Opera Omnia Luigi Einaudi

Intorno alla metodologia della teoria della capitalizzazione dell’imposta

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/03/1928

Intorno alla metodologia della teoria della capitalizzazione dell’imposta

Beiträge zur Finanzwissenschaft. Festgabe für Georg von Schanz zum (12 Marz 1928), J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1928, pp. 69-86

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 251-272[1]

 

 

 

1. – La teoria della traslazione delle imposte è certamente uno dei capitoli della scienza finanziaria più fecondi di sottili ragionamenti e di vive controversie. Tuttavia, vi è una piccola sezione di quel capitolo di cui l’elaborazione non è stata sufficientemente curata, in guisa che ancor oggi presenta aspetti oscuri e suscita domande, alle quali non è stata data una soddisfacente risposta. A parecchie riprese, nel 1912[2] e nel 1919,[3] lo scrivente ha cercato di attirare l’attenzione sull’argomento; ma non si può affermare che le sue argomentazioni abbiano modificato in modo sensibile la teoria correntemente accolta dai trattatisti. Nel presente saggio non mi propongo di discutere nuovamente a fondo il problema, ma soltanto di esporne il contenuto, chiarirne l’importanza, e indicare le questioni le quali debbono essere discusse allo scopo di dare una soluzione al problema. L’oggetto del presente saggio non è tanto lo studio di un problema, quanto la metodologia dello studio medesimo.

 

 

2. – Il problema si può porre nella seguente maniera: se il processo di ammortamento o capitalizzazione delle imposte sia particolare alle imposte speciali o si estenda altresì alle imposte generali. La tesi secondo cui l’ammortamento dell’imposta è particolare alle imposte speciali può essere chiamata «tradizionale» o «classica» ed è stata lucidamente esposta dallo Seligman con le parole seguenti:

 

 

«Quando una imposta speciale è stabilita su una qualunque categoria di beni ad esclusione di tutte le altre, l’imposta, in certe condizioni, cadrà interamente sul proprietario originario del bene – e cioè su colui che lo possedeva prima dello stabilimento dell’imposta e non sul futuro compratore, poiché l’imposta sarà scontata mercé il deprezzamento del valore capitale del bene di una somma eguale al valore capitalizzato dell’imposta. Per esempio se il rendimento normale degli impieghi di capitale è il 5 per cento e se si stabilisce un’imposta dell’uno per cento su tutte le obbligazioni ferroviarie, il prezzo di queste cadrà dalla pari ad ottanta. Il nuovo compratore non sopporterà il peso dell’imposta, poiché sebbene il suo reddito netto su ogni obbligazione del valore [nominale] di 100 dollari sia soltanto di 4 dollari, egli godrà tuttavia il frutto del 5 per cento sul suo investimento. Quattro per cento su 100 è lo stesso del cinque per cento su 80. Nello stesso modo, quando imposte diseguali sono prelevate su differenti specie di beni, l’eccesso dell’imposta sui beni sovratassati al disopra del saggio generale dell’imposta sarà capitalizzato, così da esentare virtualmente i futuri possessori da questo carico differenziale. L’imposta cadrà sul primo possessore, la cui proprietà sarà diminuita in valore per un ammontare equivalente alla capitalizzazione dell’eccesso di imposta».

 

 

Subito dopo, elencando le condizioni alle quali è subordinato questo processo di «ammortamento» dell’imposta, lo Seligman novera come prima «l’ineguaglianza dell’imposta».

 

 

«Se non vi è eccesso, non vi è nulla da capitalizzare. La teoria dell’ammortamento si applica soltanto alle imposte le quali sono esclusive (speciali) o le quali eccedono di un definito ammontare le altre imposte. L’ineguaglianza di tassazione è la pietra angolare della capitalizzazione».[4]

 

 

In un recente saggio, dedicato a discutere un altro problema, quello della tassazione del risparmio, posto nella mia prima memoria sovracitata, il prof. Umberto Ricci contrappone ancora, alla guisa tradizionale, l’imposta generale all’imposta speciale:

 

 

«Se si introduce una nuova imposta generale sui redditi del 10%… il saggio d’interesse varia: esso non è più del 5% (come era prima dell’imposta) ma del 4,50%… Solamente se due somme uguali di risparmio potessero essere investite in due maniere differenti, di cui l’una pagasse e l’altra non pagasse l’imposta, sarebbe certo che la prima somma sarebbe ridotta di valore in rapporto alla seconda. Ma non è così: l’imposta è generale. Il saggio di interesse è del 4,50% per ogni specie di nuovo risparmio, e tuttci i calcoli si devono fare al nuovo saggio».[5]

 

 

3. – La teoria corrente o tradizionale afferma dunque implicitamente od esplicitamente:

 

 

1) che l’imposta generale la quale colpisce con una data uniforme percentuale tutti i redditi, riduce nella medesima proporzione il saggio di interesse, e lascia perciò inalterati i valori capitali corrispondenti. Siano n redditi di 5.000 lire l’uno. Al saggio di interesse del 5% vigente prima dell’imposta, a quei redditi corrispondono n somme capitali di 100.000 lire l’una. Sia stabilita un’imposta nuova generale del 10%, e riduca gli n redditi a 4.500 lire l’uno. Tutti i redditi essendo ridotti del 10%, il frutto o produttività del capitale si riduce dal 5 al 4,50%. Per conseguenza, 4,50% è il nuovo saggio di interesse vigente dopo l’imposta. Gli n redditi, netti da imposta, essendo di 4.500 lire, al nuovo saggio del 4,50% corrispondono ancora ad n valori capitali di 100.000 lire l’uno. Non si è verificata alcuna capitalizzazione od ammortamento dell’imposta. I contribuenti sono privati di una parte del loro reddito, ma il capitale posseduto è invariato.

 

 

2) che, al contrario, la imposta speciale, la quale colpisce soltanto una specie di redditi esentando le altre,[6] lascia invariato il saggio di interesse e riduce perciò, corrispondentemente all’imposta, il valore capitale del reddito colpito. Siano ancora n redditi di 5.000 lire l’uno, che, al saggio di interesse del 5% vigente prima dell’imposta, corrispondono a n somme capitali di 100.000 lire l’una. Sia stabilita una imposta nuova speciale del 10% su uno solo di quei redditi e lo riduca a 4.500 lire, lasciando gli altri n – 1 redditi invariati a 5.000 lire. Il frutto o produttività del capitale essendo in generale invariato, il saggio di interesse rimane invariato del 5%, anche dopo l’imposta. Gli n – 1 redditi dell’ammontare di 5.000 lire l’uno, al 5% continuano a corrispondere ad un capitale di 100.000 lire. Ma quel reddito il quale fu dall’imposta speciale del 10% ridotto da 5.000 a 4.500 lire, capitalizzato al saggio invariato del 5%, corrisponde soltanto ad un capitale di 90.000 lire. Il contribuente colpito dall’imposta speciale, non solo perde un decimo del proprio reddito, ma, in aggiunta, un decimo del proprio capitale.

 

 

4. – È evidente l’importanza della teoria così esposta. Essa fornisce un argomento potente contro le imposte speciali o esclusive o differenziali, perché dimostra che i contribuenti esistenti all’atto dell’imposizione del nuovo tributo sono colpiti in doppia maniera, sul capitale e sul reddito. E a loro volta i futuri contribuenti, i quali acquisteranno i beni capitali dopo l’introduzione dell’imposta, non assolveranno alcun tributo né sul reddito né sul capitale; poiché essi, al momento dell’acquisto, terranno conto dell’imposta gravante sul bene e sapendo che esso frutta solo 4.500 lire nette da imposta, vorranno pagare solo un valore capitale di 90.000 lire. In tal modo essi riceveranno ancora il frutto del 5% dal capitale investito, come prima dell’imposta, e non risentiranno menomamente il peso di questa. Perciò chi non desidera che le imposte colpiscano esclusivamente, e parzialmente esproprino i contribuenti viventi al momento della loro istituzione, non può volere l’imposta speciale, e deve favorire le imposte generali le quali non scemano il valore di patrimonio dei presenti possessori e fanno sì che ogni generazione di contribuenti subisca, essa, le diminuzioni di reddito volute dal legislatore. La teoria inoltre fu utilizzata per dimostrare la inutilità di riformare o perfezionare i vigenti sistemi di imposte speciali, anche se la sperequazione di esse sia universalmente riconosciuta. Siano nel tempo A due redditi di 5.000 lire l’uno colpiti da un’imposta del 10% che li riduce a 4.500 lire. Trattandosi di imposta speciale a quella categoria di redditi (per es. terreni agrari), l’imposta ridusse i valori capitali da 100.000 a 90.000 lire. Trascorso un certo numero di anni, col variare delle condizioni tecniche ed economiche della industria agraria, l’un reddito nel tempo B crebbe, al lordo dell’imposta, da 5.000 a 10.000 lire, e l’altro scemò da 5.000 a 3.000 lire. L’imposta del 10% dovrebbe nel primo caso essere aumentata da 500 a 1.000 lire e nel secondo diminuita da 500 a 300 lire? Nel primo caso, in confronto di un sistema di imposta generale il quale lasciasse invariati i valori capitali, si verificherebbe una spogliazione, nel secondo un arricchimento dei nuovi od attuali possessori, effetti amendue non necessari. L’attuale possessore, nel tempo B, del fondo fruttifero di 10.000 lire, essendo l’imposta di 500 lire, lo aveva pagato 190.000 lire, prezzo capitale, corrispondente al reddito netto di 9.500 lire. Se l’imposta viene alimentata a 1.000 lire e il reddito scemato a 9.000 lire, anche il capitale sarà ridotto a 180.000 lire. Invece, l’attuale possessore del fondo fruttifero di 3.000 lire, essendo l’imposta di 500 lire, lo aveva pagato 50.000 lire, prezzo capitale corrispondente al reddito netto di 2.500 lire. Se l’imposta viene ridotta da 500 a 300 lire, il reddito netto cresce da 2.500 a 2.700 lire, e per conseguenza il valor capitale balza da 50.000 a 54.000 lire. Quale ragione di giustizia tributaria consiglia allo stato di portar via al primo contribuente 10.000 lire e di regalare al secondo contribuente 4.000 lire? In Italia, sovratutto la seconda domanda fu ripetutamente posta in occasione della discussione della perequazione dell’imposta fondiaria; né si può affermare che una risposta definitiva sia stata fornita, neppure da quell’insigne economista che fu Angelo Messedaglia, autore di una classica relazione sul catasto.

 

 

5. – Probabilmente egli non poté fornire la desiderata risposta, perché questa è resa sommamente difficile dalla netta contrapposizione che la teoria corrente pone tra imposta generale ed imposta speciale. Troppo sovente nelle discussioni sulla capitalizzazione dell’imposta si assumono come premesse chiare quelli che sono invece concetti complicati e nebulosi, e come postulati indiscutibili ed evidenti quelle che invece sono proposizioni non dimostrate ancora e non facilmente dimostrabili. L’intento da cui sono stato mosso nello scrivere il presente saggio è esclusivamente questo: chiarire come non sia scientificamente opportuno procedere innanzi nella discussione, se non siano prima esattamente poste e dimostrate le premesse del ragionamento. Può darsi che la teoria corrente, secondo cui l’imposta generale non si capitalizza e l’imposta speciale sì, sia una teoria esatta. Qui affermo per ora soltanto che la dimostrazione ordinariamente data di quella teoria non è valida.

 

 

6. – Non è valida in primo luogo perché non è chiaro il significato della distinzione tra imposta generale ed imposta speciale. Per lo più, quando si discute della capitalizzazione dell’imposta, si suol dire «generale» una imposta se essa colpisce tutti i redditi e se essa è ad aliquota «uniforme». Una imposta universale del 10% avrebbe, secondo questo modo di esprimersi, la caratteristica di «generale» e sarebbe invece «speciale» una imposta la quale non soddisfacesse a queste condizioni.

 

 

Basta una breve riflessione per persuadersi non essere le caratteristiche dell’universalità e dell’uniformità sufficienti a definire l’imposta «generale». Fa d’uopo chiarire precisamente quale sia il tipo di universalità e di uniformità richiesto per giudicare se un’imposta sui redditi sia ovvero non sia generale. Occorre innanzitutto che colpisca tutti i redditi, sia derivanti da lavoro come da capitale, ovvero basta che colpisca i redditi di capitale? A tutta prima potrebbe sembrare potersi la generalità limitare ai redditi di capitale, non essendo quelli di lavoro capitalizzabili, e non sembrando perciò potersi parlare di capitalizzazione dell’imposta là dove non si verifica neppure il processo economico di capitalizzazione del reddito. Il medico non «vale» un dato capitale, maggiore o minore, a seconda che maggiore o minore è il suo reddito, perché l’abolizione della schiavitù ha distrutto il mercato degli uomini. Non si può quindi affermare che un’imposta del 10% sul reddito del medico riduce il valore capitale del medico, perché siffatto valore capitale non è negoziato e determinato sul mercato. Non si può ridurre un valore capitale che non esiste. L’osservazione, tuttavia, ha forse una rilevanza minore di quella che possa a tutta prima sembrare. Pur astraendo dall’esistenza, astrattamente immaginabile, di valori capitali «personali» e dai tentativi fatti da statistici ed economisti per dare consistenza concreta a siffatta concezione astratta, è indiscutibile che un’imposta la quale colpisse soltanto i redditi di capitale e lasciasse esenti quelli di lavoro o personali dovrebbe essere considerata speciale, perché il risparmio avrebbe tendenza a spostarsi dall’impiego in forme materiali ad impieghi in forme personali, ad es. istruzione tecnica e preparazione professionale delle nuove generazioni. Essendo il capitale esente se investito sotto forma personale, sarebbe relativamente rarefatta la offerta del risparmio per investimenti in terreni, case, industrie; e, cresciuto il saggio di investimento, i valori capitali materiali corrispondenti a redditi già scemati dall’imposta, avrebbero tendenza a diminuire, ossia si verificherebbe quella capitalizzazione dell’imposta che non dovrebbe verificarsi se l’imposta fosse davvero generale.

 

 

7. – In secondo luogo, ove si ritenga ristretto il concetto di generalità ai redditi di capitale, di quali capitali si intende parlare? Dei capitali vincolati o già investiti in forme tali che all’imposta non si possono sottrarre ovvero anche dei capitali disponibili, per es. sotto forma di depositi bancari a vista? E quale è, in questo ultimo caso, il significato del processo di capitalizzazione dell’imposta, posto che il depositante ha diritto di ritirare in qualsiasi momento la somma depositata, nella identica somma originaria, senza soffrire di alcuna decurtazione o svalutazione? Non si vuole con ciò affermare che non si verifichi la capitalizzazione dell’imposta, ma che importa ben definire in che cosa essa consista nei casi nei quali di riduzione di valori capitali non si può a stretto rigore parlare.

 

 

8. – Il carattere di universalità richiede in terzo luogo che l’imposta sul reddito sia estesa nella medesima misura a tutti i redditi? Se così fosse, sarebbero generali soltanto le imposte reali ad aliquota costante, e non sarebbero tali le imposte personali, le quali esentano i redditi minimi, e colpiscono poi i redditi superiori al minimo con aliquota variabile crescente. Quale delle due imposte ha diritto di dirsi generale: quella ad aliquota uniforme su tutti i redditi del 10% o quella che esenta i redditi minimi e colpisce, ad es., gli altri con imposte crescenti dall’1 al 25%? È evidente che nessuna utile discussione può farsi senza avere prima risposto precisamente alla domanda. La risposta potrebbe anche prendere la forma della negazione dell’esistenza del problema per le imposte personali ad aliquota variabile e della sua limitazione alle imposte reali ad aliquota costante. Ciò significherebbe che nei paesi e nei tempi nei quali tendono a dominare esclusivamente le imposte personali ad aliquota variabile crescente non si fa luogo a capitalizzazione dell’imposta; la quale conclusione, se esatta, sarebbe certamente interessante.

 

 

9. – In quarto luogo, la uniformità di aliquota postulata nell’imposta generale deve riferirsi ai redditi netti grezzi o ai redditi netti ridotti a quantità omogenee e comparabili? Il reddito ordinariamente soggetto alle imposte è quello netto dalle sue spese di produzione: il medico essendo colpito sul complesso dei suoi onorari, deduzione fatta dalle spese per macchinari, affitto dello studio, assistenti, ecc.; l’azionista sul dividendo riscosso depurato da eventuali detrazioni per imposte speciali; l’industriale sul prodotto dell’impresa, detratto il costo delle materie prime, dei combustibili, dei salari e stipendi, degli ammortamenti ecc. Ma sono questi redditi davvero netti, e tra di loro comparabili ed omogenei? Non pare: il reddito di un medico generico potendo provenire da una clientela larga, costante, e quello di un altro medico specialista da una clientela poco numerosa, con frequenza di cure e di guadagni variabilissima nel tempo; un azionista potrà ricevere un reddito uniforme di anno in anno, un altro un dividendo ora alto, ora basso, ora nullo. Perché l’imposta del 10% possa essere considerata generale, si devono dunque applicare ai redditi coefficienti di correzione per tener conto del grado di rischio proprio delle diverse specie di reddito, cosicché i redditi colpiti siano omogenei rispetto alla sicurezza e costanza del loro verificarsi? Se tali coefficienti di correzione non sono applicati, non si deve concludere che un’imposta apparentemente generale, perché costante al 10%, in realtà è differenziata e speciale?

 

 

10. – In quinto luogo, quale è l’estensione territoriale alla quale si deve riferire l’imposta, perché abbia a dirsi generale? Il comune, la provincia, lo stato, la federazione, la collettività di tutte le nazioni? Se è vero che ogni imposta va giudicata rispetto all’ente che la impose, e a buon diritto un’imposta anche se limitata ad un piccolo comune, può ritenersi generale quando giovi a mantenere servizi propri di quel comune, tuttavia è certo che molti servizi sono estesi a parecchi comuni, o provincie o stati; e che, a parità di servizi resi, la diversità del carico tributario può costituire ragione di specialità dell’imposta.

 

 

11. – Se tale difficoltà può teoricamente risolversi limitando la applicazione del concetto di generalità ai territori tra di loro comunicanti e concorrenti, maggiori dubbiezze presenta forse il punto se la generalità debba intendersi rispetto ad ogni imposta singola o a gruppi di imposte o al complesso di un sistema tributario. Le dubbiezze non sorgono tanto rispetto al confronto tra imposte singole e a gruppi omogenei di imposte, essendo evidente che è generale un’imposta sul reddito dei soli terreni quando ad essa si accompagnano imposte, sia pure autonome, sul reddito di tutti gli altri tipi di reddito esistenti nel paese; quanto piuttosto sul punto se si debba tener conto delle sole imposte sul reddito o non anche di altri tipi di imposte. La apparente specialità di una imposta sul reddito di talune specie di capitali, per esempio mobiliari, non potrà essere compensata dalla coesistenza di una diversa imposta sul trasferimento dei capitali, immobiliari (cosi dette tasse di registro)? L’imposta sulle successioni non può compensare la deficiente gravezza delle imposte personali sui redditi elevati? Le imposte sui consumi non compensano, e spesso al di là, l’esenzione dei redditi minimi dalle imposte personali sui redditi? Se questo è vero, logicamente si deduce che una qualunque imposta non deve essere considerata in sé stessa, ma, congiuntamente a tutte le altre, nel complesso del sistema tributario di cui essa è parte. E si potrà avere imposta generale, anche là dove ogni imposta è in sé stessa parziale ad aliquote differentissime, se l’insieme delle imposte parziali e differenziate dà luogo ad una pressione tributaria uniforme.

 

 

12. – Sicché si dovrebbe concludere che la definizione della generalità dell’imposta si risolve nella ricerca di un’imposta o di un sistema di imposte il quale:

 

 

  • eserciti la medesima pressione sulle differenti dosi di tutti i redditi esistenti nel territorio considerato;

 

  • non muti la distribuzione degli uomini e dei capitali tra i diversi impieghi, attuali e futuri, da quella che sarebbe esistita senza l’imposta.

 

 

L’imposta generale sarebbe quella che non spinge i genitori a investire i propri risparmi piuttosto in un deposito della cassa di risparmio che nella educazione dei propri figli, che non muta le inclinazioni dei contribuenti a consumare piuttostoché a risparmiare, che non fa emigrare capitali e uomini da un paese ad un altro, da un impiego ad un altro, che non fa preferire gli impieghi brevi a quelli lunghi; la seminagione del campo a grano alla sua piantagione a foresta. Sarebbe generale quella imposta la quale non turba l’equilibrio economico precedente, e speciale quella che non soddisfacendo o male soddisfacendo ai requisiti sovra indicati, provoca spostamenti, e quindi rialzi e ribassi dei valori capitali.

 

 

Porre così il problema sembrerà a taluno equivalga a negare la possibilità logica di un’imposta davvero generale. Quale mai imposta o gruppo di imposte esiste il quale non turbi l’equilibrio economico esistente, non muti i rapporti fra offerta e domanda di risparmio, la convenienza esistente della distribuzione del reddito nel tempo e nello spazio? E se una mutazione dell’equilibrio economico precedente è ineluttabile, come si può immaginare non ne segua una variazione nelle valutazioni capitali dei beni, che di tale equilibrio sono uno dei più delicati e mobili indici?

 

 

13. – E qui si affaccia una nuova esigenza nel porre le premesse del ragionamento, la quale deve essere soddisfatta se vuolsi giungere ad una conclusione sul quesito posto. Supponiamo che le difficoltà sino ad ora enumerate siano state tutte tolte di mezzo; che siasi definita con precisione la natura dell’imposta generale e la si sia distinta dall’imposta speciale. In qual maniera, attraverso a quale processo le due specie di imposte possono agire sui valori capitali corrispondenti ai redditi tassati?

 

 

Suppongasi per semplicità che sia costante il fattore tempo e che si tratti in ogni caso di redditi perpetui; né vi siano differenze di rischio od altre tra l’un reddito e l’altro; che tutti i redditi siano capitalizzabili e lo siano alla stessa ragione di interesse. In tal caso, se l’imposta, generale o speciale, la quale colpisce i redditi deve modificare i relativi valori capitali, essa deve ottenere il risultato, modificando:

 

 

  • l’ammontare del reddito capitalizzabile;

 

  • ovvero il saggio di capitalizzazione o saggio di interesse.

 

 

La teoria corrente della capitalizzazione della imposta espressamente o tacitamente suppone che tutte le imposte, generali o speciali, abbiano la virtù di produrre il primo effetto: riduzione dell’ammontare del reddito capitalizzabile; e che soltanto le imposte generali abbiano la seconda virtù, di ridurre il saggio di interesse. Ambe le proposizioni sono di incertissime definizione e dimostrazione.

 

 

14. – Che una imposta, generale o speciale, cadente su un reddito nella misura del 10%, lo diminuisca da 5.000 a 4.500 lire è proposizione, il cui significato non è così semplice come può apparire a prima vista. Non basta constatare il fatto che, secondo i metodi di accertamento vigenti, prima si constata che un reddito ha le dimensioni 5.000 e poi la imposta del 10% lo riduce a 4.500 lire, per dedurre che l’imposta è causa di una diminuzione da 5.000 a 4.500 lire. Qui non è nemmeno esatto il post hoc e non se ne può perciò neppure dedurre sofisticamente il propter hoc. L’esistenza preliminare, nel tempo, di un reddito di 5.000 lire è una pura verità contabile, assunta per comodo di accertamento, a scopi pubblici e amministrativi; non essendo possibile prelevare una imposta sul reddito, se prima non si sia accertata una cifra di reddito in base a cui commisurare l’imposta. Si assume cioè l’esistenza del reddito di 5.000 lire a solo scopo di stabilire un criterio di commisurazione, di distribuzione dell’imposta. Poiché per ragioni di giustizia tributaria si ritiene che l’imposta debba essere distribuita in ragione dei redditi, si è costretti a compiere una valutazione dei redditi, quale essi si suppone siano prima del prelievo dell’imposta, e su quella base l’imposta viene distribuita. Questa è una mera finzione giuridica, necessaria per l’impossibilità di operare altrimenti la ripartizione dell’imposta, la quale tuttavia non implica la verità di quest’altra proposizione: che se l’imposta, generale o speciale, sul reddito di 5.000 lire, non fosse stata pagata, il reddito sarebbe stato egualmente di 5.000 lire. Avrebbe potuto essere anche maggiore di quella cifra se lo stato avesse potuto altrimenti procurarsi il fabbisogno necessario per i pubblici servizi. Ma se, come è probabile, lo stato non avesse potuto sostituire quella con altra imposta, o se l’imposta surrogata fosse stata causa di maggiori costi per i contribuenti, il reddito sarebbe stato di somma inferiore forsanco alle 4.500 lire a cui l’imposta apparentemente lo riduce. Il reddito netto è cioè funzione di un sistema economico di cui è necessario elemento l’imposta. Senza l’imposta, i servizi pubblici della sicurezza, della giustizia ecc., non potrebbero funzionare, ed i redditi sarebbero diversi e minori di quelli che in effetto risultano. Dunque il dire che l’imposta cade sul reddito e lo riduce, equivale ad esprimere un concetto contabile, necessario per raggiungere lo scopo di distribuire le imposte sugli obbligati in relazione al loro reddito, ma non equivale a dire che l’imposta effettivamente riduca il reddito al disotto dell’ammontare a cui il reddito sarebbe senza di essa giunto.

 

 

15. – A ben guardare la frase «l’imposta riduce i redditi» è priva di ogni seria significazione. Ci troviamo di fronte ad una di quelle storture logiche le quali inavvertitamente si fanno innanzi ogni qual volta nel discorso si introducono i concetti di stato, di nazione, di collettività, ecc. ecc. Le parole «tributo», «imposta», per tradizioni secolari, giustificate da numerosi casi di oppressione di un popolo su altri, di una classe su un’altra, di un’orda di conquistatori su imbelle popolazioni soggette, si sono identificate talmente nel linguaggio comune col concetto di un qualche cosa versato senza ottenere nulla in cambio, da far ritenere ovvia la conseguenza che effetto dell’imposta sia la riduzione dei redditi. Certamente ancor oggi vi sono esempi di popoli oppressi da stati stranieri conquistatori o tenuti soggetti in terrore da bande di soldatesche prezzolate. Sarebbe perciò inesatto affermare che i tributi estorti ai contadini cinesi dai capi delle bande le quali si contendono il dominio di quel pacifico paese non scemino i redditi dei contribuenti. Anzi lo riducono ben al di là del tributo pagato, poiché contribuiscono a mantenere il paese in stato di mala sicurezza e di disordine.

 

 

16. – Se, tuttavia, noi sostituiamo al concetto di tributo pagato senza compenso, quello di compenso dato allo stato in cambio dei servizi pubblici da questo forniti ai cittadini, ecco che la proposizione «l’imposta riduce i redditi» appare priva di significato ed assurda. Essa equivale a quest’altra: «il pagamento dei salari agli operai riduce il reddito dell’imprenditore». Nessun industriale di buon senso opina che il suo profitto è ridotto dopo che e perché egli abbia pagato il pattuito salario agli operai. Se così fosse, il profitto sarebbe ridotto anche dalle spese fatte per comprare i combustibili o le materie prime, o i macchinari, ecc. Tutti gli industriali invece sono persuasi che essi acquistano materie prime, combustibili, macchinari e pagano salari ecc. allo scopo di ottenere un profitto. Sottostare a quelle spese è condizione necessaria per ottenere il profitto; e spendere nel modo più appropriato significa rendere massimo il proprio profitto. Del pari se noi supponiamo che i cittadini siano chiamati a pagare l’optimum delle imposte, l’ammontare cioè minimo capace di soddisfare nel miglior modo possibile i bisogni pubblici, in rapporto anche ai bisogni privati ed a pagarlo anche secondo l’ottimo fra i metodi di riparto, noi non avremo menomamente ridotto i redditi, ma li avremo cresciuti al massimo. Nella quale ipotesi, sarà logico bensì parlare ancora di capitalizzazione dell’imposta; ma nel senso di capitalizzare non il minore bensì il maggior reddito derivante dall’imposta; non l’onere ma il vantaggio di essa.

 

 

17. – Non meno incerto è il significato della proposizione che soltanto l’imposta generale abbia la virtù di ridurre il saggio dell’interesse; perché soltanto essa riducendo tutti i redditi, ridurrebbe la produttività generale del nuovo risparmio ad es. dal 5 al 4,50 e quindi obbligherebbe ad operare la capitalizzazione dei redditi sulla nuova base del 4,50 per cento; mentre invece l’imposta speciale, lasciando invariata la produttività in genere del nuovo risparmio al 5%, non produrrebbe l’anzidetta conseguenza.

 

 

18. – Importa, innanzitutto, sgombrare il terreno da equivoci verbali non insiti nella dottrina ora esposta, ma non perciò meno pericolosi. Sia cioè ben chiaro che l’imposta non può ridurre direttamente il saggio dell’interesse. Pur ammettendo, per comodità di ragionamento, che l’imposta abbia la virtù di ridurre qualcosa, è certo che essa riduce l’ammontare assoluto del reddito, non un rapporto come è il saggio dell’interesse. Essa potrà ridurre il reddito da 5.000 a 4.500 lire; ma tale riduzione in se stessa non riduce nella stessa misura il saggio a cui le 5.000 o le 4.500 sono capitalizzate. Può darsi che il saggio dell’interesse, in conseguenza della diminuzione dei redditi, si riduca altresì e nella stessa misura percentuale della diminuzione dei redditi; ma non è questo un assioma evidente per se stesso, il quale non richieda una dimostrazione precisa. Le due verità, se tali sono, sono diverse una dall’altra e ben potrebbe darsi che si verificasse una diminuzione nei redditi, e conseguentemente un rialzo nel saggio dell’interesse.

 

 

19. – Ed anzi, se davvero tutti i redditi si riducessero, in conseguenza dell’imposta, del 10%, scemerebbe la massa dei beni disponibili nel presente momento, e se ne accrescerebbe il valore in confronto dei beni futuri. Se beni presenti e beni futuri (a un anno data) si scambiavano prima nella ragione di 100 a 105, ora si cambieranno nella ragione di 100 a 105,50. La minore copia di redditi scema la produzione del risparmio e, a parità di altre circostanze, ne aumenta il prezzo d’uso. È vero che, sempre supponendo effettiva la diminuzione dei redditi in conseguenza dell’imposta, tale diminuzione equivale a riduzione della produttività marginale del nuovo risparmio, dal 5 ad es. al 4,50%Ma la scema così, ove si supponga implicitamente che si continui a produrre la stessa quantità di risparmio di prima, ipotesi contraria al vero in un momento di riduzione generale dei redditi dovuta all’imposta. Noi avremmo di fatto un prezzo di domanda da parte dei risparmiatori per il nuovo risparmio maggiore di prima per la minore produzione di risparmio, e un prezzo di offerta da parte degli imprenditori minore di prima per la minore produttività del nuovo risparmio. Quale sia il saggio di interesse risultante da queste forze contrapposte dipende dall’indole delle due curve di offerta e di richiesta del risparmio. La soluzione più probabile sarà che contraendosi l’investimento di nuovo risparmio prodotto, l’impiego di questo si limiterà agli impieghi più fecondi, capaci di offrire una produttività marginale eguale al maggiore saggio di interesse determinato dalla minore possibilità di produrre nuovo risparmio. Poiché è erronea la premessa «l’imposta generale diminuisce l’ammontare dei redditi», è evidentemente erronea la illazione «dunque essa cresce il saggio di interesse». Ma il ragionamento giova ad illustrare l’errore di coloro i quali, posta la premessa erronea che l’imposta generale scemi tutti i redditi, ne deducono ancor più erroneamente che quindi l’imposta generale, riducendo la produttività del nuovo risparmio, riduca il saggio di interesse; laddove, se la premessa fosse vera, logicamente ne deriverebbe un aumento del saggio di interesse.

 

 

20. – Già fu detto che la premessa: «l’imposta scema i redditi» è vera soltanto in circostanze le quali nella civiltà moderna sono eccezionali (tributi pagati da popolazioni taglieggiate da bande di oppressori nemici); e che normalmente l’imposta, se bene ripartita e bene usata, è un coefficiente di massimizzazione dei redditi. Se l’imposta speciale non può condurre, al pari di quella generale, ad una massimizzazione dei redditi e quindi ad una riduzione nel saggio dell’interesse, ciò accade solo perché essa, in uno stato perfetto, contiene in sé qualcosa di assurdo. Le osservazioni fatte sopra dimostrano invero che l’imposta speciale è quella che, essendo mal ripartita o creata in odio a qualche particolare gruppo di persone, non perché esse abbiano maggior capacità di pagare, ma solo perché esse appartengono al gruppo oppresso, spinge i contribuenti ad azioni antieconomiche o distruttive di ricchezza. Quindi l’imposta speciale, se davvero è tale e non un elemento equilibrato di un complesso sistema tributario, può reputarsi propria degli stati in cui un gruppo di oppressori condanna a qualche tributo i vinti o gli asserviti. Perciò l’imposta speciale riduce i redditi, e, tendendo a crescere il saggio dell’interesse, provoca una diminuzione di valori capitali, generale per tutti i beni anche non colpiti, e più accentuata per quelli su cui essa incide.

 

 

21. – Arrivati a questo punto, parrebbe possibile trovare una significazione alla teoria tradizionale, la quale, così come viene comunemente esposta, appare indimostrabile. Se le osservazioni sovra esposte sono corrette, l’imposta generale appare quella che attua un optimum nella ripartizione delle imposte, che massimizza il dividendo o reddito nazionale e per tal modo contribuisce al ribasso del saggio dell’interesse ed al rialzo dà valori capitali. La teoria tradizionale, erroneamente discorrendo della riduzione della produttività del nuovo risparmio, in conseguenza dell’imposta, concludeva ad una riduzione nel saggio dell’interesse e alla invariabilità nei valori capitali. In quest’ultima conclusione c’era un barlume di vero in quanto, pur farneticando di riduzione di redditi, non giungevasi sino all’errore più grave di una riduzione di valori capitali. La teoria tradizionale deve modificarsi nel senso che, definita correttamente la generalità dell’imposta, questa non può teoricamente concepirsi se non come un elemento di un sistema caratterizzato da redditi elevati, saggio di interesse basso e valori capitali elevati. Non parlisi di causa e di effetti; ma di un sistema economico politico così equilibrato che generalità dell’imposta, elevazione dei redditi, ribasso nel saggio dell’interesse ed elevazione da valori capitali si suppongono e si condizionano a vicenda.

 

 

Rispetto all’imposta speciale, la teoria tradizionale riconnette la riduzione dei redditi conseguente all’imposta ad un saggio di interesse invariato, e ne deduce una riduzione dei valori capitali. Anche qui si scorge un barlume di verità, intravvisto attraverso ad errori o limitazioni di ragionamento. La teoria sopra schizzata consente invece di ricollegare l’esistenza di imposte speciali ad una condizione storica per cui le imposte servono a scopi antisociali ed egoistici di classi o bande dominanti o di conquistatori stranieri; sicché in quelle condizioni non si può dare incremento di reddito, ma se ne osserva la diminuzione, con conseguente rialzo del saggio di interesse, e diminuzione, per doppia causa, – redditi diminuiti e saggio cresciuto di interesse, – dei valori capitali. Che l’imposta speciale sia la «causa» di siffatti fenomeni non è necessario affermare; bastando dire che tutti sono caratteristici di un sistema economico politico proprio dei paesi di conquista od abitati da popoli oppressi o maltrattati.

 

 

Ed è ovvio che i sistemi di fatto esistenti non attuano perfettamente né l’uno né l’altro dei due schemi sovra contrapposti, ma per infinitesime gradazioni passano dall’uno all’altro. Sicché anche le caratteristiche relative all’ammontare dei redditi e dei valori capitali ed al livello del saggio di interesse si avvicineranno più a quelle proprie dell’imposta generale o dell’imposta speciale a seconda che i sistemi di fatto esistenti saranno più o meno vicini ai due schemi estremi.

 

 

22. – Qualunque siano le relazioni tra l’imposta ed i valori capitali dei beni colpiti, sia che essa ne innalzi il valore, crescendone il reddito e scemando il saggio di interesse, sia che essa li deprima per la falcidia operata sul reddito e il conseguente rialzo del saggio dell’interesse, importa osservare un canone interessante di logica verbale. Ed è che dovendo distinguere, nel processo di capitalizzazione, i fatti antecedenti e quelli susseguenti all’imposta, e dovendosi perciò parlare di quantità lorde e nette da imposta, questi aggettivi si applichino sempre ai redditi da capitalizzarsi e non mai ai saggi di interesse in base a cui si opera la capitalizzazione. La inosservanza del canone può portare a confusioni verbali e ad errori di ragionamento. Dire che il reddito di 5.000 lire è lordo di una imposta di 500 lire; e che il reddito di 4.500 lire è netto dalla medesima imposta è esporre un concetto comprensibile. Anzi un concetto importante, perché il mercato usa talvolta capitalizzare i redditi netti e tal’altra volta i redditi lordi. Si capitalizzano i redditi al netto da imposte reali ad aliquota costante, prevedibile, trasmissibile da persona a persona nella medesima quantità invariata. Si capitalizzano i redditi al lordo da imposte personali, ad aliquota variabile, le quali, non trasmettendosi invariate da persona a persona, non possono dal mercato essere in genere prevedute. Sia che si ritenga che all’imposta si accompagni un aumento od una diminuzione di redditi, è logico affermare che, se una diminuzione si è verificata, si capitalizza il nuovo reddito al lordo o al netto dall’imposta.

 

 

È incomprensibile invece dire che un dato saggio di interesse è lordo o netto di imposta. Lordo è il reddito 5.000 e netto è il reddito 4.500 lire, se l’imposta è 500 lire. Ma il saggio di interesse non è né lordo né netto. È un saggio di interesse, ossia un rapporto; né mai si è inteso dire che cosa sia un rapporto netto o lordo di imposta. Quando mai esisterono imposte le quali abbiano avuto ad oggetto il rapporto esistente tra frutto e capitale? Il «rapporto» tra frutto e capitale può essere un criterio di determinazione dell’ammontare dell’imposta; come per l’imposta sui sopraprofitti di guerra; ma anche questa imposta percuote un ammontare concreto; non mai un rapporto astratto. L’imposta può colpire, ossia avere ad oggetto la quantità assoluta «frutto», ad esempio 5.000 lire, o la corrispondente quantità assoluta «capitale», ad esempio 100.000 lire. Ma non fu mai veduta una imposta la quale assumesse come oggetto il rapporto cinque per cento esistente tra il frutto 5.000 e il capitale 100.000. Lo stato vive di quantità concrete di moneta – 500 lire – messe a sua disposizione forzosamente dai contribuenti; ma non saprebbe cosa farsi di un decimo di un rapporto astratto, cinque per cento, esistente tra le quantità concrete reddito e capitale, ed usato per far calcoli utili a passare mentalmente dalla prima quantità alla seconda e viceversa. L’osservazione ora fatta non è inutile ove si rifletta che nonostante essa fosse stata esplicitamente fatta nella sovra citata memoria del 1912 (in una nota ricordata sopra a carte 128 e qui ristampata nella Nota bibliografica posta alla fine del volume) e fatta oggetto di lunga discussione nel primo e secondo capitolo di quella del 1919, ambe riprodotte nel presente volume, l’equivoco pur sempre inavvertitamente si insinua sotto la forma verbale di «saggio netto di imposta» (cfr. pag. 878 del citato studio del prof. Umberto Ricci). Non esistono saggi di interesse lordi o netti di imposta. La imposta può fare aumentare o diminuire il saggio di interesse; ma aumentato o diminuito che sia, esso è il saggio di interesse, puro e semplice, né lordo né netto da imposta, il quale si applicherà, a seconda dei casi, ai redditi lordi o netti di imposta per derivarne i corrispondenti valori capitali. Esistono, è vero, diversi saggi di interesse applicabili alla capitalizzazione delle diverse specie di redditi, sicuri o aleatori, di capitale puro o misti di capitale e di industria dell’uomo, ecc. Ma non si è mai saputo che in un caso si applicasse un saggio di interesse 5% lordo di imposte od un saggio 4,50 per cento netto di imposte; e che queste due saggi coesistessero, applicandosi il primo, ad esempio, ai redditi colpiti da imposta e i secondi ai redditi esenti. Le imposte, tutte le imposte, sono fattori i quali esercitano una influenza, in più o in meno, sull’altezza del saggio dell’interesse. Ma è contrario a ragione e ad esperienza supporre che esistano saggi diversi di interesse, lordi o netti di imposta. Gli uomini fanno volontieri a meno di questa inutile complicazione, posto che risultati perfettamente corretti possono ottenersi considerando i redditi come tali, al lordo o al netto dalle imposte, e procedendo alla loro capitalizzazione in conformità del saggio di interesse indicato dal mercato per ogni singolo investimento.



[1] Tradotto in inglese con il titolo On the methodology of the theory of tax capitalization in «International economic papers», London-New York, VII, 1957, pp. 40-52

[2] Cfr. Intorno al concetto di reddito imponibile, pubblicato come saggio prima del presente volume.

[3] Cfr. Osservazioni critiche ecc., pubblicato sopra come saggio secondo.

[4] E.R.A. Seligman, The Shifting and Incidence of Taxation, terza ed., pag. 221-22 e 223.

[5] Umberto Ricci, La taxation de l’épargne, in «Revue d’économie politique», tome XLI (mai-juin 1927), pag. 878-79. Sono state omesse nella citazione le parole le quali, riflettono un altro problema, non sono essenziali a quello discusso nel testo.

[6] È speciale anche l’imposta la quale, pur colpendo tutte le specie di redditi, colpisce le une più e le altre meno. La specialità in questo caso si riferisce all’eccedenza dell’imposta in taluni casi sull’aliquota usata in generale o per i gruppi più favoriti. Vi sono infinite graduazioni della specialità di un’imposta. Nel testo si accenna al caso più caratteristico, da cui si digrada insensibilmente fino all’imposta generale.

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