei capitali a mutuo e lo stipendio dei funzionari a stipendio fisso. Invece questi sono, per l’imposta di ricchezza mobile, gli oggetti meno importanti di tassazione. Il suo campo di azione è specialmente quello dei redditi variabili industriali e commerciali, che sono ottenuti da un determinato imprenditore in ragione della sua abilità, del suo spirito di intrapresa, e che cessano collo scadere di quelle qualità o quando il capitale è impiegato male.
Il nostro legislatore è stato esplicito riguardo ai redditi accidentali ed incerti, soprattutto dopoché una men buona formulazione della legge fondamentale aveva lasciato adito a dubbi. Erasi dubitato, ad esempio, se le offerte ed oblazioni per messe e servizi religiosi dovessero essere oggetto dell’imposta di ricchezza mobile, perché si affermava che non erano compenso per un servizio reso, ma erano offerte volontarie fatte a persone che coprivano determinate funzioni di natura tutta spirituale e sacra. Fu osservato che la natura delle funzioni non influisce minimamente sulla sostanza economica della rimunerazione; è sempre un compenso dato da certe persone a certe altre. Qualunque sia la loro natura morale, i guadagni ottenuti dal lavoro dell’uomo sempre devono essere soggetti all’imposta di ricchezza mobile. Il che fu meglio chiarito dall’art. 17 della legge del 1877, il quale dichiarò doversi considerare redditi di ricchezza mobile anche i «proventi avventizi derivanti da spontanee offerte fatte in corrispettivo di qualsiasi ufficio o ministero». Le parole in corrispettivo non stanno ad indicare che i proventi siano ottenuti in corrispettivo convenuto di un lavoro prestato, ché allora non vi sarebbe stato dubbio sulla tassabilità, né i proventi sarebbero derivati da offerte spontanee.
Ma stanno ad indicare che le spontanee offerte tassabili non vanno annoverate tra le donazioni od i doni gratuiti fatti da una persona ad un’altra senza alcun corrispettivo né materiale né morale – ché questi non vanno soggetti all’imposta di ricchezza mobile, ma a quella sulle donazioni; – bensì sono quelle offerte le quali implicano una controprestazione, sia pure di servizi spirituali. Sempre siamo nel campo dei frutti, poiché l’onorario del medico, l’oblazione spontanea fatta al sacerdote, l’offerta al cantante di passaggio (ove praticamente queste ultime potessero essere accertate) sono frutti dell’opera prestata da una persona, sia essa opera spirituale, od umanitaria, o manuale.
La tassazione del prezzo d’avviamento. – Ben presto il concetto di frutto subì un allargamento, in corrispondenza alle correnti d’idee di cui altrove si discorse (cfr. Principii, capitolo VIII, sezione prima). Sia Tizio un commerciante, il quale ha impiegato nel suo negozio un capitale di 100.000 lire per l’arredamento interno, la vetrina, la facciata, la scorta di merci pel magazzino, ecc., ecc. Nei primi anni poco gli frutta il negozio ma via via, per la sua abilità, buona amministrazione, cortesi maniere ed adescamenti diversi alla clientela, questa cresce, sicché il frutto netto progredisce da 3000 a 5000, a 10.000, a 15.000 lire all’anno. L’imposta di R.M., ad es., del 20%, comprese le imposte locali e speciali aggiuntive, sempre colpì questi frutti netti in tutti gli anni in cui si verificarono, riducendoli a 2400, 4000, 8000, 12.000 lire nette. Dopo trent’anni, quando da qualche tempo il reddito netto del negozio si è fissato in media sulle 20.000 lire e queste sembrano durevoli in avvenire, il negoziante decide di ritirarsi dal commercio. qual prezzo cederà egli la sua azienda? Non certo al prezzo di costo di 100.000 lire, ché il cessionario senza fatica otterrebbe il vantaggio dell’abilità e costanza sua. Il prezzo verrà determinato dalle condizioni del mercato, e dal frutto che i capitalisti usano ripromettersi da quella sorta di impieghi. Il reddito non potrà essere solo del 4%, come sarebbe quello di una casa, perché una casa ha lunga durata; mentre un negozio corre molte alee, richiede molta sorveglianza personale, ecc., ecc. Supponiamo che il frutto corrente netto sia dell’8%. Il prezzo di cessione di un negozio che rende 20.000 lire all’anno, ossia 16.000 lire nette da imposte sarà perciò di 200.000 lire. È indubbio che il cedente il quale in ogni anno passato ha già lucrato i redditi o frutti netti di 3000, 5000, 10.000, 20.000 lire e su questi ha pagato tributo, nel momento della cessione, lucra inoltre la differenza fra 100.000 lire, costo iniziale d’impianto del negozio, e 200.000 lire prezzo di cessione. Il qual lucro di 100.000 lire è detto prezzo di avviamento e dalla giurisprudenza prevalente è considerato tassabile .
La tassazione della plusvalenza dei titoli. – Una società ha acquistato 1000 azioni di un’altra società al prezzo di L. 100 spendendo 100 mila lire. In borsa le azioni aumentano di prezzo e sono quotate 150 lire.
Sinché la società non vende le azioni ma le conserva in portafoglio, inventariate al prezzo d’acquisto di lire 100, il maggiore valore è latente e fu giudicato non essere tassabile, alla stessa maniera che non è tassabile il prezzo d’avviamento del negozio, finché il negozio non è ceduto. Ove invece la società venda le azioni a 150 realizzando lire 150.000, il guadagno da latente diventa realizzato e la società è tassata sulla differenza fra 100.000 prezzo d’acquisto e 150.000 prezzo di vendita, ossia su 50.000 lire.
La tassazione della plusvalenza nella vendita degli immobili. – Sono, per la stessa ragione, altresì tassati i guadagni che si fanno nella rivendita dei beni immobili. Se un privato compra per un milione un immobile a scopo di investimento patrimoniale e poi lo rivende per un 1.200.000 lire, il guadagno di lire 200.000 non è considerato reddito, ma semplicemente realizzazione di un «incremento patrimoniale». Se invece l’immobile era stato acquistato da chi si può dimostrare o si presume dedicarsi alla speculazione immobiliare, la plusvalenza è considerata tassabile, quasi frutto di capitale e di lavoro indirizzati al fine della speculazione.
Si presume che vi sia stata speculazione commerciale quando l’acquirente è una società commerciale, la quale ha per oggetto di esercitare il commercio, od è un privato, il quale, colla frequenza dei suoi atti di compravendita, dimostra di dedicarsi al commercio degli immobili.
Natura delle tassazioni ora dette. – Se bene si osserva, la tassazione dei prezzi di avviamento di negozi od aziende commerciali, o delle plusvalenze di titoli o di immobili non modifica il concetto fondamentale secondo cui l’imposta di ricchezza mobile intende a tassare il «frutto» del capitale o del lavoro. È vero che «avviamenti» e «plusvalenze» si riferiscono al capitale, sono ingrossamenti di valore di beni capitali e non di redditi; ma si reputano tassabili solo in quanto si possa presumere che quell’ingrossamento è il frutto di un’opera speculativa, di un lavoro inteso a procurare quel risultato. Come il negoziante di granaglie è tassato per il reddito che si procura acquistando il frumento a lire 100 al quintale e rivendendolo a lire 105; così il negoziante in aziende, in azioni ed in immobili è tassato per il reddito che si procura acquistando l’azienda, il titolo, l’immobile a 100 e rivendendolo a 120. Egli, per le esigenze del suo commercio, opera su differenze di valori capitali invece che su differenze di prezzo di merci; ma quelle differenze sono il frutto eventuale della sua abilità speculativa, del lavoro particolare inerente al suo commercio. Talvolta, come nel caso delle società per azioni, la connessione fra l’intento speculativo e il lucro di differenze si presume sempre; tal altra, come nel caso dei privati, occorrerà che la presunzione sia confortata da indizi atti a dimostrare l’esistenza della figura del commerciante. Sta di fatto che, laddove la figura della speculazione non si può presumere, laddove si tratta di una compra e successiva vendita da parte di un privato, a scopo di investimento e disinvestimento patrimoniale, ivi non si può procedere a tassazione, perché non si tasserebbe più il frutto di un’opera, ma un vero apprezzamento patrimoniale, il che non rientra nel quadro della imposta di ricchezza mobile.
La tassazione del sopraprezzo delle azioni. – Talvolta si tentò di andare più in là; e l’esempio tipico di ciò è dato dalla tassazione del sopra prezzo delle azioni.
Sia una società anonima esercente una qualunque industria costituitasi nel 1900 con un capitale versato di 1 milione di lire, diviso in 1000 azioni da 1000 lire ciascuna. Coll’andar degli anni, grazie alla buona e prudente amministrazione, la società; oltre ad avere conservato il suo capitale, ha aumentato i guadagni da 30 a 40, a 50, a 60, a 80, a 100; a 120 lire per ogni azione. L’azione la quale nei primi anni a stento manteneva la pari, finì alla lunga per valere in borsa più di 1000 lire, che era la pari o il versato; e, supponendo che il tasso corrente d’interesse per impieghi industriali di tal fatta sia del 6%, nel 1925 l’azione, del versato o valor nominale o pari di 1000 lire, giunse ad essere contrattata correntemente al prezzo di lire 2000. Infatti chi l’acquista a tal prezzo, ricevendo il dividendo annuo di lire 120, ricava ancora il 6% dal capitale impiegato di lire 2000.
Fin qui non si fa luogo a tassazione nei rispetti dei venditori singoli, eccettoché essi siano banchieri o speculatori o società per azioni, per cui si possa presumere che essi facciano siffatte compre vendite oggetto di commercio.
Ma se la società all’1 luglio 1925 deliberò di raddoppiare il suo capitale, da 1 a 2 milioni, emettendo altre 1000 azioni, queste dovette emetterle al valor nominale di 1000 lire, per non dare alle nuove azioni diritti maggiori che alle vecchie; e se le emise al pubblico, azionisti od estranei, dovette emetterle al prezzo di lire 2000, di cui 1000 valor nominale e 1000 sopra prezzo. Se non avesse fatto così, gli estranei, sottoscrivendo al prezzo di lire 1000, avrebbero fruito degli stessi diritti degli antichi azionisti, i quali per 25 anni avevano corso rischi, rinunciato a dividendi, ecc., ecc. Le 1000 lire di sopra prezzo sono un mezzo per equiparare i nuovi ai vecchi azionisti.
Qui non c’è guadagno di nessuno: non della società, la quale incassando 1.000.000 lire a titolo di valor nominale e 1.000.000 a titolo di sopra prezzo, se ne dichiara debitrice nelle voci capitale e riserva del passivo; -non degli azionisti antichi, i quali possedevano una azione che valeva 2000 lire e questa non cresce di valore, perché tutto il nuovo apporto di 2000 lire è appena sufficiente, né più né meno, a mantenere a tal valore il corso delle nuove azioni e nessuna parte può andare a beneficio delle vecchie; – non degli azionisti nuovi, i quali versano 2000 lire e ricevono un’azione che ha un corrispondente valore.
Tuttavia la giurisprudenza aveva ritenuto che la società dovesse esser tassata su 1.000.000 lire di sopraprezzo, perché aveva ritenuto che la società vendesse l’avviamento ai nuovi azionisti, «realizzasse» l’avviamento potenziale da essa posseduto. Concetto erroneo, perché la società non vende alcun avviamento a nessuno, anzi lo tiene per sé; e solo allarga la sua azione e chiede ai nuovi azionisti di versare l’equivalente delle 1000 lire per quota di azione che i vecchi soci hanno versato a titolo di capitale e delle 1000 lire che hanno contribuito con i rischi corsi, con le rinuncie a dividendi, con l’accumulazione di riserve.
L’effetto fu tuttavia irrisorio per la finanza. Le società, piuttosto che sottostare alla ingiusta tassazione di un reddito inesistente, rinunciarono ad emettere azioni con sopra prezzo, emettendole, nel caso citato, al prezzo di 1000 lire corrispondente al puro valore nominale. Naturalmente, per non favorire estranei vendendo ad essi per 1000 lire un titolo equiparato ad un altro, il vecchio, che era arrivato a valerne 2000 e per non far cadere il vecchio titolo a 1500 lire, dovettero riservare le nuove azioni ai «vecchi» azionisti. Costoro fecero una media fra le vecchie azioni che valevano 2000 e le nuove che valevano solo 1000; e, mescolate le due specie, ebbero un titolo del valore di 1500 lire.
Vista l’inutilità della tassazione, il legislatore si persuase, col decreto legge del 15 ottobre 1925, n. 1802, ad abolire, a far data dal 27 ottobre 1925, l’illogica tassazione del sopra prezzo realizzato da società commerciali coll’emissione di nuove azioni sociali .
Se la destinazione del reddito possa modificare la sua indole rispetto all’imposta. – Poiché l’Imposta tassa i frutti o redditi annui non ha importanza il fatto che il contribuente abbia destinato il reddito ad uno piuttosto che ad altro uso. Qualunque sia l’uso del reddito, esso rimane sempre ed è perciò imponibile. Epperciò il legislatore espressamente dichiarò all’art. 30 del testo unico 24 agosto 1877 che «nel reddito delle società anonime ed in accomandita per azioni, compresevi le società di assicurazione mutua ed a premio fisso, saranno computate indistintamente tutte le somme ripartite sotto qualsiasi titolo fra i soci e quelle portate in aumento del capitale o del fondo di riserva ed ammortizzazione od altrimenti impiegate anche in estinzione di debiti».
Il che vuol dire, che, se una società lucra in un anno 100.000 lire e di queste destina 50.000 a dividendo per gli azionisti, 25.000 a pagamento di un debito e 25.000 a formare od aumentare la riserva sociale, l’imposta deve colpire tutte le 100.000 lire.
Tassabilità delle somme ripartite tra i consumatori a titolo di restituzione di parte del prezzo delle merci acquistate. – Il canone che la qualità di reddito dipende dalla natura originaria di una data somma e non dalla sua destinazione, ha talvolta condotto a considerare reddito anche somme che secondo la logica ordinaria tali non sono.
Sia una società cooperativa di consumo, il cui scopo è di vendere a soci e non soci date merci al costo. Naturalmente, siccome il costo non si può calcolare esattamente a priori, esso viene presunto soltanto in modo approssimativo; cosicché la cooperativa incassa dai consumatori 1 milione di lire durante il 1926 come prezzo di vendita di merci ai suoi clienti. Fatti i conti, la società constata che il costo effettivo è stato solo di 950.000 lire; cosicché essa delibera di restituire ai consumatori le 50.000 lire percepite in più, bastando ad essa di non perdere e non desiderando di lucrare. La finanza, partendo dal concetto che la cooperativa è una persona giuridica distinta dalla persona dei soci, che il milione di lire era entrato già nel patrimonio della società, concluse che la società aveva guadagnato la differenza fra l’incasso di un milione e la spesa di 950 mila: onde le 50.000 lire sono utili della società e quindi tassabili, qualunque sia poi l’uso che la società ne faccia, sia che le riparta tra i soci o le distribuisca in opere di beneficenza o le destini a fondo di riserva.
La quale conclusione è corretta formalmente; ma dimostra quali sono i danni di volere attribuire alla personalità giuridica delle società commerciali una efficienza che per se stessa non ha. La personalità giuridica non deve essere un concetto bastevole a far diventare reddito ciò che tale per se stesso non è; bensì si deve vedere quale sia il significato della personalità giuridica in rapporto al fine che la società vuole raggiungere.
La cooperativa di consumo dev’essere considerata persona distinta dai soci, se questo considerarla distintamente giova a farle raggiungere meglio lo scopo suo, che è quello di fare acquisti al costo per conto dei soci. Non si capisce invece come l’aver pagato, per esigenze contabili, un milione di lire invece che 950 mila lire basti a dar natura di reddito, ossia di guadagno, a ciò che invece è una sopra spesa, la quale poi viene rimborsata.
IV. – Le spese deducibili del prodotto lordo.

L’imposta di ricchezza mobile ha per oggetto i redditi netti. Importa quindi detrarre dal prodotto lordo le spese.
Il problema si presenta importante soprattutto per i redditi di industria o commercio, essendoché per gli interessi dei capitali, per gli stipendi ed i lucri professionali si devono unicamente dedurre il fitto dello studio, il consumo degli strumenti o dei libri necessari per l’esercizio della professione; cose le quali non presentano difficoltà. Invece è delicatissima la detrazione delle spese per industriali e commercianti, i quali vedono di solito assorbita dalle spese la maggior parte dei loro incassi lordi. Se non si ammettesse l’esatta detrazione delle spese, spesso l’imposta assorbirebbe l’intiero profitto dell’impresa.
Concetto delle spese inerenti alla produzione. – Ecco ora il tenore dell’art. 32 del testo unico 24 agosto 1877, che regola questa materia: «Per la classe dei redditi industriali si terrà conto, in deduzione, delle spese inerenti alla produzione, come il consumo di materie grezze e strumenti, le mercedi agli operai, il fitto dei locali, le commissioni di vendita e simili».
L’inciso essenziale è nelle parole «inerenti alla produzione», le quali mettono in chiaro che si possono detrarre dal prodotto lordo dell’azienda soltanto quelle spese le quali sono inerenti alla produzione del reddito, che devono cioè necessariamente farsi o sono utili a farsi affinché si produca il reddito che si tratta di tassare. Meglio ancora il concetto stesso è chiarito da talune esclusioni che esplicitamente il legislatore volle enunciare, dicendo nel capoverso dello stesso art. 32:
Non potranno far parte di tali spese:
 1) «L’interesse dei capitali impiegati nell’esercizio, siano propri dell’esercente o tolti ad imprestito». Dunque l’interesse dei capitali impiegati nell’azienda non è mai considerato come una spesa detraibile. Il che è logico, essendo anzi l’interesse del capitale parte del reddito che si vuole tassare.
 2) «Il compenso per l’opera del contribuente, di sua moglie e di quei suoi figli, che fossero occupati nell’esercizio ed al cui mantenimento egli è obbligato per legge, quando coabitano col padre». È chiaro che, per la medesima ragione detta di sopra, non si può dedurre dal reddito delle 100.000 lire dell’azienda, il compenso, supponiamo, di 30.000 lire all’anno dovuto al commerciante pel suo lavoro. Se questa deduzione fosse ammessa, che cosa rimarrebbe ancora del reddito? Nulla. Il reddito è appunto il compenso del capitale e del lavoro del commerciante. Più dubbia è la cosa per i redditi di quelle persone che si possono considerare come tutta una persona col contribuente stesso e cioè la moglie ed i figli da lui dipendenti e con lui coabitanti. La soluzione corretta sarebbe quella di concedere la detrazione per i salari dovuti alla moglie ed ai figli poiché sono certamente spesa di produzione, salvo a tassare questi redditi separatamente, se per altre ragioni non siano esenti. Non lo si fa perché si teme che il contribuente colluda con la moglie ed i figli per far attribuire ad essi un reddito che non hanno guadagnato, reddito che forse potrebbe essere esente, per la sua esiguità, dall’imposta; ed in ogni modo, per essere reddito di solo lavoro, cadrebbe in una categoria meno tassata.
 3) «La spesa per l’abitazione del contribuente e della sua famiglia». È chiaro altresì che, se è logica la detrazione del «fitto dei locali» inservienti all’industria od al commercio, perché senza quei locali non si otterrebbe il reddito, non altrettanto logica sarebbe la detrazione della spesa per l’abitazione personale del contribuente e della sua famiglia.
Tizio spende 10.000 lire di fitto pel locale del suo negozio, ed è una spesa necessaria allo scopo di ottenere il reddito ed è quindi deducibile.
Tizio dopo aver ottenuto il reddito del negozio, ne spende una parte, per es., 10.000 lire all’anno, per procacciare a sé ed alla famiglia l’abitazione. Questa non è più spesa sostenuta per ottenere il reddito; è spesa fatta mercé il reddito già ottenuto; e non è quindi deducibile.
Ciò giova a distinguere nettamente fra:
 a) le spese di produzione, che sono anteriori o necessarie alla produzione del reddito, e sono deducibili;
 b) e le spese di erogazione che sono logicamente posteriori alla produzione del reddito, e sono un modo di spendere od erogare il reddito già prodotto. Le quali non sono deducibili.
Se deducessimo dal prodotto lordo, ossia esentassimo dall’imposta la spesa per l’abitazione, non vi sarebbe ragione per non dedurre anche le spese per il cibo, i vestiti, i divertimenti, ecc., ecc. E, di nuovo, che cosa rimarrebbe del reddito? Chiarito così il concetto delle spese deducibili o detraibili, discutiamo talune questioni che sono sorte a questo proposito. Oltre, infatti, alle spese sicuramente detraibili, come:
o le spese per l’acquisto delle materie prime;
o le spese per l’acquisto degli strumenti che si consumano nell’anno;
o le mercedi degli operai;
o gli stipendi ed assegni agli impiegati;
o il fitto effettivo o presunto dei locali destinati al commercio;
o le spese per la vendita;
o vi sono altre spese, che non presentano altrettanto nitidi i caratteri delle spese di produzione; ed intorno a cui è sorto qualche ragionevole dubbio.
Se nel fitto detraibile dei locali siano comprese anche lo spese inerenti ai locali stessi. – Sia una società la quale affitta un fabbricato industriale per la somma annua di lire 100.000. Come fu sopra avvertito, la società ha diritto di detrarre dal suo reddito lordo industriale, che, al netto da tutte le altre spese, supponiamo sia di 500.000 lire, la detta somma di lire 100.000 che rappresenta una spesa per l’esercizio dell’industria, somma che sarà tassata, in sede medesima di ricchezza mobile, al nome del proprietario dell’opificio. Se la società fosse proprietaria del fabbricato industriale, evidentemente essa non avrebbe diritto alla detrazione, essendoché ora, come vedemmo nel capitolo precedente, i fabbricati industriali non sono più soggetti all’imposta sui fabbricati, bensì a quella di ricchezza mobile.
Se dunque la società tiene in affitto un fabbricato altrui ed ha diritto alla detrazione, si presentano varie questioni:
 a) È, inoltre, deducibile la spesa di manutenzione e di riparazione del fabbricato medesimo e dei macchinari che sono reputati, ai fini tributari, parte integrante dei fabbricati? Si risponde distinguendo fra le spese di riparazione e manutenzione straordinaria che fanno carico al proprietario del fabbricato e quelle ordinarie che sono normalmente sopportate dall’affittuario od inquilino. Le prime, spettando al proprietario, non costituiscono spesa per l’industriale affittuario e non possono quindi da costui essere dedotte dal suo reddito. Le seconde, essendo sopportate dagli affittuari, sono veramente una spesa dell’industriale come tale e possono quindi essere dedotte dal reddito suo di ricchezza mobile;
 b) È, inoltre, deducibile la spesa derivante dall’imposta sui fabbricati? No. Perché l’imposta medesima è dovuta dal proprietario del fabbricato. Nell’attuale nostro sistema sui fabbricato industriale è dovuta la stessa imposta di ricchezza mobile; ma, essendo dovuta dal proprietario, la società affittuaria paga il fitto e non il fitto più l’imposta; ed ha quindi diritto di detrarre solo il fitto;
 c) È, inoltre, deducibile la spesa sopportata per i canoni dovuti allo stato per la concessione delle forme idrauliche? Alla domanda par si debba logicamente rispondere come alla precedente. Se nel canone di fitto del fabbricato industriale è compreso anche il canone per l’uso delle forze idrauliche inservienti alla industria, non potremo dedurre il secondo dopo aver dedotto il primo, la parte dopo avere dedotto il tutto;
 d) È, inoltre, deducibile la spesa per le quote di assicurazione contro gli incendi? Nessun dubbio per quanto riflette l’assicurazione delle scorte di magazzino, materie prime, prodotti dell’industria e per quella parte di macchinario che ha natura di «macchina lavoratrice», ed è quindi ritenuto fattore del reddito industriale. Trattasi di spesa manifestamente necessaria all’esercizio dell’industria, perché nessun industriale vorrebbe correre il rischio della produzione col pericolo di vedere distrutto dall’incendio il frutto dell’opera sua.
Dubitasi invece per quanto tocca la quota di assicurazione contro l’incendio del fabbricato industriale e di quella parte del macchinario che dal legislatore è considerata parte integrante del fabbricato. La quota, si disse, è onere gravante sui fabbricato e non sull’industria; e se il fabbricato è di proprietà altrui, e l’industriale non se l’accollò, spetta, al proprietario. Ma per lo più, anche in caso di affitto del fabbricato, essa è assunta dall’esercente. Se la società esercente è anche proprietaria, la questione non sorge, tutte le spese essendo a suo carico.
Se nelle mercedi agli operai e negli stipendi agli impiegati siano compresi anche i loro accessori. – La mercede o stipendio può assumere forme diverse, le quali nulla mutano alla sua natura propria e quindi alla sua detraibilità dal redditi lordo. Così:
 a) se al salario o stipendio degli operai od impiegati viene aggiunta una quota di partecipazione agli utili dell’azienda, questa conserva natura di rimunerazione dell’opera prestata dall’operaio od impiegato e come tale va dedotta dal reddito lordo. Nulla importa che il compenso sia pagato sotto forma di una quota parte di un reddito incerto nel suo ammontare; ché anzi quella forma è preferita appunto per stimolare il lavoratore a crescere la sua operosità; e quindi gli utili dell’azienda:
 b) dubitasi invece per le quote di partecipazione agli utili attribuite agli amministratori di una società per azioni. Costoro non sono in senso stretto impiegati della società, di cui invece sono i dirigenti. Ma essi, in quanto amministrano, prestano il loro lavoro ad incremento dell’azienda sociale; né v’è ragione di distinguere fra il loro lavoro e quello dei funzionari od impiegati, salvoché dal punto di vista qualitativo. Delle quali differenze qualitative l’imposta non tiene conto, colpendo essa tutti i redditi di qualunque specie di lavoro ordinario o superiore, morale od immorale, spregiato o tenuto in gran conto. Ma la partecipazione, dicesi, viene fissata dopo che gli utili sono già ottenuti; non è una condizione ma una erogazione di essi utili. Osservisi però che, a giudicare se una spesa sia anteriore o posteriore alla produzione del reddito, non bisogna guardare all’antecedenza cronologica ma a quella logica. Un compenso può essere, in ordine di tempo, pagato dopo che il reddito fu prodotto; ma, se l’aspettativa di esso fu condizione necessaria od efficace perché gli amministratori compiessero quell’opera di direzione e di deliberazione che era d’uopo perché il reddito si producesse, la posteriorità cronologica non monta; dovendosi badare soltanto all’anteriorità logica. Concludasi perciò che, logicamente, le quote di partecipazione agli utili degli amministratori, sono, per la società, una spesa detraibile;
 c) È noto che, nella società moderna, al salario pagato agli operai, si aggiungono spesso premi di assicurazione contro gli infortuni, le malattie, la maternità, la vecchiaia, l’invalidità, ecc. Sono queste quote o premi veri accessori del salario, perché l’operaio, oltre il salario giornaliero, riceve vantaggi diversi, valutabili in denaro, i quali sono, come il salario. un compenso per l’opera prestata a pro dell’industriale.
L’industriale trae vantaggio dal pagamento di questi premi, perché l’operaio che è sicuro di essere indennizzato in caso di infortunio, di ricevere un soccorso in caso di malattia o di maternità, una pensione quando sia divenuto vecchio ed invalido, è più tranquillo e fiducioso nell’avvenire, più affezionato all’azienda, e tutto ciò giova alla produzione del reddito e deve essere considerato un complemento del salario detraibile.
Non così opina sempre la giurisprudenza italiana, la quale grettamente avvisando, reputa in principio spesa detraibile solo le quote di assicurazione che per legge siano obbligatorie. Per le quali l’obbligatorietà legale l’ha persuasa trattarsi di spese che non possono essere evitate se il reddito vuole essere ottenuto. Concezione questa non solo gretta, ma benanco erronea; poiché spese detraibili non sono soltanto quelle che sono fatte obbligatorie per virtù di legge, bensì tutte quelle che giovano alla produzione del reddito. Niun dubbio che ponendo mente al concetto, dianzi svolto, della anteriorità logica, le spese che si possono chiamare «sociali» di un’impresa moderna non debbano essere reputate una erogazione del reddito già prodotto, come falsamente opina la giurisprudenza prevalente, bensì una condizione efficace a produrre un reddito più sicuro ed abbondante. Quindi una spesa di produzione detraibile.
Se nel consumo degli strumenti siano compresi anche i consumi non apparenti o le quote ideali di consumo. – Una società spende 100.000 lire all’anno per comperare strumenti svariati che rapidamente si consumano e che ogni anno devono essere rinnovati. Niun dubbio che, trattandosi di una spesa ricorrente tutti gli anni, essa deva essere detratta dal reddito. Ma se la società compra una macchina lavoratrice, non potrà la spesa relativa essere considerata come spesa dell’anno ed intieramente detratta dal reddito lordo; inquantoché questa è una spesa la quale va ad aumentare il patrimonio sociale e non ha d’uopo di essere reintegrata intieramente nell’anno.
Tuttavia il macchinario non ha durata perpetua. Esso nell’anno non si consuma intieramente, ma in parte si deteriora, si guasta, invecchia. Si consuma cioè una quota parte della macchina; e questo consumo è vera spesa.
Per chiarire il problema, fa d’uopo elaborare ulteriormente il concetto delle spese detraibili per il consumo del capitale impiegato nell’impresa. Se l’imprenditore vuole conservare intatto il patrimonio iniziale investito al principio d’anno in macchinari ed impianti industriali, uopo è che provveda a dedurre dal loro reddito le seguenti quote:
 a) quote di manutenzione e riparazione. – Innanzi tutto è da detrarre una quota di manutenzione, che serve a mantenere impianti e macchinario in buon ordine, puliti, a riparare i guasti, ecc. È certo questa una spesa e va detratta.
 b) quote di deperimento ovvero sostituzione. – Oltre alla quota di manutenzione sono da detrarsi le quote di deperimento. Esse infatti sono quote destinate annualmente alla formazione di un fondo che, dopo un certo tempo, quando per qualsiasi ragione le macchine attualmente in uso non serviranno più verrà erogato nell’acquisto di nuove macchine, di nuovi impianti, che prenderanno il posto delle macchine e degli impianti attuali.
Si tratta, come si vede, di quote che non hanno per iscopo di aumentare il capitale ma di conservarlo nelle condizioni attuali, di impedire che si deteriori.
Le quote di deperimento prendono anche il nome di quote di sostituzione. Tali quote rappresentano effettivamente una spesa, onde è giusta anche per esse la detrazione dal reddito lordo.
Notisi che le quote di deperimento o sostituzione devono provvedere a far fronte al logorio fisico ed al logorio economico. Dicesi logorio fisico quello della macchina che dopo 10 o 20 anni è materialmente diventata inservibile perché logora e guasta e non più riparabile. Dicesi logorio economico quello della macchina che, fisicamente, potrebbe ancora andar avanti per anni parecchi, ma deve essere messa da parte perché è stata inventata una macchina nuova migliore che ha soppiantata la vecchia.
Le cose dette rispetto ai macchinari ed agli impianti industriali si possono estendere anche ai fabbricati industriali. E siccome l’esercizio dell’industria dà luogo a spese eccezionali di riparazione e deperimento del fabbricato, come nella fabbricazione dei prodotti chimici, del vetro, ecc., oltre alle quote ordinarie deve essere ammessa una quota straordinaria di deperimento come spesa detraibile dal reddito industriale.
 c)quote di ammortamento in senso stretto. – Cosa affatto diversa sono le quote di ammortamento in senso stretto, le quali mirano alla ricostituzione del capitale, in aggiunta ed indipendentemente dalle quote destinate a risarcire il deterioramento fisico od il deprezzamento economico cui desso va soggetto coll’uso.
Sia, ad es., un’azienda avente vita indefinita quale può essere quella di un industriale privato; supponiamo che l’industriale, oltre a prelevare ogni anno una quota del reddito per riparare il capitale macchine (quota di manutenzione) ed un’altra per reintegrarne i guasti fisici ed economici (quota di deperimento), prelevi anche dal reddito stesso un’ulteriore quota allo scopo di rimborsare, di ricostruire, entro un certo numero di anni, il capitale originario impiegato nell’industria. Questa terza quota sarebbe una vera e propria quota di ammortamento, per effetto della quale, decorso un certo numero di anni, l’industriale si troverebbe possessore non solo del capitale di 1.000.000 di lire che aveva in principio investito in macchine, impianti, ecc., ed il quale fu sempre mantenuto al valore originario mercé le quote di manutenzione e di deperimento, ma anche di un nuovo capitale di un altro milione di lire, messo insieme con le quote di ammortamento, uguale al primo in valore, di cui avrebbe la libera disponibilità.
Sarebbe quindi un errore considerare la quota di ammortamento come una spesa, essendo essa null’altro che una parte del reddito economizzata e trasformata in capitale. Quindi essa non deve essere considerata come spesa deducibile e deve essere soggetta ad imposta perché reddito.
Se invece consideriamo una intrapresa avente vita temporanea, per esempio, una società ferroviaria, che abbia ottenuto dallo stato la concessione per 60 anni, trascorsi i quali deve consegnare allo stato, senza compenso, il materiale e le linee da essa costruite coi propri capitali, evidentemente sarà indispensabile per questa società mettere da parte, oltre la quota per le spese di manutenzione e la quota di deperimento – le quali sono necessarie, perché la società deve consegnare gli impianti alla fine del sessantennio in perfette condizioni – un’altra quota destinata a ricostruire il suo capitale, a rimborsare le azioni. La quota di ammortamento in tali ipotesi è una spesa necessaria, e perciò è logico che tale quota venga detratta dal reddito lordo.
È chiaro altresì che, se l’ente concedente alla fine del termine rimborsa al concessionario in tutto o in parte il valore degli impianti, la società o non avrà diritto a detrarre alcuna quota di ammortamento o soltanto una quota uguale alla differenza fra il valore degli impianti e l’indennizzo ricevuto dall’ente concedente.
Tabelle concordate per le quote di deperimento. – La determinazione delle quote di deperimento ha sempre formato oggetto di contestazioni, talvolta lunghe ed acri, tra finanza e contribuenti, intesa la prima a scemare ed i secondi ad aumentare le dette quote, allo scopo di crescere o scemare, rispettivamente, l’ammontare del reddito imponibile.
Ad eliminare tali contestazioni è intervenuto recentemente un accordo fra la finanza e la confederazione generale dell’industria in unione alla Associazione fra le società per azioni. Ecco per talune principali categorie d’industria le percentuali ammesse in deperimento:
Fabbricati destinati alla industria Macchinario per forza motrice Macchine lavoratrici

idraulica a vapore ad elettricità
Industrie tessili 2 5 8 8 dal 7 al 10
Industrie di pelli 3 5 8 8 8
Molini, pile e brillatoi 2 5 8 8 8
Fabbriche di birra, liquori ghiaccio, torchi da olio caseifici 2 5 8 8 dal 8 al 10
Fabbriche prodotti chimici ordinari 2 5 8 8 dal 8 al 10
Tintorie, lavanderie 2 5 8 8 dal 6 all’8
Fabbriche di prodotti chimici con acidi e materie corrosive Dal4 al 6 dal 9 al 10
Zuccherifici 2 5 8 8 8
Industria siderurgica 2 – – – – a tutte le altre consistenze si applica il 10
Industria metallurgica dal 2 al 3 – – – –
Industria meccanica 2 5 8 8 8
Lavorazione del legno 2 5 8 8 7
Fornaci di laterizi calce, cementi e gessi 4 – 8 8 10 Forni in genere rotanti 10
Vetrerie, fabbriche di ceramiche dal 2 al 3 – 8 8 10
Autoveicoli 20 – 8 8 10
Le quote di deperimento si devono calcolare sempre sul valore iniziale dell’investimento da ammortizzare e non già sulla differenza fra il costo originario e l’ammontare delle quote stanziate in tutti gli esercizi anteriori. A tal uopo le quote si devono accantonare nel passivo del bilancio anziché dedurle dalle esistenze in attivo, e nel bilancio stesso deve farsi risultare sempre il costo iniziale sul quale applicare la percentuale.
Le quote di deperimento possono essere cresciute nei casi di lavorazione intensiva e di maggior consumo degli impianti e dei macchinari, ad es., per orari prolungati, lavoro notturno, continuità di accensione dei forni; ovvero nei casi di progresso tecnico i quali consiglino di mettere fuori uso anzi tempo gli impianti relativi. Possono anche essere ammessi in detrazione i deperimenti dei brevetti e le perdite per studi ed esperimenti i quali non abbiano dato utili risultati.
Se tra le spese di produzione debbano noverarsi anche le tasse ed imposte. – Alla quale domanda si risponde affermativamente quando le tasse od imposte siano una spesa inerente alla produzione del reddito mobiliare che si vuol tassare e negativamente in caso contrario.
Distinguiamo perciò fra:
 a) imposte le quali sono una spesa inerente alla produzione del reddito industriale o commerciale che si vuol tassare; e che quindi sono detraibilidal reddito lordo. – Così per esempio:
o le imposte di fabbricazione, le quali sono una vera e propria spesa di produzione poiché il fabbricante di merci colpite da imposta di fabbricazione non può realizzare il reddito senza aver pagato l’imposta di fabbricazione;
o i dazi doganali sulle materie prime dell’industria, che si siano dovute introdurre dall’estero, che sono per gli importatori una spesa necessaria di produzione;
o le imposte sui consumi di merci oggetti del lavoro dell’azienda;
o le tasse scambio, le tasse pesi e misure;
o le tasse postali, telegrafiche e telefoniche, non potendosi immaginare esercizio di attività economica senza pagamento di quelle tasse
o le tasse sui cavalli e sulle vetture automobili adibite nelle aziende;
o le tasse di bollo e di registro, quando siano pagate per atti o contratti che si riferiscono al normale andamento dell’industria.
 b) imposte le quali non sono una spesa inerente alla produzione del reddito e non sono quindi detraibili. – Così:
o di nuovo le tasse di bollo e registro, quando si riferiscano ad atti o contratti relativi alla costituzione della società. La giurisprudenza prevalente le considera in tal caso spese di primo impianto e non ne concede la detrazione;
o le imposte sul reddito di ricchezza mobile; verità chiarissima, perché l’imposta di R.M. non è una condizione necessaria per ottenere il reddito, bensì si paga solo se e dopo che si sia ottenuto il reddito stesso.
L’imposta fondiaria sui terreni neppure può essere dedotta, gravando essa non sul reddito mobiliare ma sul reddito dei terreni.
V. – I confini tra l’oggetto dell’imposta mobiliare e l’oggetto delle altre imposte sul reddito.

La tassazione dei redditi agrari.

Richiamo alla sezione precedente dell’imposta sui fabbricati. – L’oggetto dell’imposta di ricchezza mobile deve essere distinto nettamente dall’oggetto delle due altre imposte sui redditi dei terreni e dei fabbricati per evitare duplicazioni. Già vedemmo sopra, discorrendo dell’imposta sui fabbricati, come lungamente si fosse discusso per conoscere dove finiva il fabbricato industriale e dove cominciava l’industria esercitata nel fabbricato medesimo. La discussione essendo oramai conchiusa, colla unificazione dei fabbricati industriali e dell’industria in essi esercitata, non monta più riandarla.
Confini fra l’imposta di ricchezza mobile e l’imposta sui terreni. – Fatto questo richiamo rimangono da trattare solo i confini tra l’imposta di ricchezza mobile e l’imposta sui terreni. E qui i punti da trattare sono tre:
 a) l’imposta di ricchezza mobile colpisce talvolta lo stesso reddito fondiario dominicale che dovrebbe essere oggetto esclusivo dell’imposta sui terreni?
 b) quid della scelta tra le due imposte di fronte a redditi di natura immobiliare, ma rispetto ai quali si può legittimamente dubitare se essi siano redditi fondiari dominicali propri?
 c) quale influenza l’imposta sui terreni ha esercitato sulla tassazione dei redditi industriali agrari e dei redditi del lavoro agricolo?
Sarà opportuno tener sott’occhio il quadro generale dianzi compilato dei redditi diversi derivanti dalla terra.
Redditi fondiari dominicali colpiti dall’imposta di ricchezza mobile. – Dice l’art. 4, capoverso, del testo unico del 1877, che «anche i redditi di natura fondiaria, rene od immobiliare saranno soggetti alla tassa di ricchezza mobile, se non risulti che dal possessore del fondo dal quale provengono già si paghi un tributo stabilito in contemplazione dei redditi stessi».
Il significato del quale capoverso fu dal sen. Pallieri, relatore al senato di un progetto che divenne poi legge nel 1874 e conteneva la disposizione qui ricordata, così chiarito: «Ove il possessore di un reddito di natura fondiaria o il possessore del fondo dal quale proviene, già non paghi un tributo stabilito in contemplazione del reddito stesso, va soggetto all’imposta di ricchezza mobile. Laonde il proprietario di una miniera, di una torbiera, d’un corso d’acqua, che sia indipendente dal fondo che irriga o dall’opificio che attiva, è passibile dell’imposta di ricchezza mobile, sempre che non paghi un tributo che riguardi il reddito procedente da tali immobili. Così, per esempio, il proprietario di una miniera, il quale sia anche proprietario della superficie e per questa sola paghi un tributo, non andrà esente dall’imposta di ricchezza mobile, giacché quel tributo è estraneo del tutto alla miniera».
Scopo della disposizione pare sia dunque di impedire che un reddito, il quale sia sfuggito di fatto all’imposta sui terreni, per la sua natura immobiliare sfugga legalmente altresì all’imposta mobiliare. Parrebbe perciò che qualunque reddito immobiliare non colpito dall’imposta terreni debba essere colpito dall’imposta di ricchezza mobile, che ha natura residuale.
Notisi che il numero degli enti patrimoniali soggetti alla presente regola è oramai ridotto a quasi nulla poiché il R. decreto 6 dicembre 1923, n. 2722, a decorrere dall’1 gennaio 1925 sottrasse all’imposta sui terreni, anche dove erano ancora segnati nel rispettivo catasto, le miniere, le cave, le torbiere, le saline e le tonnare e le sottopose alla imposta di ricchezza mobile, cat. B.
Naturalmente i redditi dominicali fondiari che, per infrequenti circostanze, sono soggetti all’imposta di ricchezza mobile, sono considerati redditi di capitale puro e non come redditi di capitale misto a lavoro perché essi derivano soltanto dalla proprietà del terreno, ossia da puro impiego di capitale. E questi redditi hanno pure una qualità che li distingue dagli altri redditi dominicali fondiari; essi cioè usufruiscono dei vantaggi di cui godono tutti i redditi mobiliari. I redditi mobiliari infatti, non potendo essere soggetti a sovra imposta da parte degli enti locali, anche i redditi dominicali extra vaganti, non catastati sfuggono alle sovra imposte locali.
Distinzione tra redditi dipendenti e redditi indipendenti da condominio o dominio diretto.- Recita lo stesso articolo 4: «I redditi che non dipendono da condominio o dominio diretto, benché percepiti sui frutti, o commisurati in una ragione qualunque al prodotto del fondo, sono soggetti all’imposta di ricchezza mobile»; e continua l’art. 5: “fra i redditi di natura reale ed immobiliare, soggetti all’imposta della ricchezza mobile sono compresi i censi in qualunque modo costituiti, le decime di qualsiasi genere, i quartesi, i frutti capitali quandocumque, le soggiogazioni ed ogni reddito che non dipenda da condominio o dominio diretto».
L’articolo si riferisce a talune specie di redditi che oggi sono pressoché caduti in dissuetudine, nel senso che consimili redditi nuovi si formano assai di rado, mentre sussistono ancora numerosi casi di cotali redditi tramandati a noi da periodi storici decorsi. Queste specie arcaiche di redditi si possono dividere in due categorie:
 a) l’una ha a proprio prototipo la decima dominicale, canone in denaro od in derrate che il possessore di un fondo deve prestare ad una terza persona chiamata decimante. Quale è la natura della decima dominicale? Senza dilungarci in minute disquisizioni storiche e giuridiche, diciamo soltanto che, ai fini della imposta, il legislatore italiano ha ritenuto che la decima dominicale non fosse un reddito proveniente dal dominio o condominio del fondo. Il decimante gode la decima non perché sia il proprietario o il comproprietario del fondo. Forse sarà stato tale in un passato più o meno lontano; ma nel momento attuale, tale non è considerato dal nostro legislatore ai fini tributari. Il decimante è invece una persona che gode di un diritto reale sulla proprietà altrui. Ha il diritto di farsi prestare ogni anno 100 lire, ovvero 10 sacchi di frumento, ovvero 20 ettolitri di vino dal possessore del fondo; ma non è comproprietario del fondo. Perciò il legislatore ha voluto che la decima non fosse considerata come parte integrante del reddito dominicale fondiario già colpito dall’imposta sui terreni, ma come reddito di un capitale indipendente dalla terra e soggetto all’imposta di ricchezza mobile. Della stessa natura delle decime sono i livelli, i censi, i quartesi, i frutti di capitali quandocumque, le soggiogazioni, che sono tutti nomi di vecchi istituti oramai non più usati. Notisi che la tassazione mobiliare dei redditi dominicali e dei redditi ad essi assimilati dà luogo al danno della doppia tassazione che già denunziammo; poiché il proprietario del terreno paga su tutte le 500 lire di reddito dominicale del terreno, malgrado debba prestare una decima di 100 lire all’anno al decimante, il quale a sua volta paga l’imposta di ricchezza mobile sulle lire 100.
 b) L’altra ha a proprio prototipo il canone enfiteutico; che è il canone in denaro od in derrate che il colono enfiteuta od utilista paga al domino diretto o direttario del fondo. In questo caso il domino diretto, che ha concesso in enfiteusi il suo fondo ad un colono, non si è spogliato del tutto del suo diritto di proprietà. Il pieno diritto di proprietà si scinde idealmente in due parti: di cui l’una, il dominio diretto, spetta al domino e l’altra, il dominio utile, al colono enfiteuta. Il domino non ha rinunziato al suo dominio sul fondo; talché ove il colono per due anni consecutivi non paghi il canone pattuito, il dominio utile si devolve al domino che nuovamente riunisce in tal caso in se stesso le due parti del dominio idealmente scisso. Quindi il canone enfiteutico percepito dal domino diretto, essendo reddito dominicale proprio derivante da dominio o condominio sul fondo, è reddito fondiario e non reddito mobiliare e si reputa già tassato dall’imposta sul terreni che colpisce il fondo, sebbene il codice civile faccia obbligo al colono di pagarla.
S’intende che domino diretto e colono enfiteuta avranno tenuto conto del fatto che l’onere dell’imposta sui terreni fa carico al colono nella fissazione del canone enfiteutico, scemandolo in proporzione. È questa una transazione di carattere privato che non interessa il fisco, al quale basta che il reddito dominicale fondiario non sfugga all’una od all’altra imposta.
Durante la guerra un decreto luogotenenziale 17 marzo 1918, n. 443, aveva fatte uno strappo al principio ora detto, assoggettando i canoni enfiteutici ad una imposta straordinaria; ma il regio decreto legge 16 ottobre 1924, n. 1613, abolì il tributo a partire dall’1 gennaio 1925, considerando i canoni come parte del reddito fondiario. L’enfiteuta od utilista, il quale abbia pagato l’imposta fondiaria sui terreni ha facoltà, ove la legge, la convenzione o la consuetudine glie ne riconoscano il diritto, di trattenere sul canone pagato la corrispondente quota d’imposta.
Ai canoni enfiteutici sono assimilati i canoni per il godimento della superficie di un’area concessa altrui a scopo edilizio, il reddito dell’usufruttuario od usuario del fondo, di cui la nuda proprietà spetta ad altri, ecc., ecc. In tutti questi casi il reddito, provenendo da condominio o da dominio diretto, si reputa già colpito dall’imposta sui terreni e non più assoggettabile all’imposta di ricchezza mobile.
La tassazione dei redditi industriali agrari e dei redditi del lavoro agricolo. Nel quadro dei redditi ricavati dalla terra abbiamo veduto come, accanto al reddito dominicale colpito dall’imposta sui terreni, vi siano i redditi:
 a) di salario o stipendio dei contadini o fattori i quali attendono alla coltivazione manuale o alla sorveglianza dei lavori del fondo, salari e stipendi, da tassarsi in categoria C (redditi di lavoro puro) dell’imposta di ricchezza mobile. E così invero sono tassati i fattori. Quanto ai contadini lavoratori manuali si nota che, di fatto, quasi mai i salari dei contadini sono tassati, poiché si reputano inferiori al reddito minimo imponibile, che è di 2000 lire all’anno;
 b) industriale agricolo, che dovrebbe essere colpito dall’imposta di ricchezza mobile, in categoria B, come reddito misto di capitale e lavoro spettante all’imprenditore agricolo, sia desso il proprietario medesimo o un fittavolo o un mezzadro. Però, rispetto ad esso, occorre distinguere tre tipi d’impresa agricola:
o 1) in affitto, in cui il fondo è dato in locazione ad un fittavolo che paga il canone al proprietario. In questo caso il proprietario paga l’imposta sui terreni per il proprio reddito dominicale; e l’affittuario paga, con aliquota speciale, la ordinaria imposta di ricchezza mobile in categoria B, come qualunque altro industriale;
o 2) in economia diretta, cioè a proprio rischio dallo stesso proprietario del fondo; In questo caso, bisogna distinguere il periodo fino al 31 dicembre 1922 dal periodo successivo. Fino al 31 dicembre 1922 il proprietario pagò soltanto l’imposta sui terreni per il reddito dominicale e rimase esente dall’imposta di ricchezza mobile per il reddito industriale agrario. A partire dall’1 gennaio 1923, con decreto 4 gennaio 1923, n. 16, fu creata una speciale imposta sui redditi agrari, la quale si può considerare quasi una categoria, distinta con un particolare nome, dell’imposta generale di ricchezza mobile, di cui essa segue le regole. Reddito del proprietario, coltivatore dei suoi fondi in economia, è la differenza tra il valore del prodotto del fondo ed il valore locativo corrente dello stesso, aumentato dalle spese e perdite inerenti alla produzione del reddito che facciano carico al proprietario. Perciò, se il proprietario non solo coltiva in economia, ma lavora manualmente egli stesso il suo fondo coll’aiuto della famiglia, egli non avrà diritto, in conformità alle regole generali dell’imposta di ricchezza mobile, a dedurre l’importo dei salari dovuti a sé, alla moglie ed ai membri della famiglia con lui conviventi ed al cui mantenimento egli sia obbligato;
o 3) a mezzadria o colonia parziaria, quando il fondo è coltivato da un mezzadro o colono e il prodotto viene ripartito per metà tra proprietario e mezzadro, ovvero in altre parti aliquote, due terzi e un terzo, tre quarti ed un quarto, tra proprietario e colono parziario. In questo caso fino al 31 dicembre 1922, esisteva una imposta speciale detta sulle colonie agricole, anch’essa una categoria a sé dell’imposta di ricchezza mobile, la quale corrispondeva al 5% dell’imposta erariale principale pagata dal proprietario del fondo. A partire dall’1 gennaio 1923, abolito il preesistente tributo sulle colonie agricole, fu anche qui applicata la speciale imposta sui redditi agrari. Riflettendo che in questo caso proprietario e colono contribuiscono amendue alla produzione del reddito industriale agrario, il primo con la direzione e con il conferimento di tutto o parte il capitale bestiame, sementi, macchine, attrezzi, ed il secondo con la esecuzione degli ordini e il conferimento di tutto o parte dello stesso capitale, fu attribuito il reddito industriale agrario un po’ all’uno ed un po’ all’altro. Al proprietario fu attribuita la differenza tra la parte del prodotto dovuto al proprietario stesso e il valore locativo corrente del fondo, aumentato delle spese e perdite inerenti alla produzione del reddito che non facciano carico al proprietario.
Al colono è attribuita la differenza fra la parte del prodotto del fondo che spetta al medesimo, detratte le spese e perdite a di lui carico, non quindi i salari a se stesso dovuti, alla moglie, ai figli conviventi ed anche a quegli altri membri della sua famiglia i quali facciano parte della famiglia colonica.
Di fatto, data la complicazione di queste valutazioni, furono compilate tabelle concordate fra la finanza ed i rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori agricoli, in base alla superficie, ubicazione e coltura dei singoli appezzamenti di terreno.
VI. – Classificazione dei redditi ed aliquote dell’imposta.

Intorno al fondamento teorico ed alla storia della classificazione dei redditi mobiliari si discorse altrove (cfr. Principii, libro secondo, capitolo VII). Qui basterà perciò riassumere la situazione attuale. La nostra legge d’imposta mobiliare distingue i redditi in cinque categorie:
 Redditi di categoria a, e cioè i redditi derivanti dal solo capitale, che sono gli interessi ed i premi dei prestiti in qualunque forma costituiti, purché non dipendano da condominio o diretto dominio di terreni e case; i premi delle lotterie, ecc.
 Redditi di categoria b, e cioè i redditi misti per i quali occorre il concorso del capitale e dell’opera dell’uomo. A questa, che è la più ampia categoria, appartengono:
o a) i redditi derivanti dall’esercizio di industria o commercio;
o b) i redditi derivanti dall’industria agraria esercitata da persone estranee (affittavoli) alla proprietà dei fondi; od anche esercitata dallo stesso proprietario per la parte eccedente i prodotti del fondo stesso; Questi dichiarati qui sotto le lettere a) e b), sono i redditi che dall’inizio appartengono alla categoria B, e possono essere detti redditi propri di essa categoria. Seguono, sotto le lettere c) e d), i redditi agrari recentemente dichiarati tassabili con la speciale imposta sui redditi agrari e che si possono considerare come redditi assimilati di categoria B;
o c) i redditi agrari, come sopra definiti, percepiti dai proprietari dei fondi coltivati in economia o col sistema della colonia parziaria;
o d) i redditi agrari medesimi, spettanti ai coloni.
 Redditi di categoria c1, e cioè i redditi di lavoro incerto e variabile, derivanti dall’esercizio di arti o professioni, anche se i proventi, come fu spiegato sopra, siano avventizi o derivino da spontanee offerte fatte in corrispettivo di qualsiasi ufficio o ministero.
 Redditi di categoria c2, e cioè i redditi certi di lavoro derivanti da impiego privato (stipendi, pensioni od assegni) ed i redditi alla cui produzione non concorrono attualmente né il capitale né l’opera dell’uomo (vitalizi, sussidi, ecc.).
 Redditi di categoria d, e cioè i redditi certi di lavoro derivanti da pubblico impiego: stipendi, pensioni ed assegni corrisposti dallo stato, dalle provincie, dai comuni, dalle istituzioni di pubblica beneficenza, dagli enti pubblici di istruzione, dai corpi scientifici, dai consigli provinciali dell’economia, dalle cattedre ambulanti di agricoltura, dalle aziende esercenti pubblici servizi di trasporti e dalle reti telefoniche; escluso il personale operaio che gode di uno speciale trattamento di favore.
 Categorie speciali. – A queste, che sono le categorie fondamentali, si aggiungono categorie speciali, le quali in sostanza rispondono alla necessità di assoggettare a tassazione i salari degli operai, senza nel tempo stesso farli rientrare nelle categorie C2 e D, le cui aliquote si appalesavano per essi troppo gravose.
In virtù di successivi decreti 16 dicembre 1922, n. 1660, 21 dicembre 1922, n. 1661, 20 settembre 1926, n. 1643, furono assoggettati ad imposta: 1) tutti i compensi, assegni, sussidi, indennità di qualunque specie dovuti dallo stato ai propri salariati, nonché gli assegni corrisposti, oltre lo stipendio e le paghe giornaliere, sussidi, indennità, e competenze accessorie, ai salariati delle ferrovie dello stato; 2) i compensi medesimi corrisposti agli operai degli stabilimenti governativi, agli operai sia stabili che avventizi, dei comuni e delle provincie, a qualunque servizio adibiti, nonché a quelli delle aziende ferro tranviarie urbane e intercomunali, od esercenti linee di navigazione interna.
Criterio di classificazione degli operai pubblici nella categoria normale e In quella speciale. – La distinzione fra gli operai che diremo pubblici, perché dipendenti da enti pubblici, classificati nella normale categoria D, e quelli parimenti pubblici fruenti del trattamento speciale, è sottile; sicché occorse la pubblicazione di un elenco apposito da parte della finanza. In questo elenco, ad esempio, sono classificati in D: i bidelli delle scuole, i dattilografi, le guardarobiere di convitti civici, le guardie daziarie, i vigili urbani, gli agenti rurali, gli infermieri di manicomio, i magazzinieri, i messi comunali, i pompieri, gli uscieri e commessi in genere.
Sono invece classificati nella categoria speciale gli accenditori, gli accalappiacani, gli affissatori, i camerieri e cuochi dei convitti civici, i cantonieri stradali e capi cantonieri, i cupi squadra e capi operai, i conduttori di automobili, i fuochisti e macchinisti, i custodi e portieri, i fontanieri, i giardinieri, gli inservienti in genere, i meccanici, i muratori, i necrofori, il personale di fatica, gli spazzini, ecc. La distinzione, necessariamente empirica e talora difficile ad apprezzarsi, pare abbia a fondamento il criterio di collocare nella normale categoria gli operai i quali godono di maggiore continuità e sicurezza di lavoro e in quella speciale quelli il cui lavoro è più incerto. Ma la distinzione non è sempre evidente.
Gli operai privati tassati se esiste continuità di impiego. – Quanto agli operai delle industrie e delle aziende private, in pratica sono assoggettati alla tassazione normale in categoria C2 soltanto coloro, la cui opera abbia una certa stabilità di impiego e continuità di retribuzione e questa sia espressa in forma fissa e determinata. Così una tipografia è tenuta, salvo rivalsa, all’imposta sulla retribuzione al capo compositore e al capo impressore; l’esercente di un ristorante a quella sul salario del cuoco; i proprietari agli esercenti in genere di alberghi sui compensi di tutto il personale classificato di prima e seconda categoria dai contratti collettivi di lavoro.
Redditi minimi esenti. – Facendo uno strappo al concetto rigoroso della realità, il legislatore esenta nelle categorie B, C1, C2 e D e nella categoria speciale i redditi minimi i quali non raggiungano le lire 2000, e quelli agrari assimilati ai redditi di categoria B, i quali non raggiungano le lire 533,34.
Affinché si faccia luogo alla esenzione, occorre che i redditi netti da soli o cumulati con altri redditi di natura mobiliare o fondiaria, assunti al loro valore di iscrizione nei registri delle imposte mobiliari o sui fabbricati, o moltiplicati per quattro se si tratti di estimi catastali fondiari, non raggiungano le dette cifre. Tale operazione di cumulo dicesi coacervo ed i redditi relativi diconsi di coacervo o di concorrenza.
Redditi intermedi fruenti di detrazione. – I redditi imponibili tra lire 2000 e lire 2500 appartenenti alle categorie B, C1, C2 e D godono delle seguenti detrazioni:
se inclusi fra L. detrazione di L.
2000 e L. 2100 1000
2101 e L. 2200 800
2201e L. 2300 600
2301 e L. 2400 400
2401 e L. 2500 200
La detrazione ha per iscopo di attenuare il salto dalla esenzione assoluta alla tassazione integrale. I redditi agrari assimilati ai redditi di categoria B godono invece delle seguenti detrazioni:
se inclusi fra L. detrazione di L.
533,34 e L. 666,66 333,33
666,67 e L. 800 256,66
800,01 e L. 933,33 200
933,34 e L. 1166 133,33
La ragione di queste eteroclite cifre è storica e risale alla prima riduzione dei redditi ad ottavi (cfr. Principii, parte seconda, capitolo VII, sez. seconda).
Tassazione dei redditi della categoria c2 e conseguenti provvisorie aliquote variabili dell’imposta. – A decorrere dall’1 gennaio 1933 l’aliquota dell’imposta sui redditi di cat. C2, la quale era del 9% fu ridotta, in virtù del R.D.L. 30 gennaio 1933, n. 18, all’8%; cosicché, salvo che nelle modalità di accertamento e di riscossione, la cat. C2 più non si distingue sotto questo riguardo dalla seguente cat. D. Scopo di siffatta riduzione fu quello di agevolare l’accertamento esatto dei redditi di lavoro da impiego privato e la rivalsa dell’imposta anticipata dai datori di lavoro a carico dei percipienti il reddito (cfr. sotto paragrafo XI). Laddove prima l’imposta all’aliquota del 9% era esatta su una somma denunciata in blocco, a partire dall’1 gennaio 1933 l’accertamento si fa per dichiarazione particolareggiata dei nomi e degli importi singoli di reddito per ogni percipiente. La riduzione dell’aliquota dal 9 all’8%, combinata con la obbligatorietà della rivalsa ha recato questa conseguenza: che laddove prima il datore di lavoro pagava 100 lire di stipendio netto all’impiegato e 9 lire di imposta all’erario, senza di questa esercitare la rivalsa, dopo avrebbe dovuto pagare 100 lire di stipendio lordo, scemate di 8 lire d’imposta, ossia 92 lire nette all’impiegato, più 8 lire all’erario. Riduzione troppo forte ed improvvisa per l’impiegato, il quale aveva convenuto espressamente e tacitamente col datore di lavoro la corresponsione di 100 lire nette da tributo.
Perciò fu disposto dal decreto in discorso che:
 1) per i nuovi impiegati la rivalsa intiera fosse esercitata sull’ammontare dello stipendio lordo nuovamente convenuto. In tal caso ove datore di lavoro ed impiegato siano d’accordo nel convenire in 100 lire (o multiplo di esse) la remunerazione netta mensile, lo stipendio lordo dovrà essere fissato secondo la formula:
(92 / 100) x S = 100
dove S è lo stipendio lordo cercato e 92 è uguale a 100 meno l’imposta 8. Risolvendo, S risulta uguale a 108,69. L’imposta che era prima, al 9% dello stipendio netto, di 9 lire, risulta, all’8% del lordo, di 8,69 lire;
 2) per i vecchi impiegati, fosse agevolata la transizione dal vecchio al nuovo ordinamento, stabilendo che fosse obbligatorio aumentare lo stipendio di un ammontare pari ad una proporzione variabile dell’imposta trattenuta. In virtù del combinato disposto del citato decreto legge, di un decreto ministeriale 27 febbraio 1933 e delle circolari interpretative delle confederazioni di datori di lavoro e di lavoratori, gli aumenti di stipendio e la conseguente ripartizione dell’imposta totale fra datore di lavoro e percipienti sono i seguenti:
Ammontare della quota della remunerazione complessiva (stipendio, pensione, assegno, gratificazioni, ecc.) Minimo aumento obbligatorio di stipendio in proporzione all’imposta trattenuta a carico del datore di lavoro Ripartizione dell’aliquota di imposta a carico del percipiente Totale interesse %
fino a 6000 lire 80 6,40 1,60 8
compresa fra 6001 e 18.000 lire 50 4 4 8
compresa fra 18.001 e 30.000 lire 40 3,20 4,80 8
oltre 30.000 lire – – 8 8
gli aumenti di stipendio sopra indicati come obbligatori essendo «minimi» non è stato vietato ai datori di lavoro concedere aumenti anche maggiori e compensativi anche del totale importo della imposta pagata (da 100 a 108,69, come detto sopra). Qui si è voluto esporre il criterio ordinato dai decreti citati con qualche larghezza, perché esso introduce nel sistema delle aliquote della imposta di ricchezza mobile, che è reale e perciò costante, qualunque sia l’ammontare del reddito, un concetto di personalità epperciò di variabilità in funzione dell’ammontare del reddito del contribuente.
L’aliquota cioè è variabile decrescente (regressiva) per la parte dell’imposta a carico del datore di lavoro e variabile crescente (progressiva) a carico dell’impiegato od operaio. Ma l’introduzione di siffatto concetto personale in primo luogo non riguarda l’erario pubblico, il quale percepisce l’imposta secondo l’aliquota costante dell’8% ed in secondo luogo è transitoria, dovendo eliminarsi a mano a mano che i vecchi impiegati saranno sostituiti da nuovi o progrediranno oltre le 30.000 lire.
Aliquote. – Sulla scorta delle nozioni fin qui esposte possiamo ora esporre il sistema di aliquote vigenti attualmente per i redditi di ricchezza mobile:
Categorie: Natura del reddito Aliquote per ogni 100 lire di reddito netto
A di capitale puro 20
B misti di capitale e lavoro proprio
assimilato
di industria e commercio di affittuari di fondi rustici

redditi agrari del proprietario di fondi rustici redditi agrari del colono 14
7

5
2,50
C1 di lavoro puro incerto e variabile di professioni ed arti
12
C2 di lavoro puro da impiego privato 8
D di lavoro puro da impiego pubblico 8
Speciale di lavoro puro da salari di operai addetti: a) a pubblici servizi di trasporti ferroviari, tranviari, di navigazione interna, automobilistici; b) a stabilimenti di stato, provincie, comuni ed aziende autonome 4
Le categorie di redditi e di aliquote le quali erano tre secondo la legge originaria del 1864, che si erano venute, specialmente durante la guerra, moltiplicando a dismisura, che erano state riordinate e ridotte a cinque secondo la legge del 1924, hanno nuovamente la tendenza a crescere di numero. La tendenza risponde in parte ad esigenze logiche. La creazione, ad esempio, della categoria speciale, nasce dalla necessità da una parte di tassare gli operai e dall’altra di tassarli con un’aliquota minore di quella alta degli impiegati pubblici e privati, i quali hanno maggior sicurezza e continuità di impiego. La minor tassazione dei redditi assimilati di B dipende dalla incertezza maggiore dei redditi agrari e dalla sicurezza di poterli tutti controllare in somma normalmente vicina al vero. Ma i rapporti fra le aliquote di C1 e di D sono ancora incongrui (cfr. Principii, parte seconda, capitolo VII, sezione seconda); ed il sistema nel suo complesso è bisognevole di revisione. I redditi degli affittuari di fondi rustici e quelli agrari assimilati guadagnerebbero ad essere avulsi dalla imposta di ricchezza mobile e collegati con l’imposta sui terreni, con cui dovrebbero avere comuni i metodi sia di accertamento, come di revisione.
VII. – Duplicazioni nell’oggetto dell’imposta di ricchezza mobile.

Divieto generale di duplicazioni. – Il legislatore ha voluto espressamente vietare che uno stesso reddito potesse essere assoggettato due volte all’imposta di ricchezza mobile, quando all’art. 8 (secondo capoverso, n. 2) dichiarò eccettuati da tassazione «i redditi che per disposizione della presente legge siano già una volta assoggettati all’imposta in essa stabilita». Sembra questa, ma non è, disposizione superflua. Invero nulla di più facile del cadere nell’errore di duplicazione, essendo che i medesimi redditi passano attraverso parecchie persone ed attraverso questi passaggi possono prendere configurazione di redditi diversi.
Richiamansi qui le nozioni altrove esposte (in Principii, libro secondo, capitoli V e VI, sezione prima di essi), relativamente alla doppia tassazione ed alle sue varie specie.
Avulsione dei redditi. – Fonte perenne di disputa intorno alla duplicazione dell’imposta è la divisione dei redditi in categorie. Vi danno motivo specie i redditi delle categorie A e B. Un industriale lanaiuolo vende lana ad un industriale grossista. Costui paga a tre mesi; ed evidentemente paga l’1 o 2% di più che se non avesse pagato a contanti. Questo 2% è un vero interesse di mora; ma non è considerato come reddito di capitale puro (A), non trattandosi di mutuo che l’industriale abbia fatto al negoziante grossista; bensì è parte del reddito complessivo dell’industria (B), essendo impossibile che l’industriale lanaiuolo venda panni se non concede le more solite ai negozianti.
Però se uno dei grossisti alla scadenza dei tre mesi non paga una fattura di 10.000 lire, ad esempio, e dopo prolunghi vari, rilascia infine una cambiale a 12 mesi di 10.600 lire, di cui 10.000 lire per il prezzo scaduto della merce e 600 lire di interessi per un anno al 6%, ovvero se il cliente, non avendo pagato, è giudizialmente condannato a pagare la somma delle 10.000 lire insieme con gli interessi, allora il capitale di 10.000 lire non rimane nell’impresa industriale, non serve più a produrre i tessuti, a metterli in vendita e ad aspettare che trascorra la mora normale per i pagamenti. Esso è uscito, è avulso dall’impresa; è un capitale che in modo autonomo si può dire sia stato mutuato dall’industriale, in qualità di capitalista puro, al negoziante, cosiddetto debitore. Esso quindi non è più capitale che, unitamente al lavoro, produca il reddito industriale misto di categoria B; ma è capitale puro produttivo di interessi tassabili in cat. A.
Questa è la teoria dell’avulsione dei redditi, la quale importa:
 a) che il reddito di 600 lire per anno del negoziante grossista, o dell’interesse del mutuo ipotecario del cliente del banchiere deve, dopo l’avulsione, essere tassato a parte, come reddito di capitale puro nella categoria A. Il che non giova al contribuente, il quale paga il 20% invece che il 14% del reddito; e paga maggiormente, quando forse egli meno lucra, essendo il suo capitale immobilizzato e sottratto al fecondo giro normale degli affari, od in procinto di andar perso;
 b) che lo stesso reddito, essendo avulso dal reddito complessivo dell’azienda commerciale od industriale, non debba essere in questo reddito compreso, poiché altrimenti si avrebbe duplicazione d’imposta.
La qual deduzione è facile per le società per azioni, per le quali l’ufficio delle imposte, facendo l’analisi, ogni anno, delle partite attive del bilancio, facilmente colloca le une partite in A, le altre in B, le altre in C, a seconda della loro natura intrinseca, evitando ogni duplicazione. Ma è difficile per il commerciante o per l’industriale privato, il quale dovrebbe dalle 20.000 lire di reddito suo complessivo, tassato in B, ottenere per un anno la detrazione delle 600 lire di frutto del capitale di 10.000 lire, avulso per un anno dall’impresa e divenuto tassabile in A. Dicesi per un anno poiché pagato il debito ed estinta la cambiale, il capitale provvisoriamente avulso, ritorna all’azienda e di nuovo fruttifica redditi di categoria B. Sarebbe persino legalmente impossibile operare l’avulsione per un anno solo, essendoché i redditi di cat. B sono rivedibili solo ogni quattro anni ad opera del fisco ed ogni due anni ad opera del contribuente, Quindi, in pratica, la avulsione si opera solo in casi molto chiari e quando possa ritenersi escluso il ritorno del capitale all’industria.
Deducibilità delle annualità passive. – Sebbene nel sistema della nostra legislazione l’imposta colpisca il reddito nella sua quantità originaria, senza tener conto della destinazione sua, è evidente però che bisogna evitare tutte le duplicazioni d’imposta.
Il caso tipico è quello delle annualità passive, per cui s’intendono gli interessi passivi che un contribuente deve pagare per i suoi debiti.
Perché la detrazione dell’annualità passiva sia consentita, occorrono due condizioni, che si deducono dall’art. 31 del vigente testo unico 24 agosto 1877:
 che l’annualità passiva gravi il reddito specifico di ricchezza mobile del contribuente. Tizio ha ottenuto 20.000 lire per poter comprare il macchinario o avere il fondo circolante necessario alla sua azienda; senza il mutuo e senza pagare le 1000 lire di interesse annuo, egli non otterrebbe il reddito; e quindi è corretto nel sistema reale della nostra imposta di ricchezza mobile, dedurre le 1000 lire dal reddito di Tizio. Con ciò si escludono dal beneficio della deducibilità le annualità passive che si pagano per debiti incontrati per altra causa che non sia la produzione del reddito.
 b) Che siano accertati la persona ed il domicilio del contribuente nello stato. La quale seconda condizione è ragionevolissima, essendo evidente che se Tizio ottiene la deduzione di 1000 lire di interessi passivi dal suo reddito industriale o commerciale di 5000 lire, il fisco deve aver modo di conoscere il creditore Caio e di colpirlo nello stato per il reddito di cui egli gode. Altrimenti il fisco potrebbe colpire solo le 4000 lire di reddito netto di Tizio, mentre il reddito industriale sorto in Italia (e noi sappiamo che l’imposta di ricchezza mobile ha limiti territoriali e colpisce tutto il reddito sorto in Italia) è di lire 5000 e tutte esse debbono essere tassate, 4000 presso Tizio e 1000 presso Caio. Notisi che, il più spesso, dove i debiti sono cambiari o chirografari, i debitori preferiscono non denunciare l’annualità passiva. Così essi pagano bensì su tutto il reddito, ma pagano solo il 14% in categoria B; laddove, denunciando il debito, Tizio pagherebbe il 14% su 4000 lire e Caio il 20% (cat. A) su 1000; sicché essi preferiscono ripartire tra di loro la minore imposta, e l’iniziativa di accertare il mutuo e dedurlo spetta alla finanza.
Riserve matematiche delle imprese di assicurazione. – Esistono due maniere di assicurazione sulla vita: a premio naturale ed a premio medio. Col premio naturale l’assicurato paga ogni anno una somma o premio corrispondente al rischio di morire nell’anno. E poiché il rischio è tenuissimo nelle età giovani e cresce quanto più si procede nella vecchiaia, l’assicurato dovrebbe pagare un premio crescente di anno in anno.
Il metodo è poco simpatico ed è caduto in disuso perché le imprese hanno veduto che avevano molti assicurati in età giovane, ma rapidamente li perdevano quanto più essi avanzavano in età. E fu sostituito col metodo del premio medio, per cui l’impresa si fa pagare, ad esempio, il 3% della somma assicurata ogni anno, che è superiore al necessario a coprire il rischio di morte per le età giovani ed inferiore per le età avanzate. Le imprese provvidero a ciò, mandando a riserva il supero oltre il rischio di morte dell’anno nelle età giovani e consumando poi la riserva nelle età avanzate.
Le somme che le imprese accantonarono nelle età giovani per sopperire al disavanzo delle età avanzate chiamansi riserva matematica.
Per lunghi anni il fisco si ostinò a considerare come reddito od utile della società queste somme mandate alla riserva matematica, ed a tassarle in cat. B, sebbene fosse chiarissimo che esse non erano utili, ma accantonamenti provvisori destinati ad essere restituiti agli assicurati. A nulla valsero le dimostrazioni più chiare, essendoché esse si infrangevano contro la lettera della legge, la quale aveva dichiarato che dovevano essere tassate tutte le somme destinate a riserva.
Fu d’uopo intervenisse apposita legge interpretativa dell’11 aprile 1889, n. 6010, la quale stabilì il principio che nel reddito delle imprese di assicurazione sulla vita non dovessero essere comprese «le somme destinate a costituire la riserva matematica».
Delle somme distribuite a titolo di rimborso di capitale. – Ad evitare duplicazioni, l’art. 8 sancisce del pari siano eccettuate da imposta le somme pagate a titolo di rimborso di capitale; essendo evidente che se una società, costituita col capitale di 1 milione, in prosieguo di tempo riconosce l’esuberanza del capitale e ne rimborsa la metà agli azionisti, la somma di 500.000 lire rimborsata, per il solo fatto della distribuzione agli azionisti, non diventa tassabile. Essa continua ad essere capitale, e non può essere tassata come reddito. Se però la società rimborsa qualche cosa a titolo di rimborso capitale che invece di fatto è reddito, tal somma dovrà essere tassata.
Quid dei premi sulle obbligazioni, cartelle o altri titoli di debito? – Un ente pubblico od una società per azioni emette una serie di obbligazioni da 500 lire l’una, obbligandosi a pagare l’annuo interesse del 4% ed inoltre, al momento del rimborso, per estrazione a sorte, dell’obbligazione di 500 lire, un premio di 100 lire. Evidentemente queste 100 lire sono un soprappiù di interesse o reddito, il quale per ciò solo si differenzia dall’interesse annuo che, invece di essere pagato ogni anno, si accumula alla fine del periodo di vita dell’obbligazione. Dunque, correttamente, queste 100 lire andranno assoggettate ad imposta di ricchezza mobile. E questo è il caso delle obbligazioni del canale Cavour, delle ferrovie centrali toscane e di altre ancora a debito dello stato.
Invece ha voluto il legislatore che, se lo stato ha emesso obbligazioni del valore nominale di lire 500, per cui cioè si è riconosciuto debitore di 500 lire, ad un corso inferiore alla pari, per es., a 300 lire, e poi, giunto il momento dell’estrazione, restituisce le 500 lire, la differenza in più rimborsata oltre il versato di 300 lire non sia reddito. Ciò deriva dalla lettera della legge, la quale vuole escluse da tassazione le somme pagate a titolo di rimborso di capitale; e lo stato precisamente, dicesi, paga tutte le 500 lire all’atto dell’estrazione «a titolo di rimborso di capitale». Poiché il legislatore volle così, e su di ciò non cade dubbio, le 200 lire vanno esenti da tributo.
Quid dei cosiddetti redditi delle società filantropiche scientifiche, Letterarie, di divertimento, ecc.? – Per analoga ragione, essere desse pagate a titolo di conferimento di capitale, si è riconosciuto che non erano passibili di imposta le contribuzioni dei soci delle società non aventi scopo industriale, ma educativo, o filantropico, o di divertimento, erogate per gli scopi sociali.
Ove però il circolo, sull’incasso annuo, risparmiasse mille lire ed in capo a 10 anni costituisse un capitale di 10.000 lire e questo investisse in un mutuo ipotecario al 5%, sul reddito delle 500 lire annue per tal modo ottenuto, a buon diritto graverebbe l’imposta, essendo quello un reddito in più, ottenuto, oltre le contribuzioni dei soci, da un capitale proprio del circolo.
La cosiddetta esenzione delle società di mutuo soccorso. – Vuole l’art. 8 del testo unico che siano esenti dall’imposta i redditi delle società di mutuo soccorso. E fu affermato trattarsi di un vero favore o privilegio concesso alle società di mutuo soccorso allo scopo di promuovere l’incremento socialmente utile. Mentre invece:
 a) o trattasi di entrate delle società medesime derivanti dalle contribuzioni dei soci ed erogate al fine sociale, ed allora la tassazione sarebbe stata indebita, perché le contribuzioni dei soci non sono reddito per la società, bensì capitale sociale; e sarebbesi verificata, come sopra si dimostrò, duplicazione d’imposta;
 b) ovvero trattasi dei redditi che la società di M.S. ricava dall’impiego capitalistico delle contribuzioni dei soci; ed allora per un altro verso si verificherebbe la doppia tassazione se quei redditi fossero tassati.
Supponiamo invero che una società di mutuo soccorso abbia costituito, colle quote dei soci, un fondo di un milione di lire, con cui provvede a sussidi dei suoi soci. Essa ricava dal milione di fondo un reddito annuo di 50.000 lire, di cui si serve, ricorrendo inoltre, ove faccia d’uopo, a prelievi dal fondo sociale, per ripartire tra i soci sussidi di 100 lire all’anno durante la loro tarda età od incapacità al lavoro. È chiaro che, se non si vuole commettere l’errore di duplicazione d’imposta, occorre, anche partendo dal concetto informatore della legge vigente, esentare o le 50.000 lire di reddito della società, ovvero quella parte delle 100 lire di sussidio ai soci che è costituita dai frutti del fondo sociale. Se si tassassero amendue, si tasserebbe due volte lo stesso reddito, una volta mentre è indiviso e la seconda mentre è ripartito a titolo di sussidio fra i soci. Ciò non si volle per le società per azioni, delle quali si tassa solo il reddito indiviso presso la società e non più il dividendo frazionato presso gli azionisti. Nel caso delle società di mutuo soccorso il legislatore preferì seguire il metodo inverso: lasciando immune il reddito indiviso delle 50.000 lire, e tassando le 100 lire, o quella parte delle 100 lire che non è rimborso di capitale, presso i soci.
Riguardo alle prime nulla importava conoscere la persona dell’azionista, essendoché il reddito viene tassato come tale; presumendosi che gli azionisti non siano di solito poveri e meritevoli di riguardo speciale.
Mentre per i soci delle società di mutuo soccorso vale la presunzione inversa; che essi siano cioè contribuenti modestissimi, i quali hanno diritto ad ottenere la esenzione dalle imposte, a causa della tenuità del loro reddito. Onde il legislatore volle che il reddito delle 50.000 lire della società di mutuo soccorso da noi immaginata fosse esente; ma fossero eventualmente tassati i sussidi delle 100 lire ai soci, quando fossero riscossi da soci aventi in complesso, tenuto conto cioè degli altri loro proventi, un reddito superiore al minimo esente.
VIII. – Minorazione d’imposta in, ragione di risparmio.

Riduzione a metà dell’imposta a favore degli utili mandati a riserva dalle banche. – I lettori dei Principii conoscono la controversia dibattuta a proposito della cosiddetta esenzione del risparmio dall’imposta e dei vari metodi adottati per attuarla, fra cui la italiana diversificazione dell’imposta in ragione della natura del reddito (Principii, libro II, cap. VII). Un importante caso della tendenza del legislatore a riconoscere il principio di esentare o tassare di meno le somme mandate a risparmio la eccezione disposta dai R.D.L. 7 settembre 1926, n. 1511, e 27 dicembre 1932, n. 1766, alla regola generale per cui la destinazione del reddito non ha importanza ai fini della sua tassabilità (cfr. sopra paragrafo III) epperciò le somme mandate a riserva devono essere tassate come quelle distribuite ad azionisti o soci. L’eccezione consiste in ciò che gli utili portati a riserva ordinaria dalle società ed altri esercenti il credito e le ditte bancarie in genere, sia nazionali che straniere, le quali raccolgono depositi, godono del beneficio della riduzione a metà dell’aliquota d’imposta di ricchezza mobile, pagando cioè il 7% invece che il 14% sull’ammontare mandato a riserva.
Il beneficio:
 1) riguarda solo l’eccedenza oltre il ventesimo dell’utile, ventesimo che le società bancarie ed altri banchieri devono accantonare ad ogni modo; e ciò allo scopo di incoraggiare gli interessati a costituire forti riserve;
 2) se si tratti di imprese estere, è condizionato alla destinazione delle riserve così costituite ad operazioni nello stato.
La minorazione d’imposta è uno dei provvedimenti inspirati al criterio di tutelare il risparmio, rafforzando gli organismi bancari; ma può essere acconciamente anche fatto rientrare nel quadro dei provvedimenti di attuazione del criterio di esclusione dei risparmi – e le riserve sono tipica forma moderna di risparmio collettivo (cfr. Principii, libro II, cap. IX, paragrafo II) – dal campo tributario.
IX. – Esenzioni dall’imposta di ricchezza mobile.

Premessa. – Rimane solo da accennare a talune esenzioni vere e proprie, che non rientrano nella categoria precedente. Non faremo un elenco compiuto, ma solo esemplificativo.
Esenzioni a titolo di reddito minimo. – Entrano in questa categoria le esenzioni, di cui per chiarezza si parlò sopra nel paragrafo 6, per i redditi delle categorie B, C1, C2, e D, agrari e speciali, inferiori al minimo imponibile.
Esenzioni a titolo di privilegio per la funzione esercitata. – Sono essenzialmente tre:
 a) l’esenzione concessa alla dotazione della corona ed agli appannaggi dei membri della famiglia reale; essendosi reputato che il sovrano, nel cui nome sono esatti i tributi, non potesse egli medesimo venire assoggettato ad imposta;
 b) l’esenzione concessa alle retribuzioni di qualsiasi natura dovute dalla Santa Sede, dagli altri enti centrali della chiesa cattolica e dagli enti gestiti direttamente dalla Santa Sede anche fuori di Roma, a dignitari, impiegati e salariati, anche non stabili. Questa esenzione, stabilita dai patti lateranensi, costituisce quella che la legge delle guarentigie concedeva alla dotazione della Santa Sede, la quale non ha più ragione d’essere a norma della legislazione vigente essendo, colla costituzione dello stato della Città del Vaticano, venuta meno la dotazione assegnata prima, e del resto mai riscossa, alla Santa Sede;
 c) l’esenzione concessa agli agenti diplomatici per ragioni di cortesia internazionale; ed agli agenti consolari, quest’ultima limitatamente agli agenti consolari che non siano né regnicoli, né naturalizzati, purché non esercitino nello stato un commercio od una industria e purché esista reciprocità di trattamento negli stati dai quali essi dipendono.
Esenzioni determinate dalla convenienza dell’erario: l’esenzione dei titoli di debito pubblico. – Il problema si può studiare innanzi tutto da un punto di vista teorico senza riguardo alla legislazione vigente. Esso si pone così: conviene allo stato colpire il reddito annuo di titoli di debito pubblico proprio con un’imposta? Sembra che la cosa sia indifferente.
Poiché è evidente che lo stato vendendo un titolo 5% soggetto all’imposta del 20% in realtà vende un titolo il quale frutta al capitalista solo 4 lire nette e quindi, ove il tasso di interesse corrente sul mercato sia precisamente del 4%, lo stato potrà incassare lire 100 sulla vendita del titolo. Vendendo un titolo 4% netto da imposta, il prezzo ricavabile sarà pure di 100 lire.
In ambi i casi lo stato ottiene a mutuo 100 lire e si obbliga a pagare 4 lire di interesse annuo. Nel primo caso la visione netta del fatto è oscurata dall’obbligo che lo stato assume di versare 5 lire, in qualità di ente debitore e dal diritto che si arroga in qualità di ente tassatore, di trattenere per sé 1 lira a titolo d’imposta, pagando nette 4 lire. Il secondo metodo è più semplice, il primo è più complicato e richiede maggiore sfoggio di contabilità.
Si adduce però, a far pendere la bilancia:
A favore della tassazione:
 a) che sarebbe scorretto, anche se formalmente indifferente, concedere una esenzione ai capitalisti: la quale sarebbe un vero privilegio;
 b) che se è indifferente in un primo momento tassarli od esentarli, può non esserlo più in seguito; perché, se il fabbisogno dello stato aumenta e le imposte generali vengono aumentate dal 20 al 25%, lo stato potrà, se i titoli del debito pubblico sono tassati, aumentare l’imposta dal 20 al 25%, aumentando la ritenuta da 1 lira ad 1,25 e riducendo l’interesse dal 4 al 3,75%; mentre se il titolo è esente, l’interesse rimarrà fisso al 4% ed i portatori di titoli di debito pubblico sfuggiranno al nuovo onere di tributo che grava su tutti gli altri cittadini.
A favore dell’esenzione:
 c) che l’argomento addotto sotto (a), lascia i dubbiosi nell’indifferenza primitiva; poiché non si può sul serio sostenere che si renda omaggio al principio della universalità dell’imposta, quando allo scopo di potere fingere l’esazione di una imposta di 1 lira, si aumenta l’interesse nominale dal 4 al 5% e, trattenuta 1 lira a titolo di imposta, si pagano le 4 lire che unicamente il capitalista pretendeva. Il principio della universalità viene ugualmente violato, essendoché il capitalista nulla paga sul suo reddito, che voleva essere ed è di 4 lire nette; la violazione è aggravata col far credere che una imposta sia prelevata mentre di fatto non è;
 d) che l’argomento addotto sotto (b), si può agevolmente ritorcere a favore dell’esenzione. Poiché se è vero che lo stato potrà, in una futura occasione di maggior fabbisogno pubblico, elevare l’imposta da 1 lira a 1,25, ricavandone un vantaggio sostanziale e non apparente, non è meno vero che la possibilità di cotal futuro aumento di balzelli è preveduta dai capitalisti. Cosicché, se essi pagano 100 lire il titolo 4% netto da qualunque imposta presente e futura, pagheranno soltanto 95 lire o forsanco meno, il titolo 5% lordo soggetto oggi a una lira di trattenuta, perché essi ragionevolmente vogliono premunirsi contro il rischio di un aumento dell’imposta da 1 lira a 1,25. Cosicché non par possibile che lo stato possa istituire oggi un’imposta sui titoli di debito pubblico, senza doverne pagare subito il fio in una diminuzione del valore capitale del titolo.
La risultante di questi opposti argomenti pare sia la seguente:
 1) se i capitalisti temono o prevedono – a torto od a ragione, non monta – che in avvenire l’imposta gravante sul titolo abbia ad essere aumentata, è meglio «per lo stato» emettere titoli al netto, perché il titolo lordo, ad es., 5% gravato di un’imposta attuale di 1 lira non sarebbe pagato al valore corrispondente a 4 lire nette, ma al valore corrispondente a 3,75 o forse 3,50 lire nette, volendo i sottoscrittori garantirsi contro il pericolo di aumenti futuri d’imposta. In tal caso, lo stato pagherebbe subito il prezzo di un’imposta che forse non verrà;
 2) se i capitalisti sperano che in avvenire l’imposta gravante sul titolo abbia a diminuire, è meglio “per lo stato” emettere titoli al lordo, perché il titolo 4% netto sarà pagato 100 lire, laddove il titolo 5% lordo, gravato oggi di 1 lira d’imposta, può essere pagato 105 lire, se si spera che l’imposta possa ridursi a 0,90 o 0,75 lire.
Se le previsioni potessero farsi con tutta esattezza, il prezzo di emissione neutralizzerebbe esattamente l’imposta attuale e quella futura; ma poiché gli uomini esagerano sempre i loro timori e le loro speranze, allo stato non giova offrire un titolo che accentui i loro timori (e così nel caso 1 è bene astenersi dall’offrire il titolo al lordo) o cancelli le loro speranze (e così nel caso 2 non conviene offrire il titolo al netto). Lo stato ha sempre convenienza ad offrire il titolo più accetto; non v’è, neppure per esso, da guadagnar nulla ad andar contro alle propensioni dei clienti; e, per i prestiti pubblici, lo stato ha di fronte non contribuenti forzati, ma clienti volontari.
I capitalisti, in fatto, temeranno l’aumento o spereranno la diminuzione delle imposte, a norma della loro esperienza passata: se in un paese le imposte usarono aumentare, senza mai diminuire, è facile che si tema l’indefinito aumento e sarà giuocoforza allo stato garantire i sottoscrittori contro il pericolo, emettendo titoli al netto; laddove se le imposte, pur aumentando in via straordinaria durante le guerre, scemarono in pace giova allo stato vendere i titoli al lordo, meglio graditi, in queste circostanze, al pubblico.
Le conclusioni ora fermate possono subire qualche rettifica, se invece di una imposta reale, ad aliquota costante, si parlasse di un’imposta personale, ad aliquota variabile progressiva. In tal caso l’imposta sarebbe nulla, lieve, grave o gravissima a seconda che il titolo entra a far parte del patrimonio di un contribuente mediano, agiato, ricco o ricchissimo. Con tale premessa, se lo stato recluta i suoi clienti fra i mediani ed i semplicemente agiati, se il titolo di debito pubblico è cioè popolarizzato fra le classi medie, fra i piccoli proprietari e artigiani, se nelle famiglie operaie esso è conosciuto, non avrà importanza che il titolo sia gravato di imposta. Questa non esiste od è lievissima per le classi interessate; epperciò non è un ostacolo al successo del titolo al lordo.
Se invece lo stato ha la miglior sua clientela nelle classi ricche, le quali pagherebbero aliquote forti o fortissime se il titolo fosse al lordo, può lo stato aver convenienza ad emettere titoli al netto, anche da imposte personali. I ricchi saranno in tal caso attratti dal titolo di debito pubblico e possono indursi a pagarlo ad un prezzo tale da indennizzare ampiamente lo stato per la rinuncia all’imposta.
Un fattore di cui anche conviene tener conto nel decidere il quesito è quello del tempo. Se il titolo non solo è perpetuo, ma lo stato si è interdetta la facoltà di rimborsare il debito per lunghissimo periodo di tempo, è difficile fare previsioni ed entrano in campo le considerazioni fatte sopra sulle diverse previsioni intorno alle variazioni future d’imposta.
Ma se lo stato si è riservata la facoltà di rimborsare il capitale dopo 5 o 10 anni, le previsioni intorno all’imposta futura sono facili e poco rischiose. Ambe le parti possono valutare ciò a cui rinunciano e pagarne il prezzo; ed ambe le parti hanno le mani libere rispetto all’avvenire.
Facoltà di rimborso vuol dire possibilità di conversione (vedi Principii, libro III), se il saggio d’interesse diminuisce.
Finché sono possibili e prevedibili conversioni ad un saggio minore di interesse, è conveniente emettere titoli al netto da imposte, perché ad ogni volta lo stato potrà farsi pagare e ad usura, un maggior prezzo, in caso di nuova emissione, o promettere un minor interesse, in caso di conversione, corrispondenti, rispettivamente, alla capitalizzazione dell’imposta od alla immunità da essa per la durata della vita del titolo di debito pubblico.
I metodi seguiti in Italia rispetto alla tassazione dei titoli di debito pubblico. – Il legislatore italiano non ha seguito esclusivamente né l’uno né l’altro principio. O meglio, il principio generale affermato nello statuto, nella legge fondamentale sul debito pubblico e nella legge d’imposta di ricchezza mobile è che gli interessi del debito pubblico non devono andar soggetti a nessuna imposta speciale, ma solo alle imposte generali che colpiscono anche gli altri redditi. Con ciò si evitava la creazione di imposte in odio ai portatori di titoli di debito pubblico; sembrando difficile che si vogliano tassare tutti i contribuenti solo per arrecare danno a taluni di essi, ed essendo certo che gli altri contribuenti, difendendo se stessi contro le imposte eccessive, devono contemporaneamente difendere anche i portatori di titoli di debito pubblico.
La regola della imposizione generale fu voluta osservare, almeno formalmente, persino quando nel 1894 il legislatore fu costretto ad aumentare l’imposta di ricchezza mobile sui titoli di debito pubblico dal 13,20 al 20%. In sostanza, si volevano più specialmente colpire i titoli di debito pubblico; ma, per giungere allo scopo, si dovette aumentare l’aliquota generale dal 13,20 al 20% su tutti i redditi imponibili, e poi nella categoria A1, la quale in origine doveva tassare ai 40/40 solo gli interessi del debito pubblico, si dovettero collocare anche i titoli di debito comunale e provinciale e quelli al portatore portanti interesse fisso delle società riceventi garanzie dallo stato. Tuttociò per evitare che la tassazione, di fatto speciale, del 20% sui 40/40 del reddito avesse apparenza di imposta odiosa contro i detentori dei titoli di debito pubblico.
Il principio dominante era però, fino alla guerra ultima, quello della tassazione: generale bensì, ma tassazione. Il che si comprende in tempi in cui il giovane stato italiano traversava momenti fortunosi della sua storia finanziaria; e stabiliva imposte su tutto, non badando al danno che ne risentiva pel deprezzamento dei titoli di debito pubblico. Ma migliorate, col tempo, le condizioni della finanza, con la conversione del 29 giugno 1906, si mutò, col pieno e libero consenso dei creditori, il 5% lordo in un 3,75% netto destinato a ridursi, come si ridusse, ulteriormente ed automaticamente al 3,50% netto nel 1912. In quell’occasione il legislatore si persuase dell’inutilità della vecchia finzione di un’imposta esatta solo formalmente ed il nuovo titolo fu emesso al 3,75 – 3,50% netto da qualunque imposta presente e futura.
Notisi però che l’esenzione, la quale di solito si esprime colla locuzione: interessi del 3,5, 4, 4,5, ecc., per cento, esenti da qualunque imposta o tassa presente e futura, si riferisce soltanto alle imposte, generali e speciali, le quali hanno carattere reale e colpiscono cioè il capitale o l’interesse del titolo di debito pubblico in se stesso considerato. Non possono riferirsi alle imposte le quali colpiscono le persone, in rapporto al reddito complessivo che esse ricevono da tutte le loro fonti di reddito (vedi Principii, libro secondo, capitoli V e VI). E così la imposta straordinaria sui patrimonio, la imposta complementare progressiva di stato e l’imposta di successione colpiscono il reddito o il patrimonio totale del contribuente, tenendo conto perciò, pel calcolo del reddito totale, anche della quota derivante dal possesso di titoli di debito pubblico esenti dalle imposte. Ciò che qui è colpito non sono invero gli interessi, come tali, dei titoli esenti; bensì il reddito complessivo personale del contribuente, a comporre il quale non possono, in linea di principio, non entrare i redditi ricavati dal possesso dei titoli di debito pubblico.
Il che si spiega agevolmente: se un’imposta deve colpire i contribuenti in proporzione al loro reddito totale, per qual motivo Tizio che riceve il reddito x da terreni dovrebbe essere tassato e Caio che riceve lo stesso reddito x da titoli di stato dovrebbe andare esente? Qui non sono in gioco terreni o titoli di stato; ma un dato reddito, da qualunque fonte derivato, che rende passibile la persona di una data imposta.
Certo, il problema presenta qualche spinosità; non essendo possibile sottrarsi all’impressione che, con questa tassazione, del resto logica, si venga a violare la promessa di immunità da qualunque tassa ed imposta.
Sicché sarebbe opportuno, al momento della emissione dei prestiti, dichiarare espressamente che le promesse esenzioni riguardano solo le imposte reali e non quelle personali.
X. – Esenzioni speciali.

Esenzioni speciali. – Le esenzioni dall’imposta di ricchezza mobile concesse in virtù di leggi speciali sono troppo numerose perché se ne possa far menzione completa. Basterà ricordare tra le più importanti:
 a) le esenzioni concesse per promuovere particolari forme di credito, come gli interessi dei mutui in cartelle di qualsiasi somma concesse dagli istituti di credito fondiario a partire dal 30 settembre 1926; gli interessi dipendenti dalle obbligazioni emesse dopo il 30 settembre 1926 dalle provincie, comuni, enti morali, società anonime ed in accomandita per azioni; gli interessi dei mutui concessi per l’acquisto e la costruzione di case popolari ed economiche e dalle casse di risparmio e da altri enti di credito; gli interessi delle obbligazioni emesse da enti pubblici, come il consorzio per opere di pubblica utilità, l’istituto mobiliare italiano, l’istituto per la ricostruzione industriale, l’istituto di credito navale, ecc.;
 b) le esenzioni concesse alle società e ditte private, le quali, pur avendo la sede principale in Italia, hanno succursali all’estero od in colonie italiane, allo scopo di evitare una doppia tassazione. A partire dal primo gennaio 1928 non si tiene conto del reddito prodotto all’estero, né degli stipendi ed altri assegni di ogni genere corrisposti ai dipendenti, quando le società o ditte conservino una gestione distinta per le dette succursali e queste corredino di regolare contabilità atta a dimostrare la separazione dei redditi ottenuti nel regno ed all’estero;
 c) le vincite al lotto;
 d) gli interessi dei mutui contratti da concessionari di opere di bonifica, e non solo con le casse di risparmio ma con qualsiasi istituto di credito privato quando si tratti di progetti approvati dall’1 gennaio 1928.
Esenzioni temporanee. – La più antica delle esenzioni temporanee ha per scopo di promuovere il sorgere di industrie nel mezzogiorno. Perciò gli opifici, tecnicamente organizzati, che si impiantano nelle provincie meridionali e nella Sicilia e Sardegna dopo il 31 luglio 1906 sono esenti dalle imposte per un decennio.
Per un quinquennio sono esenti gli opifici tecnici organizzati per l’estrazione degli olii essenziali dei fiori e per la lavorazione dei profumi. È temporanea altresì l’esenzione concessa agli impianti idroelettrici della Sila per un decennio, quando le opere siano compiute non oltre il 31 ottobre 1935.
XI. – Accertamento dell’imposta.

Dichiarazione. – Leggi recenti e principalmente quella del 9 dicembre 1928, n. 2884, e soprattutto il R.D. 17 settembre 1931, n. 1608, hanno fatto rivivere l’obbligo sempre esistito del contribuente a far dichiarazione dei redditi di ricchezza mobile, obbligo che per dissuetudine era stato obliterato. L’obbligo della dichiarazione spetta ad ogni possessore di redditi. Il capo di famiglia deve perciò fare la dichiarazione non solo dei redditi propri ma anche di quelli di cui gode in nome della moglie e dei figli e di altri membri della famiglia dei quali abbia usufrutto od amministrazione. I legittimi rappresentanti dichiarano a nome dei minori incapaci. Gli enti collettivi devono dichiarare, insieme con i redditi propri, i redditi che essi pagano a beneficio di terzi, come interessi di mutui, di obbligazioni, stipendi ed assegni di qualsiasi natura. Rispetto a questi essi hanno anche obbligo di pagare l’imposta salvo il diritto di rivalsa verso i percipienti dei redditi. Lo stesso obbligo di denuncia e pagamento, salvo rivalsa, si ha per i privati esercenti industrie e commercio o professione per quanto riguarda gli stipendi od assegni pagati ai loro dipendenti. In virtù del R.D.L. 30 gennaio 1933, n. 18, gli enti, le società e le persone le quali sono tenuti a dichiarare gli stipendi, pensioni ed assegni corrisposti ai loro dipendenti e pagare direttamente la relativa imposta, a partire dall’1 gennaio 1933, sono tenuti:
 a) ad esercitare la rivalsa, la quale prima era facoltativa. In caso di trasgressione di tale obbligo, l’imposta sarà nuovamente riscossa a nome del percipiente il reddito ed all’ente, società o persona sarà applicata per la trasgressione una sopratassa uguale al cinquanta per cento dell’ammontare di imposta non trattenuta. Tale sopratassa non è condonabile se non per legge. L’obbligo della rivalsa ha lo scopo morale di mettere le moltitudini di impiegati e dipendenti a contatto con lo stato, interessandoli alle spese pubbliche (vedi Principii, II, XII, IV, 5);
 b) a presentare, a partire dal 1934, entro il 31 gennaio di ciascun anno, un elenco completo degli emolumenti di qualsiasi natura corrisposti nel precedente anno, comprese le cointeressenze, le partecipazioni, i gettoni di presenza, le gratificazioni per qualsiasi ammontare, colla indicazione nominativa dei percipienti. Si procederà, su questa base, al conguaglio con tassazione supplettiva o sgravio in confronto alla tassazione provvisoria operata nell’anno finito. Tale obbligo, oltrecché a non lasciare esente alcun reddito, con la dichiarazione dei nomi dei singoli percipienti, invece che con dichiarazione in blocco, come usavasi prima, ha per iscopo di apparecchiare dati migliori per la tassazione ai fini della complementare.
La dichiarazione deve essere fatta nel comune dove il contribuente ha il suo domicilio effettivo.
Termini per la dichiarazione. – Per quel che riguarda i privati contribuenti i redditi di categoria A, B, C2, e D devono essere dichiarati entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello nel quale i redditi incominciarono a prodursi. Invece i redditi di categoria C1 sono da dichiarare entro il 31 gennaio del secondo anno solare successivo all’inizio dell’attività professionale. Devono denunciarsi anche le variazioni in aumento entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello in cui si verificano.
Accertamento. – Le dichiarazioni fatte dai contribuenti sono controllate dalla finanza, tenendo conto dei documenti ottenuti da pubblici uffici, delle dichiarazioni di contribuenti i quali sono obbligati a comparire, se richiesti; delle visite fatte nei locali destinati all’esercizio di industria o commercio; delle informazioni ottenute da terzi, delle ispezioni dei registri delle società anonime ed in accomandita ed anche delle altre società commerciali e dei privati i quali abbiano l’obbligo di tenere regolari scritture commerciali; dei titoli costitutivi di redditi in somma definita, del valore locativo dell’abitazione del contribuente.
La finanza si giova anche del sussidio della «polizia tributaria investigativa», organo costituito in base al R.D.L. del 18 gennaio 1923 alla dipendenza del comando generale del corpo della regia guardia di finanza; e gli ufficiali, sott’ufficiali e militari della polizia hanno tutti i poteri di indagine, di accesso, di visione e di controllo che per legge spettano agli ufficiali di finanza.
Essi possono accedere, quando occorra, nei locali destinati all’esercizio d’industria o commercio allo scopo di far controlli, saltuari o periodici, ispezionare talvolta i registri (per questo occorre però la richiesta degli ispettori o del capo dell’ufficio delle imposte).
Valutazione dei redditi. – La valutazione è differentemente compiuta per i redditi in somma definita (categ. A, C2 e D) i quali sono valutati secondo il loro effettivo ammontare ed i redditi incerti e variabili delle categorie B e C1 i quali sono valutati sulla media dei due esercizi annuali che precedono quello della denuncia o del periodo più breve precedente a quell’anno per cui essi si produssero. Si deve tener conto altresì delle circostanze le quali possano far presumere fondatamente che il reddito abbia negli anni successivi a diminuire.
Revisione. – I redditi incerti e variabili di categoria B e C, quando siano accertati a nome di privati contribuenti, rimangono fermi per un quadriennio dall’anno nel quale avviene l’accertamento. I contribuenti però hanno diritto di chiedere rettifica dopo un biennio. Il contribuente ha altresì diritto di chiedere lo sgravio delle imposte dal giorno della cessazione del reddito. Quadriennio e biennio decorrono sempre dall’anno in cui venne fatta la tassazione, se si tratta di prima tassazione, anche quando la medesima riguarda l’anno in corso ed i due precedenti. Occorre porre mente invero a questo riguardo che la finanza, quando venga a scoprire redditi prima non denunciati e già esistenti, ha diritto di elevare accertamento per l’anno in corso e per i due anni precedenti, non più in là, allo scopo di dare certezza ai contribuenti di non dover pagare l’imposta per un tempo troppo lungo passato. Quando il contribuente presenti domanda di rettifica, l’accertamento in corso cessa di essere valido per il secondo biennio anche per i redditi diversi da quello per cui si chiede la rettifica e l’ufficiale delle imposte acquista il diritto di contrapporre rettifica in aumento. Dopo la rettifica o la contro rettifica incomincia a decorrere un nuovo quadriennio per il fisco ed un biennio per la finanza.
Accertamento per le società e gli enti tassati in base a bilanci. – La regola del quadriennio e della tassazione sulla base della media dei due esercizi precedenti non vale per quelli che nel linguaggio amministrativo finanziario si chiamano «enti collettivi»: società anonime ed in accomandita per azioni, istituti di credito, casse di risparmio, società di assicurazione, mutue a premio fisso, società civili che in virtù dell’art. 229 del C. C. hanno la forma di società per azioni, società cooperative costituite in forma di società per azioni, monti di pietà in quanto esercitino il credito, consorzi di irrigazione, sindacati di assicurazione infortuni, società di fatto le quali seguono le regole delle società per azioni, aziende municipalizzate. A questi enti si applica l’art. 25 del testo unico della legge sulla imposta di ricchezza mobile, in virtù di cui l’imposta è commisurata in base al bilancio, sia per i redditi propri sia per i redditi tassati in via di rivalsa: stipendi mensili, assegni pagati agli impiegati e dipendenti, interessi di debiti e di obbligazioni. In virtù dell’art. 25 si verifica una rotazione per cui i risultati dei bilanci degli anni pari servono per l’accertamento degli anni pari, e quelli degli anni dispari per gli anni dispari successivi. Così, ad esempio, nell’anno 1933 si presentano i bilanci chiusi nel 1932 al fine di poter stabilire l’accertamento su cui si baserà l’imposta nel 1934; ed a loro volta nel 1934 si presentano i bilanci chiusi nel 1933 e sui risultati di questi si fissano gli accertamenti per l’imposta del 1935. Per le società di nuova costituzione, dovendo i risultati del primo esercizio servire di base per gli accertamenti dell’imposta del terzo esercizio, e quello del secondo per il quarto, potrebbe sorgere l’inconveniente che nei primi due anni non si farebbe luogo a tassazione. Ad evitare ciò, il bilancio del primo esercizio serve non solo per la tassazione del terzo ma anche per quella del primo esercizio; ed il bilancio del secondo esercizio serve, insieme che per il quarto, anche per il secondo anno.
Un recente D.L. del 20 settembre 1926, n. 1643, all’articolo 7, dispose però che a partire dai bilanci chiusi a tutto il 31 dicembre 1926 si facesse luogo al rimborso delle imposte quando il bilancio di competenza risultasse fiscalmente passivo. Giova ricordare che dicesi «bilancio di rotazione» il bilancio che ha servito di base all’accertamento e «bilancio di competenza» quello a cui si riferisce o in cui si deve pagare l’imposta.
Accadeva perciò che dovendosi, ad esempio, nel 1932 effettuare tassazione in base al bilancio del 1930 la tassazione si faceva se il bilancio del 1930 era attivo anche se quello del 1932 fosse risultato passivo. In virtù della legge 1926, poiché nel 1932 il bilancio risultò passivo, si farà luogo al rimborso dell’imposta pagata in quell’anno. Naturalmente, secondo la regola ordinaria, accadrebbe che, essendo il bilancio di rotazione 1932 passivo, nel 1934 non si farebbe luogo a tassazione. In virtù del D.L. del 1926 se il bilancio 1934 risulta invece attivo questo stesso dovrà essere applicato per quell’anno ed in via ordinaria per il 1936.
Tutto ciò è alquanto complicato; ma poiché sono le società medesime le quali devono richiedere il rimborso, esse vedranno di volta in volta se convenga interrompere il normale funzionamento del sistema degli anni alternati.
La finanza normalmente deve procedere alla tassazione delle società ed altri enti collettivi sulla base dei risultati dei bilanci. Non di rado accade tuttavia che la finanza, presumendo che i risultati dei bilanci non rispecchiano fedelmente la verità, prescinde da essi ed eleva accertamento presuntivo. Questo però, sebbene non sia da escludere, deve essere, in virtù di istruzioni del ministero delle finanze e di decisioni della commissione centrale delle imposte dirette, limitato ai casi in cui esistano fondate presunzioni di frode fiscale ed il bilancio appaia sospetto per irregolarità formale o per concrete e specifiche infedeltà sostanziali. È pregio dell’opera riprodurre testualmente il pronunciato recente della commissione centrale delle imposte dirette: «Gli uffici delle imposte e le commissioni di merito possono allontanarsi, negli accertamenti a carico delle società anonime, dalle risultanze dei bilanci ogni qualvolta le risultanze degli stessi non rispecchino le reali condizioni dell’azienda. La inattendibilità dei bilanci non occorre che risulti dall’analisi particolareggiata delle registrazioni sottoposte al controllo contabile, praticamente forse inattuabile e certamente eccessiva: ma è necessario che di essa vengano offerte positive giustificazioni emergenti da obiettivi elementi del bilancio e non sia basata su semplici ed incontrollabili impressioni soggettive». (Decisione a sezioni unite 9 marzo 1932, n. 34.873, citata in importante studio su Riserve occulte ed imposta di V. Sampieri Mangano in «La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1932, p. 633).
XII. – Contenzioso.

Allo scopo di risolvere le divergenze di opinione fra contribuente e finanza riguardo all’esistenza ed alla valutazione dei redditi, sono aperte due vie ai contribuenti: quella amministrativa e, dopo aver esperito questa, quella giudiziaria.
Contenzioso amministrativo. – Esso ha tre gradi di giurisdizione, attraverso commissioni di primo, secondo e terzo grado. Tutti i ricorsi alle commissioni di primo grado devono essere presentati entro i venti giorni dalla notifica dell’accertamento fatto dall’ufficio e rispettivamente alle commissioni di secondo e terzo grado dalla notifica delle decisioni di primo e secondo grado. Le commissioni di primo grado si dicono anche comunali o mandamentali a seconda del territorio di loro competenza. Esse si compongono di un presidente delegato dal governo e di sei membri elettivi di cui duo supplenti. Può intervenire alla seduta il capo dell’ufficio delle imposte od un suo rappresentante. Le commissioni hanno obbligo di sentire il contribuente quando questi ne faccia domanda e decidono tanto su questioni di fatto che di diritto. Per le questioni di fatto si intendono in modo particolare quelle relative alla esistenza od alla valutazione del reddito.
Le commissioni, in taluni casi, possono anche sostituirsi agli uffici per l’accertamento dei redditi già accertati anche quando non esista reclamo dei contribuenti.
Contro le decisioni delle commissioni di primo grado si può ricorrere in appello alle commissioni di secondo grado, dette commissioni Provinciali. Queste si compongono di un presidente nominato dal prefetto e di otto membri, quattro effettivi e quattro supplenti, per metà nominati dalla direzione generale delle imposte dirette e per l’altra metà dall’amministrazione provinciale e dal consiglio provinciale dell’economia.
La commissione deve motivare le decisioni riguardanti le questioni di diritto; ma le decisioni riguardanti la semplice estimazione dei redditi sono definitive. Alla commissione di terzo grado, o centrale, si ricorre perciò soltanto per le questioni di diritto e cioè per violazioni di legge o di regolamento. Essa ha sede in Roma presso il ministero delle finanze ed è composta di un presidente, di quattro vice presidenti e di sedici membri, tutti di nomina governativa.
Ricorsi all’autorità giudiziaria. – Contro le decisioni delle commissioni amministrative, che siano divenute definitive in mancanza di appello o per aver esaurito tutti i gradi consentiti, si può ricorrere alla autorità giudiziaria per le sole questioni di diritto. Il ricorso deve proporsi entro un termine perentorio di sei mesi dal giorno della produzione del ruolo, ovvero in caso di iscrizione provvisoria da quello della notifica definitiva. Il ricorso deve essere corredato dal certificato di avvenuto pagamento delle rate di imposta scadute; ciò perché laddove di regola il ricorso amministrativo sospende l’esazione dell’imposta, in materia di ricorso giudiziario vige il principio del solve et repete. Dinanzi all’autorità giudiziaria devono essere proposte soltanto questioni precedentemente sollevate in sede amministrativa.
XIII. – Riscossione dell’imposta.

Diversi metodi di riscossione. – La riscossione avviene nelle seguenti maniere:
 1) ritenuta diretta dello stato, quando questo trattiene l’imposta all’atto del pagamento sugli stipendi, pensioni ed altri assegni pagati dal tesoro, ed inoltre sull’interesse di quei titoli di debito pubblico che siano soggetti ad imposte e su tutte le annualità ed interessi non esenti che siano pagati per conto dell’erario sia all’interno che all’estero;
 2) il versamento fatto direttamente in tesoreria, che è privilegio concesso a talune categorie di enti come la cassa depositi e prestiti, l’asse ecclesiastico, il fondo culto, il provveditorato regionale degli studi, gli istituti di credito fondiario e l’istituto orientale di Napoli, i quali in tal modo risparmiano l’aggio di riscossione che, se fossero tassati per mezzo di ruoli, dovrebbero pagare all’esattore delle imposte od al ricevitore provinciale;
 3) il versamento all’ufficio del registro per l’imposta del 4% dovuta dai datori di lavoro ed esercenti privati di trasporto e reti telefoniche, salvo rivalsa sul salari e competenze accessorie dei propri operai stabili od avventizi;
 4) il pagamento per abbonamento non solo delle imposte di ricchezza mobile, ma di tutte le imposte, concesso a favore del consorzio solfifero siciliano;
 5) il pagamento a ruoli nominativi. Questo è il modo di pagamento più importante, il quale si applica in generale per tutti i casi da noi non contemplati nei numeri precedenti.
Ogni anno, non più tardi del 15 dicembre, l’ufficio delle imposte deve trasmettere i ruoli principali dei contribuenti del proprio distretto all’intendenza di finanza, la quale, resili esecutivi, li invia al comune per la pubblicazione e per la successiva consegua all’esattore delle imposte. Nei ruoli sono iscritti in ordine alfabetico i nomi dei contribuenti con il loro domicilio e con l’indicazione dei redditi definitivamente accertati. Per i redditi non definitivamente accertati, l’ufficio delle imposte può:
o a) iscrivere la somma da esso proposta dopo decorsi sessanta giorni dalla trasmissione del reclamo del contribuente alla commissione di primo grado quando questa non abbia emessa decisione;
o b) iscrivere la somma denunciata, rettificata o confermata dal contribuente anche prima che siano trascorsi i sessanta giorni suddetti salvo a provvedere per l’iscrizione suppletiva per la maggior somma eventualmente dovuta dopo il giudizio della commissione;
o c) iscrivere la somma determinata dalla commissione di primo o secondo grado quando al tempo della formazione del ruolo non si abbia ancora la decisione della commissione superiore.
Non pochi redditi si rendono definitivi dopo che il ruolo principale è stato già compilato. Questi si iscrivono in ruoli suppletivi di prima serie comprendenti imposte di anni precedenti, da rimettersi all’intendenza entro il 15 dicembre ed in ruoli suppletivi di seconda serie comprendenti l’imposta dell’anno in corso e di anni precedenti, da rimettersi all’intendenza entro il 15 giugno. Nei ruoli suppletivi sono compresi anche i nuovi e maggiori redditi i quali risultano da decisione definitiva delle commissioni o da sentenza dell’autorità giudiziaria non pervenuti all’ufficio in tempo per il ruolo principale. I ruoli ai pubblicano con deposito in una sala del comune per otto giorni consecutivi nella prima metà di gennaio per i ruoli principali e per quelli suppletivi di prima serie, e nella prima metà di luglio per i suppletivi della seconda serie.
Il contribuente che vi sia iscritto rimane obbligato al pagamento del deposito anche se si trattasse di errore materiale o di duplicazione. Egli però ha il diritto di ricorrere, entro il termine dei sei mesi dalla notifica della cartella di pagamento dall’esattore al contribuente o, se questa non fu notificata, dalla notifica dell’intimazione di pagamento, contro l’errore materiale o la duplicazione medesima. Contro l’omessa od irregolare notifica dell’avviso di accertamento egli ha diritto di ricorso entro sei mesi dall’ultimo giorno della pubblicazione del ruolo.
Quadro dei metodi di accertamento e riscossione. – Può giovare, a scopo di riassunto dei metodi di accertamento e riscossione, la seguente tabella:
Metodo di accertamento e riscossione
Categoria A: interessi dei prestiti allo stato: Ritenuta diretta
interessi dei prestiti a comuni, provincie, società per azioni, depositi a risparmio o in conto corrente Tassazione all’origine presso l’ente pagatore, salvo rivalsa.
interessi di prestiti a privati Dichiarazione controllata e tassazione per ruolo
Categoria B: redditi industriali e commercialidi società per azioni Dichiarazione controllata su bilancio e libri sociali e tassazione per ruolo.
redditi industriali e commerciali di privati Dichiarazione controllata prevalentemente da indizi della massa di affari e tassazione per ruolo.
redditi assimilati agrari di proprietari-coltivatori edi mezzadri o coloni parziari Sistema misto tra quello della dichiarazione e la stima d’ufficio catastale.
Categoria C1: redditi di professionisti dichiarazione controllata coninformazioni e tassazione per ruoli.
Categoria C2: redditi di stipendio di impiegati privati, vitalizi e pensioni. dichiarazione dei datori di lavoro, tassazione per ruolo di questi, salvo rivalsa.
Categoria D: redditi di stipendio, pensioni ed assegni degli impiegati di stato, delle provincie e dei comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza,degli istituti pubblici di istruzione,dei corpi scientifici, ecc., ecc. ritenuta diretta, per i dipendenti dello stato, dichiarazione degli enti datori di lavoro, e tassazione per ruolo, salvo rivalsa, per gli altri.
Categoria speciale: ritenuta diretta per i dipendenti dello stato e dichiarazione degli enti datori di lavoro per gli altri.
Capitolo VI
L’imposta complementare progressiva sul reddito

Al disopra delle tre imposte reali sul redditi, funziona in Italia, a partire dall’1 gennaio 1925, in virtù del r. decreto 30 dicembre 1923, n. 3062, un’imposta complementare progressiva sul reddito che costituisce una novità nel nostro ordinamento tributario. Esisteva invero fin dal 1919 un’imposta complementare sul redditi, ma essa in realtà era una semplice addizionale alle tre imposte reali, aveva per base i redditi iscritti nei ruoli per le altre imposte in quanto, cumulati, superassero le lire 10 mila, e si riferiva non ai contribuenti singoli, ma alle ditte così come erano iscritte nei ruoli delle imposte principali, anche se fossero costituite da parecchie persone, da società civili o commerciali e non teneva conto delle passività. La nuova complementare è invece una vera e propria imposta personale, la quale intende colpire il reddito complessivo della persona, e come tale si riannoda ai tipi d’imposta personali (cfr. Principii, libro secondo, capitolo VI, a cui rimandiamo per le caratteristiche generali dell’imposta).
I. – Soggetto dell’imposta.

Soggetto è la persona fisica. – Data la natura personale dell’imposta complementare, soggetto dell’imposta sono le sole persone fisiche. Le ditte collettive, quali sono iscritte nei ruoli delle tre imposte dirette, vengono perciò scisse nei loro componenti, assoggettando ognuno di essi all’imposta che gli spetta in ragione della sua parte del reddito iscritto al nome della ditta, e di tutti gli altri suoi redditi che egli abbia iscritto o non iscritto a suo nome o di altri. I corpi morali, le società commerciali, gli enti e le associazioni di ogni specie, i quali, in quanto posseggono terreni o fabbricati o esercitino industrie o commercio, sono passibili di imposta diretta, non sono assoggettati all’imposta complementare; ma i redditi spettanti a tali enti e da questi distribuiti fra altre persone (azionisti, obbligazionisti, creditori, soci, ecc.) vengono attribuiti e tassati al nome dei singoli percipienti.
La persona fisica la quale unicamente è soggetta all’imposta complementare, è iscritta per la somma dei redditi propri e di quelli delle altre persone dei cui redditi il contribuente abbia la libera disponibilità, l’amministrazione o l’uso senza l’obbligo della resa dei conti. Quindi il padre, o la madre, in caso di morte o incapacità del padre, è tassato per i redditi propri e per quelli spettanti ai figli minorenni non emancipati, di cui il padre o la madre abbiano l’usufrutto legale. Coi redditi del marito si cumulano i redditi della moglie, a meno che la moglie sia legalmente ed effettivamente separata. In questo caso la moglie sarà tassata a sé per i redditi di cui abbia la libera disponibilità.
esenzioni personali. – Sono esenti dall’imposta, a somiglianza di quanto accade per l’imposta di ricchezza mobile, il re e i membri della famiglia reale; ma, a differenza dell’imposta di ricchezza mobile, la quale esenta soltanto la dotazione della corona e gli appannaggi dei membri della famiglia reale, sono esenti dalla complementare tutti indistintamente i redditi di cui il re e i membri della famiglia reale godono, compresi quelli derivanti dal loro patrimonio privato.
Sono pure esenti i redditi degli ambasciatori e degli altri agenti diplomatici delle nazioni estere, compresi quelli accreditati presso la Santa Sede, e i redditi dei consoli, a condizione per questi ultimi che essi non siano regnicoli o naturalizzati, che non esercitino nel regno una professione, industria o commercio, che non siano amministratori di aziende commerciali e che il loro paese di origine accordi parità di trattamento tributario ai consoli italiani ivi residenti.
II. – Luogo dell’imposta.

Trattandosi di imposta personale, il luogo dell’imposta è quello di residenza del contribuente (cfr. Principii, libro secondo, capitolo VI), perché ivi il contribuente ottiene i vantaggi dei servizi pubblici.
Tuttavia di regola non poté essere applicata senza qualche temperamento.
Cittadini. – In primo luogo il legislatore si è preoccupato di distinguere i cittadini italiani dagli stranieri. I cittadini si possono trovare alla loro volta rispetto all’imposta personale sul reddito in diverse situazioni.
V’ha una prima categoria indubbiamente soggetta all’imposta complementare sul reddito e sono i cittadini residenti nel regno, provvisti di redditi prodotti nel regno, i quali godono questi loro redditi nel regno. Quando coesistono insieme i tre coefficienti – residenza della persona, luogo di produzione del reddito e luogo di godimento di esso – è indiscutibile che il cittadino è soggetto all’imposta complementare sul reddito. Egli non può per nessun motivo dire: «Io non devo pagare». Deve pagare perché trae vantaggio dai servigi governativi in Italia, deve pagare perché il suo reddito ha sede in Italia, deve pagare infine perché egli gode del suo reddito in Italia.
Un’altra categoria di cittadini altrettanto indiscutibilmente non deve pagare niente e sono i cittadini italiani i quali risiedono all’estero, traggono il loro reddito da fonte di produzione estera, e lo consumano esclusivamente all’estero Se un cittadino italiano è emigrato in Argentina, si è fatta là una posizione e gode del suo reddito, non ci sarebbe ragione di fargli pagare l’imposta in Italia, non foss’altro perché un accertamento o avviso di pagamento dell’ufficio delle imposte italiano o dell’esattore italiano mandato all’Argentina, non avrebbe alcuna efficacia giuridica, essendo il governo italiano privo di mezzi di esecuzione in terra straniera, ed avrebbe l’unico effetto di disamorare l’emigrato dalla madre patria.
Perciò la legge italiana esclude costoro dall’imposta personale sul reddito.
Vi sono cittadini, in posizione intermedia fra i due ricordati estremi. Vi è il cittadino che ha residenza all’estero, gode all’estero i suoi redditi, ma li trae da fonti italiane. Trattandosi di imposta personale, si potrebbe sostenere la tesi che quel reddito non è soggetto a imposta in Italia, perché in Italia ai produce solo il fatto «reale» del reddito, ma non esiste un servigio reso dallo stato italiano a chi sta all’estero e gode all’estero il suo reddito. Si potrebbe sostenere al contrario essere opportuno stabilire una specie di multa contro coloro che esportano i loro redditi dall’Italia e se li vanno a godere all’estero. La ragione addotta non sarebbe di carattere strettamente finanziario, ed ha dato origine a vive discussioni nella prima metà del secolo XIX a proposito dell’assenteismo degli inglesi proprietari di terreni in Irlanda, i quali consumavano tutto il reddito in Inghilterra. Fu discusso allora se l’assenteismo fosse o non fosse dannoso all’Irlanda. Piuttosto, si può addurre un’altra ragione di carattere tributario. Il cittadino italiano, proprietario di beni in Italia, non cessa di essere suddito italiano, di appartenere alla collettività politica italiana, di godere della protezione diplomatica e consolare italiana. L’imposta deriva anche da un rapporto di sudditanza. Per questa ragione massimamente, il legislatore ha concluso che questa terza categoria di cittadini debba essere soggetta all’imposta complementare sui redditi tratti da fonti italiane.
Vi ha una quarta categoria di cittadini che un po’ stanno in Italia, un po’ all’estero, ricavano il reddito da fonte straniera e lo consumano in parte in Italia e in parte all’estero.Èil caso degli emigranti che hanno fatto fortuna in Argentina, per es., e sono venuti negli ultimi anni in Italia a godere i redditi che loro provengono da fonte estera. La soluzione adottata fu quella di tassare quella parte del reddito che è goduta in Italia. Tizio ha un reddito di 100 mila lire; di cui 50 mila lascia stare in Argentina e 50 mila consuma in Italia. Soltanto questa metà è soggetta all’imposta personale. La soluzione fu consigliata, fra l’altro, dalla difficoltà di accertare la quota del reddito non goduta in Italia. Se è già molto difficile conoscere il reddito personale complessivo di un contribuente che ricava il suo reddito da fonti italiane, tanto più è difficile conoscere un reddito che si è prodotto in Argentina o negli Stati Uniti. Bisogna procedere per via indiretta, per es., ragionare sulla base del valore locativo della casa o villa occupata. E se è così, è giuocoforza limitare la tassazione al reddito goduto e quindi accertabile in Italia.
Stranieri. – Gli stranieri possono essere classificati in categorie simili a quelle sopra indicate per i cittadini.
Il cittadino straniero che risiede nel regno, ottiene da fonti nazionali il reddito e lo gode nel regno, è indubbiamente soggetto all’imposta dello stato in cui vive.
Non v’è parimenti alcun dubbio che lo straniero non deve essere assoggettato all’imposta quando risiede all’estero, ricava da fonti straniere il suo reddito e lo gode all’estero.
Come nel terzo caso posto rispetto al cittadino italiano, il legislatore ha risoluto affermativamente il quesito relativo a quel cittadino straniero il quale con lo stato nostro ha l’unico addentellato della produzione del reddito in Italia. Se uno straniero sta all’estero, gode all’estero i suoi redditi, ma li ricava da fonte nazionale, deve pagare l’imposta. Si vide che nel caso del cittadino italiano che sta all’estero, gode all’estero i suoi redditi, ma li ricava da fonti italiane, si poteva addurre non solo il fatto dell’origine nazionale del reddito, ma anche il fatto personale della sudditanza. Per il cittadino straniero il rapporto di sudditanza non esiste affatto. L’unico rapporto è quello dell’esistenza del reddito nello stato, ma è rapporto semplicemente reale e non personale, ed essendo l’imposta complementare strettamente personale, non avrebbe ragione di tassare lo straniero sulla base di un legame puramente reale. La soluzione data al terzo caso tanto per il cittadino italiano quanto per lo straniero ha portato a una conseguenza che dal punto di vista fiscale non è perfettamente inquadrata nel sistema della personalità. Il sistema della personalità poggia invero sulla presunzione di poter avere un quadro completo della possibilità di pagare l’imposta da parte del contribuente, e implica che l’ammontare dell’imposta sia graduato con un’aliquota progressiva in ragione del «complessivo» reddito del contribuente. Ma nel terzo caso la condizione non può affatto essere osservata poiché lo stato nazionale conosce soltanto una parte del reddito, quella che proviene dal suo territorio, ma, risiedendo il contribuente all’estero e godendo all’estero dei suoi redditi, non è possibile valutare il reddito totale. Che cosa se ne sa in Italia, p. e., del reddito complessivo di un Tizio, cittadino o straniero, il quale risiede in Argentina e possiede in Italia una casa che gli dà 20 mila lire di reddito? Queste 20 mila lire costituiscono il totale del suo reddito o solo una parte? Se sono il totale è giusto attribuire alle 20 mila lire l’aliquota propria del reddito di 20 mila lire; ma se le 20 mila lire sono parte di un reddito maggiore, per es., di 50 mila o 100 mila lire, in un sistema d’imposta personale non si può tassare costui come se avesse soltanto 20 mila lire di reddito, laddove ne ha 50 o 100 mila, e quindi ha una capacità di pagamento maggiore. Le 20 mila lire dovrebbero essere tassate con l’aliquota evidentemente maggiore propria del suo reddito di 50 o di 100 mila lire. Siano pur tassate solo 20 mila lire; ma lo siano con l’aliquota propria del reddito totale. A stretto rigore il sistema personale porterebbe alla ora detta conseguenza; ed il non osservarla ci fa cadere in un ibrido che non sappiamo precisamente che cosa sia, che non è personale, perché non si è tenuto conto delle sue condizioni personali, e non è reale perché in un sistema reale non si può parlare di graduazione di aliquota. L’inconveniente può essere tollerabile per il terzo caso del cittadino assenteista, potendosi supporre che costui ricavi dalla patria tutto o quasi tutto il suo reddito; ma non è eliminabile per lo straniero, il quale probabilmente possiede in Italia solo una parte, forse piccola, della sua fortuna.
Per lo straniero si può anche presentare il caso analogo al quarto del cittadino, che cioè, pur essendo il reddito prodotto all’estero, esso sia goduto in tutto o in parte in Italia da persona residente in tutto o in parte in Italia. Sopra si vide che il cittadino emigrato, se, tornato in patria, gode ivi tutto o parte del suo reddito risiedendo tutto o parte dell’anno in Italia, è soggetto alla complementare in proporzione alla quota del reddito goduto in Italia. La stessa soluzione si dà per lo straniero, il quale non esercita nessuna attività lucrativa in Italia, ma viene in Italia solo per dimorarvi e ivi gode parte del suo reddito. Sarebbe ingiusto che costui sfuggisse completamente all’imposta complementare sul reddito, poiché un certo rapporto, non di sudditanza, ma di residenza, per cui lo straniero si giova dei servigi italiani, esiste. Anche qui la soluzione è un po’ ibrida in quanto l’imposta non può essere graduata a seconda dell’ammontare complessivo del reddito. La tassazione sarà la stessa, nel caso in cui si tratti di una modesta famiglia la quale venga a stabilirsi in Italia e cerchi di vivere con le 20.000 lire che costituiscono l’unico suo reddito, e nel caso in cui un ricco venga a passare una quindicina di giorni e spenda nel frattempo le stesse 20 mila lire, costituenti piccola parte del suo reddito. A giustificazione della soluzione, che non è personale ma un ibrido, si può addurre l’argomento importantissimo fiscale, che sarebbe perfettamente inutile per la finanza cercare l’ammontare complessivo del reddito dello straniero; ma al più si può riuscire a conoscere l’ammontare goduto nel territorio nazionale.
Quadro. – A riassumere la trattazione, si riproduce un quadro contenuto nelle istruzioni ministeriali per l’applicazione dell’imposta complementare sul reddito:
Appartenenza allo stato Luogo di residenza della persona Luogo di produzione del reddito Luogo di godimento del reddito Il reddito è soggetto alla complementare
I. Cittadino Regno Regno Regno sì
II. Straniero Regno Regno Regno sì
III. Cittadino Estero Estero Estero no
IV. Straniero Estero Estero Estero no
V. Cittadino Estero Regno Estero sì
VI. Straniero Estero Regno Estero sì
VII. Cittadino in tutto o in parte del regno Estero in tutto o in parte nel regno sì per la parte presuntivamente goduta nel regno
VIII. Straniero in tutto o in parte del regno Estero in tutto o in parte nel regno sì per la parte presuntivamente goduta nel regno
III. – Oggetto dell’imposta.

Oggetto dell’imposta è la somma di tutti i redditi del contribuente senza eccezione di sorta, sia che essi siano già tassati dalle imposte sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile, sia che, in virtù di leggi speciali, siano esenti dalle imposte reali, ivi compresi quelli che sotto qualsiasi forma godono di moderazioni o di riduzioni temporanee o permanenti d’imposta. I redditi sono quelli che si sono prodotti nell’anno anteriore a quello della dichiarazione.
IV. – Valutazione dei redditi.

Accertamento analitico su dati certi fondamentali ed accertamento sintetico su indizi sussidiari. – Per questa imposta erano, in virtù del decreto istitutivo, esclusi gli accertamenti che si dicono induttivi, ossia fondati su semplici presunzioni. Però si poteva tener conto, in aggiunta ai redditi già iscritti agli effetti delle varie imposte speciali e dei redditi ad esse soggetti, ma non ancora definitivamente accertati e valutati, anche dei redditi risultanti da documenti provenienti dal contribuente o che siano comunque certi, ad es., quelli che risultano accertati ai fini delle imposte comunali, specie di famiglia.
Il decreto legge 17 settembre 1932, n. 1261, convertito nella legge 22 dicembre 1932, n. 1727, aggiunge ai criteri di integrazione dei dati dei redditi sopra elencati, un nuovo criterio così dichiarato: «Deve altresì tenersi conto … dei redditi la cui esistenza si palesi per circostanze od elementi di fatto, con speciale riguardo al tenor di vita del contribuente». Il nuovo criterio può dirsi, come risulta da altra norma del decreto, di «valutazione sintetica» od anche, come si esprimono le istruzioni, di «procedimento deduttivo». In sostanza si è ritenuto che la valutazione del reddito totale del contribuente, ridotto alla semplice somma dei redditi singoli risultanti dagli accertamenti fatti o possibili a farsi ai fini delle imposte reali fosse monca. Si reputò cioè sfuggissero all’accertamento complessivo gran parte dei redditi risultanti dal possesso di titoli al portatore (di stato, di altri enti pubblici, azioni od obbligazioni di società per azione) e non pochi redditi, anche iscritti o nominativi, ma che, per essere iscritti o riscossi in luoghi diversi da quelli di residenza del contribuente, se da lui non denunciati, potevano sfuggire alle indagini della finanza.
Perciò col decreto 17 settembre 1932 si volle integrare la valutazione «certa», per somma di redditi noti, con la valutazione «presuntiva» o «deduttiva» o «induttiva» – parole le quali sostanzialmente si equivalgono tra loro – ricavate da circostanze od elementi di fatto, tra cui principalissimo il tenor di vita del contribuente. Dovrebbesi perciò tener conto del fitto pagato per casa e villeggiatura, dei servitori assunti, delle vetture avute, dei teatri frequentati, dei servizi telefonici ed altri richiesti, di tutte quelle spese le quali, acconciamente integrate con coefficienti di moltiplico valgono a far risalire alla nozione del reddito complessivo. A non commettere errori, il coefficiente applicato al fitto pagato, che sarà poi il principale ed in molti casi il solo indizio di reddito conosciuto dalla finanza, dovrà essere relativamente basso per le famiglie numerose ed alto per le famiglie piccole.
Quali possano essere i rapporti fra le due valutazioni, l’una direttamente fondata sulla conoscenza e somma dei redditi parziali e l’altra sulla astrazione da elementi di spesa e massimamente del valor locativo, è difficile prevedere. Se la risultante fosse la scelta del reddito più elevato fra i due forniti dalle due valutazioni alternative, non più si potrebbe parlare di una sola imposta sul reddito, ma di due imposte l’una sul reddito e l’altra sulla spesa, di cui sarebbe applicabile quella che desse i risultati più favorevoli alla finanza. Siffatto risultato non è voluto dal legislatore, il quale unicamente parla di tassazione di «reddito» e non di tassazione di «spesa» e questa contempla solo come strumento per correggere la valutazione del reddito. Unico criterio veramente sicuro per la ripartizione dell’imposta è l’uguaglianza universale di trattamento. Il bene correggere l’errore di valutazione derivante dall’uso di un criterio dato, purché quell’unico rimanga per tutti il criterio usato. Sarebbe errore grave usare due criteri; poiché i contribuenti non sarebbero più tassati alla medesima stregua. Epperciò sarebbe raccomandabile l’uso esclusivo dell’imposta sul valor locativo (cfr. sotto libro II, cap. III, II), la quale con opportune variazioni di coefficienti per ammontare di fitto, numero dei componenti la famiglia, ecc., evita ogni arbitrio, esenta automaticamente il risparmio è perequata nei limiti della perequazione umanamente raggiungibile.
Per quanto si riferisce alla procedura di valutazione, la quale anche dopo il decreto del 17 settembre 1932 deve reputarsi fondamentale, si assumono innanzitutto i redditi quali risultano iscritti ai fini delle tre imposte dirette sul reddito.
Il reddito dei terreni deve essere valutato moltiplicando per tre il reddito accertato ai fini dell’imposta sui terreni, e ciò perché il reddito medesimo si riferisce all’1 gennaio 1914, ossia ad un’epoca anteriore alla svalutazione della lira, cosicché, per trasformare quei redditi in lire pre-belliche in redditi espressi in lire attuali, fu ritenuto conveniente di applicare il coefficiente 3.
Per gli altri redditi si assumono i redditi medesimi i quali furono già accertati ai fini delle imposte dirette, salvo per quelli i quali godessero di esenzioni, per cui occorrerà fare una valutazione apposita.
Per i fabbricati esenti si assume il valore locativo presunto, colla detrazione di un terzo.
Per i redditi mobiliari, si assume l’ammontare netto che dovrebbe accertarsi ai fini della imposta di ricchezza mobile, e così per gli interessi e dividendi di titoli di debito pubblico, di azioni ed obbligazioni industriali, di depositi in banca, ecc.
V. – Detrazioni.

Detrazione delle spese di produzione e delle passività. – La detrazione delle spese di produzione non importa nessun concetto nuovo diverso da quelli che furono già esaminati a suo luogo, trattando delle diverse imposte e principalmente sopra rispetto all’imposta di ricchezza mobile (capitolo V, paragrafo 4). Va da sé che, siccome già per tassare i diversi redditi con le tre imposte reali i redditi medesimi furono ridotti al netto dalle spese di produzione, queste non dovranno essere nuovamente dedotte ai fini dell’imposta complementare. Quando, però, nel caso specifico risulti che la detrazione medesima non fu fatta perché si trattava di redditi esenti o non ancora assoggettati all’imposta, si dovrà procedere ad essa.
Rispetto alla detrazione delle imposte e tasse, tutte le imposte e tasse sono detraibili, dovendo il reddito essere considerato nella quantità in cui è effettivamente disponibile per il contribuente. S’intende che la detrazione deve riferirsi soltanto ai redditi presi a calcolo per l’imposta complementare. Quindi sono detraibili tutte le imposte dirette pagate allo stato e le relative sovraimposte, nonché i tributi inerenti ai redditi stessi dovuti alle province, comuni, e in genere a tutti gli enti che per legge hanno facoltà di istituire imposte.
Teoricamente non sarebbe detraibile l’imposta straordinaria sul patrimonio, rappresentando essa un prelevamento compiuto una volta tanto da parte dello stato di una quota del patrimonio di ciascun cittadino, senza riferimento perciò al reddito che forma oggetto della complementare. Tuttavia il legislatore, riconoscendo che l’imposta patrimoniale ripartita in dieci o venti annualità grava in sostanza sul reddito del contribuente, ne ha consentito la detrazione per tutti gli anni per cui essa viene pagata, e anzi ha consentito altresì che fosse detraibile l’imposta patrimoniale che si sarebbe dovuta pagare se il contribuente non avesse provveduto anticipatamente al riscatto. Più ancora, allo scopo di incoraggiare ai riscatti dell’imposta medesima, il legislatore ha accordato per i tre anni 1925, 1926, 1927 una detrazione straordinaria uguale al 2% del valore patrimoniale riscattato.
Gli interessi dei debiti sono detratti, trattandosi di imposta personale, in misura più vasta, di quanto accade per l’imposta di ricchezza mobile. Basta che l’interesse passivo sia a carico del contribuente, non occorrendo che il debito sia stato contratto per la produzione del reddito. Occorrerà naturalmente dimostrare l’esistenza del debito e denunciare il nome e il domicilio del creditore allo stato.
Detrazione per pensioni e assicurazioni sulla vita. – Partendo dal principio, altrove discusso (Principii, libro secondo, capitolo IX) e largamente esaminato, che debba essere oggetto d’imposta soltanto il reddito di cui il contribuente abbia la disponibilità presente, si considerano detraibili dal reddito le ritenute di pensioni e i premi di assicurazione sulla vita stipulati dal contribuente a favore proprio e di quei componenti la sua famiglia con lui conviventi, al mantenimento dei quali egli sia obbligato per legge. Sono pure detraibili i contributi che per legge o per contratto siano versati a casse di previdenza o di soccorso istituite contro i rischi di malattie, sinistri, vecchiaia, invalidità, e a casse pensioni per vedove e orfani.
Le detrazioni sono fatte dal reddito complessivo, non dai redditi singoli. – Le detrazioni di cui sopra sono fatte non dai singoli redditi a cui si riferiscono, ma dal complesso del reddito dei contribuenti; di modo che può darsi che, se l’interesse di un debito ipotecario gravante su un fondo sia di 12 mila lire all’anno, laddove il reddito legale del fondo è solo di 10 mila lire, il contribuente debba iscrivere insieme con le altre sue attività le 10 mila lire, ma possa detrarre dalla somma dei suoi redditi le 12 mila lire d’interesse passivo, sebbene maggiori del reddito a cui si riferiscono.
Detrazioni per carichi di famiglia. – Per ogni persona di famiglia, escluso il contribuente e il coniuge, che sia a carico del contribuente, deve operarsi una detrazione pari a 1/20 del reddito complessivo imponibile, del reddito cioè già depurato di tutte le spese, interessi passivi e oneri, di cui sopra. Nel caso che ciascun ventesimo superasse lire 3000, la detrazione dovrebbe limitarsi per ciascuna quota a questa ultima cifra soltanto. S’intende per famiglia, secondo il concetto del decreto, l’insieme di quelle persone le quali, essendo unite da vincoli di parentela e di affinità col contribuente, hanno diritto agli alimenti secondo le disposizioni del cod. civ.; cosicché la detrazione del ventesimo deve concedersi per i figli e le figlie minorenni, per i figli e le figlie maggiorenni ma inabili al lavoro, come pure per tutte quelle altre persone verso le quali il contribuente è tenuto alla somministrazione degli alimenti.
Detrazioni in caso di valutazione sintetica o deduttiva. –È logico che se la valutazione del reddito viene fatta secondo il criterio sintetico o del tenor di vita o della spesa non si possono più fare le detrazioni delle spese di produzione, passività ed imposte, perché il tenor di vita è in rapporto a ciò che si può spendere, al reddito netto e non a quello lordo.
Invece devono essere ammesse ancora le detrazioni per carichi di famiglia di un ventesimo del reddito netto, appunto perché queste detrazioni sono concesse in contemplazione di spese che si devono sostenere grazie al reddito netto. Poteva dubitarsi rispetto alle detrazioni per pensioni ed assicurazioni sulla vita; ma anche per queste fu ritenuto non fossero ammissibili in caso di valutazione sintetica, essendoché si spende solo ciò che rimane dopo avere provveduto alle ritenute pensioni ed ai premi di assicurazione sulla vita. Perciò il decreto 17 settembre 1932 stabilì che «il reddito valutato sinteticamente non è suscettibile di altre detrazioni all’infuori di quelle per carichi di famiglia».
Minimo imponibile. – Non sono tassati i redditi netti già depurati dalle spese di produzione, dagli interessi passivi e dalle imposte e tasse, i quali non giungano a 6 mila lire. Non sono nemmeno tassabili i redditi i quali, oltreché essere depurati come sopra, quando siano ulteriormente ridotti per il calcolo dei carichi di famiglia, non giungano alle 3000 lire.
Basta che una delle due condizioni sopra esposte venga meno, perché non si possa far luogo a imposizione del reddito complessivo ai fini della complementare.
VI. – Misura dell’imposta.

Aliquota dell’imposta. – Una questione assai importante che dovette essere risoluta in merito all’applicazione dell’imposta complementare, fu quella dell’aliquota. Questa, per rispondere ai concetti della personalità, doveva necessariamente essere progressiva in ragione del reddito (cfr. Principii, libro secondo, capitoli III e VI, sezione seconda), ma occorreva scegliere tra i molti sistemi di progressività nell’aliquota, i quali furono in passato applicati dai diversi legislatori.
Aliquota variabile a base crescente sull’intiero reddito. – Un primo metodo adottato frequentemente dal legislatore per la progressività dell’imposta, fu quello di far variare l’aliquota col crescere del reddito.
 1% per i redditi imponibili da 3.000 a 5.000
 2% per i redditi imponibili da 5.001 a 10.000
 3% per i redditi imponibili da 10.001 a 20.000
 4% per i redditi imponibili da 20.001 a 50.000
Questo sistema presenta il difetto, il quale ad altro proposito fu già esaminato altrove (cfr. Principii, libro primo, capitolo II, D), del salto nel debito d’imposta al momento del passaggio da una categoria a un’altra.
Così, ad esempio, il contribuente il quale pagava l’1% quando aveva il reddito di 5 mila lire, e cioè 50 lire, paga il 2% quando egli ha un reddito di lire 5001, e cioè lire 100,02. L’aumento di reddito di una lira sola basta ad aumentare l’onere d’imposta da 50 lire a lire 100,02, il che non è corrispondente a giustizia tributaria. Lo stesso per cifre diverse accade nel passaggio da 10.000 lire a 10.001 di reddito e successivamente da 20.000 a 20.001, ecc., ecc.
Aliquota variabile a base crescente sulle frazioni successive del reddito. – Ad evitare tale inconveniente parecchi legislatori accolsero il principio di frazionare qualsiasi reddito in quote successive, applicando ad ognuna delle successive frazioni un’aliquota sua propria crescente:
 Prima frazione fino a 5.000 soggetta all’1%
 Seconda frazione da 5.001 a 10.000 soggetta al 2%
 Terza frazione da 10.001 a 20.000 soggetta al 3%
 Quarta frazione da 20.001 a 50.000 soggetta al 4%
e così di seguito.
In tal modo si è sicuri che non si fanno salti da un gruppo a un altro di reddito, e così il reddito di lire 5001 pagherebbe l’1% sulle prime 5000 lire e cioè 50 lire, e il 2% sulla lira in più, ossia 0,02, in totale lire 50,02, il che è un carico proporzionatamente e giustamente maggiore di quello di lire 50 che grava sul reddito di 5000 lire.
Aliquota variabile crescente per incrementi infinitesimali. – Il nostro legislatore però ha creduto opportuno di applicare un sistema ancora più perfezionato, quello stesso che già era stato accolto per l’imposta patrimoniale sul reddito. Ha ritenuto cioè che ad ogni reddito dovesse essere applicata un’aliquota sua propria contraddistinta da questa peculiarità, che l’aliquota gravante su qualsiasi reddito dovesse essere leggermente superiore all’aliquota gravante sul reddito immediatamente più basso, e leggermente inferiore all’aliquota gravante sul reddito immediatamente più alto. Se si fosse dovuto applicare con intierezza il principio, sarebbe stato tuttavia necessario di pubblicare un volume di dimensioni cospicue, il quale contenesse l’elenco numerico di tutti i redditi da lire 3 mila fino a 1 milione, al quale, nel sistema della nostra legislazione, si arresta l’incremento dell’aliquota. Il volume avrebbe dovuto contenere cioè l’indicazione di 997.001 redditi, da quello di lire 3000 a quello di 1 milione. La specificazione dei redditi spinta fino a questo estremo, non avrebbe però avuto nessuna importanza effettiva perché, data la imperfezione inevitabile dei sistemi di accertamento dei redditi, è impossibile di distinguere e accertare con assoluta esattezza i redditi di lire 3000 a differenza di quelli di lire 3001 e 3002. Entro certi limiti non si può fare praticamente alcuna differenza fra un reddito e quelli che gli stanno più vicino. Fu perciò che il nostro legislatore ha accolto la regola dell’arrotondamento ed ha stabilito che per i redditi imponibili fra lire 3000 e lire 5000 le frazioni di lire 50 fino a lire 25 si trascurino, e quelle superiori a lire 25 si arrotondino a 50. In simil modo per i redditi oltre lire 5000 fino a lire 10.000 l’arrotondamento avviene per unità di 100 lire, ossia le frazioni fino a lire 50 si trascurano e quelle superiori a lire 50 si arrotondano a lire 100.
L’arrotondamento avviene dunque nel seguente modo:
 da L. 3.000 fino a L. 5.000 per unità di L. 50
 oltre L. 5.000 fino a L. 10.000 per unità di L. 100
 da L. 10.000 fino a L. 20.000 per unità di L. 200
 da L. 20.000 fino a L. 50.000 per unità di L. 500
 da L. 50.000 fino a L. 100.000 per unità di L. 1.000
 da L. 100.000 fino a L. 200.000 per unità di L. 2.000
 da L. 200.000 fino a L. 500.000 per unità di L. 5.000
 da L. 500.000 fino a L. 1.000.000 per unità di L. 10.000
Il che in sostanza equivale a consentire uno scarto o errore del 1/2%, cosa affatto trascurabile. In questo modo tutti i redditi possibili si riducono a circa 420 : 3000, 3050, 3100, 3200 e così via.
Fermato questo punto si stabilì che il primo e più basso reddito imponibile, quello di lire 3000, dovesse essere soggetto all’aliquota dell’1%, e che l’ultimo e più alto reddito di lire 1 milione insieme con tutti quelli superiori al milione di lire, dovesse essere assoggettato all’aliquota del 10 per cento.
Fermati i due punti estremi dell’1% e del 10%, occorreva trovare una formula in virtù di cui l’aliquota andasse insensibilmente crescendo da quella minore a quella massima, a mano a mano che il reddito si allontanava da lire 3000 e progrediva verso 1 milione di lire. La formula fu la seguente:
y = 0,04186 x elevato a 0,39637
nella quale x rappresenta la cifra di reddito imponibile. Risolvendo la formula anzi detta, si ottiene il risultato desiderato e così ai redditi seguenti si applicano le seguenti aliquote:
 a L. 3000 l’aliquota dell’1%
 a L. 3050 e 3100 ” dell’1,01%
 a L. 3150 ” dell’1,02%
 a L. 3200 ” dell’1,03%
e via via in maniera che corrisponda:
 a L. 5.000 l’aliquota dell’1,22%
 a L. 10.000 l’aliquota dell’1,61%
 a L. 20.000 l’aliquota del 2,12%
 a L. 50.000 l’aliquota del 3,05%
 a L. 100.000 l’aliquota del 4,01%
 a L. 200.000 l’aliquota del 5,28%
 a L. 500.000 l’aliquota del 7,60%
 a L. 1.000.000 l’aliquota del 10%
e ai redditi intermedi fra l’una e l’altra delle cifre indicate si applicano aliquote intermedie, sempre osservando la regola che per ogni reddito successivo arrotondato si applica un’aliquota maggiore di quella applicata al reddito precedente.
Al di sopra di L. 1.000.000 l’aliquota non aumenta ulteriormente, rimanendo
ferma al massimo del 10 per cento.
Aliquota speciale per i redditi di categoria d. – Al sistema ora indicato si fece eccezione per i redditi di ricchezza mobile di categoria D (stipendi ed assegni di impiegati pubblici) ai quali, in virtù del R.D.L. 12 agosto 1927, 1463, si applica l’aliquota costante del 0,50% sul loro ammontare attuale (e cioè non sul reddito dell’anno precedente a quello in cui si deve fare la dichiarazione) depurato soltanto delle ritenute per pensioni ed opere di previdenza.
L’imposta del 0,50% viene applicata in tutti i casi in cui il contribuente raggiunga, per gli stipendi di carattere continuativo, il minimo d’imponibile di lire 6000.
Quando, insieme col reddito di categoria D, concorrono altri redditi, si accertano separatamente le due categorie di reddito, operando le detrazioni proporzionali loro proprie. Sull’imponibile di cat. D, la imposta del 0,50% viene esatta per ritenuta. Sul restante imponibile si applica l’aliquota corrispondente, non ad esso, ma al reddito complessivo imponibile.
VII. – Dichiarazione ed accertamento.

Dichiarazione. – Tutti coloro i quali abbiano un reddito complessivo di almeno 6000 lire sono obbligati a presentare dichiarazione analitica dei redditi posseduti con dichiarazione delle passività deducibili e delle sottrazioni per carichi di famiglia, salvo che si tratti di reddito di categoria D su cui l’imposta è esatta per ritenuta. Se però i contribuenti di categoria D abbiano anche altri redditi sono obbligati alla dichiarazione.
La dichiarazione si presenta nel comune di residenza. Gli stranieri ed i residenti all’estero la presentano nel comune di ultima residenza ed in quello in cui si produce il reddito.
La dichiarazione si presenta entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello in cui il reddito sorge, salvo per i redditi mobiliari di categoria C, per cui la dichiarazione va presentata entro il 31 gennaio del secondo anno successivo.
Accertamento. – Esso non ha autonomia essendo fondato sulle risultanze, come fu già osservato sopra, degli accertamenti per le tre imposte dirette, salvo che gli uffici posseggano elementi atti ad integrare la tassazione.
Rispetto al contenzioso valgono le norme dell’imposta di ricchezza mobile.
Rettifica. – L’accertamento rimane fermo per un triennio salvo che per i redditi mobiliari di categoria D per i quali le imposte vengono esatte per ritenuta sull’ammontare dei redditi che di tempo in tempo si verifica.
Essendo stata sospesa la revisione dei redditi per il triennio 1928-1930 le variazioni cadono nel 1930 e nel 1933 con effetto rispettivamente dal 1931 e dal 1934. Le variazioni possono essere richieste tanto dal contribuente che dalla finanza. Quando non si chiedono tempestivamente rettifiche, non si inizia un nuovo triennio ma si va avanti tacitamente di anno in anno.
Durante il triennio il contribuente tuttavia ha il diritto di chiedere il rimborso dell’imposta, con decorrenza dal giorno dell’avvenimento, se il reddito complessivo si riduca a meno della metà:
 a) per cessazione di reddito di lavoro;
 b) per morte di uno dei componenti la famiglia;
 c) per perdita o sopravvenuta infruttuosità totale di uno dei cespiti produttivi del reddito, purché naturalmente trattisi di perdita e non di mutazione di impiego di capitale o trasformazione di reddito.
Capitolo VII
Imposta personale progressiva sui celibi

Fu istituita questa imposta con il R.D.L. del 19 dicembre 1926, n. 2132, e l’ammontare di essa fu raddoppiato con il R.D.L. del 24 settembre 1928, n. 2296. Essa si ispira al concetto che il medesimo reddito abbia un diverso valore per il celibe e per l’ammogliato, questi essendo soggetto a spese maggiori ed a minor capacità contributiva del primo.
L’imposta ha altresì l’intento di favorire i matrimoni e di promuovere l’incremento della popolazione.
Soggetti all’imposta. – Sono soggetti all’imposta tutti i celibi compresi fra i 25 ed i 65 anni compiuti. L’imposta è dovuta dal primo gennaio dell’anno successivo a quello in cui il celibe compie il venticinquesimo anno di età e cessa con il primo gennaio dell’anno successivo a quello in cui ha contratto matrimonio o compiuto i 65 anni di età.
Esenzioni. – Sono esenti:
 1)i sacerdoti cattolici ed i religiosi che hanno pronunciato il voto di castità;
 2) i grandi invalidi di guerra;
 3) gli ufficiali, sott’ufficiali e militari di truppa vincolati da ferme speciali, appartenenti alle forze armate dello stato per i quali il matrimonio sia subordinato a condizioni o limitazioni;
 4) gli interdetti per infermità di mente, ai quali l’art. 61 del codice civile vieta di contrarre matrimonio;
 5) gli stranieri ancorché residenti permanentemente nel regno;
 6) gli inabili permanenti al lavoro o ricoverati in istituti di mendicità e di cura, sempre che non posseggano redditi propri, di cui si debba tener conto per l’applicazione dell’imposta progressiva complementare sul reddito o posseggano solo un reddito imponibile in terreni o fabbricati non superiore a lire 150 imponibili. L’inabilità al lavoro non occorre che sia assoluta, bastando la sussistenza della condizione di mutilato, sordo muto, storpio, paralitico, cieco, od affetto da infermità mentale.
Misura dell’imposta. – L’imposta si divide in due quote:
 1) quota fissa, la quale, dopo il raddoppiamento a partire dall’1 gennaio 1929, è di:
o L. 70 annue per i celibi da 25 a 35 anni compiuti.
o L. 100 annue per i celibi da 35 a 50 anni compiuti
o L. 50 annue per i celibi da 50 a 65 anni compiuti
 2) quota integrativa, la quale è uguale ad una metà di quella che si sarebbe dovuta, applicando al reddito complessivo del contribuente l’aliquota dell’imposta complementare. L’imposta sui celibi però non consente limite minimo e perciò per i redditi inferiori a 3000 lire si applica l’aliquota dell’1% propria dei redditi di 3000 lire ridotta alla metà.
Valutazione del reddito. – Se il celibe è soggetto all’imposta complementare vale la valutazione già fatta a tale uopo. Però i redditi di categoria D sono trattati alla stessa stregua degli altri redditi non facendosi luogo all’applicazione dell’aliquota speciale concessa ad essi per l’imposta complementare progressiva sul reddito. Se il celibe non è soggetto all’imposta complementare il reddito è valutato facendo la somma di tutti i suoi redditi iscritti nei ruoli delle tre imposte dirette o che, se non fossero esenti, sarebbero stati assoggettati all’imposta medesima.
Finalmente, se il celibe non ha redditi propri e vive a carico della famiglia il reddito si valuta sulla base dei redditi accertati al nome dei genitori diviso per il numero dei figli.
Se poi nemmeno a carico dei genitori sono accertati redditi, si fa una valutazione presuntiva ripartendo sempre l’ammontare totale del reddito dei genitori tra i figli.
Riscossione. – Essa ha luogo: 1. per versamento in tesoreria con diritto di rivalsa quando si tratta di imposta dovuta dai datori di lavoro per conto degli operai celibi da essi impiegati; 2. per ruoli nominativi in tutti gli altri casi, non facendosi mai luogo a riscossione per ritenuta.
Dichiarazione. – La dichiarazione deve essere presentata entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello in cui fu compiuto il venticinquesimo anno od il trentacinquesimo anno di età (e si ha diritto a presentare la dichiarazione dopo compiuti i 50 anni di età) dai celibi, oppure, nel caso che si tratti di figli di famiglia, dal capo di famiglia tenuto al pagamento dell’imposta. La dichiarazione deve pure essere presentata da tutti i datori di lavoro, escluso lo stato, la provincia ed il comune, che abbiano alle loro dipendenze operai celibi, durante i mesi rispettivamente di gennaio e di luglio.
È da notare che il datore di lavoro non ha soltanto il diritto ma l’obbligo di esercitare la rivalsa sull’operaio per l’imposta pagata per suo conto e dove consti che egli non eserciti tale rivalsa, l’ufficio delle imposte può nuovamente riscuotere l’imposta a carico del celibe.
Nota ai capitoli II a VII: delle sanzioni in materia di imposte dirette

Si riassumono brevemente le principali norme relative alle sanzioni che il r. decreto 17 settembre 1931, n. 1608 contiene per le imposte dirette permanenti sopra illustrate.
Omissione di dichiarazione. – Colui che, avendo l’obbligo di fare la dichiarazione di un reddito soggetto ad imposta diretta, non l’adempie, è soggetto al pagamento di una sopratassa pari al terzo dell’imposta dovuta per un anno ed è punito con l’ammenda da L. 100 a 1000. Questa disposizione non si applica quando l’esistenza del reddito era fondamentalmente contestabile nel momento in cui l’obbligato doveva fare la dichiarazione.
Colui che, avendo l’obbligo di fare le dichiarazioni di cessazione di esenzioni o riduzioni di imposta prima godute, non lo adempie, è soggetto al pagamento di una sopratassa pari al quinto dell’imposta dovuta per un anno ed è punito con l’ammenda da L. 50 a L. 1000.
Quando le dichiarazioni sono presentate oltre il termine stabilito dalla legge, con un ritardo che non superi un mese, il colpevole non è punibile, ma è soggetto soltanto alla metà della sopratassa.
Notisi che, in virtù della legge 7 gennaio 1929, n. 7, che contiene le norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie, la infrazione punibile con multa è considerata delitto, quella punita con l’ammenda contravvenzione, ed invece le sopratasse e le pene pecuniarie hanno carattere amministrativo, con effetti puramente civili.
Le sanzioni per omissioni di denunzia sono più gravi di quelle, di cui sotto, per denunzie inferiori al vero, volendo il legislatore soprattutto estendere l’applicazione delle imposte dirette al massimo numero di contribuenti.
Dichiarazione inferiore al vero. – Colui che ha dichiarato un reddito inferiore di un quarto a quello definitivamente accertato è soggetto soltanto alla sopratassa pari ad un terzo della differenza tra l’imposta dovuta per un anno e quella che sarebbe stata applicabile in base alla dichiarazione fatta.
È altresì applicabile soltanto la sopratassa medesima a colui che non ha dichiarato gli aumenti di reddito dei fabbricati, ricchezza mobile e complessiva, ovvero ha dichiarato aumenti di reddito inferiori di un quarto a quelli definitivamente accertati. La sopratassa è calcolata sulla differenza tra l’imposta relativa al reddito precedente o a quello dichiarato e l’imposta relativa al reddito definitivamente accertato.
Non vi è luogo ad applicazione di sopratassa qualora la differenza di reddito netto tragga causa da inammissibilità di spese, perdite, annualità passive, oneri ed altre detrazioni; perché, dichiarando il reddito lordo, il contribuente nulla nasconde del suo reddito e la finanza non è danneggiata dalla ignoranza sua che gli fa presumere di aver ragione di operare deduzioni inammissibili in diritto.
Le disposizioni precedenti relative alle omesse o deficienti dichiarazioni si applicano anche a colui che è obbligato a dichiarare i redditi di altra persona ed a corrispondere l’imposta salvo il diritto della rivalsa.
Il diritto della rivalsa è limitato all’ammontare della imposta.
Alterazione di scritture contabili. – Chiunque, a fine di sottrarre redditi alla imposta, altera i registri contabili o omette negli inventari la iscrizione di attività o vi iscrive passività inesistenti o forma scritture o altri documenti fittizi o dichiara inesistenti, in tutto od in parte, cespiti che poi si accertano sussistenti di fatto al tempo a cui si riferisce la dichiarazione, ovvero commette altri fatti fraudolenti diretti allo stesso fine, è punito con la multa da L. 500 a L. 5000, ferma rimanendo la sopratassa per i casi di omessa o deficiente dichiarazione.
Qualora gli atti di cui sopra riguardino enti o società, sono soggetti alla multa anche l’amministratore che ha la legale rappresentanza, il direttore ed il ragioniere o capo contabile.
Gli uffici delle imposte, qualora accertino fatti costituenti reato a termini delle disposizioni di quest’articolo, presentano denuncia all’autorità giudiziaria per il tramite dell’intendente di finanza.
Notisi che è punita la omessa iscrizione, ma non la erronea valutazione di attività: nulla essendo più controverso della esatta valutazione di attività industriali e diversissimi potendo essere, con tutta correttezza, i criteri in base a cui si può procedere alla valutazione medesima.
Occultamento dello stato di celibato. – L’operaio il quale, al fine di sottrarsi al pagamento della imposta, occulta al datore di lavoro il proprio stato di celibato è punito con l’ammenda sino a L. 100.
La stessa pena si applica all’operaio che, al medesimo fine, dichiara al datore di lavoro o all’ufficio delle imposte una età diversa dalla vera.
Effetti della non esibizione dei libri contabili. – Il contribuente che ha affermato di non possedere i registri e le contabilità e gli altri atti sociali, ovvero si è rifiutato di esibirli, o ne ha comunque impedito la verifica, non può ottenere che i registri, le contabilità e gli altri atti sociali siano presi in esame in qualsiasi sede amministrativa o contenziosa civile, ai fini dell’accertamento del reddito.
È opportuna la sanzione; ma sarebbe altresì opportuno che l’esibizione di libri, di cui la finanza non contesti fondatamente la corretta tenuta, desse diritto al contribuente di fare valutare i redditi sulla base del loro contenuto.
Effetti del concordato. – Quando l’accertamento o la rettifica del reddito sono definiti mediante concordato tra l’ufficio delle imposte ed il contribuente, prima che sia intervenuta alcuna decisione delle commissioni amministrative, si osservano le seguenti disposizioni:
 1) la sopratassa per infedele denunzia è annullata;
 2) la sopratassa per omessa denunzia è commisurata alla imposta dovuta in base al concordato ed è ridotta alla metà di quella che sarebbe stata altrimenti applicabile, ossia al sesto invece che al terzo dell’imposta dovuta;
 3) qualora la denunzia sia stata presentata con un ritardo che non superi il mese, la sopratassa è ugualmente commisurata alla imposta dovuta in base al concordato ed è ridotta ad un quarto di quella che sarebbe stata altrimenti applicabile;
 4) la pena pecuniaria, la multa e l’ammenda da applicare per fatti commessi in relazione all’accertamento del reddito definitivo col concordato sono ridotte ad un quarto.
Dichiarazione di fallimento. – Il debito per imposta diretta è considerato come commerciale agli effetti della dichiarazione di fallimento, quando il commerciante si è reso moroso al pagamento di sei rate successive della imposta relativa alla sua attività commerciale.
La dichiarazione del fallimento è pronunciata soltanto ad istanza dell’esattore delle imposte in seguito a disposizione dell’intendente di finanza. Non occorre che l’esattore notifichi l’avviso della iniziata procedura di fallimento al contribuente moroso. Quindi egli il 18 del mese in cui scade la sesta nota insoluta ha diritto di chiedere il fallimento.
Sospensione dell’esercizio professionale. – Chi, esercitando una professione o un’arte, o una altra attività lucrativa, per cui è richiesta una speciale autorizzazione ovvero la iscrizione in albi professionali, risulta moroso per sei rate successive di imposte dirette relative alla professione o all’arte o all’attività lucrativa, è sospeso dall’esercizio di esse con decreto dell’intendente di finanza. La sospensione dura fino a quando non sia eseguito il pagamento. La sospensione può essere decretata senza sentire il parere del presidente del consiglio dell’ordine o del collegio o del sindacato cui il contribuente appartiene. Della sanzione di cui si tratta come di quella della dichiarazione di fallimento, occorre perciò fare uso prudentissimo. A tale scopo, il decreto 17 settembre 1931, n. 1608, dichiara che non è sospeso dall’esercizio della professione o dell’arte o della attività lucrativa, ovvero non è punibile, colui il quale dimostra che alla scadenza delle rate era nell’assoluta impossibilità di soddisfare il debito di imposta.
Effetti di atti fraudolenti del contribuente moroso. – Senza pregiudizio delle altre sanzioni, il contribuente moroso per sei rate successive di imposta diretta, il quale per sottrarsi al pagamento compie sui propri o sugli altri beni atti fraudolenti, che rendano in tutto od in parte inefficace l’esecuzione forzata promossa dall’esattore, è punito con la reclusione fino a tre mesi.
Responsabilità dei liquidatori. – I liquidatori delle società per azioni, in nome collettivo e in accomandita semplice, sono obbligati a pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute dalle società per il periodo anteriore alla liquidazione e fino alla chiusura della liquidazione stessa, e sono responsabili in proprio di tali imposte dovute dalle società per il periodo anteriore alla liquidazione e fino alla chiusura della liquidazione stessa, e sono responsabili in proprio di tali imposte quando non adempiono a siffatto precetto.
Ai liquidatori sono estesi gli obblighi che la legge impone agli amministratori di società, e sono ad essi applicabili le sanzioni relative alle omesse e deficienti dichiarazioni. Naturalmente la responsabilità degli amministratori si limita alle attività esistenti ed all’ammontare del loro realizzo in liquidazione.
Obblighi del cessionario. – Le disposizioni dell’art. 63 della legge 24 agosto 1877, n. 4021, per la imposta di ricchezza mobile, le quali stabiliscono che, allorquando un esercizio di industria o di commercio passa da uno ad altro individuo, il nuovo esercente è solidalmente responsabile dell’imposta dovuta da tutti i precedenti esercenti per l’anno in corso e per l’anno anteriore, si applicano anche per la riscossione delle sopratasse dovute per violazioni che, al momento del trasferimento dell’azienda, siano state già notificate al trasgressore. A tal fine l’ufficio delle imposte è tenuto a rilasciare, su richiesta ed a spese del contribuente, un certificato da cui risulti se e quali notificazioni sono state eseguite. È presunto cessionario colui che nei medesimi locali o in parte di essi esercita lo stesso genere di commercio o di industria. La responsabilità del cessionario si riferisce alle sopratasse dovute per omessa, infedele o tardiva dichiarazione di reddito e non si estende alle ammende o multe comminate dalla legge.
Capitolo VII
Le imposte dirette transitorie e in particolare dell’imposta straordinaria nel patrimonio

Lungo è l’elenco delle imposte straordinarie le quali furono istituite durante la guerra:
 il contributo del centesimo di guerra sui redditi e sui pagamenti;
 il contributo sui terreni bonificati;
 l’imposta sulle riserve di caccia;
 il contributo personale straordinario di guerra;
 l’imposta sui proventi dei dirigenti e procuratori di società commerciali;
 l’imposta sui proventi degli amministratori di società anonime e in accomandita per azioni;
 l’imposta complementare sui redditi superiori a lire 10.000;
 il contributo a favore dei mutilati;
 l’imposta straordinaria sui dividendi, interessi e premi dei titoli emessi da società, provincie e comuni ed altri enti diversi dallo stato;
 l’imposta sui profitti dipendenti dalla guerra;
 l’imposta sugli aumenti patrimoniali verificatisi a causa della guerra, e relativa avocazione;
 l’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.
Rinvio alla trattazione fatta altrove. – Dell’imposta sui dividendi ed interessi si disse qualcosa, trattando del problema di principio da essa tentato di risolvere, in Principii (libro secondo, capitolo VI, sezione seconda, e capitolo XII, sezione quarta); delle imposte sui profitti di guerra e negli aumenti patrimoniali, discorrendo della tassazione dei sopra redditi (ivi, libro secondo, capitolo VIII, sezione seconda e terza).
Di tutte le imposte del tempo di guerra, si fece altrove trattazione particolare . Non occorre in questa sede darne più ampia notizia, trattandosi di imposte non più vigenti.
Imposta straordinaria sul patrimonio. – Si fa eccezione soltanto per l’imposta straordinaria sul patrimonio, perché la sua riscossione è destinata a durare sino a tutto il 1938. Essa fu istituita allo scopo di evitare di ricorrere alla emissione di prestiti pubblici; epperciò, per il suo fondamento teorico, si può far ricorso a quanto se ne dice in Principii (libro terzo, capitolo III, sezioni seconda e terza). Se invece di considerarla straordinaria, la si reputa una branca ordinaria – cosa la quale potrebbe anche reputarsi legittima, data la durata ventennale della sua riscossione – delle pubbliche entrate, in tal caso teoricamente la dovremmo riguardare come una specie di imposta sui capitali, richiamando, per il suo fondamento, quanto altrove se ne disse (cfr. Principii, capitolo VII, sezione terza).
Fu istituita con R. decreto legge 22 aprile 1920, n. 494, e modificata successivamente con numerosi provvedimenti, di cui i principali sono stati la legge 27 febbraio 1921, n. 145, e il decreto legge 5 febbraio 1922, n. 78. L’imposta ebbe per iscopo di sopperire alle spese di guerra e fu concepita come un prelievo, una volta tanto, sui patrimoni quali esistevano all’1 gennaio 1920.
Oggetto e soggetto dell’imposta. – Essa ha carattere personale e per conseguenza, salvo eccezioni poco importanti, colpisce solo le persone fisiche. Del patrimonio della società per azioni si tiene conto, ad esempio, in quanto le azioni da esse emesse sono calcolate nel patrimonio dei possessori. Il patrimonio viene valutato separatamente per ciascuna persona; e quindi il patrimonio del marito si considera distintamente da quello della moglie e quello dei figli separatamente da quello dei genitori.
L’imposta è dovuta tanto dal cittadino quanto dallo straniero, sul patrimonio costituito da beni esistenti nello stato; il cittadino, inoltre, la deve anche sui beni esistenti all’estero quando risultino acquistati con capitali esportati dal regno nel periodo dall’1 agosto 1914 al 31 dicembre 1919.
Il patrimonio di ogni contribuente è tassato separatamente; il cumulo essendo ammesso solo per i genitori od avi i quali abbiano ceduto una parte del loro patrimonio in favore dei figli o altri discendenti, pur conservando con questi comunanza di vita, di lavoro e di godimento di beni, redditi e beni di ogni specie. Altrimenti, i patrimoni indivisi si ripartono tra gli aventi diritto.
Aliquota dell’imposta. – Solo i patrimoni dalle 50.000 lire in su, nette da passività, furono assoggettati al tributo; e l’aliquota fu progressiva secondo la scala seguente:
Lire Complessive per l’intero ventennio Ad anno
50.000 4,50% 0,225%
100.000 5,61% 0,280%
500.000 9,33% 0,467%
1.000.000 11,62% 0,581%
5.000.000 19,36% 0,968%
10.000.000 24,11% 1,205%
50.000.000 40,14% 2,007%
100.000.000 50 – % 2,500%
Al disopra dei 100 milioni di lire l’aliquota diventa costante nel 50% complessivo e nel 2,50% ad anno.
Per i patrimoni intermedi l’aliquota fu determinata in base alla formula:
Y = 0,1460802 x X elevato a 0,3167973
nella quale X è uguale all’ammontare arrotondato del patrimonio. La formula adottata fa sì che ad ogni dato patrimonio corrisponda una aliquota maggiore di quella gravante il patrimonio precedente e minore di quella relativa al patrimonio susseguente.
Notisi che le aliquote effettive sono meno gravose di quelle complessive, poiché fu concesso il pagamento in 20 anni, con la semplice divisione dell’aliquota complessiva per 20, senza aggiunta di interessi composti. I contribuenti, però, i quali hanno un patrimonio composto per almeno tre quinti del suo ammontare di beni mobili, dovettero pagare l’imposta in 10 anni, con altre aliquote rese uguali a quelle ventennali, tenuto conto della detrazione degli interessi al 5% per la disposta abbreviazione di termini.
Riscatto dell’imposta. – Fu concesso il riscatto immediato, in qualunque momento, delle annualità ancora da pagare; ed anzi fu incoraggiato in molte maniere, di cui la principale fu la concessione dell’abbuono dell’interesse composto del 6% in ragione d’anno. Ad esempio, chi avesse voluto riscattare subito 20 annualità di lire 1000 all’anno, invece di pagare 20.000 lire si liberava col pagare subito 11.469,92 lire. Altri benefici furono concessi ai contribuenti che riscattarono; come l’abbuono di cui sopra si disse per l’imposta complementare progressiva sul reddito.
Non si può dire che l’imposta straordinaria sul patrimonio sia stata una vera falcidia sul capitale; ché essa si convertì in un’imposta sul reddito annuo del patrimonio; e neppure che sia stata usata per fronteggiare le spese di guerra e rimborsare il debito relativo; ché essa adempì invece all’altro scopo di facilitare il passaggio dalla finanza di guerra a quella normale di pace.
Capitolo IX
Imposte sullo scambio della ricchezza o sugli affari e in ispecie delle imposte sui trasferimenti a titolo oneroso

Questo gruppo d’imposte si divide, come fu osservato sopra (nella introduzione), in due sotto gruppi, di cui il primo è costituito da vere e proprie imposte sui trasferimenti della ricchezza, mentre l’altro è costituito da imposte sui consumi, esatte col metodo del bollo. Le imposte del primo gruppo alla loro volta potrebbero distinguersi in due sotto gruppi, di cui il primo comprende le imposte le quali intendono massimamente a colpire i trasferimenti a titolo oneroso e sono quelle che nella nostra terminologia amministrativa diconsi:
 Tasse di bollo;
 Tasse di registro;
 Tasse in surrogazione del registro e bollo;
 Tasse ipotecarie;
 Tasse sui contratti di borsa.
Il secondo sotto gruppo comprende le imposte le quali intendono a colpire i trasferimenti a titolo gratuito e sono chiamate nel linguaggio amministrativo:
 Tasse sulle successioni e donazioni;
 Tasse di manomorta.
Nel presente capitolo discorriamo delle imposte sui trasferimenti a titolo oneroso.
I. – Tasse di bollo.

Oggetto. – La tassa di bollo ha per oggetto tutte le carte destinate per gli atti civili o commerciali, giudiziari o stragiudiziali e tutti gli scritti, stampe, disegni, e registri indicati nel testo unico del 30 dicembre del 1923, n. 3268, ed annessa tariffa. Per lo più gli atti o scritti sono soggetti a tassa fin dall’origine. In taluni casi si ammette la carta libera ma con l’obbligo di pagare la tassa quando i documenti:
 a) si producano davanti l’autorità giudiziaria od in procedimenti in sede giurisdizionale, dinanzi al consiglio di stato, alla corte dei conti, alla giunta provinciale amministrativa ed ai consigli di prefettura;
 b) si presentino all’ufficio del registro per essere registrati;
 c) si inseriscano in un atto pubblico.
Specie delle tasse di bollo. – Le tasse di bollo sono: fisse, quando colpiscono in un’unica misura gli atti o scritti di determinata specie, con riguardo soltanto alla natura di essi; graduali, quando esse variano per la stessa specie di atti o scritti secondo i gradi di una scala riferita od al valore od alla dimensione della carta o ad altri elementi connaturali all’atto o scritto; proporzionali, quando sono ragguagliate mediante una percentuale costante al valore dell’oggetto imponibile.
Modi di corresponsione. – Le tasse di bollo si corrispondono in tre modi: ordinario, impiegando la carta filigranata e bollata che si vende per conto dello stato. Il bollo impresso su questa carta ha valore di bollo ordinario; straordinario, quando si applicano le marche da bollo sopra altre specie di carta ed anche, nei casi previsti dalla legge, sulla carta già filigranata e bollata, ovvero si applica un bollo speciale impresso mediante punzone dall’ufficio del registro, designato con decreto reale; o con l’apposizione del visto per bollo da parte degli uffici del registro o con l’apposizione di uno speciale contrassegno per gli avvisi su materie diverse della carta.
Siffatto contrassegno non fu però sinora applicato preferendosi riscuotere la tassa nel terzo modo (virtuale); virtuale, mediante pagamento della tassa all’ufficio del registro od ad altri uffici governativi senza materiale apposizione del bollo.
Esenzioni. – L’esenzione assoluta della tassa di bollo è concessa ad atti e scritti riguardanti l’interesse pubblico, lo stato, gli enti pubblici e molti altri atti per ragione di politica economica o di beneficenza sociale; per esempio, gli atti riguardanti il credito agrario, le case popolari ed economiche, le banche popolari, le cooperative di produzione, le pensioni, ecc.
Riduzioni. – Per alcuni atti le tasse di bollo sono ridotte alla metà e ciò per gli atti relativi alla riscossione delle imposte, al credito agrario, all’affrancazione di censi, canoni ed altre prestazioni perpetue.
Compenetrazione. – Talvolta le tasse di bollo si intendono compenetrate in altre tasse come quella di assicurazione, o di abbonamento a cui certi atti sono soggetti. Ad esempio, per gli atti per anticipazione o sovvenzione contro pegno, gli atti relativi ad operazioni di assicurazione; al credito fondiario, ecc.
Prenotazione a debito. – Gli atti, sentenze e provvedimenti nelle cause e procedimenti nell’interesse dello stato e delle amministrazioni assimilate, in quelli promossi dal pubblico ministero nell’esclusivo interesse della legge o del servizio pubblico, e nelle cause e procedimenti interessanti persone od enti ammessi al gratuito patrocinio, gli atti delle procedure fallimentari e gli inventari dei beni dei minori, degli interdetti possono iscriversi su carta libera. Le tasse vengono prenotate a debito e saranno ripetibili nei casi indicati dalla legge.
II. – Tasse di registro.

Attualmente la tassa di registro è regolata dal testo unico della legge del registro 30 dicembre 1923, n. 3269, ed annessa tariffa. Le tasse di registro hanno in principio l’intento di colpire tutte le trasmissioni della ricchezza sia che queste risultino da documenti o no.
Oggetto della tassa. – Le tasse di registro hanno per oggetto:
 1) gli atti compiuti nel regno in forma pubblica o privata, civili o commerciali, giudiziari o stragiudiziari, come pure di trasmissione della proprietà, dell’usufrutto, dell’uso o godimento di beni e di ogni altro diritto reale;
 2) i contratti verbali di affitto e sub affitto, cessione, retrocessione e risoluzioni di affitti di beni immobili e la rinnovazione, continuazione o prolungamento per tacita riconduzione di beni immobili; di questi deve essere fatta denuncia la quale assume la qualità di atto;
 3) gli atti firmati all’estero quando contengano trasmissione di proprietà, usufrutto, uso o godimento di beni immobili situati nello stato, o servitù, affitti, cessioni, comprese le sentenze definitive dei regi consoli dalle quali derivi qualunque delle trasmissioni sopra accennate.
Natura della registrazione. – Questa consiste nell’annotamento degli atti e delle trasmissioni nei pubblici registri a tal uopo destinati. Esso accerta perciò la legale esistenza degli atti in genere ed imprime alla scrittura privata la data certa di fronte ai terzi. La registrazione deve avvenire normalmente in un termine fisso, eccetto quando essa avvenga in caso di uso e cioè quando gli atti si presentino o producano in giudizio o davanti all’autorità giudiziaria o davanti corpi amministrativi in sede giurisdizionale o davanti arbitri o siano riportati in tutto o in parte in atti pubblici o privati soggetti a registrazione.
Specie delle tasse di registro:
 progressiva, nel caso di trasferimento di beni a titolo gratuito (vedi sotto, capitolo X sulle tasse di successione);
 proporzionale, la quale viene applicata alle trasmissioni a titolo oneroso di proprietà, di usufrutto, uso o godimento di beni immobili e mobili e di qualsiasi altro diritto reale ed agli atti che contengono obbligazioni o liberazione di somme o prestazioni;
 graduale, la quale viene applicata ad atti non contenenti obbligazioni o liberazioni, ma semplici dichiarazioni o attribuzioni di valori o di diritti senza che se ne operi la trasmissione;
 fissa, la quale si applica a tutti gli atti che possono servire di titolo o documento legale.
A seconda della loro natura le tasse si distinguono altresì in:
 contrattuali, le quali si applicano agli atti civili e commerciali;
 giudiziali, le quali si applicano alle decisioni ed agli atti giudiziali indicati nella tariffa.
Oltre alla tassa principale, si possono ancora ricordare le tasse:
 complementari che sono quelle le quali non poterono al momento della liquidazione della tassa principale essere liquidate integralmente per mancanza di elementi e quelle che rimasero sospese per disposizione di legge ed eventualmente integrano tasse di riscossione;
 suppletive, che sono quelle richieste quando l’ufficio del registro al momento della registrazione incorse in errore od omissione.
Applicazione delle tasse. – Le tasse di registro devono essere applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti e dei trasferimenti, anche se ad essi non corrisponda il titolo e la forma apparente dell’atto.
Se un atto particolare non sia indicato in modo speciale nella tariffa esso è tuttavia soggetto alla tassa secondo la tariffa propria degli atti con cui esso ha maggior analogia. Qualora in un atto siano comprese più disposizioni necessariamente connesse o derivanti per intrinseca loro natura le une dalle altre, l’atto si considera come se comprendesse le sole disposizioni che danno luogo alla tassa maggiore; e, per contro, se in un atto sono comprese più disposizioni indipendenti o non, derivanti necessariamente le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta a tassa come se formasse un atto distinto.
Valutazione. – Sarebbe troppo lungo esporre le norme particolari che riguardano la valutazione dei singoli beni trasferiti. Il criterio generale accolto dal legislatore è che la tassa debba essere commisurata al valore venale dei beni in comune commercio. Perciò:
 1) i beni mobili si valutano in base al valore dichiarato oppure a quello risultante da inventario con stima o da contrattazione dei beni stessi entro sei mesi;
 2) le derrate, merci e generi di commercio sono valutati in base alle mercuriali, ai listini e libri dei consigli dell’economia, alle scritture ed ai libri dei mediatori e sensali, che siano più vicini a quella del trasferimento;
 3) le aziende industriali e commerciali e le quote di compartecipazione in società di commercio, si valutano in base alla quantità ed al valore delle merci esistenti al giorno del trasferimento ed in base alla specie ed al valore degli altri beni di ogni natura, compresi l’avviamento ed i diritti di privativa;
 4) le azioni e le obbligazioni quotate in borsa e le rendite del debito pubblico si valutano al corso legale di listino nel giorno della trasmissione. Le azioni e le obbligazioni non quotate in borsa si valutano invece in base al valore commerciale del giorno della trasmissione;
 5) i beni immobili sono valutati in base al valore dichiarato o determinato; ma se nella denuncia non è espresso il valore su cui deve essere liquidata la tassa o non esistono documenti per determinarlo o se il contribuente rifiuta di presentare la denuncia o di fare la dichiarazione di valore e lascia trascorrere comunque i termini, il procuratore del registro determina di ufficio il valore venale degli immobili in comune commercio al momento del trasferimento;
 6) i fabbricati iscritti in catasto saranno valutati – ai fini delle tasse di registro, di successione ed ipotecaria nei trasferimenti a titolo gratuito ed oneroso, per atti tra vivi o per causa di morte, – sul valore capitale risultante dall’applicazione dei coefficienti di capitalizzazione (stabiliti con le tabelle dei valori capitali per ogni lira di rendita imponibile compilate per ogni provincia) del reddito imponibile iscritto in catasto, semprecché il valore in tal modo accertato non risulti superiore a lire 200.000. Se il valore supera le lire 200.000, la tassa è liquidata nei prezzi e corrispettivi risultanti dagli atti o denuncie o dichiarazioni dei contribuenti (cfr. sopra n. 5).
Giudizio di stima. – Può darsi che l’amministrazione ritenga che il valore dichiarato sia inferiore al valore venale di oltre 1/10 nei trasferimenti di beni immobili a titolo gratuito, di oltre 1/8 nei trasferimenti di beni immobili a titolo oneroso, e nei trasferimenti a qualunque titolo di navi, aziende industriali e commerciali, di quote di compartecipazione a società di commercio, o che il valore determinato d’ufficio sia superiore nella stessa misura al valore che il contribuente attribuisce ai beni in questione.
In questi casi si può promuovere il giudizio e la stima; e se il valore dichiarato dal contribuente non ecceda le lire 50.000 il presidente del tribunale nomina un perito; se le supera l’amministrazione finanziaria nomina un perito, il contribuente un altro, ed il presidente del tribunale il terzo. La perizia dell’unico perito o del collegio dei periti, i quali esprimono il giudizio a maggioranza di voti con relazione unica, è definitiva, salvo ricorso all’autorità giudiziaria per errore materiale di calcolo o per grave ed evidente errore di apprezzamento. Le spese del giudizio di stima sono a carico del contribuente quando il valore accertato dai periti, diminuito di 1/10 o di 1/8, a seconda del caso più sopra citato, sia superiore al valore validamente dichiarato dal contribuente stesso. In caso contrario le spese sono a carico dell’erario. Intendesi validamente dichiarato dal contribuente anche il valore risultante da dichiarazioni suppletive, purché compiute prima della notificazione della richiesta della stima da parte del contribuente.
Quando il valore accertato a mezzo della stima diminuito di 1/4 sia superiore a quello validamente dichiarato dal contribuente, questi oltre alla tassa sulla differenza fra i due valori deve pagare una sopratassa per insufficienza di dichiarazione di valore, uguale all’ammontare della tassa, aumentato di 1/5.
Valutazione dei diritti reali e personali – usufrutto. – Nei trasferimenti a titolo gratuito per atti fra vivi, se l’usufrutto è a tempo indeterminato e non minore dei 10 anni, la tassa si applica sulla metà dell’intiero valore della cosa, quando l’usufruttuario o la persona sulla cui vita sia stabilita la durata dell’usufrutto non abbia compiuto 50 anni di età, e su 1/4 quando li abbia compiuti. Se l’usufrutto è limitato a tempo minore di 10 anni esso è valutato a tanti ventesimi del valore della proprietà quanti sono gli anni della sua durata. Se però l’usufruttuario abbia compiuto l’età di 50 anni la valutazione non può superare i 5\20. La nuda proprietà si ritiene uguale alla differenza fra il valore della piena proprietà e quella dell’usufrutto. Al cessare poi dell’usufrutto sarà dovuta la tassa sul valore per cui l’usufrutto fu detratto. Nella riunione dell’usufrutto alla nuda proprietà trasferita a titolo oneroso la tassa si applica sulla differenza fra il prezzo corrispettivo tassato al tempo dell’alienazione ed il valore della piena proprietà al momento della riunione.
Valutazione della costituzione di rendite o pensioni. – La tassa progressiva o proporzionale sulla costituzione di rendite o pensioni, sui relativi trasferimenti a qualunque titolo, la loro estinzione od il loro riscatto, è dovuta sul capitale espresso nell’atto costitutivo; se espresso non è, lo si ragguaglia a 20 volte la rendita se questa è perpetua o duratura per 20 o più anni o per tempo indeterminato, od a tante volte la rendita quanti sono gli anni se la durata è inferiore a 20 anni. Se si tratta di rendita vitalizia o pensione il capitale tassabile se non sia espresso, è ragguagliato a 10 o 5 volte la rendita o pensione a seconda che il beneficiario non abbia od abbia oltrepassato i 50 anni. Se la rendita o pensione deve corrispondersi per meno di 10 anni ed in ogni caso non più di 5 quando il beneficiario abbia oltrepassati i 50 anni, sono assoggettate alla tassa tante annualità quanti sono gli anni di durata.
Persone obbligate a chiedere la registrazione. – Sono obbligate a chiedere la registrazione degli atti ed a provvedere al pagamento delle tasse i notai per gli atti da essi redatti e per le scritture private da essi autenticate, i cancellieri per le sentenze, i decreti o provvedimenti in genere e per tutti gli atti che emanano da tribunali, preture od uffici di conciliazione, gli ufficiali giudiziari e gli uscieri per gli atti del loro ministero, i segretari ed i delegati di qualunque amministrazione pubblica per gli stessi atti che debbano essere registrati.
Termine alla registrazione. – La registrazione deve essere richiesta entro 20 giorni dalla data dell’atto e per quelli autenticati dalla data dell’autenticazione. Per gli inventari, ricognizioni o descrizioni di stato di cose, e simili atti che non si compiono in un sol giorno, i 20 giorni decorrono dalla data del processo verbale di chiusura. Nelle vendite all’incanto i 20 giorni decorrono dal giorno della deliberazione definitiva.
Per gli atti formati all’estero la registrazione deve essere richiesta entro 6 mesi dalla data dell’atto se sono formati in Europa, ed entro 18 mesi se fuori di Europa.
Pagamento. – Normalmente il pagamento deve essere contemporaneo alla registrazione e risultare da questa. Tuttavia per il pagamento della tassa principale di registro è consentito il pagamento per una metà alla registrazione dell’atto in termine, e per l’altra metà entro 6 mesi da tale registrazione, senza interessi di mora, rimanendo impregiudicato ogni privilegio spettante all’erario, nonché la solidarietà delle parti.
Questo vantaggio però è limitato alle tasse che superano l’importo di lire 500.
Le tasse di consolidazione di usufrutto riguardanti valori immobili possono essere pagate a rate in un termine non maggiore di quattro anni con la corresponsione dell’interesse scalare del 5 per cento.
Misura delle tasse. – Poiché il riportare anche solo le più frequentemente usate per le tariffe delle tasse di registrazione sarebbe troppo lungo, si ricorderanno soltanto alcune principalissime: ad esempio, le vendite, promesse di vendita, e qualsiasi altro trasferimento non gratuito di immobili, sono gravate di una tassa del 6% del valore venale dell’immobile trasferito con qualche minorazione soltanto per gli immobili aventi un prezzo superiore a lire 200 ma non a lire 400 e per quelli di prezzo inferiore a lire 200, per cui la tassa venne rispettivamente ridotta al 5,20 e 4 per cento.
Se gli immobili abbiano nel triennio precedente formato oggetto di altri trasferimenti, le tasse di cui ai casi precedenti vengono ridotte di 1/4 fino alla concorrenza del valore tassato nel precedente trasferimento.
Le locazioni di beni stabili o mobili a tempo indeterminato, sul cumulo dei prezzi o corrispettivi pattuiti per tutta la durata della locazione, sono colpiti da una tassa del 0,50 per cento. Le costituzioni e risoluzioni di rendite fondiarie sono colpite da tassa del 6 per cento. Le tasse per costituzioni di società commerciali se con apporto di denaro, mobili, contratti di locazione di case e di opere, 0,40 per cento; se con apporto di stabilimenti ed opifici industriali, 2 per cento; se di beni immobili, 6 per cento; se di merci soggette a tassa scambio, 1,50 per cento. Per trasformazioni di società commerciali se riguardano la forma della società dell’una od altra specie: 0,20% sull’ammontare dell’attività lorda. Per assegnazioni ai soci per scioglimento e liquidazione di società commerciali se di beni immobili: 6 per cento. Come si vede da questi pochi esempi, la misura delle tasse è stata basata sul criterio di graduare l’altezza della tassa in funzione della frequenza dei trasferimenti; più alta per i trasferimenti di beni immobili, più bassa per quelli di denaro o mobili.
III. – Tasse in surrogazione del bollo.

a) L’imposta di negoziazione.

Oggetto dell’imposta. – L’imposta di negoziazione si riferisce non alla effettiva negoziazione dei titoli, ché allora avrebbe dovuto essere applicata volta per volta, bensì alla negoziabilità o potenzialità di negoziazione di cui sono suscettibili le cartelle, i certificati, le obbligazioni, le azioni e gli altri titoli di qualunque specie e denominazione, da chiunque emessi, tanto provvisori che definitivi, sia nominativi che al portatore, in quanto siano suscettibili di negoziazione, e comunque la negoziazione di questi titoli non possa operarsi con la semplice tradizione ovvero i titoli siano emessi a nome di società commerciali non peranco costituite.
Ragione dell’imposta e punti controversi. – Ragion dell’imposta è la convenienza di non tassare titoli, i quali vengono frequentemente trasferiti, con un’imposta ad ogni trasferimento, con incaglio negli affari e spinta alla frode (cfr. Principii, libro secondo, capitolo VII, sezione quarta). Perciò dovrebbe l’imposta applicarsi nei soli casi nei quali siano effettivamente frequenti i trapassi, conservando per gli altri casi la tassa odierna di registro.
A tal proposito fu dibattuto il punto se le quote delle società in accomandita semplice siano soggette all’imposta di negoziazione od a quelle normali di registro; preferendo il fisco la prima, come quella che è in questi casi più gravosa della seconda.
Trattasi invero di quote che assai raramente si trasferiscono e quindi pagherebbero imposte di registro ad intervalli assai lunghi, laddove l’imposta di negoziazione, preferita dal fisco, è pagabile ogni anno. Fu deciso, conformemente alla domanda della finanza, che si dovesse distinguere tra:
 a) le società di persone, in cui il vecchio socio non può uscire se non attraverso l’istituto del recesso, ed il nuovo socio può essere ammesso solo con le regole prescritte dal codice di commercio e facendo il relativo apporto. In questo caso parendo esclusa la cedibilità delle quote, si applicano le normali tasse di registro;
 b) le società in cui l’elemento personale affermasi non prevalente perché le quote di partecipazione o carature possono essere cedute a terzi, con effetto verso la società anche se per la cessione è necessaria l’approvazione degli organi sociali, ed anche se la cessione non faccia acquistare al cessionario tutti i diritti dei soci, ma soltanto gli dia la proprietà della caratura, con diritto al relativi utili. In tal caso applicasi l’imposta di negoziazione.
È evidente che la soluzione è scorretta, non essendo possibile paragonare la frequenza effettiva dei trasferimenti di una azione al portatore od anche nominativa di una società per azioni, alla frequenza media dei trasferimenti di una caratura di società in accomandita semplice. E poiché la ragione formale dell’imposta è di surrogare le imposte sui trasferimenti onerosi che effettivamente sarebbero state solute, dovrebbe essere evidente la necessità di graduare l’imposta, almeno per grandi categorie, in rapporto a questa frequenza media.
Teoricamente la imposta avrebbe dovuto essere più o meno elevata a seconda che di fatto risultasse più o meno elevata la frequenza media di trasferimenti per le diverse specie di titoli. Onde, supponendo che le imposte sui trasferimenti onerosi, abolite o surrogate, siano del 2% l’imposta di negoziazione surrogante avrebbe dovuto essere dello 0,20%, se il titolo in media si trasferisce una volta ogni 10 anni, dello 0,40%, se l’intervallo tra un trasferimento e l’altro fosse di 5 anni; e così via. Ma tali ricerche parvero troppo complesse.
Esenzioni. – Sono esenti:
 1) le azioni e obbligazioni delle società e associazioni estere, perché esse sono soggette invece alla imposta sul capitale (cfr. sotto b) qui di seguito);
 2) le cartelle di credito fondiario italiano;
 3) le cartelle agrarie;
 4) i titoli emessi da società le quali esercitano esclusivamente l’industria estrattiva dello zolfo.
Valutazione dell’imponibile per l’imposta di negoziazione. – Fermo dovendo rimanere il principio che oggetto dell’imposta è il valore venale corrente della cosa tassata, il legislatore statuì che l’imposta di negoziazione fosse commisurata al corso medio di borsa dei titoli nell’anno precedente o in quel minor tempo da cui dati l’emissione. Se si tratta di titoli non quotati in borsa o non quotati l’anno precedente, l’imposta si liquida in base a certificato peritale da rilasciarsi dal sindacato dei pubblici mediatori, ed in mancanza, in base al valore nominale.
Soggetto dell’imposta. – Sono gli enti, provincie, comuni, società commerciali costituite o costituende, ed altri enti morali, i quali emettono i titoli. Essi però sono solo i contribuenti di diritto. I veri contribuenti sono i possessori dei titoli o quote o carature negoziabili, contro di cui gli enti contribuenti hanno diritto di rivalsa.
L’aliquota dell’imposta. – La tariffa generale reca la seguente classificazione:
Imposta annua per ogni 1000 lire del valore venale dei titoli
al portatore nominativi
1) Cartelle, certificati, obbligazioni, azioni ed altri titoli di qualunque specie e denominazione, emesse da provincie, comuni ed altri enti o persone diverse dalle società commerciali e dalle società civili considerate nell’art. 229 del codice di commercio 2,50 2,50
2) Azioni, obbligazioni ed altri titoli delle società commerciali e delle società civili considerate nell’art. 229 del codice di commercio 4,50 2,50
3) Quote o carature, comunque denominate, delle società in accomandita semplice quando siano cedibili a terzi con effetto verso la società 4,50 2,50
L’imposta di negoziazione è una vera surrogatoria delle tasse di registro e bollo ed esime dall’obbligo del pagamento di queste.
Si è potuto dubitare se la differenza fra il 4,50 e il 2,50 per mille gravante in più (nei casi 2 e 3) i titoli al portatore in confronto a quelli nominativi fosse una surrogatoria non più delle imposte sui trasferimenti a titolo oneroso, ma in ispecial modo di quelle sui trasferimenti a titolo gratuito, essendo che, eliminata la tassazione a titolo oneroso col 2,50%., a queste sole si possono sottrarre i titoli al portatore, in confronto ai titoli nominativi. La tesi era insostenibile perché una surrogatoria implica la cessazione dell’imposta principale surrogata, laddove in questo caso continua la principale a rimanere in vita.
Tuttavia la differenza spingeva i possessori di titoli al portatore ad iscriverli al nome finché rimase in vigore l’obbligo fatto dall’art. 2 del decreto luogotenenziale 27 febbraio 1919, n. 390, alle società commerciali e civili di rimborsare la differenza sopradetta ai portatori dei titoli nominativi. Ma essendo stato tale obbligo abolito col r. decreto 19 marzo 1923, n. 547, e non usando le società esercitare la rivalsa dell’imposta su azionisti ed obbligazionisti, a questi è indifferente quasi sempre che il titolo sia nominativo od al portatore, perché essi non risentono la differenza tributaria fra le due specie di titoli.
Sicché ora la sola motivazione del differente trattamento fatto ai titoli nominativi ed a quelli al portatore pare sia questa: che i secondi si trasmettono con maggior frequenza dei primi ed essendo l’imposta una surrogatoria di tasse che colpirebbero più di frequente i titoli al portatore, deve pur essa riuscire più grave per questi che per quelli nominativi.
b) L’imposta sul capitale delle società straniere che fanno operazioni in Italia.

Rispetto a queste società sarebbe stato scorretto il colpire con l’imposta ordinaria di negoziazione tutto l’ammontare dei titoli da esse emessi, o delle quote o carature in cui il loro patrimonio si divide, perché buona parte dei titoli o carature può non essere mai negoziata o trasferita in Italia. Si è scelto il partito di colpire con la tassa speciale annua del 4,50 per mille il capitale complessivo destinato ad operazioni ovvero impiegato nello stato dalle società straniere anonime od in accomandita per azioni, e dalle società ed associazioni straniere di qualsiasi altra specie che facciano in Italia operazioni di assicurazioni e di contratti vitalizi.
Non basta che una società compia operazioni isolate in Italia, per essere soggetta al tributo, occorrendo invece che tali operazioni abbiano un certo carattere di abitualità e di periodicità; il qual carattere si estrinseca col porre nel regno la sede principale o una secondaria, o una rappresentanza, o coll’avervi l’oggetto principale della impresa.
L’accertamento della quota del capitale complessivo della società impiegata nello stato non è certo scevro da difficoltà; le quali solo collo studio delle particolari circostanze d’ogni caso possono essere risolute.
Per le compagnie estere di assicurazione la tassa si applica anche al capitale destinato alle operazioni di riassicurazione.
c) Tassa sulle anticipazioni o sovvenzioni contro deposito o pegno.

Appartiene a questo sottogruppo l’imposta che è pagata dalle casse di risparmio, dalle società e da istituti per le operazioni di anticipazioni o sovvenzioni sopra deposito o pegno di merci, titoli o valori in ragione dell’importo di ciascuna operazione e per ogni giorno della sua durata effettiva e delle relative rinnovazioni e proroghe, ancorché siano state convenute per un tempo determinato. La tassa si applica anche nei contratti di riporto ed a termine stipulati per un termine maggiore di 40 giorni. Il tempo della durata effettiva si calcola dal giorno della anticipazione o sovvenzione sino a quello in cui è stato eseguito il rimborso, oppure restituito od alienato il pegno od in qualunque modo chiusa l’operazione.
Quando l’operazione si svolge sotto la forma del conto corrente, la tassa è dovuta sulle somme effettivamente anticipate o sovvenute ed in ragione della durata degli addebitamenti, detraendo i rimborsi.
L’aliquota generale della tassa è di un centesimo di lira al giorno per ogni 1.000 lire dell’importo dell’operazione; ed è ridotta a mezzo centesimo se il deposito o pegno è costituito esclusivamente da titoli di stato o garantiti dallo stato.
Per le anticipazioni o sovvenzioni su depositi o pegno di merci, titoli o valori, qualunque ne sia l’importo, fatte da privati che tengono case di pegno, invece delle tasse di registro e bollo dovute sugli atti, è stabilita una tassa del 2,35 per mille sull’importo complessivo delle operazioni fatte nel semestre precedente.
IV. – Tasse ipotecarie.

Le tasse ipotecarie sono regolate dal testo unico 30 dicembre 1923, n. 3272, ed hanno per scopo di colpire sia le iscrizioni come le trascrizioni e le cancellazioni, riduzioni e restrizioni di ipoteche. In parte queste tasse possono essere considerate come un compenso dato allo stato per la pubblicità e la sicurezza che esso offre, mercé la iscrizione delle ipoteche nei pubblici registri, a garanzia del credito ipotecario.
Specie delle tasse. – Esse possono essere:
 proporzionali; come per le iscrizioni (1% dell’importo) e le rinnovazioni (0,50%), per gli annotamenti per sub ingresso o surrogazione per trasferimento di crediti non dipendenti da cause di morte per costituzione di pegno (1%), e per gli annotamenti per cancellazione e riduzione di ipoteche e di pegni (0,50%);
 graduali; si applicano agli annotamenti per trasferimento di crediti a causa di morte, annotamenti ed iscrizioni per postergazione o cessione di priorità o di ordine ipotecario (1 per ogni mille lire);
 fisse; le quali si applicano alle altre formalità ipotecarie, come, per esempio, le iscrizioni e rinnovazione di conferma, di esecuzione o di rettificazione.
Oggetto della tassa. – L’oggetto è il capitale e gli accessori per interessi e spese per cui l’ipoteca è presa. Se l’ipoteca è presa per una rendita di cui non si indica il valore capitale, essa è valutata al decuplo del suo ammontare se vitalizia, al ventuplo se indeterminata o perpetua. Ove la durata sia inferiore al ventennio la tassa colpisce il cumulo delle annualità per cui l’ipoteca è presa.
Termine. – Le tasse in generale devono pagarsi agli uffici del registro dei termini stabiliti per il pagamento delle tasse di registro o di successione.
V. – Tassa sui contratti di borsa.

Oggetto. – Per contratti di borsa agli effetti della tassa si intendono:
 a) i contratti fatti in borsa o fuori tanto a contanti che a termine, fermi, a premio od a riporto, ed ogni altro contratto conforme agli usi commerciali, di cui formino oggetto i titoli di debito dello stato, delle provincie, dei comuni e di enti morali, le azioni e le obbligazioni di società, comprese le cartelle di credito fondiario, ed in genere tutti i titoli di analoga natura sia nazionali che esteri, quotati o non in borsa;
 b) le compravendite a termine di debiti e merci stipulate secondo gli usi di borsa, in borsa od anche fuori, purché in questo caso vi sia l’intervento di uno o di più mediatori iscritti. I contratti perfezionati all’estero per aver efficacia giuridica nello stato devono essere assoggettati alla tassa.
I contratti di riporto, a termine e le relative rinnovazioni e proroghe, quando siano stipulati per un termine superiore a 40 giorni, sono soggetti, invece che alla tassa sui contratti di borsa, a quella sulle anticipazioni contro deposito o pegno.
Misura della tassa. – Essa va da lire 0,10 per i contratti a contanti ed a termine stipulati fra persone ammesse a negoziare sui mercato ufficiale sino al massimo di lire 6 per i contratti di riporto e la cui durata ecceda i 40 giorni, conclusi direttamente tra i contraenti. Il concetto principale che ha ispirato la misura della tassa è quella della riduzione a metà della tassa per i contratti conchiusi con l’intervento di persone ammesse a negoziare sul mercato ufficiale, dovendo questi essere stipulati almeno due volte.
Riscossione della tassa. – Essa è corrisposta mediante impiego di foglietti bollati venduti dall’amministrazione finanziaria, costituiti da due parti; ciascuno dei contraenti ne trattiene una munita della firma dell’altro contraente. Su ciascuna parte del foglietto sono indicate: la data, la sostanza del contratto ed il termine per l’iscrizione.
VI. – Tasse sulle assicurazioni.

È dubbio quale sia teoricamente la natura di queste tasse, se sul trasferimento di una ricchezza o sulla spesa per l’assicurazione contro il verificarsi di un evento sfavorevole.
Oggetto delle tasse. – Le tasse sull’assicurazione hanno per oggetto le assicurazioni stipulate nello stato sia da società, compagnie od imprese comunque costituite, sia da singoli individui e quelle stipulate all’estero, quando si debba fare uso del documento relativo nello stato; o quando trattandosi di assicurazioni sulla vita riguardino persone aventi domicilio nel regno o quando concernano beni databili o mobili esistenti nello stato; o navi con patenti di nazionalità italiana, o merci trasportate dalle medesime od anche merci imbarcate su navi di bandiera estera, quando le merci siano trasportate per cento di persone o ditte italiane e l’assicurazione ne sia stata da esse assunta.
Soggetto delle tasse sulle assicurazioni sono gli assicurati ed eccezionalmente gli assicurati.
Le operazioni di assicurazione sulla vita a premio naturale ed associazioni di ripartizione sono vietate nel regno. L’esercizio delle assicurazioni, salve i contratti vitalizi, è inoltre vietato alle società in nome collettivo ed in accomandita ed a garanzia illimitata ed alle persone singole.
Esenzioni. – Si possono ricordare quelle per i contratti di riassicurazione, ove il contratto di assicurazione sia già stato regolarmente registrato nel regno, allo scopo di non dar luogo ad una doppia tassazione. Per ragioni sociali sono esenti le assicurazioni stipulate da società di mutuo soccorso, quelle riguardanti gli infortuni degli operai sul lavoro, le operazioni di trasformazione di capitale in rendite vitalizie e di ogni altra specie di assicurazione sulla vita fatta dalla cassa nazionale per le assicurazioni sociali.
Applicazione della tassa. – Questa avviene in modo diverso a seconda che si tratti:
 a) di tasse sull’assicurazione marittima per la quale l’assicurato esaurisce la sua obbligazione verso l’assicuratore e all’atto stesso del contratto. In questo caso l’assicurazione è pagata una volta tanto nella misura del 2% del valore assicurato;
 b) così pure per i contratti vitalizi per cui l’assicurato esaurisce la sua obbligazione mediante il versamento di una somma una volta tanto. La tassa, che è dell’1%, colpisce la somma capitale che forma il corrispettivo delle annualità vitalizie;
 c) le tasse su assicurazioni diverse da quella marittima, per le quali l’assicurato si obblighi all’atto del contratto al pagamento periodico dei premi di assicurazione, si applicano sull’ammontare di ciascun pagamento a premio, ed è, ad esempio, del 18% per le assicurazioni contro i danni degli incendi, del 2% per le assicurazioni contro i danni della malattia del bestiame, e dei prodotti annuali contro i danni delle intemperie; del 9% per le assicurazioni per la rottura di vetri, cristalli o specchi, del 20% per le assicurazioni di trasporto su fiume o lago o per terra. In aggiunta alle tasse sui premi si paga anche una tassa dell’1% per le quietanze rilasciate dagli assicurati agli assicuratori, per il pagamento delle somme assicurate in dipendenza dei contratti di assicurazioni diverse dalle marittime.
Capitolo X
Continua delle imposte sullo scambio della ricchezza e in specie di quelle sui trasferimenti a titolo gratuito

I. – L’imposta sulle successioni e donazioni.

L’imposta nell’ordinamento legislativo italiano si applica:
 a) alle trasmissioni per causa di morte della proprietà, dell’usufrutto o dell’uso dei beni di qualunque natura, sia ab intestato, ovvero in forza di testamento;
 b) alle donazioni per atti tra vivi della proprietà, dell’usufrutto, o dell’uso di beni mobili od immobili.
Precedenti legislativi. – L’imposta di successione non è cosa nuova: essa era già nota ai romani col nome di vicesima hereditatum: nel medio evo esistette pure, benché con caratteri diversi da quelli antichi e da quelli moderni, in conseguenza dei vincoli feudali delle proprietà in quei tempi.
Come imposta permanente essa sorse in Italia nel secolo XVII: la istituì la repubblica veneta (benché solo per la dominante, non per la terraferma) nell’occasione di una guerra contro la Turchia e con l’aliquota del 5 per cento. In Piemonte fu applicata per la prima volta nel 1797, a sostegno delle finanze dello stato, durante la rivoluzione; abolita in seguito, fu ripristinata nel 1821 ed aumentata nel 1851, raggiungendo allora l’aliquota dell’1% in linea retta, con esenzione per le successioni inferiori a 1.000 lire.
All’epoca dell’unificazione, sembrò dapprima che si volesse mantenere l’imposta entro limiti bassi, con la legge 21 aprile 1862 che stabiliva l’aliquota del 0,50 in linea retta, aliquota che fu ridotta ancora al 0,20% con la legge successiva del 14 luglio 1866. Alla quota legittima fra ascendenti e discendenti o viceversa era concessa l’esenzione.
Presto però si cambiò indirizzo: a cominciare dalla legge 19 luglio 1888 si verificò nell’imposta di successione, come nelle altre, un sensibile inasprimento: abolizione della esenzione per la quota legittima; elevazione dell’aliquota in linea retta, dallo 0,20 all’1,20 per cento. Nel 1870 questa fu portata all’1,60 per cento.
Si giunge così alla riforma del 23 gennaio 1902, n. 25, allegato C, che ha profondamente innovato il nostro sistema tributario in materia d’imposta di successione. Fino a quel tempo, infatti, l’imposta era rimasta ad aliquota proporzionale costante, variando l’aliquota solamente col grado di parentela; la legge del 1902 ha introdotto il principio della progressività dell’aliquota in relazione all’ammontare della quota ereditaria. La aliquota progressiva fu successivamente inasprita sinché colla legge 21 settembre 1920 fu spinta ad altezze stragrandi.
Ad esempio, prendendo alcuni tipi di quote ereditarie si poteva allora costruire il seguente specchietto:
fino a 1.000 lire 10 mila lire Da 100 mila lire 1 milione oltre 20 milioni
% % % % %
1. Fra ascendenti in linea retta in primo grado 1 2 4 14 27
2.Fra ascendenti in linea retta in secondo grado 1 2 5 15 30
3. Fra coniugi 4 5 10 22 36
4. Fra fratelli e sorelle 7 9 15 27 42
5. Fra zii e nipoti 9 11 18 30 48
6. Fra prozii e pronipoti e cugini germani 11 13 27 40 60
7. Fra altri parenti 18 20 40 59 75
Complementare successoria. – Alla imposta di successione fu aggiunta col decreto legge 29 novembre 1919, n. 2163, una complementare del 5% del valore dei beni devoluti quando questo fosse da lire 200.000 a 400.000, dell’8% se il valore era da 400 a 800 mila lire e del 10% se era superiore a lire 800 mila.
La complementare si applicava solo se:
 1) l’erede o legatario era un collaterale ed un estraneo;
 2) ed avesse anteriormente alla ricevuta successione, un patrimonio proprio non inferiore a 200 mila lire.
Oltre alla complementare si aggiungeva l’imposta del 20% a favore dei mutilati, dei combattenti e delle vedove di guerra con prole (art. 7 della legge 20 agosto 1921, n. 1178); e con altre piccole aggiunte, il carico totale veniva spinto ad altezze vertiginose, che in casi estremi giungevano sino alla confisca completa ed al di là (aliquota del 102,75 per gli eredi oltre il quarto grado affini od estranei di una quota di oltre 20.000.000 di lire, composta di beni immobili).
Riforma De Stefani. – Le esorbitanze del tributo produssero così vivo malcontento che con r. decreto 30 dicembre 1923, n. 3270 (De’ Stefani) fu esonerato dal pagamento dell’imposta il gruppo famigliare, composto: a) degli ascendenti e discendenti; b) dei coniugi; e) dei fratelli e sorelle; d) degli zii e nipoti; e) dei discendenti di fratelli e sorelle dell’autore della successione, se succedono per diritto di rappresentazione.
L’imposta fu limitata alle successioni e donazioni apertesi o stipulate fra: a) prozii e pronipoti, cugini e altri parenti oltre il quarto grado; b) affini; c) estranei. L’aliquota fu fissata per tutte le categorie sopradette indistintamente nella seguente misura:
Ripartizione della quota ereditaria o di donazione in scaglioni Aliquota da applicarsi distintamente ad ogni (per ogni cento lire)
Fino a lire 10.000 12
Da lire 10.001 a 25.000 15
Da lire 25.001 a 50.000 18
Da lire 50.001 a 100.000 22
Da lire 100.001 a 500.000 26
Da lire 250.001 a 500.000 30
Da lire 500.001 a 1.000.000 35
Da lire 1.000.001 a 5.000.000 40
Da lire 5.000.001 a 10.000.000 45
Oltre 10.000.000 50
La riforma aveva per iscopo di promuovere l’accumulazione a pro della famiglia,«di rinsaldare i vincoli nel gruppo famigliare e di dare un compenso alle regioni del mezzogiorno, in cui domina la ricchezza immobiliare, la quale non sfugge alle imposte personali, in confronto alle regioni settentrionali, in cui domina la ricchezza mobiliare che a quelle meglio si sottrae.
Ripristino dell’imposta. – Le esigenze della finanza indussero il legislatore col R.D.L. 30 aprile 1930, n. 431, a ripristinare l’imposta nel nucleo famigliare, con qualche esenzione a favore delle famiglie non troppo ristrette.
Misura dell’imposta. – L’imposta di successione è regolata progressivamente e si applica alle singole quote di eredità e legati secondo le aliquote, indicate nella tabella seguente, le quali sono crescenti e proprie dei singoli scaglioni in cui si divide la quota ereditaria. Il che vuol dire che ogni quota ereditaria deve essere distinta in tanti scaglioni quanti corrispondono al suo ammontare ed ad ogni scaglione è applicata l’aliquota sua propria.
Con le stesse aliquote si regola la tassa dovuta nelle successioni legittime e testamentarie dei figli adottivi agli adottanti e nelle successioni testamentarie dell’adottante all’adottato (salvo in questi casi la riduzione della tassa alla metà), e analogamente sono graduate le tasse di donazione.
Tassa ad aliquota costante. – In alcuni casi, specialmente indicati dalla legge, la tassa di successione è invece proporzionale e si applica con aliquote costanti qualunque sia il valore imponibile.
Sono soggetti alla tassa di successione nella misura costante:
 A) del 5% le trasmissioni a favore:
o 1) di istituti stranieri legalmente riconosciuti, aventi sede nello stato e che abbiano le stesse finalità di quelli indicati al numero seguente, sempreché esista reciprocità di trattamento in virtù di apposito patto convenzionale con lo stato al quale l’istituto appartiene;
o 2) di provincie, di comuni e di altri enti morali, quando lo scopo specifico della liberalità sia d’igiene o di pubblica utilità;
o 3) di fondazioni destinate a premiare la virtù o il merito od ad altri scopi di pubblica utilità;
o 4) di società di mutuo soccorso, registrate in conformità della legge 15 aprile 1886, n. 3818.
 B) del 3% i legati per scopo alimentare non superiori a L. 2.000 annue a favore di domestici dell’autore della successione.
Attenuazione d’aliquota ed esenzione a favore di istituti di beneficenza, educazione ed istruzione. – Prima del decreto legislativo 27 settembre 1914, si applicava l’aliquota proporzionale del 5% alle donazioni, assegnazioni e liberalità, trasmissioni per cause di morte della proprietà, dell’usufrutto, dell’uso di beni di qualunque natura a favore di istituti esistenti nello stato, i quali abbiano per precipuo scopo di soccorrere le classi meno agiate, tanto in istato di sanità che di malattia, di prestare loro assistenza, di educarle, istruirle ed avviarle a qualche professione, arte o mestiere, purché l’amministrazione di tali istituti sia sottoposta alla sorveglianza delle autorità governative, ed a favore delle società di mutuo soccorso registrate in conformità della legge 15 aprile 1886, n. 3818.
Condizioni necessarie per fruire di questa attenuazione di aliquota erano dunque:
 a) trattarsi di istituti di beneficenza, di educazione per classi meno agiate o di società operaie di mutuo soccorso registrate;
 b) essere l’amministrazione degli istituti soggetta alla sorveglianza delle pubbliche autorità. Il decreto legislativo del 17 settembre 1914 estese l’aliquota proporzionale del 5% ai corpi morali o di istituti italiani legalmente riconosciuti, fondati o da fondarsi, i quali avessero per precipuo scopo di soccorrere od assistere le classi meno agiate; ovvero di educare, istruire ed avviare a qualche professione, arte o mestiere persone di qualsiasi condizione e nazionalità.

Grado di parentela fra gli autori della successione e gli eredi o legatari Fino a L. 10.000 Da L. 10.001 a L. 25.000 Da L. 25.001 a L. 50.000 Da L. 50.001 a L. 100.000 Da L. 100.001 a L. 250.000 Da L. 250.001 a L. 500.000 Da L. 500.001 a L. 1.000.000 Da 1.000.001 a L. 5.000.000 Da L. 5.000.001 a L. 10.000.000 Da L. 10.000.001 in poi
Tassa proporzionale per ogni 100 lire
1. A favore di ascendenti in linea retta e tra genitori ed un figlio solo e discendenti 1 1,50 1,50 2 2,50 3 4 6 8 10
2. Tra coniugi senza figli o con un figlio solo 1,50 2 3 4 6 8 10 13 15 18
3. Tra fratelli e sorelle 4,50 5 6 7,50 9 11 13 16 18 21
4. Tra zii e nipoti 5,50 6 7,50 9 10,50 13 16 19 22 25
5. Tra prozii, pronipoti, cugini altri parenti oltre il quarto grado, tra affini, tra estranei, (compresi i corpi morali e le persone fisiche che non sono diversamente contemplati dalla legge) 12 15 18 22 26 30 35 40 45 50
S’intesero compresi fra gli istituti della specie indicata le biblioteche, i musei e le gallerie fondate a scopo di istruzione.
Non occorse quindi più la condizione della destinazione a favore delle classi meno agiate. La destinazione a scopi di educazione, istruzione o pubblica utilità bastò a procurare il beneficio della tassa del 5 per cento.
La legge 24 settembre 1920 continuò l’aliquota del 5% per tali successioni, ed istituì una nuova aliquota, pure proporzionale costante del 10%, per i trasferimenti a favore di provincie, di comuni e di altri corpi morali diversi fra quelli indicati sopra, per scopi di pubblica utilità, che non siano di beneficenza o di istruzione.
Finalmente i R.D. 30 dicembre 1923, n. 2270, e R.D.L. 9 aprile 1923, n. 380, esentarono intieramente dall’imposta le liberalità a qualsiasi titolo (anche se oneroso, purché l’onere sia inerente allo scopo per il quale sono disposte) a favore di provincie, comuni, altri enti morali ed istituti italiani, legalmente riconosciuti, fondati o da fondarsi, quando lo scopo specifico della liberalità sia di beneficenza, di istruzione o di educazione.
Oggetto e soggetto delle tasse di successione. – Sono soggetti alla tassa di successione per il loro ammontare netto da passività tutti i trasferimenti della proprietà, dell’usufrutto, dell’uso o godimento di beni o di altri diritti che si verificano per causa di morte o per assenza dichiarata o presunta della persona alla quale appartengono, ed i passaggi di usufrutto dei beni costituenti la dotazione dei benefici ecclesiastici e delle cappellanie. È oggetto dell’imposta l’ammontare del patrimonio ereditario netto dell’autore il quale si trova nel regno al momento dell’apertura della successione, indipendentemente dal luogo di morte dell’autore e della sua qualità di cittadino italiano o straniero.
Esenzioni. – Sono esenti, allo scopo di promuovere la saldezza dei vincoli famigliari, le trasmissioni le quali hanno luogo dai genitori a favore di due o più figli e loro discendenti, compresi i figli naturali legalmente riconosciuti e quella che avviene tra coniugi con due o più figli.
Nel computo dei figli si tiene conto dei figli premorti legittimi, legittimati e naturali riconosciuti legalmente, esclusi gli adottivi.
Denuncia. – La denuncia della successione deve essere presentata dagli eredi, legatari, tutori e curatori, amministratori dell’eredità od esecutori testamentari. La denuncia deve essere presentata nel termine di quattro mesi dal giorno della morte quando l’autore della successione è morto nello stato, di mesi sei se negli altri stati d’Europa, di mesi diciotto se fuori di Europa.
Per i tutori, curatori, amministratori ed esecutori testamentari il termine decorre dal giorno in cui è pervenuto ad essi l’annuncio legale della loro nomina. Per le successioni accettate con il beneficio di inventario il termine decorre dalla scadenza di quello stabilito per la formazione dell’inventario, oppure dalla data della sua chiusura se si sia verificata prima.
Valutazione. – La tassa è commisurata al valore venale dei beni in comune commercio e si applicano le medesime regole che sopra sono già state indicate per le tasse di registro per i trasferimenti operati tra vivi.
Passività. – Dall’ammontare dell’attivo si deducono:
 1) i debiti certi e liquidi legalmente esistenti al momento dell’apertura della successione e risultanti da atti pubblici, da sentenze passate in giudicato e da scritture private che abbiano acquistato data certa anteriormente all’apertura della successione in uno dei modi indicati dall’art. 1327 del cod. civ. che non sia la morte o fisica impossibilità di scrivere del sottoscrivente;
 2) i debiti verso le pubbliche amministrazioni, certi al momento dell’apertura della successione anche se liquidati posteriormente;
 3) i debiti da commercio e quelli risultanti da cambiali ed altri effetti all’ordine purché la loro esistenza sia comprovata da libri di commercio regolarmente tenuti;
 4) le spese di infermità relative agli ultimi sei mesi di vita dell’autore della successione debitamente comprovate da quietanze dei medici, chirurgi, farmacisti, istituti ospitalieri e case di cura;
 5) le spese funerarie risultanti da regolare quietanza purché non si superi una misura la quale va da un massimo del 5% (con un minimo di 100 lire), quando l’asse ereditario supera le 1.000 lire e non le 5.000, ad un minimo del 0,50% per le eredità superiori alle 50.000 lire;
 6) i debiti che gravino specialmente sugli immobili. Quando nella massa ereditaria si trovano immobili situati all’estero e nel regno, si deducono i debiti in proporzione al valore della sola parte dell’asse ereditario che si trova nel regno.
Pagamenti. – I debitori delle tasse di successione che riguardano valori immobili possono chiedere di eseguire il pagamento a rate in un termine non maggiore di 6 anni corrispondendo in tal caso l’interesse scalare del 5 per cento.
La finanza può concedere la medesima dilazione anche per le successioni che si riferiscono a valori mobiliari.
Sanzioni. – Gli eredi ed i legatari i quali non presentino nel termine prescritto le denuncie incorrono in una soprattassa uguale ai 6/10 della tassa dovuta. Per le omissioni e per le insufficienti dichiarazioni di valore si applica una sopratassa uguale alla tassa con l’aumento del quinto.
Il contribuente può evitare la soprattassa con successiva denuncia fatta prima che scada il termine prescritto per il pagamento. Il tutore, l’esecutore testamentario e simili, sono obbligati in proprio al pagamento della soprattassa per omessa o ritardata denuncia. La finanza può deferire il giuramento agli eredi circa la pertinenza o meno di titoli di rendita, di azioni, obbligazioni, e titoli di ogni specie e di qualsiasi altro cespite. Quando il pagamento non sia eseguito nei termini stabiliti è dovuta una soprattassa del 24% della tassa. Tutte le soprattasse sono ridotte alla metà quando il pagamento stesso si eseguisca prima che sia intimata l’ingiunzione, ad un decimo quando la denuncia od il pagamento si eseguiscano entro 60 giorni dalle rispettive denuncie.
II. – L’imposta di manomorta.

L’imposta di manomorta di cui altrove (Principii, libro secondo, capitolo VII, sezione quarta), si vide il fondamento, colpisce il reddito del patrimonio degli enti morali.
Essa può considerarsi in surrogazione dell’imposta di successione, perché gli enti di manomorta, per la loro natura indefettibile, non sono soggetti all’imposta sulle successioni e, se non fossero colpiti da una particolare imposta surrogatoria, sarebbero soggetti in minor misura delle persone fisiche alle imposte che colpiscono queste.
Soggetto dell’imposta. – Soggetti dell’imposta di manomorta sono in genere gli enti di natura cosidetta indefettibile, i quali cioè si propongono uno scopo non occasionale e di breve durata, ma duraturo e perseguibile in un futuro indeterminato. Rientrano in questa categoria, ai fini dell’imposta, le provincie, i comuni, gli istituti di carità e di beneficenza, gli economati generali dei benefici vacanti, le fabbricerie e le altre amministrazioni delle chiese, i benefici ecclesiastici e le cappellanie, le case religiose e confraternite, gli istituti religiosi d’ogni culto, e gli altri stabilimenti, associazioni, corpi ed enti morali, ivi compresi quelli aventi sede all’estero, ma che ritraggono redditi in Italia.
Esclusioni ed esenzioni. – Sono esclusi dal novero degli stabilimenti di manomorta le società commerciali ed industriali, di credito o di assicurazione di qualunque specie, sia perché il legislatore non le ha menzionate, sia perché su di esse gravano altre imposte patrimoniali che sono le consuete sui trasferimenti, e l’imposta di negoziazione sui titoli.
Pretesero le casse di risparmio e gli istituti di credito fondiario eretti in enti morali di essere esenti dalla tassa di manomorta per la natura commerciale delle operazioni da essi compiute, la quale li rende più simili a banche che ad enti morali. Ma non è la maniera di impiego dei capitali il criterio per cui si rende applicabile l’imposta di manomorta, bensì il fatto che un dato patrimonio è di proprietà di un ente indefettibile e perpetuo, sicché non andrebbe soggetto alle normali imposte sui trasferimenti. S’intende che l’imposta di manomorta colpisce solo il reddito dei beni propri della cassa, che costituiscono una dotazione permanente dell’istituto e non quello dei depositi spettanti ai privati.
Sono esenti dall’imposta di manomorta: gli asili infantili, le società di mutuo soccorso, per quella parte di patrimonio che non è costituita da lasciti o donazioni; i consorzi idraulici pei contributi pagati dai consorziati; le fondazioni di biblioteche, pinacoteche, quando non siano oggetto di speculazione. Le quali esenzioni si spiegano in relazione al fine dell’imposta; che è di colpire maggiormente i redditi patrimoniali in confronto ai redditi di lavoro. Mentre nei casi in discorso, trattasi bensì di redditi patrimoniali, ma questi sono già quasi sempre indirizzati a fini pubblici, sicché non fa d’uopo prelevare da essi un’imposta che sarebbe rivolta ai medesimi fini pubblici.
Si lagna la finanza di non poter colpire con l’imposta di manomorta le associazioni di fatto che a scopo religioso si sono sostituite alle soppresse corporazioni. Ma a torto si lagna, perché l’imposta di manomorta, essendo giustificata solo dall’impossibilità di colpire i patrimoni spettanti agli enti morali con le imposte normali sui trasferimenti, non ha ragion d’essere laddove la proprietà del patrimonio dell’associazione di fatto è intestata al nome dei singoli soci e deve pagare imposta ogni qualvolta il socio intestatario muoia o trasferisca, per atto a titolo oneroso, il suo patrimonio ad altri. L’imposta di manomorta costituirebbe evidentissimamente una duplicazione di imposte.
Esenti sono pure gli enti i cui redditi imponibili non superano le lire 1.000 annue; ed i benefizi ecclesiastici maggiori o minori quando all’investito siano concessi supplementi di congrua.
Favore questo che si spiega col fatto essere inutile falcidiare con l’imposta di manomorta i redditi dei più modesti benefici parrocchiali quando il reddito stesso dovrà poi essere reintegrato di nuovo con dei supplementi di congrua a carico del fondo per il culto, i cui disavanzi vanno a carico dell’erario.
Oggetto. – Sono la rendita reale o presunta, di tutti i beni immobili e mobili che gli enti di manomorta soggetti all’imposta possiedono allo scopo di ricavarne un reddito pecuniario e gli assegni perpetui od a tempo determinato di cui essi godono.
Quindi sono esclusi gli immobili destinati all’uso proprio dell’ente: come le case destinate all’uso di ospedale, di asilo, da parte dell’istituto di carità e di beneficenza, che ha scopi ospitalieri o scolastici, quelle destinate all’abitazione dei ministri di qualunque culto, come pure quelle che servono per l’amministrazione comunale e provinciale, e per gli stabilimenti destinati a pubblico beneficio da tali amministrazioni, come pure le case destinate dai comuni, dalle provincie e dai consigli dell’economia all’istruzione, all’educazione o ad opere di pubblica beneficenza o di carità.
Quid del profitto che i comuni traggono dalle industrie che tuttodì vanno esercitando? Si considerò doversi distinguere nel profitto due parti: la prima interesse del capitale impiegato nell’impresa, la seconda compenso dell’opera di direzione dei preposti dal comune a capo dell’impresa e del rischio corso dall’imprenditore comunale. E si disse che la seconda parte non doveva essere colpita dall’imposta di manomorta, come quella che dipende da fattori personali, e solo la prima parte può esservi soggetta, derivando da fattori patrimoniali.
Aliquote. – L’aliquota dell’imposta è del 7,20% del reddito annuo dei beni per gli enti di manomorta in genere. L’aliquota è ridotta al 0,90% per gli istituti di carità e beneficenza, d’istruzione e di educazione, legalmente esistenti nel regno e per le fondazioni destinate a premiare la virtù od il merito o ad altri scopi di pubblica utilità. La riduzione tributaria è limitata a quella parte delle rendite che effettivamente viene erogata agli scopi detti sopra; non a quella che sia destinata ad altri scopi.
Tassazione e denuncia delle rendite. – La imposta del 7,20 o del 0,90 per cento si paga ogni anno.
Allo scopo di non variare ad ogni momento la base imponibile, il legislatore fu indotto a fissare un periodo durante il quale rimanesse definitivo l’accertamento. Tale periodo fu fissato in un quinquennio durante il quale resta invariata l’estimazione della rendita imponibile dei beni mobili e immobili.
Però le variazioni nell’asse del patrimonio soggetto a tassa, hanno effetto nell’anno seguente a quello nel quale sono avvenute. Qui parve opportuno stabilire un periodo più breve, perché le variazioni patrimoniali possono importare la cessazione assoluta della rendita per alienazione degli immobili, affranco di capitali, riscossione di crediti, distruzione degli edifici o il godimento di un nuovo cespite di rendita per l’acquisto di immobili, di capitali, di titoli di debito pubblico.
In difetto di denuncia sarà mantenuta la tassa sulle basi della avvenuta liquidazione per l’anno successivo se si tratta di variazioni nel patrimonio imponibile; per un altro quinquennio, se si tratta di variazione nella rendita tassabile, sempre però salvo gli aumenti che dovessero essere stabiliti di ufficio.
Capitolo XI
Le imposte sui consumi

L’esame dell’ordinamento delle imposte statali sui consumi nel nostro paese (quanto alla teorica di esse cfr. Principii, libro secondo, capitolo X), segue la classificazione che di esse è fatta nella nostra pratica amministrativa:
 a) imposte esatte col metodo del monopolio, ossia attribuendo allo stato il monopolio della produzione e della vendita ovvero il monopolio della produzione e della vendita degli oggetti tassati: tabacchi, sale, lotto pubblico;
 b) imposte di fabbricazione, esatte cioè all’atto dell’uscita dell’oggetto tassato dalla fabbrica del produttore;
 c) dazi doganali, che sono imposte esatte su certi oggetti quando vengono introdotti dall’estero;
 d) imposte esatte col metodo del bollo: tassa sugli scambi, di bollo sui trasporti, sugli autoveicoli, sugli spettacoli, sulle carte da giuoco.
a) Delle imposte esatte col metodo del monopolio.

Concetto del monopolio fiscale. – Fanno parte di questo primo gruppo le imposte sul sale, sul tabacco, e sul giuoco del lotto, che lo stato esige proibendo ai privati la fabbricazione e la vendita del sale, del tabacco e delle speranze di vincere al lotto, ed esercitando l’industria e il commercio relativi in assoluta privativa. Naturalmente lo stato non esercita questa privativa pel vantaggio dei consumatori, ma anzi per gravarli con un’imposta. La quale imposta si ottiene facendo ai consumatori pagare lire 1,50 quel chilogrammo di sale che al fisco costa 50 centesimi; 50 centesimi quel sigaro che costa 10 centesimi; e 1 lira quella speranza di vincita che allo stato in media costa 50 centesimi. La differenza fra il costo per il fisco monopolista ed il prezzo fatto pagare ai consumatori, può essere approssimativamente considerata imposta.
Vantaggio del monopolio rispetto al contrabbando. – Le imposte esatte col metodo del monopolio presentano notevoli pregi, soprattutto perché si prestano meno al contrabbando degli altri tipi di imposta. Se si istituiscono imposte di fabbricazione, dovendosi consentire la libera produzione, il produttore, malgrado ogni più assidua vigilanza, tenta, e qualche volta riesce, sebbene sempre meno vi riesca, a fabbricare clandestinamente ed a frodare l’imposta. A tal uopo ha mezzi più facili di quelli che non abbia colui che assolutamente non può fabbricare, a causa della privativa e cade in violazione della legge per il solo fatto di produrre e di vendere. Il fisco può cioè più facilmente vietare senz’altro di coltivar tabacco o permettere la coltivazione sotto la sua sorveglianza e col diritto esclusivo di acquisto da parte sua del prodotto ottenuto, che non mettere un’imposta sulle foglie di tabacco prodotte dai privati, essendo evidente che col monopolio, dato il divieto di vendere ad altri, il produttore ha interesse a vendere al fisco tutta la foglia prodotta, mentre coll’imposta di fabbricazione avrebbe interesse ad occultare parte della propria produzione.
Vantaggio rispetto alla ripartizione della imposta in ragione della ricchezza del contribuente. – Il monopolio si presenta meglio adatto anche dal punto di vista della distribuzione delle imposte in ragione della ricchezza dei contribuenti. La regia, che vende il tabacco, può differenziare i prezzi a seconda della qualità. L’imposta di fabbricazione od il dazio doganale difficilmente può rendersi proporzionale al pregio della merce, perché i fabbricanti ed importatori avranno convenienza d’introdurre la merce di qualità grossolana per pagare dazio minore, salvo poi a manipolarla in modo da farla diventare di forma ed apparenza più fine. Anche colle imposte di fabbricazione finora non si è riusciti a stabilire tariffe diverse per le qualità diverse della medesima derrata, perché i produttori hanno interesse a pagare solo l’imposta più bassa. Lo stato, invece, col monopolio stabilisce un prezzo di vendita variabile a seconda del pregio e della bontà dei diversi generi; in modo che contenga nel prezzo globale tanto maggiore ammontare d’imposta quanto più la merce è ricca ed è consumata da gente che si può presumere abbia reddito più elevato.
Ossia l’imposta grava proporzionalmente assai di più sui tabacchi che si vendono ai prezzi massimi che su quelli che si vendono ai prezzi minimi.
Ossia ancora il metodo del monopolio può essere un mezzo per far gravare maggiormente l’imposta sui consumatori più ricchi che su quelli più poveri; e compensare così la proporzione inversa che si riscontra in altre imposte sui consumi; onde esso si chiarisce uno strumento prezioso di perequazione fiscale.
Bisogna però osservare che i vantaggi del monopolio non si estendono a tutte le merci, e ci furono esempi di monopoli (ad es., caffè) che si convertirono in disastri per lo stato.
Monopolio del sale. – Esso consiste nella privativa riservata allo stato della estrazione del sale dall’acqua del mare, dalle sorgenti marine e dalle miniere, della produzione di esso in qualunque altro modo, e della raccolta, importazione e vendita del sale. Sono eccettuate dalla privativa le isole di Sicilia e di Sardegna, le isole minori adiacenti a queste, la provincia di Zara ed i comuni di Livigno e di Campione d’Intelvi.
La vendita del sale si effettua a mezzo dei rivenditori di sali e tabacchi; ma l’amministrazione effettua vendite direttamente alle industrie ammesse all’acquisto di esso in esenzione da imposta (industria della preparazione dei concimi per l’agricoltura, della produzione della soda e del cloruro di ammonio, della riduzione dei minerali, della lavorazione del ferro e dell’acciaio, dei colori); od a prezzo speciale (industrie del freddo, della preparazione dei vini spumanti, della salagione dei pesci o dei prodotti del suolo, della preparazione del presame).
Il prezzo di vendita delle più importanti qualità di sale da cucina e da tavola, su cui è più forte il margine di lucro dello stato è ora di lire 1,50 al kg. per il sale ordinario da cucina; di lire 2 per il sale superiore, di lire 4 per il sale macinato e di lire 6 per il sale raffinato.
Negli ultimi anni la proporzione delle spese alle entrate si può dire sia stata del 22%; con un guadagno d’imposta che nel 1929/1930 fu di 340 milioni di lire sicché notevole è l’imposta testatico gravante per questo motivo su ogni contribuente.
Monopolio dei tabacchi. – è il più produttivo dei monopoli e, dopo quella di ricchezza mobile, la più fruttifera delle imposte italiane. È anche quella tra le imposte sui consumi la quale meglio risponde alle esigenze della giustizia. Nel 1930-1931 furono venduti circa 32 milioni di chilogrammi, con un reddito d’imposta di circa 2,9 miliardi di lire, all’incirca l’80% del provento lordo.
La fabbricazione, la preparazione, la importazione e la vendita dei tabacchi e dei prodotti derivati dal tabacco sono riservate allo stato; la coltivazione, invece, dei tabacchi, può essere consentita ai privati.
Sono vietate la fabbricazione, la produzione, la preparazione, l’importazione e la vendita dei succedanei del tabacco.
Sono esenti dalla privativa soltanto la provincia di Zara ed i comuni di Livigno e Campione d’Intelvi.
L’amministrazione dei monopoli statali può concedere la coltivazione della pianta di tabacco a privati coltivatori, tanto per l’approvvigionamento delle manifatture di stato quanto per l’esportazione. I privati coltivatori sono soggetti a licenza ed a continua sorveglianza da parte dell’amministrazione.
La vendita al pubblico ha luogo per mezzo di rivenditori scelti in seguito ad asta pubblica od a concorso.
Il lotto pubblico. – Per l’interesse, anche teorico, di questa entrata statale, la quale, come già fu osservato sopra, si può considerare, quasi ad arbitrio dello studioso, come un imposta sul reddito delle giocate, ovvero come un’imposta sul consumo delle speranze di giocare, ovvero ancora in parte come profitto dell’industria del gioco esercitata dallo stato ed in parte come imposta prelevata dallo stato sulle vincite allo scopo di scemare l’incitamento al gioco, si danno di essa notizie alquanto particolareggiate .
 1) Legislazione. – La legislazione sul gioco del lotto nel regno d’Italia risale alla legge del 27 settembre 1863, n. 1483. Fondamentale fu in seguito il r. decreto 12 ottobre 1894, n. 413, convertito in legge con la legge 22 dicembre 1895, n. 712. Oggi la materia è regolata dal r. testo unico approvato con regio decreto 29 luglio 1925, n. 1456, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 27 agosto 1925. Il regolamento relativo fu approvato con regio decreto 9 agosto 1926, n. 1601, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’8 ottobre 1926.
 2) Principio. – L’esercizio del lotto è assunto in monopolio dallo stato. Quindi ogni specie di lotteria privata o tombola è espressamente proibita in Italia.
 3) Lotterie private permesse. – Esse si distinguono in:
o A) lotterie minori, le quali possono essere permesse dal prefetto della provincia nei seguenti due casi:
o a) le vendite pubbliche di biglietti per concorrere mediante estrazione a sorte alla vincita di premi consistenti in oggetti mobili di valore non dichiarato, escluso il danaro, i valori bancari, i titoli e le cedole di prestiti, le carte di credito e i metalli preziosi in verghe, purché siano promosse da e dirette da corpi morali, purché il prodotto di dette vendite sia esclusivamente destinato a scopo di beneficenza o di incoraggiamento di belle arti, e purché l’importo dei biglietti per ogni singola operazione non ecceda le lire centomila. La vendita dei biglietti deve essere limitata al territorio della provincia;
o b) Le tombole promosse o dirette da corpi morali, purché il prodotto netto di esse sia destinato a scopo di beneficenza o di incoraggiamento di belle arti, e purché i premi non superino complessivamente il valore di tre mila lire.
La vendita delle cartelle è lecita solamente nel comune in cui la tombola deve essere estratta e nei comuni limitrofi.
Quando il prodotto della vendita dei biglietti per le operazioni di cui alla lettera a) sia destinato ad alleviare i danni della guerra, potrà la concessione essere accordata qualunque sia la natura e il valore dei premi purché, ove siano in danaro, valori bancari, ecc., rappresentino integralmente ed esclusivamente le eventuali offerte dei donatori e non siano formati distraendo i proventi della lotteria.
Lotterie e tombole sono soggette ad una tassa di bollo stabilita nella misura di cent. 10 per biglietto o cartella per ogni lira o frazione di lira del prezzo unitario corrispondente.
I biglietti relativi alle due specie di lotterie sopra indicate si devono vendere pubblicamente nelle località dove vengono esposti ed estratti i premi. Il prezzo unitario dei biglietti non può superare le lire 2,50 e il complessivo ammontare di questi non può superare le lire 5.000.
 B) lotterie maggiori o nazionali. Queste possono essere autorizzate solo per decreto del capo del governo, di concerto col ministro delle finanze. Esse sono consentite solo per scopi di importanza nazionale, ad esempio, di soccorso ad un’opera benefica, assistenziale, culturale o patriottica la quale estenda l’azione sua a tutto o gran parte del territorio del regno. Le modalità della lotteria nazionale sono fissate di volta in volta nel decreto di autorizzazione. In ogni esercizio finanziario l’importo dei biglietti e delle lotterie non può superare i 25 milioni, e le estrazioni possono essere al massimo sei.
4) Esercizio della lotteria di stato. – All’infuori delle occasioni indicate al n. 3, lo stato esercita il lotto in assoluto monopolio, per mezzo di una sua amministrazione. Questa entra in rapporto col pubblico per mezzo di 1858 banchi di lotto. Il lotto è esercitato in tutto il regno, comprese le nuove provincie prima appartenenti all’impero austriaco.
I banchi lotto sono gestiti da ricevitori o da reggenti, i quali sono rimunerati con un aggio graduale sulle somme annualmente riscosse. I ricevitori devono prestare una cauzione, uguale ad una volta o ad una volta e mezza la riscossione settimanale secondo la media dei tre ultimi anni.
5) Sistema delle giocate e delle vincite. – Ogni settimana dal lunedì sino ai sabato i banchi del lotto ricevono dal pubblico le giocate. Il ricevitore rilascia, a prova delle somme pagate, bollette da lire 0,30, 0,50, 1, 2, 3, 10, 20 e 25 l’una, ricavate da bollettari a madre e figlia.
L’importo giocato su ogni bolletta può essere ripartito fra diverse città e diversi tipi di giocata, pur di non superare il limite totale di prezzo e di giocata fissato per ogni biglietto.
Si può giocare su una sola bolletta anche l’importo massimo spettante a due o più bollette; ma in tal caso bisogna lasciare in bianco le bollette usate in più.
Il giuocatore indica qual è la città sulla quale intende di giocare. Le città nelle quali si fanno le estrazioni sono otto e cioè: Bari, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia.
L’estrazione si fa ad un’ora fissa nel giorno di sabato, con l’intervento del prefetto della provincia, del podestà della città e dell’intendente di finanza ovvero, in caso di loro assenza o di impedimento, di un loro legale rappresentante.
È fissato in lire 40.000 il massimo del premio che si può ottenere per ogni bolletta. Ed un altro limite è stabilito da ciò che il totale delle vincite per ciascuna delle estrazioni, ossia per ciascuna delle otto città in cui si fanno le estrazioni, non può superare i 6 milioni di lire. Se in una settimana le vincite superassero in una città i sei milioni, le vincite dovranno essere proporzionalmente ridotte sino a non superare tale cifra.
In ogni città di estrazione sono imbussolati in un’urna 90 numeri, da 1 a 90, e cinque sono i numeri che vengono estratti a sorte da un bambino bendato.
Il giuocatore può indicare a sua scelta il genere della giocata e la città da lui preferita:
 estratto semplice; nel quale caso il giocatore può indicare fino a cinque numeri e vince il premio quando nella città preferita uno dei cinque numeri estratti sia uno di quelli da lui indicati;
 estratto determina; nel qual caso il giocatore indica un solo numero e vince il premio quando nella città preferita uno dei 5 numeri estratti sia quello da lui indicato;
 ambo; nel qual caso il giocatore può indicare sino a 5 numeri e vince il premio quando nella città preferita due dei cinque numeri estratti siano compresi in quelli da lui elencati;
 terno; nel quale caso il giocatore può indicare fino a 5 numeri e vince il premio quando nella città da lui preferita tre dei cinque numeri siano compresi fra quelli da lui indicati; quaterna; nel qual caso il giocatore può indicare fino a 5 numeri e vince il premio quando nella città preferita quattro dei cinque numeri estratti siano compresi fra quelli da lui indicati.
I premi sono stabiliti nella misura seguente:
Estratto semplice 10,5 volte la posta
Estratto determinato 52,5volte la posta
Estratto ambo 250volte la posta
Estratto terno 2.400volte la posta
Estratto quaterno 60.000volte la posta
6) Piano finanziario.- Il piano finanziario dell’esercizio della industria del lotto per lo stato si basa sulle seguenti considerazioni:
Chi giuoca un numero come estratto semplice ha evidentemente 5 casi in suo favore (perché egli può sperare su ciascuno dei 5 estraendi) su 90 possibili. La probabilità di vincere è per lui 5/90 = 1/18.
Chi giuoca invece un numero, come estratto determinato, ha un solo caso in suo favore su 90 possibili. Probabilità = 1/90.
Per l’ambo i casi favorevoli sono le combinazioni binarie, cui possono dar luogo i 5 estraendi; mentre i casi possibili sono tutte le combinazioni binarie formabili coi 90 numeri della ruota. Quindi la probabilità dell’ambo, per chi giuoca due numeri, è:
2C5 = [(5×4) / (1×2)] / (90×89) / (1×2) = (5×4) / (90×89) = 1 / 400,5
Per il terno i casi favorevoli sono le combinazioni ternarie, che si possono formare coi 5 estraendi; i casi possibili, tutte le combinazioni ternarie dei 90 numeri della ruota. Ossia la probabilità è:
3C5 / 3C90 = [(5x4x3) / 1x2x3)] / [(90x89x88) / (1x2x3)] = (5x4x3) / (90x89x88) = 1 / 11748
Similmente si troverebbe la probabilità del quaterno:
4C5 / 4C90 = 1 / 511038
probabilità assai piccola, pari a quella che si avrebbe di estrarre di primo acchito pallina nera da un’urna che contenesse 511.037 palline bianche e una sola nera.
È facile calcolare l’utile lordo (teorico) che lo stato ritrae dal lotto nelle diverse sorti, quando si sappia che, in caso di vincita, il premio è di 10 e 1/2 la posta per l’estratto semplice, di 52 e 1/2 la posta per l’estratto determinato, di 250 volte per l’ambo, di 4.250 per il terno, di 60.000 volte la posta per il quaterno. Nell’ipotesi di un giuoco perfettamente equo e astrazion fatta dalle spese di amministrazione, lo stato a chi punta una lira sull’estratto semplice dovrebbe promettere, in caso di vincita, 18 lire di premio, perché la probabilità di vincere, da parte del giuocatore, è solo di 1/18; invece lo stato dà 10 lire e mezza; la differenza fra 10 e 1/2 e 18, cioè lire 7 e 1/2, è il suo utile lordo, pari a 41,67% (infatti 7 e 1/2 : 18 = 41,67 : 100). Similmente a chi punta una lira su un terno secco (cioè giuocando tre numeri) lo stato promette in caso di vincita 4.250 lire, invece di 11.748, quante ne dovrebbe promettere nell’ipotesi di un giuoco perfettamente equo e astraendo dalle spese di amministrazione, perché il giocatore ha appena 1/11.748 probabilità di vincere; la differenza tra 4.250 uguale a 7.498 corrisponde ad un utile lordo di 63,8 per cento.
Sfortunatamente, gli ultimi dati pubblicati intorno ai risultati finanziari del lotto di stato risalgono all’anteguerra, e sono riassunti nella tabella seguente:

Sorti Utile percentuale teorico sulle varie sorti Utile effettivo percentuale verificatosi sulle varie sorti negli esercizi Ripartizione percentuale delle riscossioni sulle varie sorti negli esercizi
1909-10 1910-11 1911-12 1912-13 1913-14 1909-10 1910-11 1911-12 1912-13 1913-14
Estratto semplice 41.67 65.92 69.04 70.23 66.47 66.20 0.33 0.31 0.28 0.27 0.26
Estratto determinato 41.67 58.75 55.83 60.80 53.04 47.16 1.20 1.07 1.09 1.07 1.11
Ambo 37.58 31.38 22.14 32.72 42.73 42.08 50.74 50.17 50.36 50.16 50.10
Terno 63.82 62.40 60.21 64.24 60.75 68.42 42.72 43.56 43.66 43.81 43.83
Quaterno 88.26 89.30 92.30 92.75 90.85 91.15 5.01 4.89 4.61 4.69 4.70
Utile percentuale complessivo 48.07 42.66 49.66 53.96 56.85 100.00 100.00 100.00 100.00 100.00
La tabella indica nella prima parte quale sarebbe l’utile percentuale teorico che lo stato dovrebbe riscuotere se le vincite di fatto seguissero sempre nella medesima misura dalla loro probabilità teorica. Nella seconda parte sono indicati gli utili effettivi verificatisi di fatto negli esercizi considerati. Nella terza parte si indica in quale misura le riscossioni o giuocate si ripartiscano tra le diverse sorti o specie di giuoco. Il giuoco favorito è l’ambo. Viene poi il terno, e, a grande distanza, il quaterno, l’estratto semplice e il determinato.
Dopo il 1919-1920 sono pubblicati solo i dati dell’utile totale in milioni di lire (entrata dedotte le vincite):
1913-14 60,1 1922-23 224,6 1926-27 282,8
1919-20 90,5 1923-24 231,5 1927-28 292,3
1920-21 146,3 1924-25 243,8 1928-29 233,4
1921-22 155,1 1925-26 267,6 1929-30 321,3
1930-31 261,1

 

L’utile attuale totale è da cinque a sei volte superiore a quello dell’anteguerra, il che si spiega in parte con la svalutazione della lira, il cui potere d’acquisto è circa un quarto di quello antebellico ed in parte con l’incremento nelle propensione a giocare.
Capitolo XII
Le imposte sui consumi

b) Le Imposte sui consumi esatte col metodo della tassazione all’atto della fabbricazione.

Natura dell’accisa. – Questo metodo consiste nel tassare la merce all’atto dell’uscita dallo stabilimento in cui essa si produce. Queste imposte diconsi accise, od imposte di fabbricazione, e si chiamano così perché esse sono esatte all’atto della produzione o fabbricazione delle merci.
La tassazione della merce, meglio che all’atto della produzione propriamente detta, avviene nel momento della estrazione del prodotto dell’industria dai magazzini dove l’industriale, finita la fabbricazione, l’aveva depositato in attesa della vendica.
La vigilanza si esplica non solo sui magazzini ma anche sui singoli stadi e procedimenti della fabbricazione, per evitare che una qualsiasi parte del prodotto finito o semilavorato venga ad essere sottratta al tributo. Il contribuente di diritto è bensì il fabbricante; ma egli in sostanza anticipa l’imposta al fisco per conto del consumatore, che è il contribuente di fatto. Essendo incomodo e troppo costoso esigere l’imposta direttamente dai moltissimi consumatori, si è creduto opportuno di anticipare il momento della sua percezione all’atto dell’uscita della merce dai magazzini del fabbricante. Ma è chiaro che se il fabbricante riesce a sottrarre la merce al tributo e ad immetterla franca nel commercio, non perciò la merce costerà ai consumatori meno di quella che ha pagato il balzello; onde il consumatore pagherà ugualmente l’imposta e questa andrà a beneficio del fabbricante e non del fisco. Utilissima è perciò la vigilanza della finanza, rivolta ad impedire che un tributo pubblico si trasformi in un tributo privato.
Merci prodotte da pochi e grandi stabilimenti. – Anche questa imposta ha dei limiti alla sua applicazione. Il necessario che la merce sia fabbricata da grandi stabilimenti; se è fabbricata da molti piccoli produttori, la sorveglianza per l’applicazione dell’imposta provoca spese di esazione che possono rappresentare il 40 o il 50% dell’imposta stessa, il che, come sappiamo, va contro i canoni fondamentali di un tributo. Quando le fabbriche produttrici sono poche e grosse, allora con poca spesa e con la sorveglianza di pochi stabilimenti si possono esigere forti somme di imposta. Su questo punto e sugli effetti che l’imposta di fabbricazione ha sulle dimensioni dell’impresa e sulla costituzione dei consorzi industriali, ci siamo intrattenuti altrove (Principi, libro secondo, cap. X). Si osservi soltanto che anche qui si tratta di una condizione sostanziale necessaria al buon successo dell’imposta, non di una condizione formale o legale.
Formalmente possono darsi imposte di fabbricazione assise su imprese piccole.
Connessione tra le imposte di fabbricazione ed il dazio di importazione sulla merce estera. – Oltre a queste condizioni tecniche, se col sistema tributario nel suo complesso si vuole raggiungere un fine fiscale, occorre soddisfare ad una condizione economica; le imposte di fabbricazione devono colpire cioè con l’identico peso tutte quelle merci producibili in Italia, le cui concorrenti estere sono colpite da un dazio d’importazione; e viceversa, se una merce è colpita all’interno da una imposta di fabbricazione, la similare merce estera deve essere colpita da un uguale dazio d’importazione. Se l’imposta cadesse solo sugli zuccheri prodotti in Italia, e non vi fosse dazio sullo zucchero estero, tutti comprerebbero zucchero estero, e quelli nazionali non si smercerebbero, quindi lo stato nulla incasserebbe come imposta. E vale la reciproca. Se esiste dazio doganale su merci provenienti dall’estero bisogna che vi sia un’uguale imposta di fabbricazione sulla merce italiana, se si vuole che il dazio produca qualche cosa, perché imponendo il dazio sulla merce proveniente dall’estero e non su quella prodotta in Italia, avverrebbe che tutti i consumatori comprerebbero sempre la merce nazionale. Quindi, se si vuole che il dazio frutti fiscalmente all’erario, bisogna che a questo dazio doganale corrisponda una uguale imposta di fabbricazione. Il sistema contrario sarebbe dannoso, perché il fisco introiterebbe la minore delle due imposte, dazio sulla merce estera o imposta di fabbricazione della merce nazionale, mentre il consumatore nel caso che l’imposta sia la minore – ed è il solo caso pratico, non verificandosi mai di fatto che il dazio sia minore dell’imposta – pagherebbe sempre il maggior dazio, essendoché gli industriali dell’interno, protetti dal dazio elevato contro la concorrenza estera, eleverebbero il prezzo all’interno non del solo ammontare dell’imposta, bensì di quello del dazio. Dazio doganale ed imposta di fabbricazione sono due fratelli siamesi; mancando uno dei due, scompare il reddito dell’altro per lo stato.
Deviazioni dal canone ora posto. – Nella realtà succede che solo in pochi casi i due fratelli siamesi si accompagnino, o si accompagnino per tutta la strada che insieme dovrebbero percorrere. In Italia, invero, le imposte di fabbricazione colpiscono, come si dirà subito, un numero limitato di tali prodotti, mentre invece i dazi doganali colpiscono quasi 30.000 voci tra principali e sotto specie. La ragione di ciò è che il nostro sistema tributario doganale non ha solo intenti fiscali, ma anche protettivi; vuole cioè colpire certe merci provenienti dall’estero, non con lo scopo di tassarle sul serio, ma di impedirne l’introduzione nello stato.
Perciò è necessario colpirle col dazio doganale, ma non colpire le similari interne coll’imposta di fabbricazione.
Il medesimo criterio protezionistico vale a spiegare come anche le poche imposte di fabbricazione siano inoltre quasi sempre inferiori, nei casi in cui l’importazione dall’estero è possibile, al dazio doganale sulla similare merce estera. Si vuole promuovere la produzione interna e perciò il fisco si contenta della minore imposta di fabbricazione, e rinunzia all’esazione del maggior dazio doganale.
Queste deviazioni protezionistiche hanno grande importanza di fatto; ma non turbano in nulla la verità dei principi che sopra furono esposti e che si impongono quando si supponga che il sistema fiscale debba essere costruito esclusivamente per procacciare entrate al fisco e non a gruppi industriali protetti.
Oggetto delle imposte di fabbricazione. – Esse colpiscono:
 1) l’alcool, ottenuto dalla distillazione di sostanze amidacee o zuccherine (alcool di prima categoria) e di sostanze vinose, frutta, miele, radici, ecc. (alcool di seconda categoria). Gli alcool non potabili sono tassati solo se resi atti a bevanda. Tariffa dell’imposta: L. 1.950 per ogni ettolitro anidro alla temperatura di gradi 15,56 del termometro centesimale;
 2) lo zucchero, che si dice di prima o seconda classe a seconda che abbia un rendimento superiore od inferiore al 94 per cento. In Italia lo zucchero è estratto dalle barbabietole. Tariffa: L. 400 per ogni quintale di zucchero di prima classe, e L. 384 di seconda classe. Per lo zucchero impiegato nella fabbricazione delle marmellate, gelatine, conserve di frutta, ecc., come pure del latte condensato, l’imposta è ridotta a lire 100 per ogni quintale di zucchero.
 3) il gas luce destinato a scopo di illuminazione e di riscaldamento di privati. Tariffa: L. 0,10 per ogni metro cubo di gas proveniente da olii minerali e di gas metano e L. 0,025 per il gas d’altra specie;
 4) l’energia elettrica per illuminazione privata. Tariffa: L. 0,03 per ogni ettowat di energia elettrica;
 5) la birra naturale (di malto d’orzo), mista (di malto ed altri cereali) ed artificiali (da mais, riso e fecole). Tariffa: L. 6,20 per ettolitro e per ogni grado saccarometrico del mosto misurato col saccarometro centesimale alla temperatura di gradi 17,50 del termometro centigrado;
 6) la cicoria ed i surrogati del caffè. Tariffe: L. 560 per quintale;
 7) le lampade ad illuminazione elettrica ad incandescenza o ad arco. Tariffa da L. 0,25 a L. 10 per lampada. Gli organi di illuminazione ad arco L. 3 il Kg., eccettuati i carboni puri o metallizzati tassati a L. 2 il Kg.
 8) il glucosio e il maltosio. Tariffa: L. 200 per ogni quintale di glucosio solido e L. 100 per ogni quintale di glucosio liquido;
 9) gli olii di seme. Tariffa: L. 65 per quintale;
 10) le polveri piriche ed i prodotti esplodenti. Tariffa: da L. 1 a L. 8 al quintale a seconda del prodotto;
 11) l’acido acetico puro e rettificato. Tariffa: da L. 50 a L. 600 per quintale a seconda della percentuale di acido acetico anidro contenuto nell’acido acetico puro.
Gli olii minerali, pure essendo tassati nel gruppo delle imposte di fabbricazione, sono colpiti da una tassa di vendita stabilita nella misura di L. 80 al quintale per la benzina, L. 14 per il petrolio, L. 22 per gli olii minerali greggi e per i lubrificanti e L. 2 o 12 per i residui destinati alla combustione in rapporto al rispettivo grado di densità.
Esenzioni. – Basterà indicare il principio di queste, che è di esentare, mediante abbuono della tassa accertata e non ancora pagata o rimborso di quella già riscossa, quei prodotti i quali, essendo esportati all’estero, non formano oggetto di consumo nello stato, e quelli che siano usati a scopi industriali, di forza motrice, di pubblica illuminazione (gas ed energia elettrica), o di riscaldamento (energia elettrica).
Accertamento e riscossione. – L’imposta vincola l’esercizio dell’industria, dovendo i produttori a) denunciare l’esistenza dell’opificio; b) munirsi di licenza di esercizio; c) denunciare l’inizio della lavorazione; d) sottostare alle esigenze della finanza riguardo a suggelli, bolli, apparecchi di sicurezza e di riscontro sul macchinario, opere murarie, apertura e chiusura di vani.
Le imposte sono commisurate alla quantità del prodotto ottenuto che si determina: 1) direttamente dai funzionari ed agenti dell’amministrazione per lo zucchero, il glucosio, le polveri piriche, i surrogati del caffè, le lampadine, gli olii di semi; 2) mediante congegni meccanici misuratori applicati al macchinario di lavorazione per l’alcool di lino, il gas e l’energia elettrica.
La riscossione è immediata all’atto della produzione o dilazionata all’atto della estrazione del prodotto dai magazzini annessi alla fabbrica.
Capitolo XIII
Le imposte sui consumi

c) Le Imposte sui consumi esatte col metodo della tassazione all’entrata della merce nello stato (dazio doganale).

Concetto. – Il dazio doganale è quella imposta la quale viene esatta all’atto della introduzione della merce nello stato. Dicesi questo dazio di importazione, possono essere anche dazi di esportazione, che colpiscono le merci all’atto della loro uscita dallo stato; ed i dazi di transito, i quali colpiscono le merci che, provenendo da paesi esteri, attraversano il territorio nazionale, a destinazione di un altro paese estero. Questi ultimi dazi sono ormai del tutto scomparsi, essendosi potuto constatare che essi ad altro non servivano che a far fuggire le merci dalle nostre vie di transito a vantaggio dei porti e delle ferrovie straniere.
Distinzione tra dazi fiscali e dazi protettivi. – Parlando dei dazi doganali è necessario difatti distinguere fra dazi fiscali e dazi protettivi. I primi sono quelli che hanno esclusivamente per scopo di procacciare un provento al fisco, i secondi invece sono quelli che sono imposti su una merce estera per impedirne l’entrata. Il loro scopo è contrario a quello dei dazi fiscali che sono mossi dall’intento di dare un provento al fisco.
Il dazio fiscale, se vuole raggiungere il suo fine, che è di dare un provento al fisco, deve colpire merci le quali, malgrado il dazio, seguitano ad entrare, sia pure in quantità ridotta, nello stato. Invece i dazi protettivi, messi apposta perché la merce non entri, non rendono nulla al fisco, se raggiungono davvero l’intento protettivo, ed hanno altri fini, che qui non si discutono, di proteggere l’industria nazionale contro la concorrenza straniera.
I dazi legalmente e formalmente sono tutti della medesima specie: il legislatore non incaricandosi affatto di distinguerli in fiscali e protettivi. La classificazione è di fatto e nasce dall’esistenza o meno di circostanze o condizioni, verificandosi o non le quali, si può constatare a quale categoria il dazio appartenga.
Condizioni necessarie affinché un dazio possa chiamarsi fiscale. – I dazi per essere fiscali debbono:
 a) gravare su una merce non producibile in paese. I dazi che vogliono essere fiscali debbono essere tali da non costituire un impedimento specifico – oltre all’impedimento generico al consumo, che ogni imposta ha in sé e non può essere abolito in alcun modo, derivante dal fatto che ogni aumento di prezzo delle merci ed ogni diminuzione di reddito diminuisce la capacità di consumo dei contribuenti – alla merce ad entrare nel paese. Il quale intento si raggiunge quando si tratti di merce che nel nostro paese non può essere prodotta per condizioni climateriche od agrologiche. Così il dazio d’entrata sul cotone è un dazio fiscale, perché dato il clima del nostro paese, questa merce non si può produrre fra noi in quantità apprezzabili, ad un certo prezzo conveniente. Soltanto se il prezzo fosse molto alto, converrebbe produrre il cotone in Italia. Ora, ciò non essendo, nonostante il dazio, si potrà pur sempre importare il cotone dall’estero, trattandosi di merce di cui non si può fare a meno. È dazio fiscale anche il dazio sul caffè, sul petrolio;
 b) ove le merci possono essere prodotte nell’interno, il dazio sarà ancora fiscale quando sarà controbilanciato da un’identica imposta di fabbricazione sulla similare merce interna o sui suoi surrogati. Se lo stato imponesse un dazio doganale di 1.123 lire per quintale sul caffè estero ed un’imposta di fabbricazione di 560 sui surrogati del caffè (cicoria) questo balzello di lire 560 sarebbe materialmente diverso da quello di 1.123, appunto come il caffè è materialmente diverso dai suoi surrogati, ma economicamente i due tributi si potrebbero ritenere uguali, perché si può supporre che un chilogrammo di caffè dia la soddisfazione di 2 chilogrammi di cicoria, onde le imposte, diverse in cifre numeriche, si parificherebbero in sostanza. Così lo stato si manterrebbe imparziale, non facendo pendere la bilancia più a vantaggio del caffè straniero che dei surrogati italiani; il consumatore continuerebbe ad usare dell’una o dell’altra merce a seconda delle sue inclinazioni e dei suoi mezzi, senza essere perturbato nelle sue preferenze dall’imposta. Il dazio sul caffè non potrebbe essere considerato protettivo ma puramente fiscale. Così pure sarebbe dazio fiscale quello sullo zucchero qualora non ci fosse, mentre invece esiste, differenza tra dazio doganale ed imposta di fabbricazione.
Come la necessità delle due suddette condizioni renda rari i dazi puramente fiscali. – I dazi fiscali sono normalmente pochi, poiché raramente si verificano le condizioni che li contraddistinguono. Abbiamo detto essere anzitutto necessario che la merce non possa venir prodotta all’interno, o direttamente o per via di surrogati, cosa che è molto rara. Se la prima condizione non ha luogo, è necessaria l’altra, che cioè il dazio doganale sia accompagnato da un’imposta di fabbricazione. Ora, noi sappiamo che questa imposta non si può stabilire su tutte le merci, ma solo su quelle che sono prodotte in stabilimenti facilmente sorvegliabili; e preferibilmente che sono prodotte da grandi imprese per evitare spese di esazione fortissime, tali da distruggere la convenienza dell’imposta stessa. Solo, adunque, quelle poche merci che soddisfano alle sopradette condizioni tecniche ed economiche possono essere sottoposte al dazio fiscale, quelle stesse che sono colpite da un’imposta di fabbricazione e si trovano elencate sopra.
Dazi specifici e dazi ad valorem. – I dazi doganali, dal punto di vista del metodo della loro applicazione pratica, si distinguono in dazi specifici e dazi ad valorem.
Diconsi dazi ad valorem quelli che sono stabiliti nella misura di un tanto per cento dei valore della merce importata, per es., il 5, il 10, il 20% del valore. Il dazio ad valorem soddisfa meglio al requisito della uguaglianza tributaria, perché la merce tanto più paga quanto più è ricca e tutte pagano proporzionatamente. Però è metodo sconsigliabile per ragioni tecniche. Infatti è d’uopo, per poter applicare il dazio, stabilire innanzi tutto il valore della merce; onde sorge nel commerciante importatore l’interesse a deprezzare la merce per pagare dazio minore; e sorgono sospetti di collusione tra commercianti e doganieri allo scopo di tenere basse, a danno del fisco, le valutazioni delle merci. Contro le quali frodi è difficile difendersi.
Da questo punto di vista appaiono migliori i dazi specifici, coi quali la tariffa è stabilita in ragione dell’unità di peso, di lunghezza, di superficie, di capacità o volume o di numero delle merci importate. Esempi: L. 75 per quintale di frumento, L. 1.863 (740 dazio più 1123 tassa di consumo) per quintale di caffè, L. 565,15 per quintale di zucchero di prima classe, L. 11 per quintale di cotone greggio, ecc. Si ha così il vantaggio della certezza. Vi è il difetto che tanto paga il caffè moka come il caffè santos, sebbene il prezzo ne sia diverso. Sono difetti però di non grande importanza, se il sistema doganale ha carattere esclusivamente fiscale. Diventano difetti gravi, se le dogane cadono nel vizio del protezionismo, perché allora le voci doganali invece di essere poche, una dozzina circa la più, come sopra dicemmo, diventano centinaia e migliaia e occorrono tecnici esperti per distinguere una qualità di tessuto dall’altra, una macchina, uno strumento dagli altri simili ed applicare ad ogni voce il giusto dazio specifico. E, data la molteplicità della tariffa doganale, ben può darsi il caso che collo stesso dazio specifico vengano colpite qualità di merci di valore differentissimo.
Il peso può essere calcolato al lordo, quando al peso della merce si aggiunge quella dei recipienti e degli involucri nei quali è contenuto; al netto legale, quando il peso lordo è diminuito da una percentuale stabilita dalla tabella delle tare; al netto reale, quando la merce è pesata spoglia di tutti i suoi involucri e recipienti.
Dazio generale sul valore. – La massima parte dei dazi doganali è esatta in Italia col metodo del dazio specifico. Il R.D.L. 24 settembre 1931, n. 1187, ha applicato però a tutte le merci il cui dazio non sia vincolato da convenzioni con stati esteri, un dazio generale del 15 per cento sul valore delle merci. Sul carbone fossile e sugli altri combustibili fossili, naturali e carbonizzati, e sul carbone coke tale dazio si applica nella misura del 10 per cento. Per le merci, per le quali, secondo particolari clausole di trattati, il dazio sia limitato ad una data somma, il dazio è applicabile solo fino alla somma indicata. Sono esenti dal dazio ad valorem le seguenti merci: frumento, segala, granoturco e rispettive farine, semolino, paste di frumento, pane e biscotto di mare, semi oleosi, crusca, olii animali e olii vegetali; sevo animale, cascami e borra di lana, minerali metallici, navi mercantili, pietra da calce e da cemento, carbon fossile per le ferrovie dello stato e navi mercantili; pietre e terre minerali, concimi chimici, argento e oro in verghe, in pani, in polvere e in rottami, semi non oleosi, stracci d’ogni sorta, oro e argento in monete, i filati di cotone, semplici e ritorti non mercerizzati, che non misurino per mezzo chilogrammo più di 40 mila metri, destinati alla produzione di pizzi e tulli e di filati cucirini per la vendita al minuto; legni per tinte e per concio; nafta destinata al consumo delle navi mercantili nei porti; spugne greggie, comuni e fini; oggetti d’arte antichi; tutte le merci per le quali è concessa la franchigia doganale; i sali e i tabacchi importati dall’azienda autonoma dei monopoli di stato; le merci originarie e provenienti dalle colonie italiane, dalle isole dell’Egeo e da Zara ed altre merci destinate ad usi speciali. Tra i concimi chimici esenti non sono compresi i concimi chimici fosfatici: perfosfati minerali e di ossa e scorie di defosforazione e fosfatiche. Con decreti ministeriali sono fissati i contingenti di nitrato di sodio da introdursi in franchigia.
Tariffa generale e tariffa convenzionale. – Tariffa autonoma, doppia tariffa, clausola della nazione più favorita. Sono nozioni che hanno più importanza per i dazi protettivi che per i dazi fiscali. Ad ogni modo si può notare che i dazi della tariffa generale sono quelli che si applicano a tutte le merci indistintamente, che provengono da paesi con cui non si abbia uno speciale trattato di commercio.
In base alla tariffa vigente attuata coll’1 luglio del 1921, la tariffa generale è costituita da una serie di dazi base e da una serie corrispondente di coefficienti di maggiorazione, che insieme formano il dazio complessivo. Il coefficiente di maggiorazione è un fattore che moltiplicato per il dazio base dà il supplemento che occorre aggiungere a quest’ultimo per formare il dazio generale. Si ha la tariffa convenzionale con quei paesi con cui i dazi sono regolati da un trattato di commercio. Di solito nei trattati di commercio si stipula la clausola della nazione più favorita, che è quella clausola per cui qualunque riduzione di dazio (generale o convenzionale) che uno degli stati contraenti accorda al terzo paese, si intende estesa automaticamente anche all’altro paese contraente. In questo modo si conserva parità di trattamento verso i diversi paesi essendo tutti posti nella medesima situazione.
Quando dominano gli intenti protezionistici, si hanno:
 1) la tariffa differenziale, che si impone soltanto contro le provenienza da quei paesi con i quali si è in guerra doganale. Sono i dazi generali, aumentati, ad es., del 50%, come si fece nel 1888 in Italia contro le provenienze francesi;
 2) la tariffa autonoma, che è la tariffa generale sopra ricordata, con questo di più, che il paese che l’applica, non stipula trattati di commercio con i paesi esteri ed applica la sua tariffa generale, che esso può variare a suo buon piacere, contro le merci estere. Di solito la tariffa autonoma ha due specie di tariffe: la massima e la minima. La minima si applica alle provenienza di quei paesi che impongono dazi moderati contro le provenienza del paese in discorso; la massima ai paesi che adottano tariffe reputate esagerate. Nella realtà è ben difficile conservarsi autonomi del tutto; le necessità del commercio consigliano di non escludere del tutto le merci estere dal paese.
Per i dazi fiscali puri il problema è assai più semplice. Essi devono essere moderati, se si vuole che le merci estere entrino ancora nello stato e paghino dazio: non devono avere intento protettivo e colpiscono perciò merci non producibili in paese, o, se producibili, tassate con uguale imposta di fabbricazione. I dazi fiscali devono colpire ugualmente le merci estere qualunque sia la loro provenienza, perché essi devono mantenersi imparziali e lasciare al consumatore la libertà di scelta più assoluta. I paesi esteri non hanno perciò necessità di stipulare trattati di commercio per quanto ha tratto ai dazi fiscali, sicuri come sono che essi devono essere moderati, e che essi saranno trattati, in ogni caso, alla stessa stregua degli industriali nazionali e di ogni altro paese. D’altro canto lo stato, sebbene abbia interesse a tenere moderati i dazi fiscali, vuole conservare rispetto ad essi la facoltà di aumentarli, senza vincolo di trattati, quando ciò faccia d’uopo per ottenere maggiori proventi. Né di ciò possono lagnarsi gli stati esteri che dai trattati di commercio richiedono la difesa contro la protezione interna o contro la concorrenza di altri paesi a condizioni più favorevoli, ma non possono pretendere di essere garantiti a danno dell’interesse pubblico; perciò il regime normale dei dazi fiscali puri è quello della tariffa generale autonoma.
Di taluni dazi più importanti. – Gioverà, per dare un’idea del peso dei dazi doganali, citare alcuni esempi:
Merce di produzione interna Merce di provenienza estera
Tassa di fabbricazione Dazio doganale Totale
Spirito per ettanidro alla temperatura di gradi 15,50 del termometro centesimale 1.950 1.950 220,20(*) 2170,20(*)
Zucchero di prima classe per q.li L. 400 400 165,15 (*) 565,15 (*)
Zucchero di seconda classe per q.li L. 384 384 110,10 (*) 494,10 (*)
Caffè in grano e in pellicole:
dazio per q.li L. – – 7401.123 1863(*)
tassa di consumo – –
Caffè tostato: – – 1.0231.573 2596(*)
dazio ……. per q.li L.
tassa di consumo
Caffè in grano, proveniente dai paesi ammessi al trattamento doganale convenzionale – – 1.600
Frumento per q.li L. 75
Farina di frum. 112,35
Paste 131,95
Cotone greggio in bioccoli per q.li L. 11 (*)
Carbone fossile tonn. 3 (**)
Coke 24,50(**)
di legno 40 (**)
(*) Si deve aggiungere il dazio del 15% sul valore della merce.
(**) Si deve aggiungere il dazio del 10% sul valore della merce.
Importazione ed esportazione temporanee. – Allo scopo di consentire la lavorazione di merci straniere, queste si possono importare temporaneamente senza il pagamento dei diritti di confine quando il proprietario si obbliga a rispedirle entro un termine stabilito. Così pure le merci nazionali o nazionalizzate possono essere esportate temporaneamente all’estero per ricevervi lavoro di perfezionamento o di riparazione senza il pagamento dei diritti di confine, quando la reimportazione sia effettuata entro un termine stabilito. L’istituto della temporanea importazione ed esportazione comporta però il deposito del dazio dovuto, o la prestazione di una cauzione corrispondente all’atto del primo passaggio della linea doganale e la restituzione o lo scarico dell’uno o dell’altra quando la merce lavorata o rilavorata nei termini prescritti venga riesportata o reimportata. In alcuni casi è richiesta l’identità della merce, in altri basta l’equivalenza. Per esempio, del grano importato temporaneamente per essere trasformato in pasta destinata all’esportazione non potrebbe essere riconosciuta l’identità e perciò è sufficiente vi sia la equivalenza.
Rimborso di imposte (drawback). – Il drawback consiste nella restituzione all’atto dell’esportazione del dazio pagato sulle materie prime impiegate nella lavorazione del prodotto e per la quale non sia ammessa la importazione temporanea e nella restituzione o nell’abbuono dell’imposta di fabbricazione ed altri tributi pagati all’interno per le merci esportate.
Per esempio, si restituiscono i diritti pagati all’importazione sul cotone greggio quando si esportino le ovatte, il cardato di cotone, il cotone idrofilo, il filato ed il tessuto di cotone. Così sono ammesse ad abbuono le imposte di fabbricazione sugli spiriti, zuccheri, glucosio, birra, ed in generale su tutte le merci che sono soggette.
Diritti accessori. – Insieme ai dazi di importazione e di esportazione le dogane riscuotono per le merci soggette a tassa interna di fabbricazione una tassa di confine del medesimo ammontare, che serve, come sopra si è veduto (cfr. capitolo XII, B), a controbilanciarne il peso. Esse riscuotono in aggiunta:
 1) il diritto di statistica, che è un diritto addizionale su tutte le merci le quali entrano nel regno o ne escono con qualunque destinazione, escluso il transito ed escluse le merci immesse nei depositi doganali e poi riesportate. Chiamasi diritto di statistica, poiché ha lo scopo di fornire i fondi necessari per la compilazione delle statistiche commerciali e doganali. Esso viene liquidato dalle dogane nella misura fissa di lire 0,25 all’importazione e lire 0,20 all’esportazione per ogni unità di merce (tonnellata, quintale, capo o numero);
 2) i diritti di bollo, esatti per lo più in modo virtuale, sui documenti doganali e di trasporto;
 3) i diritti di magazzinaggio, riscossi sulle merci collocate sia nei depositi di temporanea custodia sia nei magazzini sotto la diretta custodia della dogana nella misura di cent. 15 per ogni giorno di giacenza e per quintale o frazione di quintale, escluso il giorno di entrata e quello di uscita dalle dogane;
 4) i diritti per contrassegni, riscossi sulle merci spedite da una dogana all’altra, quando occorra l’applicazione di bolli di piombo (lire 0,50) o di contrassegni (lire 0,20), apposti allo scopo di accertare l’identità della merce;
 5) la tassa di consumo sul caffè, la quale comprende il dazio doganale in lire oro e l’imposta di consumo riscossa per ogni quintale di caffè importato. Fu necessario distinguere il dazio doganale dall’imposta di consumo, essendo il primo vincolato da trattati di commercio;
 6) per la stessa ragione, la tassa di vendita sugli olii minerali importati;
 7) i diritti marittimi per patenti sanitarie, per tassa, soprattassa di ancoraggio, per diritti e canoni su galleggianti.
 8) una tassa speciale di sbarco sulle merci estere, in vigore dall’1 gennaio 1932 su tutte le merci provenienti dall’estero, sbarcate nei porti e nelle spiaggie del regno, nella misura di lire 2,50 per tonnellata, ad esenzione dei fosfati, nitrati, che non siano di soda e dei materiali da costruzioni murarie, i quali pagano lire 1 per tonnellata. Sono esonerate le merci di transito attraverso il territorio nazionale ed i materiali di demolizione di navi demolite nel regno.
L’amministrazione doganale riscuote inoltre, per conto dell’amministrazione delle tasse, la tassa sugli scambi di importazione di cui diremo poi.
Valuta di esazione del diritti di confine. – Essi si pagano in valuta legale nella ragione di 3,67 volte l’ammontare del dazio, il quale nella tariffa generale e nelle tariffe convenzionali è stato fissato in lire antiche oro.
Un decreto del 15 dicembre 1930, n. 1936, ha tradotto i dazi in valuta legale attuale.
Capitolo XIV
Le imposte sui consumi

Imposte sui consumi esatte con il metodo del bollo.
Una categoria importante, in gran parte di origine non antica, delle imposte sui consumi è quella delle imposte le quali sono esatte con il metodo del bollo.
Perciò queste imposte nel conto del tesoro e negli altri documenti finanziari sono classificate non tra le imposte sul consumo ma invece tra le imposte sullo scambio della ricchezza e sono amministrate dalla direzione generale delle tasse sugli affari.
I. – La tassa sugli scambi.

La principale di queste imposte di consumo esatte con il metodo del bollo è la tassa sugli scambi regolata dal R.D. del 30 dicembre 1923, n. 3273, successivamente modificata ripetute volte.
Oggetto. – La tassa sugli scambi ha per oggetto ogni scambio di merce che ha luogo nel regno fra industriali, commercianti ed esercenti per causa del loro esercizio industriale e commerciale, anche se le merci siano destinate ad essere comunque usate, impiegate o consumate nell’azienda commerciale od industriale dell’acquirente.
La parola «scambio» comprende ogni forma di trasferimento di merce, come la compravendita, anche se con patto di riservato dominio, la permuta, il prestito di consumo, la cessione in pagamento, la consegna con addebito di merce a scopo di lavorazione per conto dello stesso fornitore. È scambio altresì la cessione di merce già a disposizione del cedente effettuata anche a mezzo di cessione di contratto, esclusa la cessione di merce effettuata a mezzo di girata delle fedi di deposito di merce e derrate nei magazzini generali e degli ordini in derrata nonché di girata e di consegna delle lettere di vettura e delle polizze di carico; fermo rimanendo l’obbligo per il cedente del pagamento della tassa, a mezzo di regolare fattura, sul primo scambio.
Costituiscono altresì scambio le forniture e costruzione di impianti, di meccanismi e di opere industriali in genere, eseguite per uso e per conto di ditte ed aziende commerciali od industriali, escluse le costruzioni edilizie intese alla costruzione strettamente muraria completata dei suoi normali accessori. La tassa sullo scambio colpisce altresì le merci importate dall’estero, qualunque ne sia la destinazione. Dicesi in tal caso tassa sugli scambi di importazione ed è esatta dalle dogane insieme con i diritti di confine. Non sono invece colpite dalla tassa sugli scambi le merci esportate all’estero, sia direttamente dai produttori, fabbricanti e negozianti, sia con l’intervento di esportatori; neppure le merci in transito e quelle che provengono dall’estero od in viaggio verso porti italiani o sono depositate nei luoghi soggetti a vigilanza doganale, salvo l’assoggettamento delle dette merci quando escono da questi luoghi per essere introdotte nel regno.
La tassa sugli scambi perciò ha per scopo di colpire tutte indistintamente le merci le quali sono oggetto di consumo nello stato e vorrebbe quindi essere un prelievo sul reddito consumato dai cittadini. Dato però il metodo della riscossione, che è quello del bollo, da applicarsi in occasione dell’emissione dei documenti da cui risulta lo scambio, non è soggetto alla tassa sugli scambi l’ultimo passaggio dal rivenditore al consumatore diretto; ma è incerto l’ammontare della tassa complessiva potendo questa essere ripetuta più o meno volte, a seconda degli stadi di produzione e di vendita, o meglio, dei passaggi da un produttore o commerciante all’altro.
Recenti provvedimenti hanno avuto per scopo di evitare le maggiori gravezze derivanti da questa moltiplicazione, specialmente nel caso dei tessuti, esentando la maggior parte dei trapassi ed assoggettando al pagamento dell’imposta con determinate cautele soltanto uno di questi passaggi. Allo scopo di evitare eccessiva moltiplicazione di pagamenti, non sono da considerarsi scambi i passaggi di merci i quali hanno luogo nello stato dalla casa centrale di una ditta commerciale od industriale alle proprie filiali e succursali, come pure i passaggi fra centrale, filiali e stabilimenti della medesima ditta; e neppure i passaggi di merci tra una ditta ed i propri rappresentanti quando i rappresentanti agiscano esclusivamente in nome e per conto della ditta rappresentata. Se il passaggio di merci avviene soltanto a scopo di lavorazione non si ritiene vi sia passaggio quando la lavorazione venga effettuata per conto dello stesso fornitore ed i prodotti lavorati vengono restituiti al fornitore medesimo.
Invece i passaggi di merci i quali avvengono con l’intermediario di rappresentanti, commissionari ed altri ausiliari del commercio i quali abbiano il vincolo dello star del credere sono considerati come due distinti atti di commercio separatamente tassabili, se la provvigione complessiva spettante all’intermediario ecceda il 5 per cento.
Alla regola per cui l’imposta è dovuta sugli scambi fra industriali, commercianti ed esercenti, si fa qualche eccezione, di cui la più importante è quella relativa alle maglie e confezioni di maglieria, alle coperte non imbottite, ai sacchi e tappeti, alla biancheria da letto e da tavola ed asciugamani, agli scialli e scialletti, esclusi quelli di seta ricamati a mano, alle sciarpe ed ai fazzoletti, per cui la tassa è dovuta nella misura del 5 per cento, una volta tanto e si applica all’atto della vendita a chiunque e comunque effettuata dei prodotti manufatti e confezioni da parte dei fabbricanti in base al prezzo o valore di scambio.
Per quanto si riferisce agli scambi di importazione l’assoggettamento alla tassa deriva dal semplice fatto dell’importazione anche se la merce sia importata personalmente dal consumatore o sia destinata ad essere lavorata nel regno e poi riesportata, o sia effettuata da rappresentanti, filiali, agenti e depositari di ditte estere.
Qualche eccezione è fatta alla regola così assoluta a favore, ad esempio, delle perle, brillanti, pietre preziose, pietre dure, imitazioni, per le quali, allo scopo di dar modo al consumatore di prendere visione dei preziosi, si concede il pagamento in deposito, salvo restituzione, se la merce venga riesportata entro un termine fissato.
Così pure si restituisce la tassa all’atto della riesportazione di tutte le merci le quali erano state ammesse al beneficio della temporanea importazione. Così anche si restituisce la tassa pagata all’importazione del cotone greggio e della cellulosa quando i prodotti di cotone e di seta artificiale vengano riesportati con il beneficio della restituzione dei dazi doganali.
Soggetti dell’imposta. – Sono soggetti dell’imposta:
 a) le ditte, società commerciali, comprese le società cooperative, i consorzi agrari ed enti similari, anche se le merci siano destinate al consumo dei soci;
 b) le persone fisiche e gli enti che abitualmente od anche occasionalmente acquistano o producono merce per venderla o locarla con o senza trasformazione di essa;
 c) le persone fisiche, ditte, società ed enti in genere che siano iscritti nel ruolo di imposta di ricchezza mobile per un reddito di categoria B, in dipendenza dell’esercizio di un’attività commerciale od industriale anche se di natura agraria od armentizia, escluse le semplici affittanze agrarie.
Applicazione della tassa. – La tassa sullo scambio nel regno si applica sul valore o prezzo degli scambi, risultante complessivamente dalla nota, conto o fattura, incluso anche l’ammontare delle spese di trasporto addebitate in fattura o con separati documenti e delle imposte e tasse e di quant’altro in ordine allo scambio sia addebitato, anche con separati documenti, al destinatario della merce. Per l’applicazione della tassa i commercianti e gli industriali sono obbligati a redigere entro il quinto giorno non festivo successivo a quello della consegna o spedizione della merce o della cessione dei relativi contratti, una regolare fattura, nota o conto od altro equivalente documento di scambio indicante anche l’importo dello scambio da assoggettarsi alla tassa. Essi devono annullare progressivamente e conservare per cinque anni questi documenti, sia spediti che ricevuti, compresi quelli provenienti dall’estero ed i libri di prima nota. Essi devono naturalmente esibire ad ogni richiesta i documenti stessi, il libro giornale, il libro copia lettere.
Le tasse sugli scambi di importazione si applicano sul valore dichiarato, controllato dalla dogana, ossia in base alla dichiarazione che gli importatori devono fare anche agli effetti dei dazi doganali, sul valore delle merci, poste al confine, fuori dazio, aumentate dalle spese di nolo, imballaggio ed assicurazione. A richiesta della dogana gli importatori devono esibire la fattura del venditore estero, vidimata da parte dell’autorità competente consolare italiana.
Misura della tassa. – Essa è successivamente variata dall’1% al 0,50% e poi aumentata nuovamente all’1,50 ed ora al 2,50 del valore o prezzo dello scambio.
Aliquote speciali sono stabilite in casi speciali: come del 3,50 %, una volta tanto, per la lana, dell’1,65%, pure una volta tanto, per il vermouth e marsala; del 0,50% per le materie fertilizzanti e antiparassitarie; dell’8% una volta tanto sull’argento greggio.
Talvolta, come per gli aranci, mandarini, limoni e bergamotti la tassa è fissata in una somma fissa per Kg. se si tratta di prodotti esportati all’estero. Per le acque gassose ed acque minerali artificiali la tassa è stabilita in un canone annuo per abbonamento, variabile a seconda della importanza dello stabilimento.
Esenzioni. – Sono esenti dalla tassa scambio soltanto alcune merci tassativamente indicate dalla legge e cioè:
 1) taluni prodotti alimentari di prima necessità;
 2) taluni combustibili e saponi di bucato:,
 3) l’acqua per irrigazione o forza motrice e l’acqua potabile;
 4) i generi di monopolio dello stato;
 5) i libri stampati, compresi i giornali, le riviste, le carte geografiche, la musica sia stampata sia litografata.
Riscossione. – La tassa è dovuta da colui che emette il documento di scambio con diritto a rivalsa sull’altro contraente. Se si tratta di scambio di importazione è dovuta da chi procede allo svincolo doganale delle cose importate.
Essa si riscuote:
 a) a mezzo di apposite marche doppie da applicarsi sulla fattura da parte di chi emette la fattura stessa, quando l’importo della tassa per ogni fattura non supera le lire 500;
 b) a mezzo di banco giro postale o posta giro fruendo dei servizi di conto corrente e di assegni postali se l’importo della tassa per ogni fattura supera le 500 lire;
 c) in modo virtuale a mezzo di abbonamento obbligatorio nel caso di prodotto soggetto all’imposta di fabbricazione, od altrimenti da stabilirsi volta per volta dal ministero delle finanze;
 d) pure in modo virtuale, per le tasse sugli scambi di importazione, mediante versamento diretto alla dogana dell’ammontare della tassa liquidata.
La tassa sugli scambi dovrebbe essere per la generalità della sua applicazione e la misura della sua aliquota, la più importante tra le imposte sui consumi. Nell’esercizio 1929-1930 fruttò 422,3 milioni di lire, in quello 1930-1931 il gettito aumentò a 911,3 milioni ed ancora pare destinato a crescere.
II. – La tassa di bollo sui trasporti.

La tassa di bollo sui trasporti è regolata dal R.D.L. del 30 dicembre del 1923, n. 3265, e dal R.D.L. 4 marzo 1926, n. 405.
Oggetto. – Essa ha per oggetto i trasporti terrestri e marittimi, di viaggiatori, bagagli, cani e velocipedi e merci sulle linee esercitate dalle ferrovie statali, sulle linee di navigazione marittima, linee automobilistiche sovvenzionate o non dallo stato concesse in via definitiva o provvisoria, sulle vetture pubbliche e sulle vetture letto, sui biglietti e tessere di abbonamento e tessere gratuite, escluse quelle di servizio per le linee urbane, tramviarie di omnibus ed autobus e navigazione interna, per le ferrovie esercitate dall’industria privata e linee tramviarie extra urbane.
Soggetto. – Soggetti dell’imposta sono coloro che richiedono il trasporto. Essa può quindi considerarsi come un’imposta sul consumo dei trasporti.
Misura. – Le tasse sui trasporti sono:
 fisse: le quali si applicano su ogni documento di trasporto;
 proporzionali: sui trasporti sulle linee esercitate dalle ferrovie dello stato e sulle linee automobilistiche sovvenzionate o non dallo stato, concesse in via definitiva.
Le tasse di bollo dovute dalle ferrovie dello stato e quella proporzionale dovuta dagli esercenti le linee automobilistiche concesse in via definitiva si pagano in modo virtuale, a rate trimestrali scadute; le tasse fisse si pagano a mezzo di marche da bollo a premio applicate ai documenti di trasporto.
III. – La tassa sugli autoveicoli.

La tassa sugli autoveicoli è regolata dal R.D.L. del 30 dicembre 1923, n. 3283; da quello del 20 settembre 1926, n. 1643; da quello del 25 maggio 1927, n. 436, che costituisce il pubblico registro automobilistico; e da quello del 29 dicembre 1927, n. 2446.
Oggetto. – La tassa sugli autoveicoli ha per oggetto la circolazione su aree pubbliche degli autoveicoli di ogni specie e la navigazione in acque pubbliche degli autoscafi e per soggetto i possessori di tali mezzi di locomozione.
Misura della tassa. – Essa è graduata in ragione della destinazione del veicolo e della potenza normale del motore.
Può essere pagata anche per un solo semestre, purché il pagamento venga fatto entro il primo ed il terzo trimestre in ragione di 13/24 dell’annuo importo della tassa medesima. La riscossione è affidata al reale automobile club d’Italia il quale trattiene a titolo di compenso un aggio di riscossione del 4,50 per cento.
Oltre la speciale annotazione sulla licenza di circolazione, il pagamento della tassa risulta dal rilascio di un disco colorato da applicarsi in modo visibile nella parte anteriore dell’autoveicolo.
Esenzioni. – Oltre ai criteri comuni con altre imposte di esenzione per il re e la famiglia reale, per i rappresentanti ed agenti di potenze estere, quando vi sia reciprocità, è stabilita esenzione per i veicoli in dotazione fissa dei corpi armati dello stato, per quelli che effettuano servizio postale su linee di servizio pubblico, per quelli destinati per conto di comuni, e di associazioni umanitarie a servizio di estinzione degli incendi, per gli autoscafi destinati all’industria della pesca, per gli autoveicoli destinati da enti morali ospitalieri od associazioni umanitarie al trasporto di persone bisognose di cure mediche o chirurgiche.
Temporanea riduzione è concessa per gli autoveicoli provvisti di motore a più di 4 cilindri e per quelli vecchi i cui motori risultano deperiti da lungo uso.
IV. – Diritti erariali sugli spettacoli.

Sono regolati dai seguenti R.D.L. 30 dicembre 1923, n. 3276; 2 ottobre 1924, n. 1589; 10 maggio 1925, n. 624; 20 settembre 1926, n. 1643; 12 agosto 1927, n. 1553. Queste imposte possono considerarsi gravanti su consumi di carattere immateriale aventi per scopo il divertimento.
Oggetto. – Colpiscono l’introito lordo totale di tutti gli spettacoli e trattenimenti dati al pubblico anche se di beneficenza, compresi quindi quelli teatrali e cinematografici, di varietà, d’illusionismo e trasformismo, circhi equestri, giostre, balli, riunioni, concerti, comprese le conferenze scientifiche, artistiche e letterarie, le esposizioni, gli spettacoli sportivi e le corse dei cavalli.
Soggetto. – Soggetto dell’imposta è l’impresario, l’appaltatore o colui che abbia ottenuto la licenza. Nel caso di spettacoli gratuiti od a cui si acceda con biglietti di invito o con tessere di ogni specie, il diritto erariale è dovuto dai proventi che gli organizzatori possono ricavare dal noleggio di posti distinti, dal diritto di guardaroba, dall’aumento sul prezzi delle consumazioni od altro. Se gli spettacoli o trattenimenti siano organizzati da società o circoli a favore dei propri soci il diritto erariale è dovuto sul complesso delle quote e dei contributi pagati a tal uopo dai soci.
Misura della tassa. – Essa varia a seconda della natura dello spettacolo o trattenimento ed è: del 10% per gli spettacoli teatrali od altri trattenimenti, del 10 o del 20% per gli spettacoli cinematografici a seconda che il prezzo, non compreso il diritto erariale, non superi o superi lire 1.
Per la provincia di Milano si riscuote un diritto addizionale del 2%, sui prezzi a favore del teatro della Scala gestito senza scopo di lucro da un ente autonomo. Al provento dei diritti sugli spettacoli partecipano i comuni nella misura del 21%, salvo i comuni della provincia di Milano, la cui quota è soltanto del 19 per cento.
Applicazione. – I diritti erariali sugli spettacoli sono liquidati e riscossi per conto dello stato dalla società italiana degli autori la quale si trattiene un aggio del 5 per cento. Essa si basa sui listini degli incassi compilati dagli impresari, salvo nei casi in cui ciò essendo troppo difficile, essa preferisca incassare i diritti erariali in somma fissa quasi a titolo di abbonamento.
V. – Tassa di bollo sulle carte da gioco.

Essa è regolata dal R.D.L. del 30 dicembre 1923, n. 3273.
Oggetto e soggetto. – La tassa di bollo sulle carte da gioco ha per oggetto tutte le carte da gioco fabbricate nell’interno del regno o provenienti dall’estero e per soggetto i fabbricanti e gli importatori. Essendo essa una tassa di consumo esenta naturalmente le carte da gioco destinate all’esportazione all’estero, allo scopo di non pregiudicarne l’esportazione medesima.
Misura. – La misura della tassa è fissata in ragion di mazzo e varia a seconda che i mazzi di carte da gioco sono considerati comuni o di qualità superiore, fini o di lusso.
Applicazione. – L’applicazione del bollo si fa esclusivamente presso le officine governative di carte valori e la tassa è pagata all’ufficio del registro dai fabbricati quando essi ritirano le carte già bollate dalle officine. A scopo di controllo la finanza ha il diritto di accedere nei locali delle fabbriche di carte da gioco e nei magazzini dei rivenditori per controllare l’effettiva, applicazione della tassa.

 

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