Opera Omnia Luigi Einaudi

In lode del collegio uninominale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/02/1923

In lode del collegio uninominale

«Minerva», 16 febbraio 1923, pp. 97-99

 

 

 

Voglio unire la mia voce a quella dei parecchi che oggi, per stanchezza della rappresentanza proporzionale, ricominciano a dir le lodi del collegio uninominale. Forse le ragioni dalle quali la mia lode è mossa non sono le stesse per le quali altri è tornato, per la consueta oscillazione del pendolo elettorale, al metodo dianzi abbandonato quasi senza difesa. Ma giova dirle.

 

 

Dunque io lodo primamente il collegio uninominale perché si presta alla corruzione dei biglietti, un tempo da cinque lire ed ora forse da cinquanta, tagliati a metà e consegnati all’elettore ignorante, un pezzo prima del voto ed un pezzo a vittoria conseguita. La lode è troppo accorata per essere detta cinica.

 

 

Essa è il frutto della disperazione; ed in verità non so vedere perché dovendo scegliere tra due mali, dovrei optare per il male maggiore. Il collegio uninominale favorisce la corruzione spicciola, del candidato che corrompe direttamente l’elettore; ma il collegio grande favorisce la corruzione di chi fa le spese dei Comitati. Uno o due ricchi bisogna pur includerli nella lista, se si vogliono ottenere i grossi fondi necessari per condurre la lotta in grande stile; ed è da dimostrare che il numero degli eletti in virtù dei denari sborsati sia maggiore nel collegio uninominale che in quello grande a rappresentanza proporzionale o scrutinio di lista. Probabilmente, se il numero dei corruttori fortunati non è minore nel collegio grande, la qualità ne è più scadente.

 

 

Nel collegio piccolo anche qualche borsa ben fornita, senza appartenere addirittura a multimilionari, può permettersi il lusso di spendere le 100 o le 200 mila lire; un gran proprietario, un industriale del luogo aggiungono così, alle influenze di famiglia o di gerarchia sociale, i mezzi di persuasione derivanti da qualche innocente baldoria procurata agli elettori curiosi solo delle gioie del ventre. Nel collegio grande, solo le grandissime fortune possono resistere alle spese della fornitura di fondi; o questa è considerata un impiego di capitali dai rappresentanti di grossissimi interessi. Certo, coloro che nel collegio grande vanno alla Camera in virtù dei danari spesi appartengono ad una categoria di gran lunga più pericolosa dei tradizionali dispensatori di vino e trippa e biglietti da cinque nel collegio piccolo.

 

 

Ma v’è di peggio. Nel collegio grande è assai più vivace l’appello agli interessi di classe, di ceti, di gruppi, i quali invece nel collegio piccolo sono dispersi e meno facilmente riescono a far presa e ad organizzarsi. Nel collegio piccolo vincono le camarille di persone, nel collegio grande sovratutto a rappresentanza proporzionale, prevalgono le organizzazioni di classe. Vanno alla Camera i rappresentanti di agricoltori, di industriali, di operai, di classi professionali. E vanno per chiedere; e i candidati promettono di ottenere. A spese di chi? Dello Stato. Quelle miserabili cinque o cinquanta lire spese dal candidato singolo per comprare il voto, fanno schifo; ma fanno male sovratutto a chi le paga di tasca propria. L’eletto non deve riconoscenza all’elettore che s’è lasciato comperare. Nel collegio grande, gli eletti non pagano, è vero; promettono: aumenti di stipendi o salari, ponti, ferrovie, assicurazioni sociali, protezioni doganali, elargizioni di ogni fatta.

 

 

È la corruzione collettiva in grande, la quale costa disavanzi di miliardi allo Stato. Tra le due specie di corruzione, quella collettiva è per fermo più abietta e più dannosa. Lodo dappoi il collegio uninominale perché è favorevole alle lotte di persone e contrario alle lotte di idee. Non perché le idee siano una brutta cosa; ma perché esse sono in fatto sinonimo di lotta tra le organizzazioni di partito. Nel collegio grande, a rappresentanza proporzionale, l’uomo scompare dinanzi al simbolo. Non si vota per Tizio o per Caio; si vota per la croce, per il tricolore, per il fascio littorio, per la falce ed il martello. Ma questa è ancora soltanto apparenza. In realtà, gli elettori non votano niente. La scelta degli eletti è fatta dai comitati elettorali.

 

 

I veri padroni delle elezioni sono i comitati. Le idee hanno un’importanza tutta secondaria. Se si mettono da un lato i partiti di distruzione sociale, gli altri partiti non si distinguono per la diversità dei programmi, ma per la fede che anima gli uomini, per la loro rettitudine, per la loro forza di carattere. Tutti vogliono le economie, tutti desiderano lo Stato forte, tutti vogliono attuate le idee buone che fluttuano nell’aria. Ciò che fa un buon governo non è il programma, la adesione ad un partito. Sono gli uomini: non vili, non accomodanti, ma coraggiosi e diritti. Orbene l’organizzazione di partito, il clan, il caucus sono la negazione della buona scelta degli uomini. Le ultime due elezioni hanno mandato alla Camera un nugolo di gente ignota, che nessuno conosceva, che era venuta su solo perché era stata messa nelle liste, e ci era stata messa perché intrinseca dei faccendieri i quali hanno tempo da perdere nelle assemblee dei comitati elettorali.

 

 

Siamo appena al principio della dolorosa esperienza. Altrove, nei paesi anglosassoni, che i soliti ammiratori delle novità straniere additano ad esempio, tutti gli spiriti chiaroveggenti fanno risalire i lati più brutti dei parlamenti contemporanei alla organizzazione di partito. Gli eletti non sono uomini, che sappiano giudicare colla loro testa; sono marionette mosse dal partito, ossia dal comitato, ossia da piccoli intriganti, i quali stanno nell’ombra e dominano indegnamente la vita del paese.

 

 

Ogni tanto, qualche ondata di indignazione, che negli Stati Uniti prende il nome di civismo, in Italia quello di liberali puri rivendicanti, contro le camarille democratiche, le idee classiche del partito che ha fatto l’Italia, o, con maggior slancio e successo, di fascismo, insorgono contro la spregevole tirannia dei partiti. Ma guai a ricadere nel circolo mortale! Bisogna distruggere in germe le tendenze verso la organizzazione politica pura, verso la organizzazione come tale, che vigoreggia nei collegi grandi, a liste fabbricate da comitati e in cui i nomi individui si perdono. Nel collegio piccolo, il partito vale poco e vale l’uomo. Peggio per gli elettori se scelgono uomini mediocri. Conoscendoli come tali, li hanno ciononostante preferiti; il che vuol dire solo che essi amano le mediocrità.

 

 

Ma che cosa vi è di più mediocre e di più insipido di un simbolo, per mezzo del quale i comitati fan passare ogni sorta di roba? Lodo in terzo luogo il collegio uninominale perché esso fa trionfare gli elementi locali, l’avvocato che è conosciuto solo nella sua città di provincia, il proprietario che nessuno sa che esiste fuor del suo feudo, l’arruffapopoli che, predicando il paradiso in terra, ha sobillato gli uomini ed entusiasmato le donne della fabbrica o della terra di cui ha fatto la sua base elettorale. Almeno costoro sono conosciuti da mille, da cinquemila persone. Gli elettori hanno conosciuto prima il candidato; sanno che cosa non vale o vale; lo hanno scelto invece di un altro uomo forse migliore, ma meno simpatico. Che cosa sono invece i candidati di un collegio grande? Numeri di una lista e nulla più. Gli elettori esterrefatti se li vedono passare dinanzi agli occhi a decine. Dicono suppergiù le medesime cose.

 

 

È impossibile distinguere per conoscenza personale tra chi le dice sul serio e chi recita la lezione, che ha imparato, dopo avere accettato di far parte di una lista. Perché i candidati sono quelli e non altri? Nel collegio piccolo chiunque si può presentare. Chi ritiene di essere conosciuto o spera di farsi conoscere, tenta il colpo. Presentarsi dipende dalla volontà del candidato. Qualunque outsider può giungere primo al traguardo. L’elettore sceglierà male, ma sceglie chi vuole. Nel collegio grande, l’elettore deve votar la lista, ossia votare per gente che forse cordialmente odia, o disprezza e in ogni modo non conosce, solo perché costoro hanno avuto l’abilità di farsi presentare da un comitato. Uomini che non hanno né fede né idee, solo perché riescono a dominare un comitato – ed è assai più probabile riescano essi che non gli uomini di fede, – impongono agli elettori i candidati che essi hanno scelto perché pronti a chinare il capo ai loro voleri.

 

 

Amo infine il collegio uninominale perché difende la campagna contro la città, i gentili contro i barbari. È assioma accettato che gli eletti siano in proporzione al numero degli elettori. Perciò la legge ordina che, ad ogni censimento, i collegi la cui popolazione è scaduta, debbono perdere deputati, e i perduti debbono andare a favore dei collegi a popolazione cresciuta. A questa massima pestilenziale il collegio grande non oppone alcuna resistenza. Il collegio grande è una pura circoscrizione elettorale, creata per ripartire in gruppi numericamente eguali gli elettori. Il collegio grande è un espediente pratico ed è un controsenso logico. Il principio dell’ossequio al numero porta diritti al collegio unico. Ogni quoziente, comunque composto, ha diritto ad un eletto; e bisogna ridurre al minimo i residui non utilizzati.

 

 

Bisogna, contro questa teoria maligna, affermare che, più e meglio degli uomini, hanno diritto al voto le terre, le case, le pietre, le cose create dagli uomini nel passato, le generazioni che furono. Noi, uomini viventi oggi, dobbiamo contare appena come «una» generazione. Qual diritto abbiamo noi di fare da soli la storia d’Italia, di prendere deliberazioni solenni, senza interrogare le generazioni le quali vennero prima di noi, che fecero, tutte insieme, la nostra terra, le nostre città, il nostro Stato quale noi lo vediamo?

 

 

Bisognerebbe, perché nel voto avessero peso anche le generazioni che furono, osare togliere il diritto di voto a chi non vive nella sua città o nel suo borgo da almeno due generazioni; a chi, non è fuso con la città, con il borgo, con la terra. Bisognerebbe togliere il diritto di voto ai barbari che traggono dalle campagne alla conquista delle città, che si accampano nei suoi sobborghi e bramano andare all’assalto ed al saccheggio delle cose belle che nelle grandi città si sono accumulate attraverso i secoli. Bisognerebbe rinviare i rustici inurbati a votare nel villaggio avito, perché essi si sentissero, come è loro dovere, soggiogati dall’ombra dei loro avi e fosse da quel fascino ad essi impedito di fare il male.

 

 

Poiché questo non si osa fare, almeno si conservi il piccolo collegio. Esso è una cosa sola con un certo gruppo di cittadine e di villaggi; esso è un’entità storica; esso resta abbarbicato alla vecchia terra, anche se gli abitanti se ne vanno. Il piccolo collegio, anche se i suoi elettori sono soltanto 5000, ha diritto di eleggere un deputato al pari del sobborgo cittadino dove gli elettori sono 100,000. Il piccolo collegio resiste tenacemente alle forze egualitarie che in nome di un censimento pretendono privarlo del suo diritto. Il piccolo collegio, difendendo la sua esistenza, non reca offesa alla giustizia.

 

 

Anzi la sua esistenza è sacra solenne giustizia. Quei 5000 elettori, rimasti sulla terra abbandonata, nel borgo petroso e bruciato dal sole, rappresentano la tradizione. Prima che il piccolo collegio diventi un «borgo putrido» o gli debba essere tolto il diritto di mandare in Parlamento un proprio rappresentante, bisogna che gli abitanti siano tutti fuggiti, che la terra e le case siano morte, e nessuno ricordi più le generazioni passate. Debbono trascorrere secoli. Fino a quando il piccolo collegio è abitato e vive, insieme con i suoi elettori votano le sessanta generazioni di morti, che hanno costruito la nazione italiana.

 

 

Contro a questi 5000 elettori di vecchia razza, i 100,000 immigranti del sobborgo cittadino non rappresentano nulla, eccetto la propria ingordigia di ricchezza, la propria insofferenza, il proprio vagabondaggio. Aspettino. Fra due generazioni anche questi barbari si saranno inciviliti; avranno acquistato la piena cittadinanza nella città politica; avranno diritto di decidere delle sorti della città e dello Stato in cui vivono. La terra e le case parleranno anche per bocca loro.

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