Opera Omnia Luigi Einaudi

Imposte patrimoniali. Imposte sul reddito e debito pubblico.

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 30/06/1913

Imposte patrimoniali. Imposte sul reddito e debito pubblico.

«Corriere della Sera», 30 giugno[1] e 13 luglio[2] 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 531-546

 

 

 

 

1

 

Parecchi governi dei maggiori stati del mondo si trovano nel momento presente di fronte al problema come far fronte alla spesa straordinaria richiesta dai nuovi programmi militari e navali, oltreché dall’attuazione dei programmi di pensioni e di assicurazioni popolari deliberati nel decennio scorso. Tipico, anche per la somiglianza della cifra, è il contrasto fra Germania e Francia; le quali stanno oggi ambedue discutendo intorno alla maniera migliore di far fronte ad una spesa straordinaria di circa un miliardo di lire. Era 1 miliardo di marchi in Germania; ma lungo il dibattito la cifra si ridusse ad 1 miliardo di franchi (800 milioni circa di marchi); mentre il fabbisogno francese saliva da 860 milioni a 1 miliardo di franchi. Quasi identica la cifra del fabbisogno; ed opposti i mezzi scelti: in Germania un’imposta straordinaria sul patrimonio di 1 miliardo; in Francia debiti per altrettanto. Trascuriamo per ora il fatto che l’imposta scelta fu in Germania quella sul patrimonio; della quale scelta si vedrà altra volta il significato. Per ora si contrapponga solo il fatto tedesco dell’imposta al fatto francese del debito.

 

 

Corrono a questo riguardo nell’opinione pubblica molti errori, tra cui principalissimo quello di ritenere che l’imposta sia sopportata dalla generazione attuale, mentre il debito sarebbe un mezzo di accollare una spesa attuale alle generazioni future. La quaI credenza è un manifesto errore, poiché è vero che, se Tizio deve pagare una imposta straordinaria di 1.000 lire, egli rimane privo di questa somma subito ed è chiarissimo che essa è pagata da lui immediatamente. Ma è anche vero che, se il governo non gli impone alcun balzello e fa un debito di altrettanto con un capitalista qualunque al 4%,Tizio dovrà pagare ogni anno una imposta di 40 lire affinché l’erario possa far fronte all’onere degli interessi al 4% sul debito di 1.000 lire che ha contratto col capitalista. Dunque Tizio, se il governo ricorre al debito, conserva nel suo patrimonio le 1.000 lire; ma a che gli giovano se le 40 lire di reddito che esse gli danno le deve pagare all’erario a titolo di imposta affinché il tesoro possa far fronte all’onere del debito contratto? Se c’è una verità sicura è questa: che Tizio, qualunque sia il metodo scelto, perde subito, egli Tizio in persona e non i suoi figli o nipoti, 1.000 lire; coll’imposta le perde, perché le deve pagare senz’altro al fisco; col debito le perde ancora perché, sebbene in apparenza le conservi, deve pagarne il reddito al fisco alfine di mettere questo in grado di far fronte agli interessi del debito pubblico; ed un capitale di 1.000 lire, il cui reddito va a favore del fisco, è un capitale per il fisco e non più per il contribuente.

 

 

Quanto alle generazioni venture è meglio lasciarle in pace; coll’imposta esse non ricevono più le 1.000 lire che il loro autore ha dovuto pagare al fisco; col debito pubblico, esse ricevono bensì il patrimonio fisicamente intatto sotto forma di fondo rustico, di casa, di azienda industriale, di azioni od obbligazioni; ma, poiché lo ricevono gravato di una maggiore imposta di 40 lire annue, dovuta alla già detta necessità di far fronte agli interessi del debito, così il patrimonio, fisicamente integro, ha un minor valore economico di 1.000 lire. Per le generazioni venture se non è zuppa è pan bagnato; esse in ogni caso ricevono dalla generazione attuale un patrimonio diminuito di 1.000 lire. Del che del resto non hanno ragione di lamentarsi: ogni generazione avendo il diritto di disporre come crede del proprio patrimonio, conservandolo, distruggendolo od aumentandolo; e potendo, per il raffinarsi viemmaggiore dello spirito di previdenza negli uomini, farsi un fondato assegnamento sul progredire della ricchezza che ogni generazione lascia in eredità alle successive.

 

 

Non dunque la Francia si distingue dalla Germania per aver voluto rigettare la prima l’onere del miliardo sulle nuove generazioni e per esserselo accollato la seconda. Ambedue spendono il miliardo oggi ed ambedue lo pagano con una diminuzione d’altrettanto del loro patrimonio attuale. In ambe le nazioni, i figli ed i nipoti erediteranno un miliardo di meno, se a ricostituirlo col risparmio non avranno pensato per tempo i genitori attualmente viventi.

 

 

Le differenze tra i due sistemi sono ben altre; ed io cercherò di esprimerle facendo parlare un francese ed un tedesco immaginari che, avendo riflettuto sull’argomento, vengono a dirci le ragioni del diverso operare dei loro governanti.

 

 

Dice il francese: io preferisco prendere a prestito un miliardo, perché in tal modo il miliardo costa di meno ai contribuenti. La contesa è vecchia e già la dibattevano dinanzi al gran re Luigi XIV i suoi ministri; ma sempre i governi francesi preferirono ricorrere al debito. Ancora per pagare le spese della guerra del 1870 – 71 e l’indennità dei 5 miliardi, finanzieri celebri, come il Say, preferirono il debito. Fatti i conti, esso è meno costoso dell’imposta straordinaria.

 

 

Ed invero: quanto costa un debito di 1 miliardo di lire al 3,75%, che è il tasso netto che pare dovrà pagare l’erario francese sul prestito che si sta ora meditando? Nulla più di 37,5 milioni di lire all’anno in perpetuo. Talché basterà che il governo distribuisca sui contribuenti un onere cresciuto d’imposta di 37,5 milioni di lire all’anno per far fronte all’onere del debito.

 

 

Ove invece si ripartisse subito un’imposta straordinaria di 1 miliardo di lire, che cosa accadrebbe? Tizio, capitalista, pagherebbe facilmente le 1.000 o le 10.000 o le 100.000 lire di imposta straordinaria a lui afferente e perderebbe, sul capitale così pagato al fisco, solo gli interessi normali che avrebbe lucrato, se quel capitale gli fosse rimasto ed egli avesse potuto impiegarlo direttamente. Se egli non è capace di far fruttare il suo capitale più del 3,75%, egli nulla perde pagando l’imposta straordinaria. Ma se gli fosse in grado di far rendere al capitale il 4 od il 5%, evidentemente l’imposta straordinaria gli cagiona, per ogni 100 lire, una perdita di 4 o di 5 lire; mentre il metodo del debito pubblico gli farebbe subire una perdita di sole lire 3,75 %.

 

 

Peggio accade, coll’imposta, per Caio, proprietario di terreni o case od industrie. A costui nulla importa di pagare 375 lire all’anno di maggiori imposte in perpetuo per permettere all’erario di pagare gli interessi del debito. Ma pagare 10.000 lire subito di imposta straordinaria gli dà gran noia. Dovrebbe vendere una parte del terreno o della casa o privarsi del capitale d’esercizio dell’industria. Non potendo far ciò, egli prenderà a prestito le 10.000 lire; ma non le otterrà a così buon mercato come il governo: invece del 3,75%, dovrà pagare, anche dando ipoteca, il 4, il 5 od il 6 percento. Il credito dello stato, nei paesi civili, è sempre migliore di quello dei privati. Quindi l’onere di Caio sarà di 400, 500, 600 lire all’anno di interessi sul debito privato di 10.000 lire contratto allo scopo di pagare l’imposta straordinaria. Peggio ancora volgono le cose per Sempronio, impiegato o professionista avente un reddito discreto, non esente da imposta. Per costui è certo più conveniente pagare 375 lire all’anno a causa di una piccola imposta stabilita per pagare gli interessi del debito pubblico, che 10.000 lire di imposta straordinaria una volta tanto. A pagar questa si troverebbe gravemente imbarazzato; dovrebbe ricorrere a prestiti sulla parola, garantiti al più da polizze di assicurazione sulla vita e dovrebbe pagare il 6, 7 od 8% all’anno di interessi.

 

 

Conclude perciò il mio francese immaginario: l’imposta straordinaria non esclude il debito; ma il debito, invece di essere uno solo e di essere contratto dal governo alle più miti condizioni a cui si può trovare il denaro sul mercato (per esempio il 3,75 %), si fraziona in moltissimi piccoli debiti, contratti da ognuno di coloro che, essendo soggetti all’imposta straordinaria e non avendo il contante subito disponibile, devono prenderlo a mutuo da capitalisti al 4, 5, 6, 7, od 8 percento. Ed anche ove si ammetta che tutti i contribuenti abbiano – il che non è vero in moltissimi casi – il contante disponibile per pagare l’imposta straordinaria, noi togliamo ad ogni modo ai contribuenti un capitale che essi saprebbero far fruttare il 4, 5, 6, 7% e cagioniamo loro un danno inutile. La Francia preferisce oggi, come ha preferito in passato, il debito di 1 miliardo all’imposta di 1 miliardo, perché il debito cagiona un onere annuo di 37,5 milioni di lire, mentre l’imposta è fonte di una perdita di 40 o 50 e forse più milioni di lire. Il debito è il metodo più perfetto per ridurre al minimo il gravame delle spese straordinarie, ricorrendo a quei capitalisti che sono più timidi di tutti, o meno capaci di utilizzare direttamente i propri risparmi e che quindi sono disposti a cederli allo stato al massimo buon mercato possibile. A che pro vessare gli altri, quando costoro sono pronti a dare i loro denari al 3,75%?

 

 

Risponde il tedesco: ciò che il francese dimostra, è vero. Ma è solo una mezza verità. Non tiene conto dei fattori morali, che pure hanno un valore economico traducibile in lire e centesimi.

 

 

È vero che il miliardo chiesto al prestito costa solo 37,5 milioni all’anno; mentre il miliardo chiesto all’imposta costa forse 50 milioni all’anno ai contribuenti. Ciononostante io preferisco pagare 50 milioni piuttostoché 37,5 soltanto.

 

 

Innanzi tutto io so di pagare il miliardo. Sono denari che il contribuente tedesco trarrà fuori di tasca con sforzo; e che quindi è probabile siano spesi bene. Le somme ottenute a prestito sembra costino poco ai contribuenti e facilmente sono spese o sprecate con risultato talvolta incerto. Mentre si può essere sicuri che la nazione tedesca starà con occhi aperti a guardare il modo con cui il suo sudato e costoso miliardo sarà impiegato. Vorrà toccare con mano e vedere con gli occhi le armi, le navi, le fortificazioni che le saranno costate così egregia somma. Anche il contribuente francese dovrebbe fare altrettanto; poiché, in fin dei conti, pagare 37,5 milioni all’anno in perpetuo, è lo stesso come pagare 1 miliardo subito. Forse, è la stessa cosa per chi sappia ragionare e far di conti; ma per la massa è una cosa ben diversa. Di pagare 3,75 lire all’anno di più pochi si accorgono; mentre tutti avvertono di dover pagare 100 lire di più una volta tanto.

 

 

Onde il metodo del debito eccita le spese, mentre il metodo dell’imposta le frena. Noi tedeschi non abbiamo la fortuna di vivere sotto il regime della sovranità popolare. Il potere del nostro parlamento è ben più limitato della potenza delle camere francesi. Eppure la spesa straordinaria ora progettata è in Francia via via cresciuta da 800 milioni a 1 miliardo. I deputati, sapendo che alle spese si provvede col debito e che le imposte, necessarie a pagare i relativi interessi, sono di là da venire e saranno relativamente poco sensibili (che cosa sono 37,5 milioni di nuove imposte per un bilancio di 5 miliardi?), vanno a gara a chiedere nuove spese e non a resecare quelle proposte dal governo.

 

 

In Germania invece, sebbene si sia quasi tutti d’accordo nel volere attuato il programma militare, la necessità di provvedervi con un’imposta ha spinto i deputati a studiare se forse qualche parte del programma non fosse di attuazione meno urgente. La paura di scontentare troppo i contribuenti ha indotto a limare, a ridurre. Cosicché oggi, invece di 1 miliardo e 250 milioni di lire proposti dal governo, si spenderà forse solo 1 miliardo. In Francia i contribuenti spenderanno solo 37,5 milioni all’anno; ma del miliardo di debito, forse 200 milioni avranno un’impronta vagamente elettorale. Mentre in Germania il miliardo sarà speso per fini ritenuti improrogabili dall’opinione pubblica dei contribuenti, resi meditabondi dalla necessità di pagare.

 

 

Il sistema tedesco è metodo virile di chi vuole raggiungere un fine ed è pronto a pagar subito per dimostrare che quel fine non è voluto per un’aspirazione vaga, intellettuale, ma per un bisogno concreto, imperioso. È il metodo atto a creare il controllo della spesa pubblica ed a garantire che all’onere dei contribuenti corrisponderà l’importanza del servizio reso dallo stato. Soltanto l’imposta è sana e purificatrice, perché richiama i parlamenti al loro dovere primissimo, purtroppo dimenticato nei tempi moderni, di contrastare il passo alle proposte di spese dei governi, in guisa non di impedire le spese reputate sul serio necessarie dall’opinione pubblica, ma di far cadere nel nulla quelle che hanno soltanto ragioni fittizie od elettorali.

 

 

La preferenza per il sistema tedesco non significa ancora che esso sia sovra ogni altro eccellente, né che esso possa essere adottato da solo. Nel 1870 – 71 bene avrebbe fatto la Francia a ricorrere più coraggiosamente agli inasprimenti d’imposta per salvare la patria. Ma sarebbe stato necessario un governo forte e tale non era il governo imperiale. Né, del resto, un governo forte sarebbe riuscito a trarre dall’imposta i 7 od 8 miliardi necessari. Onde si può concludere: si ricorra all’imposta fino a raggiungere la pressione tributaria massima e solo per il resto si faccia appello al credito.

 

 

Quando, s’intende, non sia possibile ricorrere ad un terzo metodo, che Germania e Francia non si sono neppure proposte; ed è quello proprio dei governi veramente forti e dei parlamenti scrupolosamente vigili: l’economia sulle spese ordinarie. I bilanci degli stati moderni, mostruosi bilanci di miliardi, celano nelle proprie pieghe tante spese inutili e prorogabili, da consentire quel risparmio di 100 o 200 milioni di lire all’anno, che basterebbe a rimborsare in pochi anni il debito provvisorio di 1 miliardo che occorresse di fare per gravi emergenze nazionali. Così fecero in Italia dopo il 1896 i ministeri che si dissero della lesina; e diedero al mondo un esempio memorabile. Darà l’Italia di nuovo esempio siffatto? Giova sperarlo, sebbene l’elogio delle economie sia oggi poco gradito ai popoli, abituati al facile spendere dal rialzo dei prezzi e dei redditi, che è caratteristico dell’età presente.

 

 

2

 

Per provvedere alle spese straordinarie è pressoché generale la opinione della opportunità di far gravare le nuove imposte sulle classi abbienti, esentandone quelle meno fortunate. Così affermò l’on. Giolitti alla camera italiana, consentendo nelle idee espresse dall’on. Alessio; e così vollero Lloyd George in Inghilterra, Wilson negli Stati uniti, ed ora i governi di Germania e di Francia. La quale concorde opinione deriva dall’essere i governanti persuasi che i piccoli redditi sono già troppo gravati dalle imposte sui consumi, sicché non presentano più alcun margine all’imposta.

 

 

La espressione «classi abbienti» non va presa in senso troppo ristretto, in guisa da comprendere solo i ricchi. Una imposta che colpisca solo i ricchi darebbe un gettito così meschino, da non poter far fronte con essa alla spesa necessaria. In Germania la nuova imposta patrimoniale colpisce tutti coloro che hanno redditi da 5.000 marchi in su (6.250 lire); ed in Italia, tenuto conto del diverso grado di ricchezza, per avere proventi apprezzabili, converrebbe cominciare almeno dalle 3.000 lire, se non forse da più basso. Tanto varrebbe, altrimenti, mettere le imposte a semplice scopo decorativo e retorico. In Germania ben a ragione si notò dal governo che le classi medie dei piccoli commercianti, industriali, impiegati, professionisti devono essere chiamate a pagare in quanto da esse partono i più vivi incitamenti alle spese belliche a cui si tratta di provvedere. Poiché vogliono la spesa, contribuiscano a pagare il conto.

 

 

Fatta la quale premessa, notisi che l’imposta auspicata, gravante sulle

classi abbienti, definite nel modo che s’è detto, si può ottenere in diverse maniere: con le imposte cosidette sui consumi, con le imposte sui redditi e con quelle sul patrimonio. In fondo tutti questi sono puri nomi, a cui corrisponde un identico contenuto. Tutte le imposte gravano e non possono non gravare sul flusso di ricchezza che ogni anno i contribuenti acquistano e destinano ai loro consumi. I legislatori ed i trattatisti si sono sbizzarriti a dare alle diverse imposte un numero incredibilmente diverso di nomi; ma facilmente si può dimostrare che tutte le imposte si convertono una nell’altra; e che il giudizio che se ne deve dare non dipende affatto dal nome che ad esse si è dato. Le imposte sui consumi, non sempre a torto, hanno un nome antipatico; ma si possono dare ottime ed eque imposte sui consumi; mentre esistono pessime imposte sui redditi, malgrado il loro nome simpatico. Qui si dirà solo come nei diversi paesi oggi si cerchi di utilizzare per i nuovi bisogni le une e le altre imposte sovra elencate.

 

 

Negli Stati uniti il presidente Wilson propone, oltre una imposta sul reddito, una riforma in senso fiscale delle imposte sui consumi. La qual riforma, sebbene conchiuda all’abolizione di molti dazi non fiscali ed all’aggravamento di taluni consumi, tutti concordemente ritengono essere utile alle classi meno fortunate.

 

 

Per non discendere a particolari tecnici ingombranti ricorderò che qualcosa di simile aveva proposto l’on. Giolitti alla fine del 1909 per gli zuccheri. Oggi i fabbricanti italiani di zucchero pagano 73 lire per quintale di imposta al fisco; ma aumentano il prezzo dello zucchero ai consumatori di 99 lire, perché tale è il dazio che dovrebbe pagare lo zucchero estero se volesse venire in Italia; onde i fabbricanti interni possono aumentare il prezzo di 99 lire, invece che delle sole 73 lire realmente pagate, essendo sicuri che non subiranno la concorrenza dei fabbricanti esteri, i quali, volendo entrare in Italia, dovrebbero pagare 99 lire. Talché essi, facendo pagare ai contribuenti-consumatori 99 lire e pagando al fisco solo 73 lire, godono la differenza di 26 lire per quintale. Suppongasi ora che il governo conservi intatte le 99 lire di dazio sullo zucchero estero; ma aumenti da 73 a 99 lire l’imposta sullo zucchero interno. I consumatori non subiscono alcun danno, perché essi già vedevano accresciuto su di sé il prezzo di 99 lire; né, dopo, il prezzo può essere accresciuto, perché altrimenti il consumo italiano si rivolgerebbe allo zucchero straniero. Il fisco, il quale oggi incassa 73 lire su 1.500.000 quintali di zucchero consumati ogni anno in Italia, incasserebbe domani 99 lire, ossia 26 lire di più per quintale ed in tutto 39 milioni di lire in più. Che cosa sarebbe accaduto? Che oggi i consumatori pagano già questi 39 milioni, ma li pagano all’industria zuccheriera italiana; e domani li pagherebbero al fisco. Senza aumentare di un centesimo l’onere dei contribuenti, il fisco avrebbe 39 milioni all’anno di più di entrata.

 

 

S’intende che tutto ciò non può farsi di un tratto; né il signor Wilson negli Stati uniti vuol togliere d’un colpo alle industrie tutta la protezione di cui godono. Da uomo sensato, procede a gradi. Né il metodo seguito è sempre quello sovra indicato; per lo più anzi consiste nel processo inverso: di lasciare stare l’imposta interna a 73 o magari ridurla, e di ridurre a grado a grado il dazio doganale da 99 a 73; avvantaggiando i consumatori subito per il ribasso di prezzi ed alla lunga anche il fisco per l’aumento del consumo soggetto a tassa.

 

 

Sono molte le imposte sui consumi che possono essere utilizzate anche volendo escludere il carico sulle classi diseredate: in Francia oggi si aumentano le tasse sugli spiriti; e così pure fece Lloyd George in Inghilterra in occasione del suo famoso bilancio. Anche in Italia l’on. Luzzatti aumentò di 70 lire per ettanidro le imposte sugli spiriti; ed altre diecine di milioni potrebbero ancora estrarsi da questo balzello. Il quale per definizione non grava sulla povera gente. Può dirsi in fatto disagiato e vero proletario colui il quale consuma i propri redditi in bevande alcooliche?

 

 

Il consumo di servitori, cani, cavalli, carrozze, automobili, divertimenti, giuochi, teatri, cinematografi, ecc. ecc., può offrire largo campo alla tassazione; e solo un pregiudizio di nomenclatura può far parere condannabili queste imposte, le quali invece sono le ottime fra tutte, o quelle che meglio attuano i postulati della più pura eguaglianza tributaria.

 

 

Paiono tra loro profondamente dissimili i due altri tipi di imposta che all’estero si vanno escogitando nel momento attuale per far fronte alle crescenti spese: l’imposta sul patrimonio tedesco e l’imposta sul reddito americano. I pappagalli tributari italiani sono rimasti perplessi, né sanno quale delle due sia più «moderna» e preferibile. Probabilmente finiranno coll’invocare l’attuazione di ambedue, a maggior gloria dello spirito d’imitazione della classe politica italiana.

 

 

Sia consentito umilmente di notare che noi in Italia possediamo un’imposta sul reddito – volgarmente conosciuta sotto il nome di imposta di ricchezza mobile – che teoricamente è assai più perfetta della nuova imposta americana sul reddito del Wilson ed anche della famosa inglese income tax e praticamente più adatta alle nostre abitudini dell’imposta tedesca sul patrimonio.

 

 

In che cosa invero differiscono una imposta sul reddito ed una sul patrimonio? Facciamo un caso semplice per non imbrogliare il problema. Una imposta uniforme del 10% sul reddito porta via 500 lire all’anno, tanto a Tizio, capitalista proprietario di un patrimonio di 100.000 lire che rende 5.000 lire all’anno, quanto a Caio, industriale, la cui azienda vale 50.000 lire e rende altresì 5.000 lire all’anno, quanto ancora a Sempronio, professionista, che non ha alcun capitale e che col lavoro suo guadagna 5.000 lire all’anno. Di questo tipo è la imposta americana Wilson – salvo il fatto che l’aliquota è solo dell’1% per i redditi superiori a 20.000 lire (gli inferiori sono addirittura esenti) e sale al massimo del 4% per la parte di reddito che sta sopra le 500.000 lire all’anno – e di questo tipo è stata, fino ad una recentissima riforma del signor Asquith, la celebre imposta inglese sul reddito (income tax). Ognun vede che, malgrado cotali illustri esempi, l’imposta è grossolana e viziosa. Tizio, Caio e Sempronio hanno bensì lo stesso reddito apparente di 5.000 lire; e può sembrare che sia corretto far pagare 500 lire d’imposta ad ognun di essi. In realtà il loro reddito effettivo è ben diverso. Tizio ha un reddito non solo apparente, ma benanco effettivo di 5.000 lire, perché egli, possedendo già un capitale di 100.000 lire, impiegato in modo sicuro al 5%, è certo di avere per sé ed i suoi figli, nonostante malattie, vecchiaia e morte, le 5.000 lire di reddito. Caio, industriale, ha un’azienda che vale solo 50.000 lire, perché si sa che il reddito di 5.000 lire all’anno diminuirebbe assai il giorno in cui egli ammalasse o per vecchiaia fosse impotente al lavoro o morisse. Egli, se vuole provvedere che in queste contingenze il suo reddito non diminuisca troppo e la sua famiglia non si trovi nelle strettezze, dovrà ogni anno risparmiare 1.000 – 2.000 delle 5.000 lire del cosidetto suo reddito di 5.000 lire, il quale si ridurrà quindi a 4.000 o 3.000 lire effettive. Ancor più dovrà risparmiare il professionista, che non possiede alcun capitale e tutto il suo reddito trae dal lavoro. Se egli ammala od invecchia o muore, senza avervi provveduto col risparmio, cessa del tutto di avere reddito. Quindi per lui il vero reddito non è di 5.000 lire, ma solo di 3.000 lire o forse meno. Reddito non è ciò che si potrebbe spendere rimanendo domani nell’inopia e decadendo ad una situazione sociale inferiore; ma è ciò che si può spendere, dopo aver provveduto all’avvenire. Od almeno, ove non si vogliano fare questioni di parole, reddito imponibile agli effetti delle imposte sul reddito non possono essere le 5.000 lire in tutti i tre casi, ma le 5.000 per Tizio, le 4.000 per Caio e le 3.000 lire per Sempronio. Le imposte, come quella americana del Wilson o quella inglese prima dell’Asquith, le quali non tengono conto della differenza tra redditi apparenti e redditi effettivi, sono gravemente scorrette.

 

 

La nostra imposta di ricchezza mobile, la quale, checché dicano i pappagalli, è una imposta sul reddito sotto certi rispetti assai meglio congegnata delle straniere – i suoi difetti sono tutti pratici e stanno nell’altezza inverosimile della aliquota (20%) e nella tenuità eccessiva delle esenzioni e minorazioni d’imposta – ha rimediato, fino dal 1864, ai difetti delle imposte americana ed inglese, distinguendo i redditi in tre (divenute poi cinque) categorie fondamentali, corrispondenti per l’appunto ai redditi di Tizio, Caio e Sempronio. Tizio, capitalista, paga l’imposta sui 40/40 (interessi di mutui ad enti pubblici) o sui 30/40 (interessi di mutui a privati) del suo reddito; Caio, industriale o commerciante, paga solo sui 20/40 e Sempronio, professionista od impiegato, sui 18/40 (professionisti ed impiegati privati) o sui 15/40 (impiegati pubblici) del reddito. Cosicché l’impiegato pubblico con 5.000 lire di reddito, in Italia paga il 20%, che è  l’aliquota generale dell’imposta, solo sui 15/40 di 5.000 lire, ossia su 1.875 lire, rimanendo 3.125 lire immuni da imposta. Il guaio si è  che l’aliquota italiana è del 20%, e quindi Sempronio, pur pagando il 20% solo sui 15/40 del suo reddito, paga sempre assai: il 7,50% su tutto il suo reddito. Ma è un difetto pratico. Ove si riduca l’aliquota, il sistema è eccellente.

 

 

In, Germania, volendo raggiungere il medesimo intento di tassare – a parità di reddito apparente – maggiormente Tizio, capitalista, che Caio, industriale, e più questi di Sempronio, professionista od impiegato, hanno preferito adottare un altro sistema: l’imposta patrimoniale: ossia l’imposta stabilita in ragione del valore del patrimonio o del capitale posseduto dal contribuente invece che del suo reddito. Riprendendo l’esempio già fatto, sia l’aliquota del 0,50% del patrimonio. Tizio, capitalista, che possiede un patrimonio di 100.000 lire, il quale frutta 5.000 lire all’anno, pagherà il 0,50% di 100.000 lire, ossia 500 lire, e Caio, industriale, pur avendo un ugual reddito di 5.000 lire, pagherà il 0,50% solo su 50.000 lire, perché tale è  il valore capitale della sua azienda; ossia pagherà 250 lire. Sempronio, a primo aspetto, con un’imposta sul patrimonio non dovrebbe pagar nulla, perché egli è un professionista senza capitale e vive dei frutti del suo lavoro. Per non mandarlo del tutto indenne dall’imposta, il legislatore tedesco ha fatto un’ipotesi: che ai redditi di lavoro corrisponda un patrimonio personale. Sempronio guadagna 5.000 lire all’anno ed il suo lavoro, la sua perizia professionale, la sua intelligenza hanno un valore, che era fissato sul mercato al tempo della schiavitù e che ora non ha più i suoi listini di borsa solo perché la schiavitù è  abolita. Ma il legislatore tedesco stima questo valore moltiplicando, ad esempio, per 6 il reddito di 5.000 lire; onde il patrimonio personale tassabile di Sempronio viene valutato in 5.000 lire per 6 e cioè in 30.000 lire. Egli pagherà perciò il 0,50% di 30.000 lire, ossia 150 lire. Ecco come il sistema tedesco giunge allo stesso risultato a cui per altra via (della tassazione dei 40, 30, 20, 18 e 15 quarantesimi del reddito) arriva l’italiana imposta di ricchezza mobile di far pagare il massimo al capitalista puro, una cifra media all’industriale ed al commerciante che impiegano capitale misto a lavoro e il minimo al professionista ed al lavoratore, che vivono di puro lavoro.

 

 

Naturalmente i tre metodi schematici ora descritti comportano una quantità di variazioni: le aliquote, invece di essere proporzionali, possono essere progressive, ossia crescenti col crescere del reddito o del capitale; le categorie invece di essere 5, come in Italia, possono essere, nell’imposta sul reddito, solo due, come accade, dopo la riforma di Asquith, in Inghilterra, dove grossolanamente e empiricamente si distinguono solo i redditi di lavoro da quelli di capitale, senza tener conto della categoria intermedia dei redditi misti di capitale e di lavoro (industria e commercio) che ben a ragione il legislatore italiano tassa in misura intermedia.

 

 

Qui si è voluto porre in evidenza che la imposta tedesca sul patrimonio non è una novità peregrina, né risponde per se stessa ad alcun principio astratto di giustizia tributaria. È un metodo tecnicamente ritenuto preferibile in Germania per attuare il criterio di tassare i redditi di capitale più dei redditi di lavoro. Ben fecero in Germania a seguire quel metodo, poiché da tempo sono ivi assuefatti alle imposte patrimoniali; e la tecnica tributaria è in grado di valutare, anzi ha già valutato, ai fini di imposte patrimoniali esistenti nella maggior parte degli stati tedeschi, il patrimonio dei contribuenti.

 

 

Altrove è dubbia l’opportunità di usare un tale strumento tecnico. In paesi, come l’Italia e l’Inghilterra, dove le imposte esistenti colpiscono i redditi, è opportuno, ove si vogliano aumentare in modo permanente o straordinario i tributi, valersi dei congegni già noti, i quali sono altrettanto buoni come il congegno tedesco. Ed è opportuno perché  il fisco conosce già i redditi e via via ha riparato in parte alle frodi dei contribuenti ed ai propri errori di valutazione – in parte solo, essendo noto come la perfezione in queste faccende difficilmente si raggiunga – mentre il fisco da noi non conosce affatto i patrimoni; e per conoscerli dovrebbe compiere un nuovo tirocinio di qualche diecina d’anni, durante il quale le evasioni sarebbero troppo grandi. Val la pena di provocare le frodi, solo per cambiare il nome alle vecchie imposte, le quali sono sempre imposte sui redditi, sebbene dicansi sui patrimoni?

 

 

Il problema che dovrà risolvere il legislatore italiano il giorno in cui vorrà affrontare il problema della riforma tributaria è ad un tempo più semplice e più arduo di quello che si tenta di risolvere oggi altrove.

 

 

Più semplice, perché, possedendo noi già una compiuta imposta sui redditi che danno le diverse cose (terreni, fabbricati e ricchezza mobile) le quali sono produttive di reddito per le persone, basterà sommare quei redditi separati, e tassarli con un’imposta aggiuntiva (che può prendere il nome di imposta di famiglia, come a Milano, globale o complementare, come nei progetti francesi, sovrimposta come nella supertax inglese di Lloyd George) quando la somma dei redditi raggiunga, ad esempio, le 2.000 lire sterline all’anno, nette da spese e gravami d’ogni sorta, quote di assicurazione, ecc. ecc. I redditi da sommare dovranno essere quelli imponibili, ossia già ridotti, con la regola sovra descritta dei quarantesimi, da apparenti ad effettivi e depurati inoltre delle imposte particolari già pagate. L’imposta nuova o meglio la sovrimposta sarà moderatamente progressiva, ad esempio, dal 0,10% per i redditi di due o tre mila lire, al 5% per i redditi da 100.000 lire in più, avrà sovratutto per effetto di educare le classi dirigenti – ed oggi in Italia bisogna intendere per classi dirigenti non solo l’alta borghesia industriale, commerciale e redditiera,che dovrebbe pagare i tassi massimi, ma anche la media borghesia del commercio, delle professioni liberali e degli impieghi pubblici, che dovrebbe pagare i tassi medi, ed una parte ancora della piccola borghesia la quale aspira agli impieghi pubblici minori, e dei gradi più alti dei salariati pubblici e privati (operai) i quali ricevono paghe superiori, durante l’anno intiero, al minimo esente; e questi pagheranno i tassi minimi -; avrà per effetto, dico, questa sovrimposta sulla somma dei redditi, ora già tassati separatamente, di educare le classi dirigenti al pensiero che il conseguimento dei fini pubblici costa; e che non si può chiedere nessun nuovo servizio allo stato, sia un nuovo ramo di legislazione sociale, sia un aumento nella flotta o nell’esercito, sia una conquista coloniale, senza pagarne il costo mercé  un immediato aumento nella sovrimposta sul reddito complessivo. A parer mio l’imposta sul reddito complessivo è teoricamente imperfetta dal punto di vista della uguaglianza tributaria, per ragioni che qui sarebbe troppo lungo dire; ma è politicamente utile perché è mezzo assai efficace per persuadere le classi dirigenti della necessità del controllo della spesa pubblica. Che è quasi la sola ragion d’essere, ora troppo dimenticata, dei governi parlamentari.

 

 

Ma il problema è, d’altro canto, arduo per il legislatore italiano per due motivi: 1) perché una sovrimposta nuova dal 0,10 al 5% può essere fiscalmente feconda in un paese, come l’Inghilterra, dove essa si aggiunge ad imposte sui redditi separati tenui, tali che non superano il 6 – 8%, ma è di difficile applicazione in un paese dove quelle imposte separate già vanno dal 20% per i redditi mobiliari al 50% per una parte dei redditi dei fabbricati; 2) perché per colpire la somma dei redditi separati bisogna prima conoscere questi redditi separati; il che in Italia non accade per una buona parte dei redditi stessi.

 

 

Quindi il compito più urgente del fisco nel momento in che si applicherà la nuova sovrimposta sulla somma dei redditi dovrà essere quello di accertare meglio i redditi, in guisa da poterli conoscere e tassare sul serio. Il migliore accertamento si otterrà per molte maniere, tra cui sarà forse non priva di efficacia la attenuazione dell’altezza eccessiva delle attuali imposte sui redditi singoli o separati delle cose. Sembra certo invero che solo con più tenui aliquote e con accertamenti più rigorosi e meglio adatti alla materia imponibile si possa crescere il provento delle attuali imposte e rendere nel tempo stesso feconda la nuova sovrimposta sul reddito globale.

 

 

S’intende che a riuscire nell’intento gioverà anche moltissimo che cresca la materia imponibile, ossia aumentino i redditi degli italiani. Al qual proposito non pare fuor di luogo ricordare che, fra tutti gli odierni riformatori tributari, acquisterà, ove vinca la battaglia intrapresa, fama imperitura il solo presidente Wilson, come quello che non soltanto avrà istituito l’imposta sul reddito, ma colla riforma doganale in senso liberista avrà dato un impulso grandioso all’aumento della ricchezza nazionale e quindi della massa dei redditi da assoggettare in futuro ad imposta. Auguriamoci che il suo nome possa rimanere scritto nella storia della finanza accanto a quelli di Roberto Peel e di Camillo di Cavour.



[1] Con il titolo Imposta straordinaria o debito pubblico? Il contrasto tra i metodi francese e tedesco [ndr].

[2] Con il titolo Imposte sul reddito e imposte patrimoniali. Confronti tecnici stranieri ed italiani [ndr].

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