Opera Omnia Luigi Einaudi

In difesa dei monumenti e del paesaggio

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1948

In difesa dei monumenti e del paesaggio

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 634-636

 

 

 

Avendo avuto notizia di un primo cominciamento ai lavori di un aeroporto militare a Ravenna, inviai un ufficiale della Casa militare presidenziale per riferire sull’unito questionario.

 

 

1)    In quel di Ravenna si costruisce un aerodromo?

 

2)    È una cosidetta sovrastruttura?

 

3)    A spese di chi nel caso specifico è costruita?

 

4)    Chi sono coloro che adesso vi lavorano o sovraintendono?

 

5)    A quale distanza precisa in linea d’aria è costruito l’aerodromo dalla chiesa di San Vitale?

 

6)    Da altri monumenti? Sant’Apollinare in Classe? Altri?

 

7)    In quali condizioni statiche è San Vitale? Quale fondamento hanno le notizie dei giornali intorno alla sua situazione pericolante?

 

8)    Sono possibili guarentigie tali da evitare pericoli derivanti ai monumenti dalla vicinanza dell’aerodromo?

 

9)    Chi sarebbe il responsabile dell’osservanza di tali norme? Se un civile, quale autorità avrebbe sui militari dirigenti l’aerodromo?

 

 

6 marzo 1954.

 

 

In seguito alla relazione sul questionario, ed a un colloquio col ministro della difesa, on. Taviani, fu inviata allo stesso ministro una lettera.

 

 

Il colloquio dell’altro giorno, nel quale avevo appreso con gioia, come le sue opinioni e i suoi propositi fossero contrari alla prosecuzione dei lavori dell’aeroporto di Ravenna, mi farebbero ritenere superflua una mia insistenza in proposito. Ma non vorrei che talune parole venutemi fuori in recenti occasioni spontanee ed apertamente contrarie all’esecuzione del disegno potessero essere interpretate anche lontanamente quasi fossero una critica alle decisioni dell’autorità militare e del N.A.T.O. La critica va invece rivolta generalmente a talun principio accettato nella legislazione e nella consuetudine in materia di opere pubbliche militari e civili.

 

 

Sembra infatti che, nella scelta dei terreni adatti a siffatte opere, debba avere rilievo, talvolta decisivo, la natura demaniale dei terreni; gratuità di essi, prezzo relativamente basso dei terreni privati che si debbono espropriare per completare l’opera, basso perché di solito i terreni demaniali si trovano in località a cultura estensiva, e perché ivi è scarso il numero dei proprietari espropriandi.

 

 

Il criterio non ha alcun fondamento; ché i terreni demaniali non sono mai gratuiti per lo stato che li usa senza pagarne il prezzo a se stesso; bensì hanno il preciso costo del miglior prezzo che potrebbe ottenersi dalla loro utilizzazione economica; ed i terreni privati espropriati hanno «per la collettività» il costo del miglior prezzo che certamente otterrebbero se i vicini terreni demaniali fossero meglio utilizzati. Se si guarda all’interesse collettivo, nessun altro criterio può essere accolto, per le valutazioni, fuor di quello consacrato dalla legge italiana fondamentale del 1865; e cioè «nei casi di occupazione totale, il giusto prezzo che avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita» e «nei casi di occupazione parziale, la differenza tra il giusto prezzo che avrebbe avuto l’immobile avanti l’occupazione e il giusto prezzo che potrà avere la residua parte di esso dopo l’occupazione»; e quando dice «libera contrattazione» la legge si riferisce evidentemente ad un mercato normale nonché ad un venditore e ad un compratore ambi disposti a vendere e a comprare. Tutti gli altri criteri, fra i quali famigerato e primo quello della cosidetta legge di Napoli, sono erronei; in primo luogo perché è sempre dannoso nell’interesse pubblico contravvenire al settimo comandamento il quale ordina di non rubare; ché, anche per lo stato, la farina rubata va in tanta crusca; e l’appropriarsi di qualcosa a sottoprezzo inevitabilmente porta a farne cattivo uso con perdita di produzione e quindi di occupazione.

 

 

Spetta al legislatore e alle autorità civili di dare alle autorità militari istruzioni diverse da quelle esplicitamente o tacitamente ora impartite; la scelta, ad esempio, dei terreni adatti ad aeroporti deve fare astrazione da immaginarie gratuità e da falsi costi; ma tener conto invece della idoneità allo scopo e dei costi veri. Non ha importanza pagare contabilmente poco il terreno. Se il terreno vale di più la perdita per l’uso sbagliato andrà in qualche modo a carico della collettività.

 

 

Fatta la scelta del terreno, si deve, sì e rispettosamente, prendere atto dei propositi dell’autorità militare di eliminare ogni possibile danno alla basilica di Sant’Apollinare in Classe, col dare affidamento che l’attività degli aviogetti sarà limitata alla zona a sud della pista e sarà fatto assoluto divieto di sorvolo sulla zona a nord. Ma ciò non assicura: nessuna autorità militare o civile potrà mai dare assicurazione assoluta, al cento per cento, per ora e per tutti gli anni, i decenni od i secoli in cui l’aeroporto di Ravenna sarà utilizzato, che mai di fatto l’attività degli aviogetti sarà limitata alla zona a sud della pista e che mai nessun aereo, in qualsiasi condizione meteorologica od altra, sorvolerà di fatto la zona a nord.

 

 

Basta la impossibilità morale di siffatta assicurazione a dimostrare, se pur importasse prenderne atto, la illiceità dell’aeroporto progettato. Ma prenderne atto non si può; ché, quod Deus advertat, in tempo di guerra la basilica sarebbe immancabilmente e senz’altro distrutta.

 

 

Rimangono, quindi, a suffragare il proposito dell’opera, l’urgenza del costruire e la perdita finanziaria del non costruire, che ha visto diversamente valutata, in documenti a me rammostrati da cento a trecentocinquanta milioni di lire. Ma né la perdita di tempo né quella del denaro – fosse questa anche dell’ordine del miliardo – hanno un peso qualsiasi in confronto alla scomparsa, sia pure ipotetica, della basilica ravennate.

 

 

Esistono al mondo due grandi monumenti dell’arte bizantina: Santa Sofia di Costantinopoli e Sant’Apollinare in Classe di Ravenna. In un tempo, nel quale i turchi hanno tolto al culto maomettano la basilica illustre, trasformandola in museo, ed hanno compiuto e compiono restauri costosi per ridurla all’antico aspetto, è immaginabile che l’Italia faccia correre, anche solo ipoteticamente, pericolo di rovina all’altro grande monumento superstite dell’arte dell’impero romano d’oriente? Quale giudizio darebbero le generazioni venture degli uomini di governo – a partire dal presidente della Repubblica – i quali non avessero impedito, senza curarsi delle conseguenze, siffatto scempio?

 

 

31 marzo 1954.

 

 

Dopo quelle verbali del ministro della difesa vennero anche le assicurazioni del ministro della pubblica istruzione, on. Gaetano Martino.

 

 

Caro presidente,

 

 

Le esprimo la mia viva gratitudine per la lettera che Ella si è compiaciuta di inviare al ministro della difesa a proposito dei lavori dell’aeroporto di Ravenna.

 

Mi è caro assicurarLa che il ministro Taviani ha ormai abbandonato il noto progetto, che tanta preoccupazione aveva destato per la salvaguardia della basilica ravennate di Sant’Apollinare in Classe.

 

Quanti serbano amore alle patrie memorie e agli insigni monumenti che le testimoniano, gioiranno di una tale determinazione del governo.

 

Accomunandosi ad essi, Le confermo, caro presidente, i sensi del mio animo grato per la ferma ed appassionata parola che Ella ha voluto portare nella delicata questione.

 

 

Con cordiale ossequio

 

 

G. MARTINO

 

 

Talune campagne contro ruderi ingombranti diedero luogo ad un appunto inviato al ministro alla pubblica istruzione.

 

 

È mia impressione si debba meditare a lungo prima di dare il consenso a qualche altro di quei misfatti architettonici che, purtroppo, si vanno moltiplicando nelle nostre città col proposito di renderle in tutto simili ad una qualunque agglomerazione cittadina modernissima, sicché a nessun forestiero passi più per la mente il desiderio di visitarle.

 

 

La campagna giornalistica muove per lo più a Torino dalla contemplazione di un muro detto delle ex scuderie in piazza Carlo Alberto. Si afferma che quel muraglione non ha nulla di storicamente artistico ed importante e potrebbe perciò benissimo essere abbattuto allo scopo di allargare la piazza. Osservo che l’allargamento risponde alla mania del vuoto che ha determinato in tanti luoghi lo scempio di ricordi storici importanti. Non esiste nessuna necessità di allargare la piazza Carlo Alberto la quale, là dove si trova, è ampia quanto occorre. Non urge affatto abbattere il muro delle scuderie di casa Carignano innanzi tempo; e, caso mai, il tempo verrà quando si sappia che cosa si vuole costruire nello spiazzo disponibile fra il detto muro e la via Bogino. Da mezzo secolo sento discorrere della opportunità di collocare in quel luogo la Biblioteca nazionale che oggi si trova a disagio in una parte del palazzo universitario; ne sento parlare sin dal famoso incendio distruggitore di tanta parte della preziosa suppellettile bibliografica di quella biblioteca. Credo esista persino una legge o qualcosa di simile che ha consacrato quello spazio alla nuova biblioteca ed esisté un tempo un fondo accantonato in qualche bilancio allo scopo della costruzione dell’edificio. Poi il trasporto, che era davvero, ed è ancora, urgentissimo, della biblioteca non si fece. Col tempo, ed aiutando la svalutazione monetaria, i fondi divennero evanescenti e, lo spazio disponibile parve offerto al primo venuto, sicché i progetti di utilizzazione si moltiplicarono, pur rimanendo sempre la destinazione a biblioteca l’ottima fra tutte. Certo è che, finché non si sia deciso che cosa fare dello spazio libero, finché non siano approntati i progetti, finché non siano disponibili le non poche centinaia di milioni occorrenti a far qualcosa di veramente degno ed utile è veramente grottesco parlare dell’abbattimento del muro delle ex scuderie della ex casa Carignano. Il muro sarà ottocentesco; non sarà un capolavoro, ma a Torino abbiamo così pochi ricordi del passato che non vedo davvero la ragione per la quale non si debba tentare di inserire quel resto di muro, che non va oltre ad un bel piano di terreno, in un edificio il quale non stoni per la sua sgarbata modernità con la facciata ottocentesca del palazzo Carignano su piazza Carlo Alberto e con la assai più bella facciata settecentesca di palazzo Graneri in via Bogino.

 

 

Già si è gravemente sconciata, nonostante le mie tempestive rispettose proteste, quella stessa via Bogino. Era una bella via tra il sei e l’ottocento, chiusa a cul di sacco da una parte, quasi un’oasi nel centro di Torino e si colse il destro, non ricostruendo il palazzo di fondo, di attaccarla con una via moderna senza capo né coda: se non erro, via Rattazzi, allo scopo di ubbidire ad un’altra mania contemporanea che è quella di far correre per le strade della città autocarri veloci e fragorosi. Tutto ciò per ubbidire ad una terza mania la quale comanda di abolire in Torino ciò che costituisca una variante al sistema delle strade parallele intersecantesi ad angolo retto. Il sistema ereditato dalla città quadrata romana è ammirabile, purché non diventi universale e consenta qualche eccezione. L’eccezione di via Bogino era stupenda, ma, offendendo la regola, è stata eliminata cosicché i veicoli possono oggi avere senza alcuna necessità una nuova strada disponibile per rendere inabitabile la città.

 

 

All’urgenza di distruggere il muro delle scuderie di piazza Carlo Alberto i giornali aggiungono ora l’urgenza di abbattere altri ruderi che si dice guastino la città, e si cita una casa di Monsù Pingon che si dice falsa ed una casa detta del Tasso, dove si allega che il Tasso abitò appena pochi mesi. Case e ruderi sarebbero scrostati, sporchi, ricettacolo di immondizie e via dicendo. Qui è da distinguere fra il rudere e la sua sporcizia: la quale non ha niente a che fare con la conservazione o meno del rudere medesimo. Se un rudere esiste, spetta a qualcuno di mantenerlo pulito e di difenderlo dalle ingiurie dei vandali noncuranti della storia del passato. Quanto ai ruderi, direi che a Torino ne esistano assai troppo pochi e quei pochissimi debbono essere difesi con tutta la energia che le sovraintendenze alle antichità e belle arti posseggano. Si legge persino che la casa del Tasso, fatiscente e scrostata, dovrebbe essere a cura delle sovraintendenze grattata un altro po’ per vedere se sotto sotto non ci sia qualche cosa di prezioso; ché, se fossero soltanto mattoni e sassi, bisognerebbe affrettarsi a buttarla a terra perché, da quanto pare, essa è un ingombro per non si sa quale piazza inutile o quale orrendo edificio moderno destinato fra venti anni a turbare la vista dei passanti o qualche attraversamento di carrozzoni tranviari o di automobili; ché dovrà pur venire presto il giorno di doverli vietare del tutto nel centro delle città se non si voglia rendere questo inaccessibile ai cittadini. Se una casa è fatiscente e scrostata e sudicia, ma sia pure soltanto per qualche mese vi abitò il Tasso, il rimedio non sta nell’abbatterla, ma nel conservarla senza toccare in nulla la sua indole antica. Pare che in Italia tutti siano presi dalla smania di ripetere il delitto atroce del «centro» di Firenze. Quando i «centri» di quel tipo si siano moltiplicati tra noi, che cosa resterà delle nostre città?

 

 

Mi accadde di abitare or sono dieci anni per parecchi lunghi mesi a Basilea e, camminando per le vie, meravigliavo di vedere nei vecchi quartieri, sulla porta di case anche modeste, iscritte date curiose: 1356 – 1478 – 1516 ecc. ecc. su case le quali, a vista, parevano pitturate, anzi verniciate, il giorno prima. Assunte informazioni, seppi che si trattava di case e soprattutto di casette di scarse dimensioni e modesto rilievo architettonico, la cui data di costruzione rimontava appunto a quegli anni, e che l’ufficio edile della città faceva obbligo ai proprietari di conservare le case nello stile e con le tinte antiche senza alcuna variante. Non solo, ma lo stesso ufficio edile, ansioso di impedire le contraffazioni, faceva divieto alle case nuove di scimmiottare stile e tinte di facciate e di persiane antiche, sicché tutti i passanti potessero, anche senza guardare la data orgogliosamente iscritta sempre sulla porta di casa, accorgersi a quale epoca risalissero le case della città vecchia.

 

 

Auguro che le sovraintendenze alle antichità e belle arti resistano in tutte le città italiane alla improntitudine con la quale si chieggono ogni giorno abbattimenti e spostamenti e allargamenti e che non si tenga nessun conto di artificiose campagne intese a confondere cose diverse come lo sporco ed il vecchio, quasi che le sporcizie non potessero esser tolte ed il vecchio non potesse esser restaurato.

 

 

5 dicembre 1954.

 

 

Una breve dimora a Posillipo mi fece subito persuaso che una campagna condotta in quei giorni dai fogli napoletani contro «La pioggia del cemento» non era una invenzione giornalistica e mi fece scrivere una lettera all’amico Villabruna, ministro all’industria.

 

 

Siamo stati una decina di giorni nella villa Rosebery a Posillipo e mia moglie appena entrata in casa ha creduto bene di fare qualche rimostranza per la polvere che abbondantemente vedeva su tutti i tavoli e i mobili e pareva antica di un mese. Le fu fatto osservare che la polvere non veniva tolta una volta al mese ma due volte al giorno e sempre si riproduceva.

 

 

Poi si fecero altre constatazioni curiose. Avevo aperto il giornale e dopo pochi minuti le mie dita non incontravano più carta pulita, ma polvere sabbiosa. Alzando gli occhi, improvvisamente mi parve che una certa massa stupenda di pini non avesse più il colore solito ma si presentasse di tinta grigiastra talché per un istante li scambiai per ulivi. Guardando in basso sulle foglie degli arbusti e delle piante ornamentali di nuovo incontrammo lo strato di polvere. Chieste notizie al giardiniere si seppe che tutti gli abitanti di Posillipo e dei Campi Flegrei erano in istato di allarme: l’uva divenuta invendibile a causa dello strato di polvere che vi era depositata e così tutte le frutta; imbruttiti e appassiti i fiori e minacciata la vegetazione.

 

 

Poiché l’attenzione era richiamata sul fenomeno si vide che ogni pomeriggio all’incirca attorno alle ore 18 una nube spessa giallastra dalla zona di Pozzuoli Bagnoli andava verso il Vesuvio e rendeva l’orizzonte fosco. Nelle altre ore il vento sembra rivolga la nube a danneggiare altre zone.

 

 

Andati ai Camaldoli, che come sai è la più stupefacente veduta dei golfi di Napoli e di Baia, la vista in basso parve nascosta da una nube estesissima sotto la quale non si sa come possano vivere gli abitanti di quella zona.

 

 

Appurati i fatti, la voce pubblica accusò una nuova fabbrica di cemento che pare sia sorta da circa tre mesi nella zona di Pozzuoli, dicesi ad iniziativa di qualche azienda dell’I.R.I., fabbrica la quale avrebbe aggiunto la sua alla polvere di fumo che già infestava, ad opera di stabilimenti più antichi, quella zona.

 

 

Essendo andati a visitare il Museo di Pesto ed i nuovi scavi colà operati, si vide che anche quella riva era guasta dalla stessa malattia ad opera di un’altra fabbrica di cemento che laggiù ci si disse essere sorta ad iniziativa dell’Italcementi. Ma il vento sembra che non abbia ancora danneggiato Amalfi e Sorrento, rivolgendo la nube al di là di Salerno.

 

 

Benedetto Croce usava raccontare una storiella relativa alla creazione del mondo. «Nostro Signore dopo avere assiduamente lavorato per sette giorni tra i due golfi di Napoli e di Baia, riposando al settimo giorno, pensò che quel luogo, se era stato per la sua bellezza adatto all’opera sua di creatore, non poteva essere lasciato in dono ai semplici umani e progettò di chiudere l’opera distruggendo i luoghi in cui aveva posto temporanea dimora. Poi, per le rimostranze degli arcangeli e degli angeli e dopo più matura riflessione, si decise a lasciare sopravvivere quel portento di natura ma a guisa di compenso volle temperare il dono e vi provvide facendo nascere in quel paradiso i napoletani». Croce, napoletanissimo, raccontava la storiella in tono scherzoso per accennare, accanto alle molte virtù, ad alcuni difetti dei suoi conterranei. Io temo molto che, se Croce fra una generazione tornasse a vivere rivedrebbe forse ancora qualche napoletano superstite dei suoi tanto bravi e tanto laboriosi concittadini, ma non più la sua Napoli distrutta dalle esalazioni micidiali della zona industriale. Né potrebbe ricevere le consuete visite di studiosi stranieri i quali rifuggirebbero dall’avvicinarsi ad una Napoli divenuta coi suoi dintorni terra bruciata.

 

 

Credo il problema davvero meriti di essere seriamente considerato. Questa del fumo e della polvere intollerabile che esce fuori dalla zona industriale di Pozzuoli e dalle altre che ad imitazione sua stanno via via sorgendo in quei luoghi è una prova del disprezzo protervo che troppe imprese industriali private e pubbliche dimostrano verso l’interesse pubblico. Devono certamente esistere dispositivi tecnici grazie ai quali è possibile ridurre al minimo i danni del fumo e della polvere. I dispositivi costano per spese di impianto e di esercizio, ma non è lecito a coloro che godono i profitti o prediligono le perdite sperate o temute nelle industrie, liberarsi da quei costi solo perché essi sono sopportati da altre categorie di cittadini. Temo assai che, se non si pone rimedio al malanno, i danni subiti dall’agricoltura e soprattutto dall’industria dei forestieri saranno notevolmente maggiori dei profitti di quella alla quale si usa attribuire erroneamente, ad esclusione di altre, la qualità di industria, sicché la collettività subirà una perdita netta. Il problema, è vero, non è proprio soltanto di Napoli; ma l’imbruttimento di una contrada, che si poteva dire veramente benedetta da Dio, dura da troppo tempo in mezzo al plauso degli inconsapevoli ed è stato negli ultimi mesi aggravato oltre ogni misura del tollerabile, perché non si debba compiere d’urgenza ogni sforzo per convincere i responsabili a porre termine al mal fatto.

 

 

29 luglio 1954.

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