Opera Omnia Luigi Einaudi

Imbroglioni o ciarlatani? «Statizzazione» contrapposta a «libera iniziativa» è una parola ingenua, priva di contenuto

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 30/08/1945

Imbroglioni o ciarlatani? «Statizzazione» contrapposta a «libera iniziativa» è una parola ingenua, priva di contenuto

«La Città libera», 30 agosto 1945

 

 

 

Il commento che l’Economist scrisse il 28 luglio dopo la slavina labourista (Labour Landslide) era dubbioso: «È cosa eccellente per il paese che esso possegga ora un gabinetto unito, inteso ad una politica, sia pure alquanto vaga, chiaramente approvata dal popolo e fornito di una maggioranza atta ad attuarla. In questo rispetto, il ritorno ad un governo di partito è tutto guadagno. Sotto altri rispetti, tuttavia, il nostro non è tempo da politica di partito; anzi le elezioni hanno dato risultati contrari alla faziosità. I prossimi cinque anni saranno anni di responsabilità. Il labourismo può far sì che queste elezioni siano il fondamento di molti decenni di governo costruttivo; ma può far sì anche che il parlamento nuovo metta una pietra tombale sulle sue speranze. Anche l’altra parte ha bisogno di sentire la propria responsabilità perché se lo sperimento socialistico, che il popolo ha chiaramente dimostrato di desiderare, fallisse, certamente il partito del lavoro sarebbe seppellito sotto le rovine; ma la nazione rovinerebbe con esso».

 

 

Le ragioni del dubbio erano state esposte dal grande settimanale economico londinese il 14 aprile, non appena erano apparsi i primi segni dello scioglimento del lungo Parlamento. L’Economist ha persistentemente invocato il ritorno al governo di partito, non a cagione, in verità, dei benefici positivi che i partiti esistenti probabilmente siano atti a dare al paese, ma a causa della impotenza di una qualsiasi coalizione di partiti a prendere decisioni, salvoché su problemi pacifici quali il vincere la guerra. ma se qualche cosa potesse scrollare la nostra opinione, basterebbe lo spettacolo dei partiti i quali si apprestano alla battaglia su un paio di problemi i quali, ove non siano equivoci, sono privi di importanza. Nessuno dei due partiti ha una storia pulita negli anni dell’ante guerra. I conservatori hanno avuto un maggior numero di capi che avevano gran torto, ma ne hanno avuto altresì in maggior numero di quelli che avevano ragione. Il contributo del partito del lavoro alle grandi discussioni di quegli anni, quando non fu malvagio, fu certamente stupido; e se si deve rinvangare il passato, sarebbe difficile trovare l’uguale in stupidità al voto del partito del lavoro contro la coscrizione dopo che Hitler era già andato a Praga. Ciò che importa non è sapere chi non è riuscito ad impedire la guerra presente, ma chi riuscirà a prevenire la guerra prossima. Questo è il compito della politica estera ed i capi di ambe le parti hanno dimostrato di essere singolarmente sterili in idee costruttive in argomento; con l’unica eccezione del discorso di Churchill sul Consiglio europeo, discorso che oggi però sembra dimenticato.

 

 

«Per quel che tocca i problemi economici, ogni elettore sensato sa oggi mai che né la “nazionalizzazione” (proprietà pubblica) né la “libera intrapresa” sono per se stesse cosa buona. Il compito del prossimo o dei due prossimi decenni è di costruire tecniche, grazie a cui i due principii possano essere combinati tra loro in modo da rinforzarsi vicendevolmente e non invece, come accadde sinora, da annullarsi reciprocamente. Sarebbe una buona regola pratica quella di cacciar fuori dai piedi ogni uomo politico, il quale invocasse la “nazionalizzazione” per se stessa o la “libera intrapresa” per sé, quale un imbroglione od un ciarlatano. Sarebbe una buona regola, se essa non ci costringesse a prendere a pedate quasi tutti i componenti dei due grandi partiti».

 

 

Il giudizio è severo. Troppo severo, se si riflette che gli uomini dei paesi liberi non di rado predicano male, allo scopo di accaparrarsi i voti degli elettori bisognosi di essere persuasi dal suon delle parole e razzolano bene, quando sono chiamati a cimentarsi con la responsabilità del governo. Un articolo pubblicato, se non erro, sull’«Avanti!» dal Brailsford, vecchia simpatica conoscenza fabiana, dimostra che i labouristi sanno distinguere fra la parola «nazionalizzazione» ed i fatti a cui si apprestano a dar vita. Nazionalizzare la Banca d’Inghilterra sì, anche perché essa è l’unico istituto di emissione al mondo il quale non sia già nazionalizzato; ma il mutamento sarà ben piccola cosa, ché già oggi quella Banca altro non è se non l’organo tecnico della politica della tesoreria. Fare piani regolatori per le città e le campagne sì; ma con piena indennità per i proprietari espropriati (pagata, s’intende, in buona moneta); e così via. Restano le qualifiche di imbroglione e di ciarlatano a chi usa quelle tali parole generiche. Dure qualifiche, certamente. Immeritate od esagerate forse? Qui occorre una riflessione relativa alla classe politica, che lessi in un saggio di Keynes, tra i suoi più brillanti. Ed è che la classe vive, intellettualmente, degli avanzi del pensiero di una o due generazioni addietro. Non è colpa sua se le idee nuove, nel campo delle scienze morali, si fanno strada lentamente. A differenza delle scienze fisiche, dove la novità si impone colla forza dell’evidenza, con le grandiose applicazioni produttive o distruttive, e dove i nuovi principii buttano d’un tratto di seggio i vecchi; nel campo delle scienze morali politiche economiche il nuovo non si distingue bene dal vecchio, e le idee veramente innovatrici filtrano lentissimamente attraverso al vaglio di discussioni minuziosissime. Quel che giunge oggi al pubblico – e gli uomini politici, i giovanissimi come i vecchi sono parte del pubblico – sono le novità di cinquanta, sessanta anni, talvolta di un secolo fa. Tanti anni fa, molti anni fa, prima del 1900 si discorreva ancora nei libri della scienza economica di problemi come statizzazione, municipalizzazione, nazionalizzazione contro proprietà privata, libera iniziativa, concorrenza e simili. Posizioni arcaiche di problemi proprii di una fase primitiva ingenua della scienza. In un paese progredito, come l’Inghilterra, dove le università sfornano ogni anno qualche decina e forse qualche centinaio di giovani capaci di trattare in linguaggio e con metodi moderni problemi attuali, senza usare mai parole stupide, prive di contenuto come «nazionalizzazione» contrapposta ad «impresa privata libera», si capisce come l’«Economist», infastidito dalla ottusità tardigrada degli uomini politici, li bolli come imbroglioni o ciarlatani. Probabilmente ha ragione, nel suo paese. Oggi, in Italia, avrebbe torto. Se fosse continuato il processo di educazione politica ed economica in atto prima del 1914, noi potremmo infastidirci a veder fatto tanto uso di parole senza costrutto.

 

 

Ma dopo un quarto di secolo di diseducazione, bisogna rassegnarci anche alle terminologie prive di senso comune. Basta voltar pagina quando ci si imbatte in articoli o saggi o libri in cui si parla, come se si trattasse sul serio di materie contenziose, di statizzazioni, nazionalizzazioni, socialismo, comunismo, individualismo, liberismo, proprietà privata, libera iniziativa, socialismo liberale, liberalsocialismo e simili. Fuggiamo dinnanzi alle parole, che sono preferito trastullo di coloro che, avendo aborrito, come l’acqua dal fuoco, dall’affrontare i problemi economici teorici e concreti e questi assai più di quelli, immaginano di poterli risolvere chiacchierando a perdifiato sull’entità ultima delle cose. Imbroglioni e ciarlatani no; ma insopportabilmente noiosi sì.

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