Opera Omnia Luigi Einaudi

Interessi operai ed interessi nazionali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/08/1919

Interessi operai ed interessi nazionali

«Corriere della Sera», 11[1], 13[2] e 30[3] agosto 1919

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 394-404

 

 

 

I

 

Per un vocabolario sindacale omogeneo

 

La confederazione generale del lavoro ha pubblicato un appello alle organizzazioni sindacali, il quale ci pare dimostri, insieme a una non lodevole tendenza a mettersi al servizio delle peggiori forme d’azione del socialismo ufficiale, una volontà deliberata di agitare a freddo il panno rosso della reazione e della provocazione padronale.

 

 

È vero. Nel milanese e in altre regioni v’è uno sciopero generale dei metallurgici; a Roma e a Torino scioperano i tipografi; nel comasco i tessili; nel milanese si agitano i capi tecnici e gli assistenti tessili; si agitano i marittimi. Poiché questi fatti accadono e poiché a Trieste vi furono fatti non bene chiari e lamentati, di carattere tra sociale e nazionalista-slavofilo, i dirigenti della confederazione del lavoro dicono che il padronato attenta all’integrità del principio sindacale e vuol fiaccare la compagine proletaria, tentando di costringere le maestranze a riprendere il lavoro a condizioni umilianti.

 

 

Questo è veramente uno scambio di vocabolario inaudito. Se gli operai scioperano, essi si giovano – con vantaggio o con danno proprio – di un loro diritto. Ma di un uguale diritto si valgono gli imprenditori quando resistono alle domande degli operai. Chiamare la legittima resistenza dei padroni una provocazione, un attentato al principio sindacale, un tentativo diretto a fiaccare la compagine proletaria è un pervertimento della verità più evidente e del buon senso. A questa stregua, per non essere tacciati di provocazione e di attentato ai puri principii sindacali, gli imprenditori dovrebbero chinare il capo appena scoppia uno sciopero e consentire immediatamente, senza fiatare, a tutte le richieste operaie.

 

 

Ciò è assurdo; e, aggiungiamo, sarebbe dannoso alla stessa classe operaia. Se gli imprenditori, per timidezza, per ragioni politiche, consentissero a tutte le richieste, appena formulate, delle leghe operaie, quelli che in definitiva rimarrebbero sovratutto danneggiati sarebbero gli operai stessi. Sapere che ogni richiesta sarà soddisfatta, che basta alzare un po’ la voce per incutere terrore negli industriali, e indurli a cedere, è fonte di irrequietudine, di agitazioni perenni, di abbandoni continui del lavoro per futili ragioni, e spesso per la sola ragione dell’avere causa vinta. È un po’ ciò che succedette in parecchie industrie per la facilità estrema con cui nel primo semestre di quest’anno erano vinte tutte le battaglie ingaggiate dalle maestranze operaie. Chi facesse la statistica dei giorni di lavoro effettivo compiuto negli stabilimenti metallurgici dell’Alta Italia, riscontrerebbe probabilmente che quei giorni furono pochissimi. Nessuna industria può resistere a un simile stato di cose, in cui non si possono fare calcoli di costi, non si possono prendere impegni di consegna, non si sa se si perde o si guadagna.

 

 

Uno stato di cose siffatto può piacere a coloro i quali desiderano la distruzione, il dissolvimento sociale; non agli operai sensati, i quali sanno che solo dal lavoro disciplinato sorge la possibilità di produrre e quindi ripartire salari. La disoccupazione è il logico frutto del disordine e dell’irrequietudine elevati a sistema. Bisogna abbandonare queste parole grosse di attentati, di macchinazioni, di offese ai principii sindacali e ritornare alla normalità. La normalità è che le due parti cerchino di mettere in chiaro i punti di dissenso, di studiare le possibilità dell’industria, e di raggiungere una condizione di stabilità , la quale permetta di guardare con fiducia all’avvenire.

 

 

Sono passati gli anni del vicolo cieco, del mercato chiuso alla concorrenza straniera, degli utili alti, e del conseguente spreco. Gli industriali devono riorganizzare la loro casa, mettersi seriamente al lavoro, ridurre i costi. Con le larghezze di prima, col lasciar fare, non si vince la concorrenza nordamericana e neppure quella tedesca. Per vincerla, bisognerà essere più abili, più sparagnatori dei concorrenti.

 

 

Ma neppure gli operai possono sperare di ottenere lavoro se ad ogni piè sospinto abbandonano il lavoro, se ad ogni mese chiedono nuovi aumenti di salario, per il solo motivo che bisogna andare in su e che bisogna, con l’azione diretta, espropriare il capitalista. Questi è rovinato; ma anche la fabbrica si chiude. La confederazione generale del lavoro queste verità elementari le conosce benissimo. Alla sua testa vi sono uomini ai quali le esigenze della vita economica in qualunque regime non sono ignote. Perché essa non esercita una sana azione moderatrice e non dirige l’azione operaia su vie le quali, mentre riescono giovevoli ai veri interessi degli operai, non ne dissecchino le fonti stesse della vita? Perché essa si mette al rimorchio di quegli energumeni che si servono del partito socialista per fini vaghi di palingenesi politica e di distruzione della compagine nazionale? Noi non vogliamo giudicare il merito delle singole controversie ora in corso. Diciamo soltanto che esse devono essere risolute come sempre lo furono le controversie operaie, senza ricorrere a processi d’intimidazione politica e avendo di mira il ritorno a condizioni normali di lavoro ordinato e fecondo.

 

 

II

 

Rivoluzione o discussione?

 

La segreteria della confederazione del lavoro tenta di ribattere sull’«Avanti!» le osservazioni che noi abbiamo mosso al suo comunicato nel quale s’invitavano le organizzazioni federali ad opporsi a quelle che essa chiama le sopraffazioni della classe padronale. Ma in realtà la replica giova a mettere in luce la necessità somma di un nuovo e più sereno atteggiamento delle masse operaie nella discussione delle questioni del lavoro.

 

 

Noi avevamo detto che la confederazione s’era messa al seguito del partito socialista. Essa nega; ma ammette, ciò che è la stessa cosa, che confederazione e partito svolgono la loro attività sul terreno della lotta di classe e amendue subordinano la loro attività a una concezione di mutamento radicale e sostanziale delle presenti basi della società.

 

 

Noi non vogliamo certamente impedire ai confederati di pensare nel modo che essi ritengono migliore intorno all’avvenire del mondo e alla costruzione futura della società . Pensiamo che essi siano nell’errore; ma siamo convinti che gli errori si mettono solo in chiaro col ragionamento e con l’esperienza. Non vediamo però in qual modo l’azione pratica delle organizzazioni possa svolgersi proficuamente nell’interesse medesimo delle classi operaie mettendo a fondamento di essa la necessità e la finalità del mutamento radicale e sostanziale delle presenti basi sociali. Perché in tal modo si verificano appunto i fatti lamentati; lotte continue, scioperi deliberati a scopo dimostrativo e distruttivo, aventi di mira, non il miglioramento reale delle condizioni permanenti di vita dell’operaio, ma invece la distruzione di quello che la confederazione chiama il profitto dell’imprenditore.

 

 

La trasformazione della società dalle basi attuali si può operare in differenti modi: con la rivoluzione espropriatrice, con il passaggio graduale della proprietà nelle mani sindacali, con la legislazione sociale e fiscale. Noi non abbiamo fiducia né nello scopo, né nei metodi; e la nostra sfiducia è stata corroborata dalle esperienze russe e ungheresi. Ma il metodo dello sciopero espropriatore è un metodo indubbiamente suicida: disanima gli imprenditori e distrugge la produzione. Quando l’impresa sarà rovinata, gioverà agli operai stringere in mano un pugno di mosche?

 

 

Il metodo migliore è pur sempre quello classico: delle discussioni fra le due parti per raggiungere un terreno d’intesa; dell’osservanza leale dei patti compiuti. Se gli imprenditori violano i patti conchiusi, come ora afferma la confederazione del lavoro, noi siamo i primi a biasimarli. Essi non potrebbero rigettare da sé siffatto biasimo se non provando che i patti erano assurdi e tali da mandare in rovina l’industria. Ma se essi daranno tale dimostrazione, i dirigenti della confederazione del lavoro saranno i primi a consentire nell’opportunità di cercare altre vie, le quali salvaguardino i legittimi interessi dell’operaio senza nuocere all’industria.

 

 

Questa la condotta, la quale fa il vero tornaconto delle maestranze. Soltanto con l’osservanza degli impegni assunti, con la discussione serena, con lo studio attento di chiedere tutto ciò e solo ciò che è possibile ottenere, mantenendo in vita l’industria e spronandola anzi a sempre maggiori perfezionamenti, possono gli operai rendersi capaci e degni di salire. Coloro, i quali predicano tutto dì il vangelo del controllo delle fabbriche da parte degli operai non dimentichino che il controllo, qualunque cosa si scriva nelle leggi, spetta di fatto solo a coloro che sono capaci di esercitarlo. Capaci non si diventa facendo la lotta di classe, distruggendo profitti e intraprese, ma imparando come vive l’industria, quali siano le sue difficoltà, le sue lotte e le sue conquiste.

 

 

Tutto il resto sono divagazioni. Divagazione è il tentativo di far apparire noi desiderosi di rendere servigio, senza parere, agli industriali metallurgici; noi che recentemente abbiamo combattuto contro i favori che il governo dava alla siderurgia con decreti proibizionistici. Divagazioni quelle relative alla offesa che è difesa contro gli assalti degli industriali. Non occorre entrare nel merito delle singole questioni per affermare che oggi il problema più urgente è quello di cessare le agitazioni continue e convulse che impediscono la produzione, quando la salvezza del paese e sovratutto delle masse, le quali vivono col frutto del lavoro quotidiano, dipende dalla continuità del lavoro e dall’abbondanza della produzione.

 

 

III

 

Chi sono i disfattisti? In polemica con «La Stampa»

 

V’è un giornale che durante la guerra si astenne religiosamente dal partecipare – salvo pochissime volte, quasi sforzato, riprodurre con freddi commenti i comunicati governativi – alle campagne per i prestiti nazionali; e con ciò di fatto non fece nulla per consigliare e raccomandare ai suoi lettori il risparmio che era l’unica via efficace di provvedere alla condotta della guerra senza indebitarsi con l’estero.

 

 

V’è un giornale il quale con questa sua condotta passiva sui grandi problemi urgenti della guerra fece tutto ciò che era possibile per costringere il governo a gonfiare la circolazione – che altro può fare un governo, contro cui si semina la sfiducia ed a cui si rende difficile ottenere mezzi finanziari in maniera non perniciosa? – e quindi a spingere all’insù i prezzi ed a creare sovraprofitti.

 

 

V’è un giornale, il quale dopo avere così contribuito di fatto, nel miglior modo che gli era possibile, a creare la critica situazione in cui si trova la finanza italiana, cominciò subito a gridare, finita la guerra, che l’Italia era sull’orlo della rovina, che la sua ricchezza nazionale era scomparsa, che essa non possedeva più materie prime e che l’unica tavola di salvezza per la pubblica finanza era l’espropriazione delle fortune create dalla guerra.

 

 

Questo giornale oggi tenta un ultimo gioco: che è di far credere ai suoi lettori di essere il solo il quale guardi in faccia al pericolo, il quale sappia vedere la realtà , il solo capace di «escogitare mezzi e forze pari alle circostanze»; ed accusa coloro i quali tennero, durante e dopo la guerra, una condotta diversa dalla sua, di disfattismo. La taccia di disfattismo gli brucia il viso; e contro di essa si rivolta ritorcendo l’accusa e tacciando di «disfattisti autentici» gli scrittori che ribatterono alcune delle sue più stolte e cattive affermazioni. Perché vi fu chi insorse contro la teoria deprimente che la guerra avesse ingoiato tutta la ricchezza italiana ed osservò che le terre d’Italia esistevano ancora, che esse erano ancora coltivate, che le case non erano state tutte diroccate, che fondaci e botteghe e fabbriche e ferrovie e porti erano ancora vivi ed operanti; che il valore delle ricchezze esistenti, misurato nella stessa moneta, era di gran lunga superiore alla massa del debito pubblico; che anche per la maggior parte di questo, ossia per il debito interno, non trattavasi di riduzione della ricchezza nazionale, ma di un obbligo di taluni possessori di ricchezza a pagare un canone di interessi a coloro i quali durante la guerra coi loro risparmi avevano contribuito, insieme ai combattenti, a salvare il paese; perché tutte queste verità necessarie a ricordarsi si dissero, ecco siamo tacciati di voler nascondere la realtà , di voler dipingere la situazione in color di rosa; ed a noi «disfattisti autentici» si applica la condanna di Nitti contro quegli «organi dell’opinione pubblica i quali da troppo tempo hanno disavvezzato il pubblico dalla rude visione della realtà» e si osa bollarci colla condanna di Nitti: «Bisogna rendere l’Italia consapevole delle sue difficoltà e poi piegarla al tenace sforzo del lavoro e della rude astinenza. Chi parla un diverso linguaggio inganna il popolo».

 

 

Ebbene, no. Noi non siamo disposti, neppure per scopo di triste commedia polemica ed elettorale, a lasciare invertire così le carte ed a consentire, col silenzio, a passare per disfattisti e per ingannatori. Il tentativo di contrapporre il messaggio rude e vigoroso del primo ministro italiano alle parole addormentatrici dei giornali che dall’inizio della guerra stanno sulla breccia per sostenere le cause realmente sante e giuste, non può essere tollerato. Dove sono gli articoli, dove i moniti in cui l’avversario nei cinque anni passati dopo l’1 agosto 1914 abbia incitato gli italiani a lavorare intensamente, a risparmiare, a consumare solo il necessario, a fare strettissime economie, a non comprare nessuna cosa di cui si potesse, ancora per un mese, ancora per un giorno fare a meno, così come insistentemente, ripetutamente si fece su questo giornale? Oggi, ho la soddisfazione di vedere che primi ministri e sottosegretari agli approvvigionamenti ripetono il vangelo dell’astinenza e della produzione che per tanto tempo ho predicato qui. Ma credo di non andare errato supponendo che non pochi lettori del «Corriere» abbiano finito per saltare gli articoli miei, stufi di leggere rampogne contro ogni indulgenza anche minima allo spendere ed invocazioni continue di tasse ed imposte contro coloro che non sanno che il possesso della ricchezza impone doveri, tra cui oggi primissimo quello di non spenderla oltre il necessario alla condotta di una vita austera ed economa.

 

 

Dove e quando il giornale avversario analizzò le magagne del nostro sistema tributario; e non contento di declamazioni generiche contro la «progressività a rovescio», le quali non avevano impedito che nel decennio corso tra il 1900 e lo scoppio della guerra libica si fossero perdute occasioni magnifiche, non più destinate a ritornare, per far trionfare riforme tributarie alla Peel ed alla Gladstone od anche alla Miquel, indicò le vie le quali dovevano essere tenute per riporre su granitiche basi di giustizia la nostra finanza? Chi scrive da anni non pochi prima della guerra ha sostenuto, con tenacia maggiore della fortuna, campagne acerbe contro ogni sorta di ciarlatanerie tributarie, contro le imposte bandite per gettare polvere negli occhi del pubblico, contro le promesse demagogiche di imposte sui ricchi, elargite allegramente da chi sapeva di non poterne essere tocco per incapacità insanabile dell’amministrazione a colpirlo; e sempre mi sono sforzato a dimostrare che la prima, la più urgente, la sola seria riforma tributaria era quella degli accertamenti; che era necessario creare prima una magistratura tributaria indipendente dalla politica, aiutata da agenti investigatori forniti di mezzi, che faceva d’uopo accertare i redditi ed i patrimoni sul serio, togliere le sperequazioni negli accertamenti della materia imponibile, per tassarla, poi, equamente. Oggi, questo programma è entrato nella pubblica coscienza ed i ministri lo fanno proprio; ma appunto perciò non si può, non si deve ammettere che i suoi propugnatori vengano tacciati di non volere guardare in faccia alla realtà, quando è sul punto di trionfare la verità rude e grave ed antipatica che essi hanno per tanti anni, prima, durante e dopo la guerra propugnata.

 

 

Due programmi, due vie si trovano di fronte: l’uno è quello della vecchia Italia politicante, bramosa del potere e persuasa che per afferrarlo e conquistarlo basti dire alle turbe le parole che a queste piacciono, che ne solleticano le passioni ed i sentimenti più diffusi e comuni. Oggi, costoro vogliono salire predicando il vangelo dell’odio, dell’animosità, sfruttando il malcontento inevitabile dopo uno sforzo lungo e sanguinoso, eccitando l’invidia di classe e di persona. Eccitano il malcontento e deprimono gli animi col rappresentare l’Italia distrutta dal peso dei debiti ed incapace di vivere e di respirare sotto il tallone dei vincitori anglo-sassoni padroni del mondo, delle acque, dei porti, degli stretti e delle materie prime. Fanno plauso a fior di labbra alle parole di Nitti; ma presentando l’espropriazione totale delle ricchezze guadagnate dalla guerra come il solo mezzo veramente efficace di annullare il debito pubblico, sanno di predicare cosa vana ed incapace a raggiungere neppure lontanissimamente la meta; sanno di eccitare vieppiù il malcontento, a causa della inevitabile disillusione; e sanno di provocare così la distruzione della ricchezza e la improduttività del lavoro. I popoli malcontenti ed invidiosi, coloro che sono ognora occupati ad accusare altrui dei propri malanni, non sono capaci di operare, di fare, di sollevarsi. L’invidia è distruttrice; la ricchezza portata via ad altri è consumata senza lasciar traccia di sé; nessuna classe si arricchisce – le spoglie toccate a pochi furbi pescatori nel torbido non vantaggiano le masse – e tutti si impoveriscono durante i trapassi violenti di ricchezza. La predicazione di questi bassi sentimenti antisociali è pura arma elettorale in mano ai resti di quel partito che tanto scempio fece della pubblica finanza negli anni in cui gli avanzi grandiosi avrebbero consentito ogni audacia riformatrice.

 

 

Oggi quegli anni sono passati; e dinanzi al baratro spaventoso del disavanzo tutti gli uomini seri ed amanti del paese debbono seguire l’altra via, che è poi la via antica, quella che sempre, guerra o non guerra, fu insegnata dagli scienziati e dagli uomini politici che vollero essere veramente le guide spirituali del loro paese. Noi, piccoli uomini d’oggi, non dobbiamo far altro che attingere con fede alle fonti eterne della sapienza e della esperienza.

 

 

Un debito enorme, che forse salirà a 90 miliardi, graverà alla fine sulle spalle del tesoro. Salvo i 20 miliardi in oro, che noi dovremo fare ogni sforzo affinché vengano controbilanciati e compensati dalle indennità dovuteci dal nemico, quello è un debito di italiani contro italiani. I creditori appartengono alle classi doviziose, a quelle agiate, ma anche in notevolissima parte alla media borghesia risparmiatrice, la classe più modesta e laboriosa e feconda di beni economici che esista nel paese; ma anche in non spregevole parte – attraverso alle calze di lana, alle casse di risparmio, alle istituzioni di previdenza e di assicurazione sociale -, ai contadini ed agli operai. Una gran parte degli italiani è dunque interessata a che il loro diritto di credito verso altri italiani venga serbato intatto e gli impegni assunti siano fedelmente osservati. A questa gran parte appartengono gli uomini più morigerati e prudenti del paese. Sono essi che durante la guerra fecero rinuncie, non spesero un soldo oltre il necessario e tutto il restante diedero allo stato o recarono alle casse di risparmio. Essi perciò, che sono la vera spina dorsale della nazione, che sono i soli i quali ricostruiranno le fortune d’Italia, perché sono i soli i quali seppero e sanno rinunciare ai godimenti immediati in vista di vantaggi futuri e lontani; essi che hanno dato, senza mormorare, i loro figli alla patria, come hanno dato i risparmi allo stato, hanno diritto a che non sia dato di frego alle solenni promesse che nell’ora del pericolo furono loro fatte e che l’ipoteca gravante a favor loro sulle terre, sulle case, sulle fabbriche d’Italia sia mantenuta nel suo pieno valore. Malgrado gli scherni e le citazioni di poeti latini poco curanti del religioso rispetto dovuto agli impegni presi, quella è una sacra ipoteca. Non osservarla significherebbe rovinare il credito dello stato e con esso distruggere, sì, assai più volte la ricchezza futura e presente di quanto non s’allevierebbe il carico dello stato.

 

 

Ma i creditori dello stato sanno altresì che, se essi sono la classe più meritevole, più industriosa, più risparmiatrice dello stato, essi hanno il dovere di contribuire alla pari di ogni altra classe, a sopportare i carichi pubblici. Essi sanno che se i proprietari di terreni e di case, gli industriali, i commercianti, i professionisti, gli impiegati, gli operai debbono contribuire, ciascuno per il proprio reddito o per il proprio patrimonio superiore al minimo fissato dal legislatore ed in misura varia a norma della propria capacità contributiva; anch’essi, creditori pubblici, debbono contribuire nella stessa misura col reddito ricavato o col patrimonio investito in titoli di stato. La sacra ipoteca è un’ipoteca generale; essa investe tutte le forme di ricchezza, anche quella rappresentata da titoli pubblici. A tutti lo stato richiede l’uguale sacrificio. Questo è il programma serio ed ammonitore che bisogna contrapporre al verbo demagogico dei disfacitori, alle rappresentazioni apocalittiche di un’Italia curva sotto l’eredità opprimente di una guerra infausta. Se questo programma si attuerà, se l’Italia non diventerà un’arena infeconda di dibattiti rabbiosi fra genti eccitate le une contro le altre dalla predicazione dell’odio e dalla sete di godimenti; se ognuno persuaderà se stesso del proprio dovere di continuare a sopportare, in misura più leggera e decrescente col tempo, i sacrifici materiali che furono e sono piccola cosa in confronto ai vantaggi nazionali e morali conseguiti colla guerra, l’Italia non potrà non diventare più grande, più rispettata e più ricca. Questo non è tempo da querele intestine; è tempo invece che richiede una rude bisogna, una deliberata volontà di fatica e di rinuncia. Ed ognuno deve cominciare a faticare e rinunciare per proprio conto, senza badare a quel che altri fa. Se egli sarà il primo, il suo nome sarà benedetto ed il suo esempio servirà di sprone ad altri.

 



[1] Con il titolo Le agitazioni operaie. Parole grosse e assurdità [ndr].

[2] Con il titolo Interessi operai e interessi nazionali [ndr].

[3] Con il titolo Disfattismo e ricostruzione [ndr].

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