Opera Omnia Luigi Einaudi

Il valore italiano del trattato di Losanna

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1912

Il valore italiano del trattato di Losanna

«Corriere della Sera», 1 novembre 1912

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 57-68

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 446-454

 

Nei commenti che si lessero sui giornali italiani intorno ai vari documenti che insieme costituiscono il trattato di Losanna, due opposte tendenze sono manifeste: l’una delle quali vuole ingigantire quelle che sono dette «concessioni» fatte all’impero ottomano, ed all’uopo cerca di dimostrare che l’Italia ha rinunciato in parte alla sua affermazione di sovranità piena ed intiera ed ha suscitato un vespaio di attriti futuri fra il governo italiano ed i rappresentanti del sultano e della legge sacra dello Sceriat, mentre l’altra accuratamente espone i motivi per i quali le concessioni fatte sono di pura forma e non intaccano per nulla la nostra sovranità; e già alcuni, appartenenti alle ali estreme di questa tendenza, si industriano ad indicare le maniere con le quali le concessioni formali potranno via via essere attenuate sino a ridursi a puri nomi senza sostanza alcuna.

 

 

Vorrei esporre alcune considerazioni inspirate ad una visione dei fatti diversa sia dell’una che dell’altra tendenza. Le quali hanno la loro ragion d’essere polemica, rispetto alla politica del momento attuale. Mentre sembra a me che la sola domanda importante che dovrebbe fare a se stesso ognuno il quale sovratutto si curi dell’avvenire del paese è questa: Il trattato di Losanna giova all’Italia, e non all’Italia di ieri che non aveva colonie o stava disputandole alle armi del nemico, ma all’Italia di domani, che dovrà rassodare il suo dominio rispetto alle popolazioni arabe e dovrà attuare il programma, senza di cui la conquista sarebbe stata inconcepibile, di crescere la civiltà e la prosperità di quei paesi? Questa sembra a me la vera posizione del problema: cioè il litigare intorno alla portata, più o meno larga, delle singole clausole del trattato rispetto alle aspirazioni che erano state manifestate in Italia ed alle opposte resistenze ottomane è un rivangare sul passato, il quale non ritorna più; mentre soltanto importa dal passato trarre ammaestramenti per l’avvenire.

 

 

Se ciò è vero, sembra a me che il trattato di Losanna si avvicini, per quanto è possibile, ad un capolavoro di arte di governo, da cui l’Italia potrà trarre grandissimo beneficio, ove si sappiano utilizzare i germi fecondi di bene che i nostri negoziatori seppero includervi. Ma per dimostrare ciò è d’uopo fare alcune essenziali premesse. La prima si è questa: che l’esperienza storica ha dimostrato quei soli paesi essere riusciti a conservare per lungo tempo le colonie, i quali seppero renderne contenti gli abitanti, facendo omaggio ai loro costumi religiosi e politici, riconoscendo loro la massima libertà compatibile con la sovranità della madre patria, facendo il massimo assegnamento sulla loro collaborazione amministrativa ed anche politica. Tuttociò è così noto che è inutile dimostrarlo. I paesi che vogliono perdere le colonie, ne considerano come sudditi gli abitanti; mentre quelli che le conservano, più o meno presto, li chiamano a collaborare nell’esercizio della sovranità locale. L’India moderna, dove tuttodì si creano nuovi consigli legislativi indigeni, ed ai vecchi si crescono i poteri, è l’esempio più attuale di questa necessità assoluta di governo.

 

 

Una seconda premessa, anch’essa di fatto, è che nella Tripolitania e Cirenaica l’elemento indigeno, e per indigeno intendo arabi e berberi, conserverà la maggioranza numerica per lunghi anni ancora. La speranza che gli italiani si dirigano in masse verso le due contrade libiche, per ora non si sa quando potrà essere attuata. L’esperienza storica dimostra che le colonizzazioni sono sempre lentissime sugli inizi e soltanto dopo aver raggiunto cifre di milioni, il moto diventa più rapido. Ora gli inizi nelle colonie non si numerano né ad anni né a poche diecine di anni. Anche lasciando impregiudicata la questione, su cui sono così discordi i pareri, sulle attitudini produttive agricole della nuova colonia, ed anzi supponendola risoluta nel senso più favorevole, gli inizi coloniali, durante i quali i coloni italiani saranno una minoranza esigua della popolazione totale, non potranno durare meno di mezzo secolo. Se poi i coloni italiani diverranno numerosi, il fatto non potrà accadere se non perché l’Italia avrà fatto regnare l’ordine, la sicurezza della proprietà e delle persone, avrà reso facili le comunicazioni terrestri e marittime. Ma di un ambiente siffatto si gioveranno altresì gli indigeni; ed uno dei frutti più sicuri della nostra opera sarà il moltiplicarsi del numero di essi. La pace inglese ha fatto pullulare a diecine di milioni gli indiani; e gli arabi algerini e tunisini crescono rapidamente di numero grazie al dominio francese. Poiché gli indigeni della Libia sono già ora più di un milione, è probabile che conserveranno per lunghissimo tempo una notevole preponderanza su tutti gli altri elementi della popolazione. Dato ciò, appare manifesto quanto grande sia l’interesse dell’Italia a trovare formule adatte di collaborazione amministrativa e politica con un popolo, il quale l’esperienza storica insegna non potere rimanere puramente soggetto.

 

 

Una terza premessa necessaria è questa: essere sommamente pericoloso per la prosperità della colonia e la saldezza dei suoi vincoli colla madre patria ammettere una qualsiasi rappresentanza politica delle colonie a pro dei soli coloni provenienti dalla madre patria o ad essi assimilati nel parlamento metropolitano. L’esperienza dell’Algeria insegni. Insediata la Francia sovrana nell’Algeria, distrutta ogni organizzazione politica degli indigeni, si commise l’errore grave di attribuire ai coloni francesi l’elettorato al parlamento di Parigi. Prima ai coloni francesi, poi ad alcuni ceti ristretti di indigeni a cui si diede la cittadinanza, come agli israeliti, riconosciuti cittadini francesi in blocco per un decreto del ministro Crémieux, e ad uno scarso numero di notabili arabi, militari, ritirati, ecc. L’errore fu funesto, perché divise la popolazione in due categorie la maggioranza araba, priva di diritti politici, e la minoranza di francesi ed assimilati, che soli avevano influenza politica. Onde i ministri di Parigi furono portati ad ascoltare le voci dei cittadini francesi, dei cui deputati temevano il voto contrario; e questi deputati, di solito di poca levatura, divennero i tiranni della colonia, si preoccuparono esclusivamente degli interessi dei coloni francesi, degli israeliti ed altri assimilati, fomentarono una legislazione di classe, che fece divampare l’odio tra gli arabi oppressi e ritardò di decenni il progresso civile ed economico dell’Algeria. Adesso la Francia sta riparando faticosamente agli errori commessi nel passato, ha creato e rafforza nell’Algeria le rappresentanze di elementi locali; ammaestrata dall’esperienza, preserva con gran cura nella Tunisia gli istituti politici ed amministrativi indigeni, cercando di far sì che le autorità arabe, dal bey all’ultimo caid, esercitino un ufficio parallelo e congiunto a quello delle autorità francesi.

 

 

Onde l’utilità di un governo misto, palesatosi lo strumento più efficace, per ottenere la collaborazione degli elementi indigeni ed europei, allo scopo di conservare la colonia alla madre patria e di farla nel tempo stesso progredire.

 

 

Date queste premesse, in cui, come si vide, non entra menomamente in gioco l’interesse dell’impero ottomano, sibbene esclusivamente l’interesse dell’Italia, o meglio dell’Italia nuova, la quale si è assunta una grandiosa missione coloniale, chiaro appare che la soluzione ideata dai nostri negoziatori, sotto colore di concedere qualche soddisfazione formale alla Turchia, in realtà è quella che meglio giova agli interessi della colonia e quindi della madre patria.

 

 

Il problema era più complesso di quello risoluto dalla Francia a Tunisi. Nella Tripolitania e nella Cirenaica invero non esisteva disgraziatamente alcuna dinastia locale che potesse servire nelle mani del governo metropolitano a tenere devoti gli arabi. Una dinastia nuova non si improvvisa: né i discendenti attuali dei Caramanli di Tripoli, i quali del resto non avevano dominato nella Cirenaica, nel Fezzan e nella regione sirtica, parevano adatti all’uopo. La permanenza della sovranità ottomana, con un protettorato italiano, avrebbe sul serio menomato la sovranità italiana e sarebbe stata cagione probabilmente di attriti non lievi. La soluzione attuata col firmano del sultano e col decreto del re appare in verità pienamente rispondente agli scopi che noi (noi, ripeto, e non i turchi) dobbiamo volere nella nostra azione coloniale. La sovranità italiana, il Naib-ul-Sultan, il Cadì, le prescrizioni dello Sceriat, la commissione mista italo-araba per preparare ordinamenti locali inspirati al rispetto degli antichi costumi, l’affermazione implicita della necessità di un bilancio locale, la continuazione degli impegni finanziari dipendenti dal debito pubblico ottomano, sono tutti elementi di governo i quali, se sviluppati secondo la loro logica intima, possono essere agli interessi della collettività che dovrà a poco a poco sorgere nella nuova colonia. Altra è la parola scritta, ed altro è lo sviluppo che possono gli istituti politici prendere col tempo.

 

 

Ed invero, ciò che massimamente importava era che le popolazioni indigene – che sono oggi e saranno per lunghissimo tempo, per le considerazioni sovra svolte, la grande maggioranza degli abitanti della colonia – avessero contemporaneamente due sensazioni ben vive, di cui l’una è quella della sovranità italiana, e l’altra di non essere abbandonate in balìa di un dominatore, che esse apprezzeranno senza dubbio col tempo, ma che per ora non conoscono abbastanza. Esse dovevano vedere la sovranità italiana inquadrata nella cerchia delle istituzioni sacre e rappresentative alle quali erano adusate e che male avrebbero potuto essere d’un tratto abbattute. Se la guerra avviene tra due stati civili europei, ed una parte del territorio viene smembrata da uno stato a profitto dell’altro, nessuna difficoltà si oppone al vincitore che voglia estendere i propri ordinamenti al territorio annesso. Si cambia, occorrendo, il nome ai sindaci ed ai prefetti, si mandano in una nuova capitale i deputati: e formalmente l’annessione è compiuta. Invece in paesi, come quelli africani, dove non esiste l’organizzazione burocratica civile europea, dove non esiste od è una parvenza la rappresentanza parlamentare, il passaggio è estremamente più difficile. Qualche cosa di simile avveniva in Europa nei secoli scorsi; e chi non ricorda quale tenacissima vita avessero nelle provincie di nuovo acquisto gli istituti politici ereditati dai domini precedenti? Per citare soltanto ciò che accadeva da noi, basti ricordare che la sovranità del re di Sardegna si estendeva, nel 1792, su numerosi territori: la Savoia, il Piemonte antico, il ducato di Aosta, Nizza, Oneglia, il Monferrato antico ed il Monferrato nuovo, le provincie conquistate sullo Stato di Milano, tra cui la Valle Sesia si distingueva dal Novarese, dall’Oltrepo-pavese, dal Vigevanasco, ecc. ecc., la Sardegna. Su tutte queste regioni si estendeva la sovranità sabauda; ma in ognuna assumeva aspetti diversi, rispettosa sempre degli ordinamenti locali; qua assoluta, là limitata da parlamenti locali; in qualche regione con fervida vita municipale, altrove con predominio dello stato. E queste diversità derivavano tutte da un ossequio, garantito da trattati, ad istituti che erano sorti durante la sovranità antica ed erano stati per trattato mantenuti, a garanzia delle popolazioni, anche dopo la instaurazione della sovranità nuova.

 

 

Ecco quale sembra a me il significato profondo degli istituti politico-religiosi, consacrati nei documenti del trattato di Losanna. Il firmano ottomano storicamente può essere considerato come una affermazione fatta dal sultano che i governi sono creati per il bene dei popoli e non i popoli a beneficio dei governi; esso afferma che ciò che tiene insieme le popolazioni delle due provincie, ciò che ne fa un popolo non è l’autorità sua, la quale egli confessa impotente; ma è l’esistenza di un comune affetto degli indigeni per «il loro paese»; la perpetuazione delle leggi Sacre dello Sceriat, le quali costituiscono il fondamento della vita civile e familiare, la esistenza loro autonoma, organizzata secondo leggi a cui essi devono essere chiamati a collaborare, che devono essere applicate mediante un ordinamento amministrativo imperniato su un bilancio «locale». In sostanza il sultano, spogliandosi della propria sovranità, ha desiderato si sapesse che egli non abbandonava i suoi antichi sudditi alla balìa di un conquistatore, libero di imporre istituzioni estranee ai costumi ed all’indole delle popolazioni conquistate. E l’Italia, facendo proprie queste esigenze della conquista, non ha compiuto cosa che non fosse sovratutto ad essa sommamente benefica. Perché, essendo nell’interesse dell’Italia che gli arabi diventino suoi collaboratori, è puranco nel suo interesse che essi sappiano di poter vivere secondo gli ordinamenti religiosi, che regolano i loro rapporti familiari, testamentari, ecc. ecc. A ciò provvede la gerarchia del Cadì e dei suoi naib subordinati; la quale gerarchia non poteva non essere legittima nel solo modo in cui dinanzi agli occhi dei musulmani è legittima una autorità religiosa, ossia mercé la nomina da parte dello sceicco dell’Islam.

 

 

A questa organizzazione spirituale si aggiunge la organizzazione finanziaria. Dopo aver pregato Dio, gli arabi dovranno pur pagare il suo rappresentante in terra perché egli mantenga l’ordine e la sicurezza e la giustizia. Ma pagare un tributo destinato ad un bilancio non proprio del paese o destinato al paese per pura condiscendenza del dominatore sarebbe stato avvilente per i nuovi sudditi e pernicioso per la madre patria. Prova ne sia la Francia, la quale, dopo aver fuso il bilancio dell’Algeria col suo, si avvide di avere gravemente errato e ricostruì il bilancio proprio della colonia, a determinare il quale concorrono gli indigeni. Mercé il trattato di Losanna, l’Italia sapientemente avverte che essa si terrà lontana dagli errori che ad altri paesi costarono e costeranno la perdita di grandi colonie. Essa avverte gl’indigeni che essi avranno un bilancio locale, a cui favore andranno le imposte che essi pagheranno. Li avverte che le entrate locali saranno destinate esclusivamente a favore della colonia, e che la madre patria farà sacrifici a pro della colonia, senza richiederne direttamente vantaggi pecuniari per il proprio bilancio. E, come primo affidamento, fa gravare sulle entrate locali le spese necessarie per il funzionamento della gerarchia religiosa ed anche per l’assegno del «rappresentante del sultano».

 

 

Con quest’ultima disposizione, forse la più interessante di tutte, si pongono le fondamenta di quella graduale evoluzione che col tempo trasformerà il rappresentante del sultano (per le funzioni consolari dell’impero ottomano si potrà trovargli un sostituto, un segretario) in quel personaggio indigeno, scelto da noi con accortezza, di cui ogni grande potenza coloniale ha urgente bisogno per esercitare praticamente di fatto la sovranità sugli indigeni. La nomina potrà col tempo assumere il carattere di una investitura formale, simile a quelle che avevano reso nei secoli scorsi leggendario e misterioso il Sacro romano impero, morto legalmente soltanto nel 1806 dopo una vita durata per secoli nelle pergamene della corte di Vienna; di fatto il rappresentante del sultano potrà trasformarsi in un rappresentante degli interessi indigeni presso l’autorità italiana. Scegliere i rappresentanti degli indigeni colle forme elettorali in uso nei paesi europei sarebbe una farsa leggermente comica; mentre la genialità nostra negli espedienti saprà adattare certamente le forme vecchie agli istituti nuovi, in guisa da avere una rappresentanza dell’indigenato, che non si senta serva perché nominata in virtù di leggi proprie e di costumi aventi una sanzione quasi sacra da parte del califfo dei credenti, e nel tempo stesso volonterosa collaboratrice della sovranità italiana, alla cui opera il bilancio locale avrà dovuto la sua floridezza, ed i loro stipendi la sicurezza che forse non avevano sotto l’antico regime. Trovare la via per cui i naib, i cadì, i membri della commissione mista italo-indigena siano chiamati a collaborare insieme per la prosperità della colonia è certo impresa singolarmente difficile; la quale però viene, a parer mio, facilitata dal fatto che tutte queste istituzioni appariranno agli indigeni un diritto consacrato nell’atto della trasmissione della sovranità.

 

 

Il trattato di Losanna crea uno stato giuridico delle popolazioni arabe; stato giuridico corrispondente alla neutralità, e quindi utile strumento di governo per il sovrano. Del pari il rispetto ai diritti delle fondazioni pie, mentre assicura gli indigeni che essi potranno trovare sempre quell’aiuto che dalle fondazioni essi si ripromettevano, simile a quello che i poveri ottenevano nel medio evo dai conventi ed oggi presso di noi dalle istituzioni di beneficenza, non nuocerà menomamente alla colonizzazione italiana, ove questa sia possibile e nei limiti in cui lo sarà. Del pari la permanenza, garantita per trattato, di quegli altri beni vakufs che sono destinati non direttamente a sollievo dei poveri, ma al mantenimento di moschee, scuole, ospedali, biblioteche, alberghi, cimiteri, ecc., è utile all’Italia, in quanto alla popolazione indigena viene per tal modo assicurata la conservazione di quegli istituti autonomi, viventi di vita propria, che sono stati constituiti dalla pietà delle generazioni passate e che in Italia con ogni sforzo cerchiamo di crescere e far prosperare.

 

 

Quanto alla colonizzazione dei beni vakufs da parte di nostri coloni, dato sempre che essa sia conveniente, il diritto musulmano conosce infiniti artifizi, con cui, permanendo la proprietà e la rendita attuale dei beni vakufs nelle fondazioni pie, il dominio utile può essere trasferito ad altri. Oserei dire che, quando li conosceremo, verrà voglia a noi di applicare quegli artifizi in Italia.

 

 

Con la tesi ora sostenuta, sembrami sentir dire, quasi si afferma che il governo della Tripolitania e della Cirenaica dovrà essere in mano degli indigeni, ad esclusione delle altre razze e dei coloni italiani. No. La tesi non giunge a queste conseguenze. Afferma soltanto che sul territorio della colonia le popolazioni arabe hanno un proprio stato giuridico, obbediscono a leggi fondamentali religiose e familiari che l’Italia ha ricevuto e rispetterà; hanno diritto a non essere tassate a pro di altri popoli o ceti. L’Italia poi regolerà, rispettando le leggi e gli istituti fondamentali degli indigeni, i rapporti di costoro con i coloni italiani, con gli israeliti, ecc., ed i rapporti di tutti con la madre patria e con l’estero. Noi dobbiamo dirci fortunati che i principii così saggiamente incorporati nelle carte del trattato di Losanna pongano l’Italia sulla buona via nell’esercizio della sovranità. Che è, ripetiamolo ancora, per chi voglia conservare e far prosperare le colonie, il rispetto degli istituti degli indigeni, la collaborazione con essi, l’esclusione di qualsiasi esclusività di rappresentanza ai coloni italiani od assimilati ad essi; la creazione di tanti statuti politici quante sono le sezioni della popolazione (indigeni, israeliti, coloni italiani), in guisa che nessuna di esse possa opprimere l’altra. Certo la creazione di questa nuova struttura politica sarà opera faticosa; ma di essa il trattato di Losanna ha tracciato già le somme linee. La storia giudicherà l’opera italiana dai frutti che saremo capaci di trarre dai germi fecondi di cui quel trattato è ricco.

 

 

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