Opera Omnia Luigi Einaudi

In difesa della scienza delle finanze

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1934

In difesa della scienza delle finanze

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1934, pp. 93-99

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 308-314

 

 

 

1. – Sento, sebbene non ne abbia visto traccia in scritture pubbliche, correre nuovamente una solfa, frusta per la ripetizione che ogni tanto se ne fa da cinquant’anni, ossia da quando quell’insegnamento fu introdotto nelle facoltà giuridiche universitarie, la quale dice: delle due parti in cui è diviso il titolo della “scienza delle finanze e diritto finanziario”, soltanto la coda “diritto finanziario” ha un contenuto, ma il capo, ossia la “scienza delle finanze” quando non consista di chiacchiere, è un capitolo, breve capitolo, della “economica” o di quella parte della economica la quale in Italia ha assunto il nome di “politica economica”.

 

 

2. – A scopo di perditempo, qualunque tesi può essere sostenuta. Quella sopra enunciata è certamente contennenda. Supponiamo che, per volontà delle facoltà giuridiche italiane e degli istituti superiori economici, la scienza delle finanze sia abolita e rimanga il solo diritto finanziario. Poiché il diritto costruisce il sistema delle norme giuridiche positive vigenti in un determinato paese e tempo, gli insegnanti di diritto finanziario dovrebbero volgere la loro attenzione alla sistematica del diritto vigente in Italia nel campo finanziario. Dovremmo contemporaneamente far diventare da annuo biennale o da biennale triennale il corso di economica, o, laddove esiste, quello della politica economica, allo scopo di dar modo all’economista di occuparsi oltreché della teoria dei prezzi, di cui tradizionalmente egli si interessa, anche di quella dei prezzi pubblici o politici e delle imposte e tasse e contributi. Abolizione accademica della scienza che si occupa di queste teorie, non vuol dire abolizione del processo di teorizzazione intorno a quei fatti, ma solo trasposizione dell’ufficio di occuparsene da un insegnante all’altro. Mutamento per sé senza sugo, probabilmente foriero di maggiore spesa; ché bisognerà pagare in primo luogo chi insegni il diritto finanziario; e finire più o meno presto per sdoppiare le cattedre di economica o di politica economica, per consentire la continuità dell’insegnamento ad ogni anno delle parti diverse di cui si comporrebbe il corso biennale o triennale. Con proliferazione abbondante di incarichi e di altri malanni.

 

 

3. – Qui non è il problema. La grottesca disputa di supremazia fra la scienza delle finanze e il diritto finanziario deriva da un erratissimo concetto di quel che sia l’insegnamento universitario. Il solito volgare errore che un insegnante – parlo degli universitari, ma il ragionamento vale ugualmente per gli elementari ed i medi – debba insegnare “una materia” e non tentare di formare delle teste. Non vedo perché, ad insegnare una materia, occorrano insegnanti. Bastano, ed alla bisogna riescono meglio, ripetitori, lettori, trattati scritti. Se si potesse mantenere la disciplina ed evitare la farsa, basterebbe il fonografo o l’altoparlante. Molti di noi abbiamo scritto il “trattato”, allo scopo di rispondere all’ufficio di insegnare la “materia”. Qualcuno di noi – e per quanto poté anche chi scrive – nello stendere il trattato cercò di mantenersi oggettivo, di riassumere la dottrina generalmente accettata o prevalente, allo scopo di riuscire di utilità massima nella preparazione ad esami di stato ed a concorsi, e nell’esercizio professionale. Se si vuole che le università siano scuole professionali, ammetto che debba trionfare la “materia” e il “trattato” e che nella particolar disputa in discorso debba prevalere il diritto finanziario, anzi l’esposto della legislazione tributaria vigente, che è cosa utile, e praticamente necessaria a funzionari professionisti privati. Ho gran rispetto per le utilità pratiche ed affermo che l’attività, anche di insegnamento, a quello scopo rivolta è vantaggiosa. Tutti noi ad esso dedichiamo, senza far questione di dignità, parte dell’opera nostra. Nego però che in quest’opera stia la sostanza dell’insegnamento universitario. Quali siano e come siano costrutte le imposte italiane, quale sia l’ordinamento amministrativo della finanza e del tesoro, quale e quanto e come amministrato il nostro debito pubblico, quale la finanza locale e degli enti diversi (consigli dell’economia, consorzi, sindacati, corporazioni, ecc.) aventi diritto di impero tributario è materia di descrizione, di sistemazione ordinata, di commento di casi disputati, di interpretazione letterale e logica. Non è ancora scienza, né dell’economia né del diritto finanziario. Si arriva alla scienza solo se ci poniamo il quesito del perché; se, al di là della legge scritta, cerchiamo le ragioni di essa. In questa ricerca economisti e giuristi possono collaborare, ciascuno secondo l’indole propria della relativa formazione mentale. Sta di fatto che, nella gara, sinora gli economisti sopravanzarono di gran lunga i giuristi. Coloro, i quali si fermano alla superficie, affermano che la cagione della relativa inferiorità di avanzamento scientifico del “diritto finanziario” in confronto alla “economica finanziaria” sta nella intolleranza dei membri delle commissioni di concorso i quali, essendo quasi sempre economisti, hanno preferito giovani cultori della economica finanziaria ai cultori del diritto finanziario. Il che è stupidissima accusa. Se, lungo i cinquant’anni decorsi dalla istituzione della cattedra, qualche giurista di valore – e per giurista di valore intendo giuristi sul serio, venuti dallo studio del diritto, forniti di quella qualità impalpabile che è il sesto senso degli scienziati, sia esso senso giuridico od economico o matematico o linguistico o politico, ognuno dei quali sensi è inconfondibile con gli altri sesti sensi ed è, salvo casi portentosi, da contarsi in ogni generazione sulle dita di una mano, con essi incompatibile – si fosse dedicato al diritto tributario, evvia! quale commissione avrebbe osato respingerlo? Dove sta di casa lo studioso, curante della illibatezza del proprio nome, il quale sia capace di tanta faziosità? La verità vera è un’altra: che i giuristi nati, a torto od a ragione, non si interessano di diritto finanziario. Le norme giuridiche finanziarie paiono ai giuristi norme di seconda qualità, non riducibili a sistema, ad ordine, non costruibili secondo ragione. Anche il giurista più avverso al concetto del diritto naturale – e tutti i giuristi costruiscono o dicono di costruire sulla base del diritto positivo – ama la razionalità, il bell’ordine, la norma che si incastra armoniosamente in un sistema, la discussione elegante ed elegante perché imperniata sul contrapposto di principi. Perciò i giuristi guardano con mal celato compatimento alla norma finanziaria, perché la vedono mutevole, determinata da bisogni contingenti di tesoro, perché vedono troppo spesso con raccapriccio violati dalle contingenti norme tributarie i principi più saldi del diritto privato. Perciò i giuristi di cartello non si interessano al diritto tributario. Qualcuno capita per caso ad entrarvi per un momento; ed allora accade che, con un gesto da gran signore, gli istituti tributari sono in quattro e quattr’otto accasellati nella sistematica e nella nomenclatura giuridiche consuete.

Omaggio a fior di labbra e privo di effetto duraturo; ché le caselle restano caselle e vuoti schemi; se non ci sia chi s’innamori dell’erratica norma tributaria, amorosamente ne indaghi le ragioni permanenti di divergenza dalla norma giuridica normale e ne ricerchi la sistematica sua propria. Sinora i soli innamorati della norma giuridica tributaria sono alcuni di coloro che ne vivono la vita: dall’antico presidente della commissione centrale delle imposte dirette Quarta all’ispettore superiore Sampieri-Mangano, per citare due soli nomi. Ben vengano i giovani accademici, di cui alcuni qua e là si fanno avanti, e ci diano opere di polso. Essi creeranno il diritto finanziario e non avran bisogno di nessuna mutazione nel nome della cattedra per insegnarlo. Ché insegnare non vuol dire spiegar materie e scrivere trattati, ma porre problemi e suscitar discussioni intorno ad essi. Che siano di diritto o di economica tributaria non monta; purché siano problemi e vadano a fondo di qualche cosa. Sinora i soli economisti suscitarono problemi fondamentali in materia finanziaria. Che colpa hanno gli economisti se il solo avanzamento notabile nella teoria del debito pubblico che si conosca dopo Ricardo fu compiuto, in Italia, da Antonio De Viti De Marco, cattedratico di scienza delle finanze? Sta di fatto che, sì e no, solo qualche scritto di Wicksell, di Cohen Stuart, di Edgeworth e, per dottrina storica, di Seligman può stare a paro dei saggi di “economica finanziaria” per cui rifulge la generazione di Pantaleoni, di De Viti, di Mazzola, di Puviani e di Barone. Finché esisterà fervore di studi intorno alla economica finanziaria (scienza delle finanze) potremo divertirci, se così ci piace, ad abolirne il nome negli statuti accademici. Continuerà a studiarsi che cosa sia l’imposta e come essa sia valutata; e poiché il problema è ben lungi dall’essere risoluto, continueranno a fervere discussioni, ossia continuerà ad esistere una scienza delle finanze; Poiché la esistenza di una scienza non dipende dalla possibilità di potere scriverci su un bel trattato o stendere un “programma” su cui tutti siano d’accordo e su cui qualsiasi uomo dotato di bella voce e bel porgere possa dettar lezioni o subire esami, ma dalla continuità e dalla vivacità delle discussioni rivolte ad approfondire problemi controversi ed a trovar le leggi dei fatti che accadono intorno a noi.

 

 

4. – La economica finanziaria (scienza delle finanze) è la stessa cosa della “economica generale” o della “economica applicata” (“politica economica”)? Può darsi: tutte le idee vivono in una unità fondamentale. Tutte le “economiche” possono ridursi ad una sola, che era quella, diceva Pantaleoni, di chi la sa. Forse han ragione gli inglesi e gli americani, i quali comprendono sotto il nudo nome di economics tutto lo scibile economico e chiamano professors of economics tutti gli insegnanti di un certo gruppo o facoltà o scuola. Problemi di nomenclatura; ché, quanto alla sostanza, i forse venti professori di un departement of economics debbono, con maggiore o minore flessibilità, concertarsi per una divisione di lavoro; insegnando gli uni economica pura e gli altri varie specie di economica applicata: moneta, banca, commercio internazionale, e talaltro storia delle dottrine o finanze. Non esiste distinzione di sostanza, fra economica pura e applicata, fra quella che ancora si chiama economia politica e la “politica economica”. Anche i politici economici studiano prezzi: prezzi nel commercio internazionale, prezzi vincolati da enti pubblici, da sindacati, da consorzi; ma prezzi. Non vi è alcuna ragione razionale perché quei prezzi non si possano studiare anche in “economica pura”. Perciò io non faccio questione di parole. Nell’occasione in cui si muterà, come è autorevolmente consigliato, il nome tradizionale della “economia politica” in “economia generale e corporativa” si potranno mutare altri nomi di scienze. Non rimpiango l’antico nome della scienza economica, la cui sola ragione d’essere era la tradizione che durava da quando Antoyne de Montchretien pubblicò nel 1615 il Traicté de l’oeconomie politique; ed auguro che, caduto l’aggettivo “politica”, il quale faceva a pugni con la natura astratta della scienza, si corregga l’altro errore consacrato dalla tradizione, per cui si scambiava l’oggetto studiato od “economia” con la scienza indagatrice che per uniformità con altre scienze analoghe dovrebbe chiamarsi “economica”. In quell’occasione si potrebbe provvedere a togliere altresì di mezzo la boria con cui negli istituti superiori economici la “economia politica” oggi guarda dall’alto in basso la “politica economica” quasiché questa non fosse una scienza, ma un insieme di consigli pratici, indegni di stare a paro con le verità eterne della scienza. Come la meccanica razionale non è né da più né da meno della meccanica applicata ed ambe enunciano leggi ugualmente scientifiche, così dovrebbe dirsi della economica “generale” e di quella “applicata”. Ugual metodo, uguale contenuto, uguali leggi, con gli accenti posti nella “generale” un po’ più sulla prima approssimazione e nella “applicata” un po’ più sulle approssimazioni seconde e concrete.

 

 

5. – Se si volesse, si potrebbe per euritmia anche mutare il nome alla scienza delle finanze chiamandola “economica finanziaria”; ma il mutamento sarebbe inutile, perché il nome attuale non è equivoco, mette bene in luce che altra è la materia studiata, “le finanze”, ed altra è la scienza che la studia e perché lascia cattolicamente aperta la via a quegli studiosi i quali negano che la scienza delle finanze sia un ramo della economica o del diritto o della politica (nel senso di “scienza politica”) e vogliono che sia una scienza diversa da tutte le altre, sintesi, in un campo particolare, di parecchie scienze con metodo ed oggetti propri. Così, riassumendo stenograficamente, pensano Griziotti ed i suoi allievi ed io, pur non consentendo, non vedo perché si debba stroncare la loro attività, chiamando tutti ad occuparsi solo di diritto. Va da sé che, come tanto l’economica “generale” quanto quella “applicata” dovranno affrontare amendue il problema del prezzo corporativo (cfr. quanto su di ciò scrissi nell’articolo Trincee economiche e corporativismo in «La Riforma Sociale» del novembre-dicembre del 1933), così la scienza delle finanze dovrà studiare, a mano a mano che nel diritto positivo italiano sorgeranno gli istituti di fatto corrispondenti, il problema dell’imposta corporativa. Taluno ha avuto fretta ed ha parlato di nuovi principi corporativi della finanza; danneggiando coll’opera sua la causa del corporativismo che immaginava di patrocinare. Ché, a voltata di pagina, il lettore si accorgeva stupefatto che sotto nome di finanza corporativa saltava fuori una vecchissima conoscenza nostra, il metodo di ripartizione dell’imposta per contingente, in lode del quale poco o nulla vi è da aggiungere a quanto ne scrissero il Pescatore nel 1867 e, contro lo scetticismo dello scrivente, il Griziotti nel 1916. Col rappezzare vecchie brache non si appresta un abito nuovo. La costruzione di una scienza delle finanze corporativa non può precedere i fatti finanziari aventi caratteristiche corporative proprie; ma, a questi accompagnandosi, li analizza, li teorizza, li riduce a leggi generali. Se è logico si faccia la teoria dei contributi sindacali corporativi, ché questi esistono, hanno connotati caratteristici e di essi si può costruire la teoria (cfr. il contributo offerto da G. Frisella-Vella, Intorno al contributo sindacale, in «La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1930), non sarebbe ragionevole si camuffasse da corporativa la teoria dell’imposta sui terreni, la quale dura invariata in Italia da circa duecento anni; e rispetto a cui Pompeo Neri, Carlo Cattaneo ed Angelo Messedaglia lasciarono ben poco campo da mietere ai sopravvegnenti. Improvvisino i cerretani raffazzonamenti di teoria vecchia, sotto colore di teoria corporativa; gli studiosi seri lasceranno volontieri gli improvvisatori alle loro maschere, studiando, nei limiti delle norme legislative e degli istituti corporativi offerti dai politici, i fatti nuovi con strumenti appropriati di analisi allo scopo di scoprire, attraverso tentativi numerosi, sempre faticosi ed ahimè! non sempre fortunati, nuove relazioni, nuove leggi atte a crescere il patrimonio ricevuto della scienza.

 

 

6. – La ragion di distinguere fra l’economica “generale” e quella “applicata”, fra questa e la economica “finanziaria” o scienza delle finanze non è dunque o non è prevalentemente quella del contenuto diverso. Se si trattasse solo di questo, sarebbe anzi augurabile che ci fosse modo di evitare quella che si chiama specializzazione, ossia paraocchi, ossia sapiente ignoranza. Ma anche l’economista pieno ha predilezioni e non riesce e giustamente non vuole porsi se non una piccola parte dei problemi insoluti nel vastissimo campo da lui studiato. È bene perciò offrire a più uomini gli ozi (ozi operosi, ma ozi nel senso poetico della parola) necessari alla meditazione. È bene altresì che i giovani si veggano posti problemi affini da parecchi, tanto meglio se contrastanti punti di vista, sì da abituarsi a non giurare nel verbo di nessuno ed a ragionare colla propria testa, un primo avviamento allo sforzo indipendente di giudizio derivando appunto dall’osservare nei maestri diversi atteggiamenti mentali e differenti modi di ragionare. Per la scienza delle finanze v’ha qualcosa di più; e cioè la diversità innegabile, sinora non ridotta, se non con giuochi di parole, ad unità, fra i due estremi del prezzo di mercato, studiato dall’economica e dell’imposta studiata dalla scienza finanziaria. Sinché l’imposta sarà quel che è, ossia un quantum determinato coattivamente dallo stato per i fini suoi di stato, essa continuerà ad essere un qualche cosa degno di studio particolare. Tanto più degno in quanto, a dirne una sola, laddove una certa concordia esiste tra gli studiosi sulle leggi del quantum del prezzo di mercato nelle sue diverse specie di prezzo di concorrenza, di monopolio, di monopolio bilaterale, ecc., sarebbe esagerato dire che vi sia concordia sulle leggi del quantum dell’imposta. Una scienza è sulla via di morire quando essa non è più discussa e non si tratta che di ripeterla. La economica pura è lungi da codesto stato di beatitudine perché, se concordia esiste nella impostazione generale del problema economico, infiniti e sempre rinnovantisi problemi si presentano tuttora a chi poi quel problema generale voglia approfondire. Ma dalla beatitudine della morte è ancor più lontana la scienza delle finanze, nella quale ancora si discute intorno alla impostazione medesima del problema dell’imposta.

 

 

7. – Della sua morte – se questa fosse pensabile, all’infuori di un accidentale localizzato ammazzamento accademico che non posso del resto credere desiderato da nessun cultore del diritto – i primi a dolersene sarebbero quei giuristi sul serio, i quali volessero in avvenire cimentarsi alla creazione del diritto tributario. Come ritrovare l’ordine in mezzo alla selva selvaggia delle contingenti norme della legislazione finanziaria positiva, come costruire un sistema di diritto, senza un saldo fondamento di dottrina sulla sostanza economica della norma? L’economica finanziaria ricerca, oltre la contingenza momentanea del fabbisogno di tesori pubblici esausti o abbondanti, oltre l’accidentale, oltre il locale, oltre quelle che un ministro italiano del tempo di guerra chiamò sciabolate finanziarie, il permanente, quel che dura, quel che resiste ai tempi, il nocciolo fondamentale degli istituti. Essa studia, oltre le finanze in dissesto e in trasformazione, la finanza in equilibrio propria di un sistema economico generale in equilibrio. Economisti e giuristi non possono in questa ricerca della norma non essere alleati. La legge astratta ed ipotetica dei primi non è, s’intende, la norma coattiva dei secondi. La conoscenza dell’una giova tuttavia sicuramente alla scoperta dell’altra. Coloro i quali negano la possibilità di costruire una teoria economica dell’imposta e la proclamano un fatto esclusivamente storico politico e cioè contingente, negano medesimamente la possibilità di costruire un sistema di diritto tributario. Se dal contingente, dall’accidentale, dall’arbitrario non si trae nessuna legge economica, non si trae del pari alcuna norma giuridica.

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