Opera Omnia Luigi Einaudi

Il valore economico del libro del Rostovzev

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1934

Il valore economico del libro del Rostovzev

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1934, pp. 331-338

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 354-361

 

 

 

Michele Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano. Tradotta sull’originale inglese da G. Sanna e riveduta ed aumentata dall’autore con prefazione di Gaetano De Sanctis. (Un volume in 8° grande legato in tutta tela, di pag. XIX-722, c.s.n. Con LXXX tavole fuori testo. La Nuova Italia editrice, Firenze. Prezzo L. 125).

 

 

Città carovaniere. Traduzione dall’inglese di Charis Cortese De Bosis, riveduta ed accresciuta dall’autore. (Un volume in 16° di pag. XVI-218. Con 38 tavole fuori testo, 6 figure e 5 carte geografiche e topografiche nel testo. Gius. Laterza e figli, Bari, 1934. Prezzo L. 25).

 

 

1. – Il volume sulle Città carovaniere dell’antichità, scelte dall’autore tra quelle da lui visitate o personalmente esplorate con fatica durata lunghe stagioni di metodici scavi, è uno di quei libri sintetici che talvolta, ahi! troppo di rado, gli archeologi scrivono per la delizia dei lettori non specialisti. Passano, attraverso descrizioni ed illustrazioni di rovine romantiche e sorprendenti, quattro (Petra, Gerasa, Palmira e Dura) fra le città le quali esercitarono il commercio carovaniero tra l’India, la Persia, la Mesopotamia ad oriente, l’Arabia a mezzodì, l’Asia minore a settentrione e la Siria, la Fenicia, la Palestina ed, al di là, l’Egitto ed il mondo romano ad occidente. Una figura, un graffito, un’iscrizione bastano, alla penna perita dello scrittore, a far rivivere un’epoca, a risuscitare costumi e sentimenti che parevano sepolti sotto rovine millenarie, a far balenare dinanzi alla mente del lettore nuove spiegazioni delle cause del decadere di traffici operosi e del tramonto di popoli e di imperi potenti.

 

 

2. – Il piccolo libro, edito dal Laterza, è ottima preparazione alla lettura del massiccio mattone (cm. 25,6 x 16,8 x 7,9; peso Kg. 2,2) pubblicato, per iniziativa dell’Ente nazionale di cultura, dalla casa editrice La Nuova Italia. Se nelle Città carovaniere l’impronta del leone è marcata, bene a ragione Gaetano De Sanctis, che di scrivere gran libri è maestro, segnala il volume maggiore come «una delle opere storiche più importanti e nello stesso tempo più significative dell’ultimo ventennio… capolavoro della moderna storiografia, che sta degnamente accanto al quinto volume della storia romana del Mommsen». Qualsiasi glossa guasterebbe a tanto autorevole giudizio. Al laico, che qui scrive, sia consentito di assicurare i lettori non specialisti di storiografia romana che poche letture riescono così affascinanti come quelle del grosso volume dello scrittore russo. Lo si trasporta e maneggia con fatica; ma tuttavia si è forzati a pretermettere ogni altro lavoro per svolgerne avidamente le pagine e, giunti alla fine, si vorrebbe che l’autore seguitasse e, dopo quella dei primi tre, scrivesse la storia dei due secoli per cui ancora durò in occidente l’impero romano. Una tragica domanda infatti ci si presenta di continuo nel leggere: che sarà di noi, che della civiltà presente? Rostovzev dice le ragioni della grandezza e della decadenza dell’impero romano; ma il lettore interpreta: a qual punto del medesimo ciclo storico è giunta l’Europa contemporanea? E quando, in fine, Rostovzev si pone la terribile domanda: «Non è ogni civiltà destinata a decadere non appena comincia a penetrare nelle masse?», bisogna, nonostante la dichiarazione ottimistica di fede compiuta, nel presentare il volume, da De Sanctis, fare un grande sforzo per non piegare disperatamente il capo dinanzi all’ineluttabile. Tant’anni fa, leggendo la Storia della decadenza e della rovina dell’impero romano del Gibbon, fui condotto ad uno stato d’animo commosso ed agitato simile a quello provato nuovamente nel leggere Rostovzev: ma la ragione della commozione era diversa. Gibbon, nella serena visione illuministica della vita propria del secolo diciottesimo, non fa chiedere con ansia: dove andiamo noi? ma: perché fu lasciato distruggere, quando a salvarlo e ad unire dirittamente la civiltà moderna con quella antica, bastava un così piccolo sforzo dell’Europa cristiana, l’ultimo baluardo della raffinata civiltà antica, durato a Costantinopoli attraverso un millennio (dopo la caduta dell’impero romano di occidente) di fantastiche meravigliose avventure, di appassionanti lotte intellettuali e sociali, di resistenza magnifica contro la barbarie avanzante dal settentrione e la civiltà araba proveniente dal mezzogiorno, avventure lotte e resistenze che tuttodì, con incredibile ingiustizia storica, si chiamano per dispregio bizantine?

 

 

3. – Non di questi massimi problemi mi voglio occupare nella presente recensione. Vorrei, più semplicemente, dire perché io, studioso di cose economiche, non mi inquietai con Rostovzev, come per lo più mi accade nel leggere storie economiche scritte da storici politici od interpretazioni storiche dettate da economisti; anzi rimasi, se non sempre convinto, sempre compiaciuto. Non direi che ciò sia accaduto perché Rostovzev sia, oltreché storico, anche economista. Qualche sua punta contro le astrazioni economistiche: l’esistenza di un periodo di economia interamente isolata è creazione immaginaria del cervello dell’economista teorizzante (Città carovaniere, 5); l’uso frequente del sostantivo “capitalismo” e dell’aggettivo “capitalistico”, amendue tanto alieni al ragionare economico, il quale preferisce aggirarsi intorno ad “imprese” ed “imprenditori”; il parlare che egli fa di “decentramento” delle industrie per significare quella che si usa indicare col nome di distribuzione geografica o localizzazione delle imprese nei luoghi di massima convenienza, localizzazione che può essere talvolta concentrata in un sol punto e talvolta diffusa in molti luoghi, senza che concentramento o diffusione posseggano per sé connotati positivi o negativi, mi fanno ritenere che la cultura economica del Rostovzev, pur essendo quella solida di chi ha studiato un certo numero di buoni testi classici, non è quell’altra appassionata di chi, bene o male, si è fatta una propria visione del mondo economico, una propria terminologia, un proprio modo di esporre fatti e teorie.

 

 

4. – Alla stessa conclusione sono tratto da quel certo alone di imprecisione con cui sono discussi i problemi monetari. Un economista probabilmente non avrebbe scritto un periodo come: «il progressivo deprezzamento della moneta (I), il peggioramento generale dalle condizioni economiche (II), nonché il sistema di saccheggio metodico costituito dalle liturgie (III), causarono violente e spasmodiche fluttuazioni dei prezzi (IV), che non procedette di pari passo (V) col continuo deprezzamento della valuta (I)» (Storia, 597); nel quale è evidente, per testimonianza della medesima magnifica trattazione dello scrittore, che il fenomeno terzo (i numeri romani sono aggiunti da me), conseguenza a sua volta delle guerre straniere e civili, fu la causa del secondo; e questo, reagendo a sua volta sul provento delle imposte ordinarie e delle liturgie (contribuzioni) straordinarie, rese necessario di ricorrere alla tipica forma di imposta straordinaria che fu in passato la falsificazione delle monete ed è oggi l’inflazione cartacea (I), la quale a sua volta cagionò il fenomeno quarto, notoriamente accompagnato dal quinto, oggi detto, ad esempio, divergenza, naturale o legale, fra i valori interno ed esterno della moneta.

 

 

Pare altresì improprio, dal punto di vista del linguaggio economistico dire che in tempi di instabilità economica «uno dei più spiccati caratteri della vita economica… sia stata la più selvaggia speculazione, specialmente sui cambi» l’attribuire a questa «gravi conseguenze» e il quasi consentire alla motivazione data nel 209-11 d.C. dai reggitori della città di Nysia in Caria a provvedimenti di protezione a favore dei banchieri ufficiali, a cui era affidato il monopolio dei cambi, contro gli speculatori clandestini. «In verità, dice il documento, la sicurezza della città è scossa dalla malizia e bassezza di pochi, che assalgono e depredano la comunità. Per causa loro la speculazione sul cambio è penetrata nel nostro mercato e impedisce alla città di assicurare l’approvvigionamento di quanto è necessario alla vita, sicché la maggior parte dei cittadini, anzi la comunità intiera, soffrono la carestia. Per il medesimo motivo resta ostacolato il pagamento delle tasse agli imperatori» (Storia, 546). Astrazione fatta dall’impiego in italiano dell’aggettivo “selvaggia” che è, in tema di speculazione, qualcosa di diverso dell’inglese wild, forse traducibile in “disordinata” o “frenetica”, la logica ordinaria economica descriverebbe la sequenza dei fenomeni così: (I) per motivi diversi, gli imperatori od altri battenti moneta falsificano la moneta; (II) perciò il valore di questa diventa freneticamente oscillante; (III) e quindi le imposte fruttano meno e sono difficilmente esigibili; e (IV) gli antichi rapporti di cambio fra monete vecchie buone e monete nuove cattive o falsificate diventano senza senso; sicché (V) privati cambisti profittano del disordine per fare, in margine al mercato ufficiale logicamente divenuto deserto, qualche guadagno, acquistando monete dagli imperiti od ignari ai vecchi rapporti legali divenuti senza senso e rivendendole a nuovi rapporti più vicini a quelli corrispondenti ai rispettivi contenuti metallici; (VI) i prezzi salgono in moneta cattiva con danno della povera gente; (VII) i soliti pennivendoli accusano dei malanni terzo e sesto il fatto quinto, che invece non ne è causa, ma puro sintomo ed ineluttabile conseguenza di questa; (VIII) i municipali ben lieti di trovare una testa di turco, traducono in documenti, che gli storici prenderanno sul serio, i bassi servizi del pennivendolo pseudo-economista.

 

 

5. – Ho voluto ricordare questi pochi esempi e, non so se potrei metterne insieme altrettanti, non per farne rimprovero all’autore, ma per confortare la mia impressione che il Rostovzev non sia, per educazione mentale, un economista professionale. A parer mio, questa è stata una grande fortuna. Se egli fosse stato un tecnico della scienza economica, forse avrebbe scritto un libro tecnico, forse sarebbe stato dominato da qualcuno dei tanti schemi economici ed il suo “non” sarebbe stato un grande libro. Fra schema astratto e storia vi è contraddizione insanabile. L’economista, il quale si lasci trascinare ad applicare un qualche suo schema astratto alla interpretazione della realtà storica, può fare ciò inconsapevolmente, ed allora dà prova di ignorare i limiti e la vera sostanza del ragionare economico; ovvero con piena consapevolezza ed in tal caso sa e dice che la sua non è storia piena, ma aspetto o faccia singolare e parziale di storia. Aggiungasi che quasi sempre gli schemi astratti economici applicati alla interpretazione della storia sono altresì privi di valore in economica, come quelli i quali sono fondati sul sofisma che, essendo vera la proposizione (I): «Se A agisce da solo, A produce la conseguenza X», sia anche vera la (II): «dunque A è la causa necessaria e sufficiente di X». Sofisma al quale ogni bennato economista repugna, avendo egli posto la (I) appunto perché sapeva che, accanto al fattore A, agiscono nel mondo i fattori B, C, D, ecc., e che la combinazione di A con uno qualunque o parecchi altri fattori può far produrre ad A conseguenze tutt’affatto diverse da X.

 

 

Il Rostovzev istintivamente repugna alle pseudo-interpretazioni economiche; sebbene, a cagion forse di involontarie reminiscenze di letture fatte (Sombart, Salvioli, ecc.), egli non sia in tutto mondo di qualche lievissima traccia del linguaggio pseudo-economistico. È notorio che, fra l’altro, i materialisti della storia si differenziano dagli scrittori puri e semplici di storia economica per una certa propensione invincibile a trasformare le categorie, che gli economisti pensano a guisa di astrazioni, in entità storiche viventi ed operanti; sicché i lettori assistono a cruenti battaglie fra capitale e lavoro, fra rendita e profitto, fra salario ed interesse. Tutte queste che sono “parole” inventate – e correttamente inventate, si aggiunga subito – dagli economisti per semplificare il discorso e ragionare sulla base di concetti rigorosamente definiti, diventano divinità misteriose che premono sugli uomini e li conducono a questa o quella meta. Il Rostovzev cade, sebbene rarissimamente e inconsapevolmente, vittima di questa comica personificazione delle astrazioni verbali usate, per comodo stenografico di discussione, dagli economisti: «Sotto la pressione del grande capitale, tanto i piccoli poderi posseduti dai contadini, per lo più nelle parti collinose e montagnose d’Italia, quanto le medie tenute della borghesia cittadina erano destinati a scomparire e a rimanere sommersi nei latifundia della burocrazia imperiale e della plutocrazia italica» (Storia, 234). Il periodo è per sé, incomprensibile, perché il concetto «pressione del grande capitale» è inesistente. Il capitale, cosa inanimata, non può esercitare nessuna pressione. La realtà palesataci dal Rostovzev è assai più viva e varia di quella chiusa nella terminologia per una volta tanto presa a prestito dai materialisti storici. Vi sono nuovi e vecchi ricchi in Roma, provveduti di risparmio (da saccheggi, da commerci, da industrie, da fortunate speculazioni) in cerca di impiego? Nel tempo stesso, vigneti ed oliveti, sono divenuti in Italia “relativamente” meno remunerativi, perché la pace romana ha consentito a vigneti ed oliveti di sorgere e prosperare in Gallia, in Spagna, in Africa, nel vicino Oriente? Perciò la coltura cerealicola è divenuta “relativamente” più remunerativa in Italia? Ed ecco la coltura a cereali e, per la necessità della vicenda o del maggese, quella a pascoli sostituirsi in Italia a quella a vigneti e ad oliveti. Ma queste ultime erano nel tempo romano e sono oggi proprie della piccola coltura e anche della piccola proprietà coltivatrice e, in parte, di quella media industrializzata, laddove le colture cerealicole e pascolive erano e sono più economicamente gerite dalla grande intrapresa. Poiché vi son ricchi a Roma desiderosi di investire in terre, essi offrono buoni prezzi ai piccoli e medi proprietari e questi vendono. La “pressione” del grande capitale è dunque una invenzione astrattistica; la vicenda, che condusse ai latifundia, essendo dal Rostovzev chiarita in maniere (quella ora esposta è una sola e nel libro sono esposte altre concomitanti, perfettamente verosimili) le quali rispondono pienamente e persuasivamente alle regole ordinarie della condotta economica umana.

 

 

6. – Come il Rostovzev cada così rarissimamente in imprecisioni nell’uso del linguaggio economico e in personificazioni delle categorie astratte economiche tiene tanto del miracoloso da forzare alla conclusione che egli appartenga alla categoria di coloro che, senza saperlo e senza mai averne fatto professione, sono economisti nati, perché hanno l’”occhio” il quale fa capaci a vedere il fondo delle cose economiche. Rostovzev possiede, in misura superba, l’occhio economico. Egli vede, sì, il fondo tecnico materiale dell’aspetto materiale esteriore della vita economica, ma anche e soprattutto il fondo spirituale della sostanza di essa. Vede la causa della diversa struttura (di fango, di mattoni, di pietra) delle case in cui si ricoverano gli uomini, nell’indole del materiale che essi poterono maneggiare sul posto; ma nega che l’esistenza del limo del Nilo, della terra da mattoni o della pietra sia stata la causa determinante della civiltà egiziana, mesopotamica o romana, ché fango, terra da mattoni e cave di pietra esisterono sempre, anche quando quelle civiltà non erano nate od erano già morte. Non si lascia imbrogliare dalle teorie le quali pretendono spiegare la decadenza del mondo antico con l’inaridimento progressivo del mondo mediterraneo, ché l’Eufrate ed il Tigri potrebbero, oggi come un tempo, trasformare le sabbie in giardini, né persuadere da piccoli pasticci di forme semplici di struttura industriale le quali non riescono a trasformarsi a tempo nelle moderne forme tecnicamente perfezionate, ché il secolo aureo degli Antonini corse anche senza motori da 50 mila cavalli e seppe utilizzare i congegni ad esso propri, come non si fece prima e si ritornò a non fare poi. Il Rostovzev è uno storico, il quale sa guardarsi attorno e sa che gli uomini sentono, pensano ed operano oggi per motivi non diversi da quelli che li commossero e li fecero pensare ed agire ieri. Perciò guarda ai contadini della sua Russia, alla fragilità del sottile ceto dirigente di essa, alle cause del crollo dello zarismo ed alle caratteristiche dello stato odierno di polizia che, con altri simboli, ne continua, senza il freno della distrutta “intelligenza”, le tradizioni; ovvero interroga i fellahen dell’Egitto, cerca di entrare nella loro mentalità di gente tormentata e rassegnata ai tormenti; od ancora guarda alla varia, ricca, mutevole, eccitante vita del mondo occidentale europeo e nord americano, alle mille e mille fonti autonome spontanee di azione che, sotto l’egida di uno stato di giustizia, producono oggi effetti così stupendi di civiltà; e, con la mente attrezzata a comprendere le ragioni della rovina, della decadenza e del moto della civiltà moderna, analizza le fonti letterarie dell’antichità, ne scruta i monumenti, le statue, i dipinti, le lapidi, le iscrizioni, i papiri e ricostruisce e spiega. Da quel che egli scrive in questa che, di fronte alla prima inglese ed alla seconda tedesca, è terza edizione e non mera traduzione, vedo che alle edizioni precedenti fu fatto il rimprovero di avere interpretato la decadenza del mondo antico ispirandosi troppo alla contemporanea tragedia russa, la quale costrinse lui a cercar rifugio in una università americana, così come gli oppressi egiziani ricorrevano alla fuga (Αναχωρησις) nelle paludi o nel deserto («fuggiremo dove possiamo vivere da uomini liberi»). Il rimprovero è ingiusto, perché il Rostovzev ha visto ed ha vissuto altre esperienze, oltre quella tragica della sua patria e, come di questa, i frutti delle sue diverse esperienze sono nel libro ugualmente chiari; e forseché ad ogni ora della vita ogni nostra nuova esperienza non ci fa comprendere avvenimenti passati che prima erano stati muti di ogni luce per noi? Forseché ogni storia oggi scritta non è diversa da quella che sarebbe stata narrata innanzi al 1914? e diversa perché gli storici d’oggi, se sono uomini e non fantocci libreschi, vedono il passato con gli occhi di chi ha vissuto, ha patito, ha sentito la guerra ed il dopo-guerra. Rostovzev ha vissuto intensamente la tragedia contemporanea; epperciò ha capito il mondo antico meglio di chi visse in tempi tranquilli, nei quali la ragione pareva governasse il mondo.

 

 

7. – Egli ha visto che alla radice della storia non si trovano l’economia, la macchina, lo strumento tecnico, la terra arida o feconda, il denaro e simiglianti cose morte, sì invece le idee che la classe politica si è fatta, per recenti esperienze, del modo nel quale si deve governare, degli ideali propri ad una società politica salda, dei rapporti di potenza dello stato con gli altri stati confinanti, del reclutamento proprio fra gli ottimati ovvero tra il popolo. Sempre governò sia nell’impero fiorente del primo e del secondo secolo, che in quello decadente del terzo e del quarto, una classe politica ristretta e sempre la massa della popolazione rimase soggetta e condusse, a quanto dimostra il Rostovzev, vita misera. Ma nel primo tempo la classe politica non ebbe ideali di uguaglianza né si curò di elevare le plebi. Bastò ad essa reggere fortemente lo stato contro i nemici esterni e reprimere i disordini interni; amministrare giustizia e mantenere sicurezza e pace. A

Cesare doveva essere dato quel che era di Cesare; ma Cesare non si curava del modo con cui gli uomini attendevano alle loro faccende private e provvedevano a lui i mezzi economici per governare lo stato. Perciò grandeggiarono nel tempo stesso l’impero e le economie private. Le masse rimanevano povere; ma la classe politica era aperta a chi dal basso, rapidamente od in alcune generazioni, sapeva elevarsi. La vita cittadina si affinava; lo spirito pubblico era alto e della ricchezza privatamente accumulata gran parte era volontariamente destinata ad opere di pubblico universale vantaggio; e, più si donava e dalle donazioni pubbliche si traevano stima ed onori, più cresceva la spinta a procacciare ricchezze ed a farne pubblico uso. Nel secondo tempo mutano gli ideali; e l’invidia e l’odio verso gli ottimati prendono il posto dell’emulazione. All’ideale della giustizia si sostituisce quello della uguaglianza; ai sentimenti emulativi puramente morali sottentrano quelli di costrizione al bene. Anche se la classe politica governante a ciò era condotta dalla necessità urgente di salvare l’impero dall’assalto dei barbari; i mezzi all’uopo adoperati di livellamento dei grandi al livello degli umili e di costrizione al servizio pubblico portano alla decadenza economica e sociale. I grandi rimangono, non gli antichi che erano stati sterminati dalla guerra civile, dalle confische e dalle imposte, ma nuovi grandi, scelti tra burocratici, ed arricchiti, invece che dal lavoro che crea ricchezza, dall’astuzia nello spogliare altrui, dall’intrigo abile a far volgere a sé benevolo l’occhio dell’imperatore, fonte di ogni innalzamento e schiavo degli innalzati. L’economia, oppressa dalle imposte straordinarie ed arbitrarie, scoraggiata dall’incertezza, decade. L’ideale dell’uguaglianza, figlio dell’invidia, distrugge la giustizia, cresce la miseria dei soggetti e pone al di sopra di essi una classe politica intrigante e pavida, la quale sarà spazzata via dai barbari. È questa, del Rostovzev, una visione grandiosa della vicenda di gloria e di decadenza dell’epoca imperiale. Visione che a me parve bella e vera anche perché – e qui adempio, in parte ripetendomi, alla promessa di dire la ragione del compiacimento derivato in qualità di studioso di cose economiche dalla lettura del libro – essa colloca l’economia all’umile posto che le compete di risultato di fattori più alti morali e spirituali. Ricchezza, benessere materiale, progresso tecnico, agricoltura perfezionata, commerci vivaci, ovvero miseria, regresso tecnico, abbandono della terra, assenza di traffici sono l’ultimo, ovvio, spontaneo risultato della concezione dominante dello stato e dei suoi compiti, il risultato dei sentimenti di emulazione ovvero di invidia, il frutto della consuetudine dell’ubbidienza alla legge o della sopportazione dell’arbitrio, che informano l’opera della classe politica di un paese. Come e perché sentimenti, concezioni, consuetudini mutino nei tempi, come la classe politica si recluti e se la classe politica possa identificarsi con le masse, sono problemi più alti sui quali il libro del Rostovzev, pur non risolvendoli, gitta viva luce. Tanto alti problemi non si possono discutere, di passata, qui dove si volle soltanto dire la ragione della gratitudine dovuta dagli studiosi di cose economiche al grande storico il quale seppe dare al fattore economico giusta collocazione nel magnifico suo quadro dell’epoca imperiale.

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