Opera Omnia Luigi Einaudi

Intorno alla tariffa doganale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Intorno alla tariffa doganale

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 108-147

 

 

 

Sul problema delle tariffe doganali, il presidente aveva già inviato, in qualità di ministro per il bilancio, due lettere al ministro del commercio estero, on. Merzagora, la prima in risposta ad una lettera del 6 agosto 1947 e l’altra del 27 dicembre 1947. Se ne dà il testo, per la connessione del soggetto, con le memorie seguenti.

 

 

La deliberazione del consiglio dei ministri in data 10 luglio u.s., con la quale il diritto di licenza è stato elevato al 10% e si modificano al tempo stesso i criteri di valutazione degli imponibili, ha risoluto il problema fiscale. Come mezzo per dare incremento alle entrate fiscali è evidente la incongruenza di conservare contemporaneamente in vita due metodi di esazione dei dazi doganali, l’uno dei dazi ad valorem, l’altro dei dazi specifici. L’esperienza ha dimostrato che il dazio specifico è di più facile applicazione, bastando constatare la qualità ed il volume della merce importata per applicare ad essa il dazio specifico determinato dalla legge doganale, laddove il dazio ad valorem implica una ulteriore valutazione della merce con pericolo di errori e di frodi. Pur riconoscendosi perciò la maggior equità del metodo del dazio ad valorem, sempre corrispondente, a seconda delle variazioni del prezzo, al valore della merce importata, nel maggior numero dei paesi si è preferito il sistema dei dazi specifici. In Italia si era finito per adottare, per ragioni accidentali, contemporaneamente tutti e due i sistemi, sia pure ricorrendo all’espediente puramente formale di chiamare diritto di licenza quello che in realtà era un vero e proprio dazio ad valorem. Se la ragione del duplice ordinamento era quello di sottrarsi in tale modo a taluni vincoli derivati dai trattati di commercio, di fatto ci eravamo trovati dinnanzi alla coesistenza di due sistemi, uno dei quali aveva per scopo quello di ovviare agli inconvenienti dell’altro.

 

 

Dato perciò:

 

1)    che un sistema di dazio ad valorem esisteva;

 

2)    che perciò era già deliberatamente superato l’inconveniente di dover valutare le merci al momento dell’importazione;

 

3)    che il sistema dei dazi ad valorem presenta indiscutibilmente il vantaggio di poter essere manovrato con maggiore facilità di quello dei dazi specifici, perché l’erario può aumentare il diritto di licenza e sottoporre a quel diritto il valore effettivamente corrispondente alla realtà delle merci estere importate in funzione del saggio medio di cambio;

 

4)    che in siffatto modo era risoluto il problema fiscale con lo strumento dei dazi ad valorem (così detto diritto di licenza); è evidente l’impossibilità di usare ai medesimi fini fiscali l’altro strumento dei dazi specifici.

 

 

Al sistema dei dazi specifici, dovrebbe, invece, essere riservato esclusivamente il fine di proteggere i rami dell’industria nazionale che il legislatore ritenga degni di protezione. Quando si chiede perciò l’adeguamento della tariffa doganale secondo il metodo dei dazi specifici, non bisogna perdere di vista lo scopo principale di essa che è quello di protezione di alcune branche dell’industria nazionale.

 

 

L’altro scopo, consistente nell’affermata necessità di creare uno strumento tariffario agguerrito in vista dei futuri trattati di commercio, ha importanza di gran lunga minore di quello della creazione o del ripristino di una tariffa doganale protettiva.

 

 

È bene essere assolutamente espliciti in argomento. Quando si chiede che i futuri negoziatori italiani abbiano a loro disposizione uno strumento di negoziazione efficace, non bisogna dimenticare che la creazione di questo strumento implica necessariamente il ristabilimento di un sistema di protezione doganale a favore di questo o quel ramo della attività nazionale.

 

 

Questo e non altro è il vero problema fondamentale da discutere. Solo dopo che si sia riconosciuta la necessità di proteggere una certa industria e che si sia stabilita la misura della protezione, si potrà creare un’arma di negoziazione intesa a raggiungere tale scopo.

 

 

Di per sé, invece, il fine di creare un’arma di negoziazione è un fine contrario all’interesse nazionale. È ben chiaro che, se una nazione straniera colpisce con un dazio di cento una merce italiana all’atto dell’introduzione di questa merce italiana nello stato straniero, l’esportatore italiano è danneggiato. Nessun dubbio sull’esistenza di questo danno per l’economia nazionale, ma nessun dubbio, del pari, che la minaccia da parte nostra di ritorcere il danno ricevuto, applicando un dazio doganale all’importazione di una qualche merce proveniente dal medesimo stato straniero, è una minaccia la quale torna soprattutto di danno a noi prima che allo straniero. Il dazio straniero imposto sulla merce italiana esportata danneggia l’esportatore italiano, il quale si vede precluso o reso difficile il mercato straniero. Ma siffatto indubbio danno non è menomamente compensato se si arrechi a noi stessi l’ulteriore danno di rincarare il prezzo che noi dovremmo pagare per l’introduzione di una merce straniera da noi colpita con un dazio doganale. Questo modo di compensare i danni arrecatici da altri può essere assomigliato alla condotta di chi, avendo ricevuto uno schiaffo su una guancia, per compensarlo colpisce volontariamente se stesso con un altro schiaffo sull’altra guancia.

 

 

Lo strumento di una tariffa doganale è perciò a doppio taglio e va usato soltanto quando si sia sicuri che esso ha per iscopo di arrecare un vantaggio al complesso dell’economia nazionale.

 

 

Non è sensato infliggere volontariamente a noi stessi un danno allo scopo di compensare quello che altri ha volontà di arrecarci. Il sistema, in voga fra i negoziatori di trattati di commercio, di presentarsi agguerriti di forti tariffe doganali, è un sistema il quale ha come risultato di lasciare un grosso residuo di danno alla propria economia nazionale. Esso è il risultato della trasposizione nel mondo economico di modi di pensare propri della guerra propriamente detta. In guerra certamente ognuna delle due parti cerca di infliggere all’altra il danno maggiore possibile, sebbene a nessuna delle due venga in mente di cominciare all’uopo col danneggiare se stessa. Nei trattati di commercio lo scopo che si deve raggiungere è inverso. Non si può ottenere il massimo vantaggio proprio senza consentire il massimo vantaggio al contraente. Se i due negoziatori si presentano armati di tutto punto con tariffe doganali elevate in tutte le voci della medesima tariffa, ad un livello che per ipotesi si può indicare con la cifra cento; ognuna dei due reputa di avere ottenuto un vantaggio grande, quando, riducendo la propria tariffa a cinquanta, abbia indotto il proprio avversario a ridurre a sua volta la sua tariffa a cinquanta. La verità è che ognuno dei due negoziatori ha ingannato se stesso e il proprio paese, perché, ottenendo una tariffa di soli cinquanta invece del massimo possibile di cento contro le proprie importazioni, ha altresì rincarato la vita dei propri concittadini fino al limite di cinquanta.

 

 

Soprattutto il negoziatore, in buonissima fede, si è reso strumento della categoria peggiore dei produttori nazionali i quali sono riusciti ad imporre un tributo privato a proprio beneficio su tutti i consumatori nazionali. Una tariffa doganale creata coll’intento di possedere un’arma di negoziazione ha un solo effetto certo; ed è quello di creare monopoli e privilegi a vantaggio di una ristretta classe di produttori nazionali, e a danno della grande massa dei consumatori. E quando si dice consumatori si vuole parlare di tutti quei produttori i quali non possono essere protetti affatto o di quelli che, nel do ut des di questa speciosa negoziazione ai danni della generalità, non riescono a raggiungere il livello medio concesso dalla tariffa doganale. Il problema vero, ripetasi, che perciò si tratta di discutere è se nel momento presente e a favore di quali rami di attività e in quale misura, sia conveniente di stabilire una protezione doganale.

 

 

All’uopo importa tener conto di vari ordini di considerazioni:

 

 

1)    La tariffa doganale vigente risale al 1921. L’insigne scienziato che vi diede, come ministro dell’industria, il suo nome, prof. Giulio Alessio, certamente mai avrebbe immaginato che dopo ventisei anni si sarebbe ritornati a discutere intorno alla possibilità di ringiovanire la sua tariffa. Egli bene apprezzava l’argomento principale che sempre si addusse a favore della protezione doganale per questa o per quell’industria. Dico per questa o quella industria perché una tariffa doganale generalizzata, praticamente estesa a quasi tutte le specie di attività economica, è un non senso. La protezione data a tutte le industrie indistintamente risulta di fatto nulla per esse tutte. Se tutti sono protetti per il 10 per cento, tutti pagano più care le materie prime ecc. per il 10 per cento e tutti vendono più caro per il 10 per cento. Se la protezione doganale ha un senso, essa vale solo per le differenze e deve perciò essere riservata ad un certo numero di industrie ritenute degne di essere promosse nell’interno dello stato. Il motivo principale di proteggere una certa industria consiste nella speranza che, così operando, quella industria o nuova del tutto, o costretta temporaneamente a qualche trasformazione radicale, possa, all’ombra del rialzo dei prezzi determinato dal privilegio doganale, agguerrirsi e rendersi capace di sostenere la concorrenza estera.

 

 

Una protezione doganale la quale non sia temporanea è senza alcuna scusa; essa arreca soltanto il danno dell’aumento del costo della vita per i consumatori senza una speranza compensatrice della creazione di una industria nuova o del rifiorimento di una industria antica.

 

 

Giustizia vuole, perciò, che le industrie le quali sono state protette per tanti anni dalla tariffa del 1921, siano considerate come giunte alla fine del loro ciclo protettivo. Se esse intanto non sono riuscite ad agguerrirsi, non vale la pena di seguitare a proteggerle. Se una tariffa nuova doganale deve essere creata nel momento presente, essa deve riferirsi eventualmente ad un terreno nuovo e non a quello contemplato nella tariffa del 1921.

 

 

2)    Tanto più deve considerarsi finito questo ciclo se si riflette che il periodo intermedio tra il 1921 e il 1947 ha visto una fioritura così feconda di espedienti protezionistici di gran lunga più efficaci della tariffa doganale che, se le industrie già protette dalla tariffa del 1921 non sono riuscite a trarre profitto dalla ulteriore protezione accordata dal sistema di contingenti, di proibizioni di importazione, di premi di produzione, di vincoli valutari, c’è da disperare esse riescano mai a diventare vitali e a fare a meno di vivere alle spalle dei consumatori, il che vuol dire dei produttori non protetti o non bastevolmente protetti.

 

3)    I sistemi sopra indicati di contingenti, di proibizioni di importazioni, di vincoli valutari persistono e persisteranno inevitabilmente in avvenire per qualche tempo, sì che pare davvero anacronistico occuparsi di proteggere una industria nazionale, già abbondantissimamente protetta in tante altre maniere assai più efficaci, epperciò più dannose alla generalità. Viviamo purtroppo in un regime di serra calda, nel quale ben difficilmente si può parlare di pericoli seri di concorrenza illimitata. Quella poca concorrenza che esiste è talmente debole che l’andar cercando dazi doganali protettivi contro di essa è davvero combattere contro mulini a vento.

 

 

Sembra, perciò, che, se si vuole parlare sul serio di una tariffa doganale, lo studio dovrebbe consistere nel ricercare quali eventualmente potrebbero essere quei rami di attività economica non contemplati dalla tariffa del ’21 e non protetti dal regime di autarchia continuato fino ad oggi, grazie ai noti metodi di contingentamento, di liste di merci importabili o non importabili, e di vincoli valutari, i quali miracolosamente esistessero ancora nel nostro paese e fossero sul serio promettitori di nuove fonti di ricchezza.

 

 

Il ripristino della tariffa doganale del ’21 o la sostituzione ad essa di una tariffa generale protettiva sia pure perfezionata, a seconda della nuova nomenclatura discussa in seno alla Società delle nazioni dal 1937 al 1942, oggi avrebbe soltanto un significato: ribadire sul collo della grande maggioranza dei produttori italiani, produttori oltre che di beni, di servizi, il giogo di una piccola minoranza non contenta della larghissima protezione di fatto elargita dalle circostanze in cui si svolge oggi, tra vincoli innumerevoli, il commercio internazionale.

 

 

Operando in tal guisa, noi saremmo in contraddizione con noi stessi. Siamo stati il paese che, in occasione dell’invito rivolto dal segretario di stato Marshall all’Europa, ha innalzato la bandiera dell’unione doganale fra i vari paesi europei e della libertà di commercio fra gli stessi stati. Se anche in queste rivendicazioni a favore della libertà di commercio noi non raggiungeremo tutto il risultato benefico che una unione doganale permetterebbe, dobbiamo però fare ogni sforzo allo scopo di ridurre, quanto più sia possibile, i vincoli che oggi impediscono il libero commercio fra uno stato ed un altro. Sarebbe stranissimo che, nel momento stesso in cui noi a Parigi ci siamo fatti banditori dei principi della libertà di commercio, di fatto ricorressimo ai frustri strumenti delle alte tariffe doganali. A giusta ragione l’opinione pubblica dovrebbe rimproverarci di ipocrisia e qualificarci come «sepolcri imbiancati».

 

 

Riconosco la necessità di studiare alacremente la formazione di una nuova nomenclatura tariffaria basata su quella internazionale proposta e già discussa in seno alla Società delle nazioni.

 

 

Questa è mia esigenza tecnica rivolta a semplificare e a rendere perciò più agevole il commercio internazionale.

 

 

Quanto poi al vino che dovrebbe essere versato nel nuovo recipiente, il nostro sforzo deve essere esclusivamente rivolto a individuare quelle poche industrie effettivamente nuove ed oggetto di trasformazioni profonde, le quali oggi attraversino un periodo di iniziale crescita e siano promettitrici seriamente di progressi notevoli in avvenire. Se e quando noi avremo scoperto queste industrie e ci saremo persuasi della convenienza di sottoporre il popolo italiano ad un temporaneo sacrificio inteso a rendere possibile il loro vigoreggiare, sì che esse in un moderato lasso di tempo possano vincere la concorrenza straniera, allora soltanto noi potremo, creando una tariffa doganale, affermare di fare cosa vantaggiosa all’interesse nazionale; e forti di questa persuasione noi potremo nelle trattative commerciali con gli altri stati, difendere la nostra tesi, convinti di fare il bene del paese. Ma ciò non ha nulla a che fare con il cosidetto adeguamento o aggiornamento della tariffa doganale il cui contenuto vero sarebbe esclusivamente quello di rafforzare interessi acquisiti e dannosi alla generalità italiana. Il cosidetto strumento tariffario di negoziazione commerciale ha invero l’effetto fatale e principalissimo di creare all’ombra della tariffa doganale, taluni forti interessi costituiti che in seguito nessuno più può scrollare e che con la minaccia della chiusura di fabbriche e del crescere della disoccupazione operaia, costituiscono la peggiore cappa di piombo la quale incombe sul nostro paese. Di industrie incapaci di vita propria sana ne abbiamo già in abbondanza, sicché non sembra affatto necessario e tanto meno urgente inasprire la piaga che tanto ci fa oggi soffrire.

 

 

9 settembre 1947.

 

 

Ritengo che una commissione di funzionari e di rappresentanti delle categorie economiche possa compiere un assai utile lavoro per la raccolta di dati e di informazioni preliminari alle decisioni che il governo dovrà prendere.

 

 

Ma i rappresentanti dei ministeri e delle categorie economiche non possono andare al di là di questa opera di preliminare inchiesta ed informazione. Ed anche in questo campo essi male rappresentano il paese nella sua interezza ed in particolare non sono atti a rappresentare la figura complessa del produttore consumatore, la quale non si identifica con alcuna delle categorie economiche ed in qualunque sistema di rappresentanza di categorie è fatalmente dimenticata. I fascisti avevano visto l’assenza del personaggio principale del dramma doganale e ne avevano delegato la rappresentanza al partito fascista; che fu una delle loro più grosse beffe.

 

 

Grossolanamente parlando, si potrebbe dire che nelle inchieste preliminari condotte per la determinazione delle tariffe doganali:

 

 

1)    i funzionari ministeriali sono dominati quasi sempre da talune premesse professionali, le quali deformano il loro giudizio: ad esempio che una tariffa doganale composta di molte voci debba necessariamente esistere; che essa sia necessaria come arma di difesa contro i negoziatori esteri decisi a non mollare su nessun loro dazio senza una corrispondente riduzione sui nostri dazi; che perciò debba esistere una nostra tariffa abbastanza alta, negoziabile sì, ma da dovere essere difesa unguibus et rostris dai nostri negoziatori; che la tariffa debba avere un minimo uguale ad una presunta differenza tra costi nazionali supposti per lo più alti ed i costi esteri supposti bassi; che una tariffa suppergiù di tal fatta, basata su un concetto indefinibile e non misurabile quale è il costo di produzione, possa essere considerata qualcosa di razionale e scientifico; che non si possa concepire un paese indifeso in mezzo a paesi armati sino ai denti; e simili proposizioni delle quali il meno che si possa dire è che esse sono evidenti solo per chi, per lunga desuetudine, abbia rinunciato all’obbligo di rendersi ragione di ciò che dice;

 

 

2)    i rappresentanti delle categorie economiche produttrici di beni materiali rispecchiano esigenze particolari di produttori interessati a impedire o ridurre la concorrenza dei similari prodotti esteri e disposti a considerare come assiomatica la dannosità della concorrenza medesima;

 

 

3)    i rappresentanti delle categorie economiche esportatrici di beni materiali spesso si preoccupano soltanto di ottenere ribassi di dazi all’entrata nei paesi esteri; ma scarsamente vedono la connessione tra i bassi dazi esteri ed i bassi dazi nazionali, e non di rado desiderano di essere protetti contro la concorrenza estera per poter vendere a prezzo remuneratore all’interno e potere essere in grado di vendere a più basso prezzo all’estero; facendo così pagare ai nazionali il costo del parziale sottoprezzo di cui, per così detto vantaggio nazionale, si vuol fare regalo ai consumatori esteri;

 

4)    i rappresentanti dei lavoratori occupati nelle industrie elencate sopra si sono dimostrati in passato propensi ad accordarsi coi loro datori di lavoro, per garantire alla propria categoria occupazione e salari alti, stipulando tacitamente un vero pactum sceleris a danno altrui;

 

5)    i rappresentanti dell’industria dei trasporti marittimi i quali avrebbero interesse a rendere massimo il volume del commercio internazionale, sono non di rado spinti a chiudere gli occhi dinnanzi al prevalere del «particolare» altrui, essendo stati abituati ad ottenere alla loro volta vantaggi particolari, che in apparenza e direttamente sono di maggior peso della partecipazione al benessere generale: privilegi alla bandiera nazionale per i servizi di posta, di emigrazione, di trasporto di merci nazionali; premi di navigazione, contributi ed esenzioni fiscali speciali;

 

6)    i rappresentanti del commercio, i quali parrebbero interessati al massimo volume del traffico, sono oggi siffattamente irretiti in consorzi, enti, contingenti da essere anch’essi più preoccupati di tagliarsi una fetta nel bottino predato a danno altrui, piuttosto che farsi difensori dell’interesse comune;

 

7)    la categoria degli impiegati pubblici e privati è dominata dai più numerosi; e questi vorrebbero, sì la vita a più buon mercato, ma hanno trovato più comodo salvaguardare i loro interessi col premere sul governo e sui datori di lavoro con armi politiche per ottenere scale mobili ed altrettali strumenti di rovina generale.

 

 

In mezzo a questa universale journée des dupes, gli interessi particolari vincono facilmente sull’interesse generale. Ognuno, badando a sé, cerca di arraffare con le protezioni, il massimo di lucro individuale. Calcolo a corta veduta, che si riduce poi, nell’insieme, a produrre ad alti costi e, quindi, a ridurre il reddito nazionale totale. Tutti, cercando di trarre a sé il lenzuolo, si illudono di star meglio. In verità tutti, o di gran lunga i più, stanno peggio e molti van miseri e nudi.

 

 

È vano sperare vengano fuori i rappresentanti dell’interesse collettivo. Questi sarebbero i così detti consumatori. Ma i consumatori altro non sono se non i produttori visti dall’altro lato della medaglia. Ed i produttori si dividono nelle due classi: l’una di quelli i quali rinunciano al vantaggio di vivere in una società più largamente produttrice perché vedono, e taluni di essi con ragione, solo il proprio vantaggio particolare privato, e l’altra dei silenziosi, dei non rappresentati.

 

 

Chi sono questi ultimi? Sono probabilmente i più: artigiani, piccoli e medi industriali, accodati ai grossi ed inconsapevoli del loro interesse, professionisti, artisti, lavoratori agricoli non organizzati, proprietari di terre, in quanto non siano venditori di quei pochi prodotti, di solito i più grossolani, come i cereali, atti ad essere protetti contro la concorrenza estera (probabilmente meno di un milione su tredici milioni di proprietari di terreni porta sul mercato cereali), proprietari di case che essendo immobili, non soffrono della concorrenza estera, ma neppure si giovano della protezione; inquilini, i quali soffrono le conseguenze del rialzo di costo di tutti gli elementi che entrano nel costo delle case.

 

 

I danneggiati della protezione sono con tutta probabilità la maggioranza della nazione ma non hanno voce. Il loro interesse è maggiore di quello dei forniti di voce; ma quell’interesse è una quota individualmente piccola di un vantaggio generale male conosciuto e non induce a partecipare a battaglie dure, laddove il vantaggio dei pochi è individualmente assai rilevante ed è perciò tale da persuadere a parlare e ad intervenire. La voce dei meno ha inoltre grande probabilità di vincere perché essa suscita e rinfocola sentimenti nazionalistici, di difesa dell’industria nazionale, di tutela del «lavoro» nazionale, ecc. ecc.; frasi le quali sono prive di contenuto razionale; ma che, appunto perciò, hanno una presa sicura sulle folle ed in particolare sui componenti le assemblee politiche.

 

 

7 gennaio 1948.

 

 

Nota redatta ad occasione della lettura del «materiale di studio» per la nuova tariffa doganale e delle istruzioni della delegazione italiana alla conferenza di Annecy.

 

 

1. Importanza della tariffa doganale, nonostante esistano malanni più grossi. Può sembrare strano che si perda tempo a discutere intorno alla tariffa doganale, quando gli eventuali danni di questa maniera di protezionismo sono tanto poco rilevanti e quasi impalpabili in confronto alle nuove specie di protezione che prendono il nome di «permessi di importazione», «contingenti», «restrizioni valutarie», «monopolio governativo delle divise estere» e somiglianti infernali invenzioni. Almeno il dazio doganale è uguale per tutti, crea un privilegio per una classe, non mai per un individuo; non si presta, come i nuovissimi espedienti, a favoritismi arbitrari, anche se involontari, a favore di coloro che riescono ad essere ascoltati dai distributori di permessi, contingenti e divise. Il dazio doganale è creato dalla legge e tutti coloro i quali eserciscono od impiantano uno stabilimento rientrante nel quadro di una industria protetta hanno diritto a profittare del rialzo di prezzo al disopra del livello internazionale reso possibile dal dazio. Se una merce che, fuori dogana, vale dieci può essere venduta all’interno al prezzo di venti, perché la merce estera deve assolvere, entrando in paese, il dazio dieci, perlomeno il vantaggio dieci non è appropriato da Tizio o da Caio per favore individuale. Il primo che arriva sul mercato interno o tutti i produttori nazionali di quella merce hanno diritto di partecipare al banchetto e possono taglieggiare il consumatore nazionale facendogli pagare, difesi come sono dalla concorrenza straniera, un prezzo doppio di quello a cui egli potrebbe approvvigionarsi. E c’è la speranza che, se all’interno ci si mettono in molti a produrre quella merce, la concorrenza reciproca non consenta loro di sfruttare l’intiera protezione di dieci, costringendoli a ribassare i prezzi un po’ per volta verso il livello di prezzo internazionale. Invece, in regime di contingenti, colui al quale, tra i molti aspiranti, è toccata la fortuna di ottenere il permesso di importazione, intasca lui, proprio lui e nessun altro, il vantaggio di vendere a venti quel che ha comprato all’estero a dieci; perché lavora sul sicuro in un mercato interno la cui domanda non è soddisfatta dalla produzione nazionale.

 

 

Il dazio doganale, in confronto al sistema dei contingenti e restrizioni e permessi, è dunque rose e fiori. Ciò non toglie che esistano erbe e fiori puzzolenti e velenosi; e nessun articolo di fede comanda che faccia d’uopo rassegnarsi al male solo perché esso è minore di un altro malanno. Tanto più occorre rendersi ragione del male minore, poiché esiste sempre la speranza che i mali grossi dei contingenti, permessi e restrizioni un bel giorno scompaiano, quando la gente avrà minor terrore di pericoli immaginari a cui oggi si dà il nome di scarsità del dollaro, scarsità del franco svizzero, e pare domani si dirà anche scarsità della sterlina e che propriamente sembra dovrebbero prendere il nome di poca voglia di pagare le merci (divise estere) quello che valgono, e cioè il prezzo che solo il mercato libero e legalmente libero può determinare. Contingenti e licenze sono peste, colera e cancro per l’organismo economico; ma mentre si aspetta di essere liberati in virtù di qualche nuova invenzione dalla peste, dal colera e dal cancro, si prova un qualche sollievo se si sa che nel frattempo possiamo essere salvati almeno dalla polmonite.

 

 

Scarsa fiducia possiamo tuttavia nutrire nella scomparsa del pur più mite malanno della tariffa doganale; ché le tariffe doganali hanno la maligna abitudine di durare a lungo, spesso una generazione 1878, 1887, 1921 ed ora 1949 (?). Quel che sarà deliberato oggi, durerà un pezzo; sicché si impone una discussione a fondo, pubblica, non limitata a commissioni ministeriali o parlamentari dove tutto si insabbia. La discussione non può limitarsi agli interessati; i quali se si fanno innanzi, è perché hanno un qualche interesse particolare da difendere. Occorre che la discussione richiami l’attenzione dei moltissimi, della grande maggioranza degli italiani, la quale immagina di non essere interessata ed invece è destinata ad essere la vera sacrificata dai compromessi concordati alle sue spalle fra gli opposti interessi.

 

 

2. Ragioni di una decisione in proposito nel presente momento. Le ragioni per le quali sembra necessario prendere ora una decisione rispetto ad una nuova tariffa doganale si possono ridurre a tre:

 

 

  • La prima si è che la tariffa vigente è oramai antiquata e non risponde alle esigenze di classificazione tecnica delle voci di tariffa, alla necessità di tener conto di nuovi prodotti o di specificazione maggiore di prodotti noti, alla opportunità di sostituire, in tempi di cambi esteri mutevoli, il sistema dei dazi ad valorem a quello dei dazi specifici ed alla agevolezza così offerta di fondere insieme i due sistemi oggi contemporaneamente vigenti di dazi specifici da un lato e di diritti uniformi di licenza del 10% ad valorem dall’altro.

 

 

Su di che non vi sono osservazioni di rilievo da fare, se non forse quella che la moltiplicazione stragrande, oltre i mille, dei numeri di tariffa e quella maggiore delle lettere dell’alfabeto in che quasi ogni numero è frazionato, offre il destro ad un frantumamento spesso incomprensibile della tariffa, vantaggioso probabilmente a minuti interessi particolari.

 

 

  • La seconda ragione di urgenza è quella di inviare una delegazione italiana alla prossima conferenza di Annecy; delegazione la quale non potrebbe discutere con le delegazioni degli altri paesi, se non fosse munita di una tariffa, sia pure non definitiva, da servire come punto di partenza nelle trattative le quali devono essere condotte per giungere ad un progetto di convenzione da sottoporre al parlamento.

 

 

Neppure su di ciò cade un dubbio di principio, salvo a discutere quali siano le istruzioni da dare alla delegazione che, per l’urgenza di inviarla dovrà probabilmente presentarsi provvista di un documento soggetto non solo ad assai critiche, ma privo, quel che è assai peggio, di ragionevole giustificazione.

 

 

  • E la terza ragione è quella di tener conto nelle discussioni di Annecy della possibile firma dell’unione doganale franco italiana; la Francia avendo già deliberato una tariffa generale, che per essere già stata presentata in sede di I.T.O. non potrebbe più, dopo una certa data, essere variata in aumento. Poiché i due territori, italiano e francese, sono destinati a fondersi in uno solo e ad essere governati da una sola tariffa, è manifesta la necessità di regolare tempestivamente la materia. Il che neppure comporta dubbi; ma non esclude la necessità di esaminare la natura della tariffa francese, sia di quella generale, sia delle riduzioni, che diconsi notabili, già apportate a quella tariffa in sede convenzionale per vedere se non esista un punto di vista italiano, del quale si debba tener conto nella tariffa comune.

 

 

Non bisogna infatti rinunciare alla possibilità di proporre tariffe più ragionevoli e cioè più basse di quelle convenzionate francesi. In una unione doganale non è articolo di fede che una parte, arrivata in ritardo, debba senz’altro rassegnarsi a ciò che era stato più tempestivamente deliberato dall’altra parte.

 

 

Tanto meno si comprende come si possa registrare, senza un’energica riprovazione, l’esistenza, ad esempio, di un documento dal quale risulterebbe che due gruppi di congiurati al comune danno, italiani e francesi, si sono messi d’accordo nel determinare nel 130% l’ammontare minimo del dazio protettivo sullo zucchero di cui essi sarebbero disposti a contentarsi. E ciò, s’intende, per una industria le cui origini risalgono nientemeno che al blocco continentale e la quale in quasi un secolo e mezzo dovrebbe avere avuto il tempo di farsi qualcosa di più delle ossa.

 

 

L’urgenza di partecipare alla conferenza di Annecy non può dunque essere messa in dubbio; ma essa è subordinata alla condizione che la delegazione riceva istruzioni precise sulla condotta da tenere e sugli scopi che si vogliono raggiungere.

 

 

In sostanza ad Annecy la delegazione dovrà andare con istruzioni che la guidino nel suo lavoro in conformità agli interessi del paese.

 

 

Sebbene si possa presumere che i lavori della conferenza dureranno a lungo e che nei primi tempi consisteranno di esplorazioni generiche reciproche non impegnative, occorre che la delegazione abbia una qualche guida in attesa di quelle che dovranno essere le risultanze delle discussioni parlamentari e pubbliche.

 

 

3. Perché il materiale di studio non può servire di guida alla delegazione. Bisogna mettere fin dal principio bene in chiaro che questa guida la delegazione non la potrà trovare nel materiale di studio che ha servito di base alla stesura della minuta provvisoria di tariffa distribuita in bozze di stampa.

 

 

A priori non può essere messo in dubbio che almeno una istruzione precisa dovrebbe essere data alla delegazione: quella di non tener conto affatto di quel materiale di studio ed anzi di considerare quel materiale come assolutamente negativo. E cioè, ogni qualvolta si debba discutere di un argomento determinato e di una voce della tariffa, la delegazione dovrebbe pensare il contrario di quello che è scritto nel materiale di studio. Tutte le pagine di quel materiale di studio sono invero informate ad un mercantilismo tanto ingenuo e grossolano quale sarebbe parso impossibile di vedere ancora, non dico accettato, ma neppure preso in considerazione nei nostri tempi.

 

 

Basta ricordare alcuni tra i motivi che sono addotti a base delle proposte di dazio per vedere che su quella base non si può in verun modo discutere. Il protezionismo può essere combattuto o difeso, ma nella difesa vi è un limite di decenza che non può essere oltrepassato.

 

 

C’è un protezionismo che risale ai momenti più ingenui del mercantilismo volgare; e c’è un protezionismo moderno od almeno poggiato su argomenti degni di discussione. La bozza di tariffa doganale è informata in tutto alla prima specie; e da essa non traspare neppure l’ombra delle argomentazioni che, buone o cattive, possono essere addotte a favore di una decente protezione doganale in pro di una industria nazionale. Delle argomentazioni che hanno un certo carattere di plausibilità e di razionalità non vi è nel materiale di studio la più lontana traccia. Probabilmente anche le altre delegazioni si presenteranno ad Annecy col medesimo bagaglio di argomentazioni dell’età della pietra; ma non è questa una ragione bastevole per fare anche noi la stessa brutta figura.

 

 

4. Esemplificazione di alcune tra le erronee argomentazioni a favore della proposta tariffa doganale. Per citare solo alcuni esempi, sembra, nel leggere le pagine della relazione, che basti il fatto che tutti od alcuni tra i produttori in una certa industria lavorino ad alti costi per rendere legittima la richiesta di un dazio contro la merce straniera prodotta a costi più bassi. Se si pensa che ciò vuol dire puramente e semplicemente che basta essere incapaci ed inetti per avere il diritto di far pagare una taglia ai consumatori nazionali impediti di ricorrere a coloro che sono capaci ed abili, risulta manifesta la grossolanità della argomentazione. Chi desidera una protezione doganale deve essere in grado di addurre qualche altro argomento all’infuori di: «Io sono un inetto (burich, asini, diceva Cavour dei più tra gli agricoltori suoi contemporanei, i quali levavano alti strilli ad ogni annuncio di un possibile calo del prezzo del grano) e per conseguenza ho il diritto di far pagare la mia infingardaggine a qualcheduno». Colui il quale sa presentarsi soltanto con questa argomentazione merita di essere cacciato via a pedate.

 

 

Naturalmente chi invoca gli alti costi per ottenere un dazio non dice: «Io sono un inetto»; e discorre di alti costi non della «sua» particolare impresa, sibbene della industria in genere. Ossia invoca un fatto non esistente. Non esiste un costo «dell’industria». Tutti sappiamo che quella tal merce si vende in quel momento ed in quel luogo a cento lire l’unita; e tutti vediamo che se quello è il prezzo di mercato, esso è valido per tutti in quel luogo ed in quel momento. Ma nessuno ha mai visto «il» costo per tutti di quella merce. Non esiste un costo; esistono tanti costi quante sono le imprese; e sono tutti costi veri sebbene diversissimi l’uno dall’altro. Nei tempi torbidi, quando per altre circostanze, sovratutto per falsificazioni o svalutazioni monetarie, i prezzi salgono, le moltitudini cominciano a gridare che ci sono dei profittatori ed invocano leggi per obbligare i produttori a vendere al costo. A quale dei tanti costi? Al più basso del miglior produttore? Ma se così si ordina, falliscono gli altri; la merce diventa rara e trionfano accaparratori, mezzani e simile mala genia. Al più alto costo del più inetto? Consacreremmo per legge i profitti di congiuntura e di monopolio dei produttori migliori. In tempo di guerra si debbono per forza commettere spropositi; ma non è necessario intestardirsi in essi anche finita la guerra. Quando si negozia una tariffa e si dà ascolto alle querele di chi lamenta gli alti costi nazionali ed implicitamente ed ingiustamente accusa tutti i suoi colleghi di essere arretrati, ignoranti, stupidi e poltroni in confronto ai sublimi stranieri i quali producono la roba per niente, quale dei costi si sceglie? Certamente, se i costi vanno da dieci a venti, i querelanti tecnici, esperti, specialisti, rappresentanti di categoria non mettono innanzi il caso dell’industriale Tizio che produce al costo dieci. Ohibò! essi sbandierano, spingono avanti, come nelle dimostrazioni si fa con le donne ed i bambini, quei più numerosi che lavorano a costi diciotto, diciannove, venti e ventidue e dipingono a tetri colori la disoccupazione e la miseria dei poveri lavoratori, i quali verrebbero messi sul lastrico se il prezzo non fosse almeno venti. Rinunciano a malincuore a richiedere ventidue. Ai più disgraziati provvederà qualcuno. Ma a meno di venti non si può assolutamente produrre. Il mercato nazionale verrebbe invaso; le industrie annichilite ecc. ecc. – Frattanto, all’ombra del prezzo venti, per i produttori a costi inferiori a venti fino a dieci, gli altri italiani diventano una massa taillable et corvéable à merci.

 

 

Altrove si dice: «I produttori nazionali in questo ramo d’industria sono molti, sono troppi, e perciò lavorano a costi alti; quindi diamo loro la protezione doganale affinché essi seguitino ad essere molti e possano seguitare a far pagare cara la loro merce». Non sarebbe invece imposto dal semplice buon senso replicare: «Se siete in troppi, qualcheduno di voi merita di essere eliminato cosicché sopravvivano coloro che sono capaci di rendere servigio alla comunità ad un costo più ragionevole».

 

 

In ogni caso è inammissibile che si voglia perpetuare, impedendo la concorrenza straniera, la cattiva organizzazione dell’industria nazionale. Se a qualche fine utile può servire il dazio esso è quello soltanto che tende a migliorare l’industria nazionale; non mai quello che giova a perpetuarne i difetti.

 

 

Altrove si osserva: «Questa industria ha una organizzazione di vendite all’estero pesante il cui costo non è giustificato dalla quantità attuale delle esportazioni verso l’estero. Quindi concediamo un dazio sulle merci analoghe straniere affinché l’industria nazionale possa pagarsi le spese della sua sovrabbondante organizzazione di vendite all’estero». Tradotta in termini volgari l’argomentazione vuol dire: «Consentiamo alla industria nazionale di strangolare i suoi consumatori nazionali cosicché essa, coi lucri indebitamente percepiti a carico di costoro, paghi le spese eccessive a cui deve sottostare per vendere all’estero i suoi prodotti a buon mercato senza apparentemente neppure riuscirvi». È lecito ragionare in questo modo?

 

 

Si aggiunge: «Il mercato nazionale non assorbe abbastanza i prodotti dell’industria nazionale; quindi occorre impedire che su questo mercato arrivi in aggiunta la merce estera in concorrenza». Traduzione, in parole più semplici: «I consumatori nazionali stentano ad acquistare tutta la merce che l’industria del paese produce, e ciò accade senza dubbio perché l’industria nazionale vende quel prodotto a prezzi tali che i consumatori nazionali non possono comperarne più di una certa quantità. Per rimediare al malanno, impediamo che venga la merce estera, cosicché le industrie nazionali possano mantenere i prezzi attuali e forse aumentarli ancora». Con quale risultato? L’industria nazionale seguiterà a vendere poco e forse venderà ancora meno. Ma col produrre caro e col vendere poco crescerà la ricchezza del paese?

 

 

Si dice ancora: «L’industria nazionale non riesce ad esportare: quindi bisogna per lo meno impedire che gli stranieri vengano a combatterla con prezzi più bassi sul territorio nazionale». Perché non esporta? Per la stessa ragione per la quale vende poco in paese, ossia perché i suoi costi ed i conseguenti prezzi sono alti.

 

 

È un rimedio a ciò consentire che essa conservi i prezzi che le impediscono le esportazioni e ne restringono il mercato interno?

 

 

La libidine del proteggere fa talvolta scrivere: «Questo è un ramo di industria i cui prodotti sono destinati all’esportazione ed in cui non è gran che da temere concorrenza». Ma tant’è, poiché proteggere si deve, diamo anche qui un 10-35 per cento di protezione. Non si sa mai, a qualcosa potrà servire.

 

 

«L’industria di cui si tratta è vecchia, – si lamenta; – e perciò occorre Proteggerla». «Il dazio c’era già»; «dunque bisogna conservarlo». Ampliando: «I dazi vigenti risalgono al 1921, ad un periodo, cioè, di fronte al quale l’industria… italiana ha oramai raggiunto sviluppi più che notevoli». Parrebbe logico, continuando a leggere, di contemplare finalmente una proposta di riduzione. Mai no. Quell’industria ha ancora «fortissime possibilità di sviluppo». Quindi proteggiamola. Questa sì, è una nuovissima argomentazione, opposta a una delle poche che hanno apparenza di razionalità in questa materia. I pochi legislatori ed economisti che hanno addotto ragioni plausibili per invocare dazi – e ricordo soltanto in ordine cronologico Hamilton, primo segretario del tesoro degli Stati Uniti con Washington, Federico List, promotore della grande lega doganale tedesca del secolo scorso, Giovanni Stuart Mill – hanno detto «La protezione può essere concessa temporaneamente alle industrie nuove per consentire ad esse di superare il periodo difficile della loro formazione. Diventate adulte esse potranno e dovranno esser private della protezione concessa non a loro vantaggio, ma affinché sul territorio nazionale possa essere incoraggiata una industria capace di produrre le merci allo stesso ed augurabilmente ad un minor costo delle straniere. Se non si spera ottenere il risultato di produrre all’interno ad uguale o minor costo di quello straniero e se, fatta l’esperienza, si riscontra che la speranza non si è verificata, manca la ragion d’essere del dazio, e questo non deve essere stabilito o, se lo fu per errore, deve essere abolito».

 

 

Gli insigni uomini di stato ed economisti sovra ricordati non hanno mai pensato alla comica idea che una industria potesse chiedere di essere protetta solo perché antica e perché durante una vita infeconda non è riuscita ad innalzarsi al di sopra dello stadio della infanzia. Essi probabilmente pensavano che un’argomentazione siffatta sarebbe stata cagione di troppa vergogna per chi avesse osato metterla innanzi.

 

 

I fautori prudenti di una temporanea protezione ad una industria nuova non si sarebbero neppure mai sognati di affermare, come qua e là si legge nel materiale di studio: «Per ora di un dazio non ci sarebbe bisogno; ma può darsi che in avvenire il bisogno sorga e quindi provvediamo fin d’ora». A che cosa? A dare all’industria futura un sovraprezzo non richiesto, mettendo una imposta ingiustificata sui consumatori?

 

 

Se disgrazia vuole poi che in una industria sia interessato lo stato, si salvi chi può!

 

 

I costi di produzione di certe acque demaniali «permangono notevolmente superiori a quelli internazionali»; ed ecco la proposta di un dazio del 160 e del 180% corrispondenti al divario accertato tra i prezzi esteri e quelli nazionali. Gli ammalati si terranno i loro guai; ma i redditi del demanio non debbono essere messi in pericolo. Neanche quando su sei impianti, solo due sono di proprietà demaniale, non si può rinunciare alla protezione, ossia all’attentato continuo alla salute dei disgraziati italiani i quali possono aver bisogno per guarire di quella tale acqua.

 

 

Gli ammalati sono davvero materia greggia da sfruttare. Per ora ci si contenta di un dazio del 10% sulla streptomicina e sulla penicillina; ma nella previsione che per avventura sorga una industria nazionale, bisogna mantenere la voce libera, per poter crescere il dazio e scemare le probabilità di vita a chi non potrà pagare il prezzo rincarato.

 

 

Non si dica che il riassunto di alcune poche tra le incredibili argomentazioni che si leggono nel materiale di studio sia calunnioso. Il riassunto è esposto forse più chiaramente; ma non è perciò meno fedele. Troppe idee vaghe soffrono nell’essere tradotte nelle parole volgari del linguaggio comune; ma la traduzione si addimostra appunto perciò indispensabile.

 

 

5. Criterio di lavoro nella formazione della nuova tariffa. Non ci si può sottrarre alla impressione che i compilatori dello schema di tariffa doganale abbiano ubbidito a concetti antidiluviani soltanto perché le varie categorie di interessati, chiamate ad esporre le loro richieste, hanno creduto di attenersi alla «pratica», considerando come «condotta pratica» quella più conforme ai loro interessi privati immediati, senza preoccuparsi dell’interesse collettivo permanente. Una merce «a me» costa tanto a produrla? Se si vuole che io continui a «lavorare», bisogna che un dazio mi garantisca quel prezzo. Se c’è uno straniero il quale la vende a metà prezzo, colui è il nemico mio e dei miei operai; e quindi, con un salto logico da canguro, del paese. Il quale perciò, con questo bel salto, dovrebbe avvantaggiarsi di tutto ciò che tiene i prezzi alti. E magari, chi parla così, in altra sede, a casa sua, strepita contro il caro vita, scordandosi che poco prima aveva fatto quanto poteva per invocarne l’inasprimento.

 

 

La tariffa dà l’impressione di essere il frutto di un quarto di secolo di corporativismo e cioè di compromesso fra gli interessi contrastanti: compromesso ottenuto a spese dei terzi non presenti. Si legge che sono stati interrogati industriali aventi interessi opposti, perché consumatori gli uni dei prodotti degli altri. Ad esempio, pare che si sia cercato di contemperare gli interessi dei minatori con quelli dei metallurgici e quelli dei metallurgici con quelli dei meccanici; o gli interessi dei produttori di frumento con quelli dei mugnai e gli interessi dei mugnai con quelli dei produttori di paste alimentari, e via dicendo.

 

 

Il risultato fu che nessuno si è preoccupato dell’interesse generale, il quale è eguale a quello dell’insieme dei produttori che sono essi medesimi consumatori. Se ognuna delle categorie di produttori bada a sé, il risultato è che sono danneggiati in genere i produttori, la cui totalità comprende, oltre i produttori che si sono assicurati una protezione doganale, anche tutti quegli altri produttori i quali producono beni o servigi che non possono essere tutelati con nessuna tariffa doganale.

 

 

Il magistrato, il professionista, l’impiegato, il produttore di case è un produttore anch’egli, tale e quale come l’agricoltore o il metallurgico: ma in qual modo si può riuscire a proteggerlo?

 

 

6. Errore dell’aumento percentuale della tariffa nel passaggio dal prodotto greggio a quello finito. Frutto di questa concezione sbagliata dell’ufficio della protezione doganale è la regola osservata in tutta la tariffa di aumentare la percentuale della tariffa medesima a mano a mano che si passa dalle materie gregge ai prodotti semilavorati e ai prodotti finiti. Finché la tariffa era specifica di tante lire per ogni quintale del prodotto considerato, la progressione della tariffa nel passaggio dalle materie prime al prodotto finito poteva forse avere una qualche giustificazione; sebbene anche su di ciò sarebbe stato necessario discutere caso per caso. Ma la progressione non ha senso alcuno in materia di dazi percentuali ad valorem.

 

 

Prendasi il caso delle industrie metallurgiche e meccaniche per cui le proposte vanno dal 15% per la ghisa allo stato greggio al 20, 30, 40 e 50% per i macchinari, senza parlare di percentuali spettacolosamente più alte richieste per taluni prodotti come le vetture automobili. Se il buon senso avesse luogo nella formazione delle tariffe doganali dovrebbe essere accolta la regola contraria: se si stabilisse il 15% sui prodotti grezzi, il dazio sui prodotti lavorati dovrebbe essere non maggiore, ma minore del 15%: ad esempio del 10 o del 5 per cento.

 

 

Se il dazio, seguendo l’erroneo criterio del materiale di studio, deve invero compensare i maggiori costi dell’industria nazionale in genere in confronto a quella straniera, premiando così i poltroni e gli incapaci, per lo meno si dovrebbe tener conto del fatto che il costo dei coefficienti di produzione diventa per l’Italia sempre minore a mano a mano che si passa a lavorazioni più raffinate. Infatti nelle lavorazioni più raffinate ciò che monta è l’intervento della mano d’opera, di cui tutto si potrà dire eccettuato che essa non sia più a buon mercato di quella dei paesi concorrenti più progrediti.

 

 

I salari italiani per unità di tempo e di prodotto sono ancora notevolmente più bassi degli stranieri; cosa del resto riconosciuta dagli stessi industriali quando, invece di essere interrogati in commissioni paritetiche per esporre i loro desideri e le loro pretese in materia di dazi doganali, discutono privatamente delle ragioni per le quali essi riescono o non riescono a vincere la concorrenza straniera sui mercati stranieri. Quando essi parlano dicendo la verità riconoscono che alcuni prodotti sono largamente venduti all’estero perché si tratta di prodotti di qualità,nei quali la materia prima entra relativamente poco ed invece entra assai l’intelligenza del progettista, la diligenza del disegnatore, la finitezza del lavoro da parte dell’operaio specializzato. L’essere cioè un prodotto più lavorato di un altro è un fattore di attitudine alla concorrenza. Anche coloro i quali ragionano sulla base della teoria sbagliata dei dazi compensatori devono ammettere che i prodotti finiti hanno minore necessità di protezione dei prodotti grezzi.

 

 

Quando discorrono privatamente, i restrizionisti non trascorrono alla calunnia contro i loro connazionali. È una vera auto calunnia chiedere dazi più alti per i prodotti più lavorati, perché ciò, nella solita traduzione in linguaggio volgare, equivale ad affermare che i dirigenti, che i tecnici, che gli operai italiani sono ignoranti, privi di iniziativa, poltroni, mancanti di amor proprio e perciò i prodotti del loro lavoro sono mal fatti e bisognosi di protezione. Parlando in privato, gli industriali non calunniano, ma anzi si lodano delle loro maestranze, dirigenti e manuali. Se la lode è, come è, meritata, a che pro tante bugie querimoniose quando si chiedono dazi ad valorem crescenti?

 

 

È vero che per giustificare una maggiore protezione per i prodotti finiti si è osato scrivere che tale protezione era richiesta per compensare i maggiori costi derivanti alla industria dal blocco dei licenziamenti; come se un provvedimento certamente dannoso al progresso della industria, alla capacità sua di concorrenza ed alla piena occupazione operaia potesse essere assunto come criterio per conservare all’industria per una intiera generazione la possibilità di tenere prezzi elevati a carico dei consumatori nazionali, a ricordo duraturo di una sua condizione d’inferiorità provocata da una norma prima dovuta alla legge e dopo alla difficoltà di sormontare obiezioni di carattere sociale, dovute alla inconsapevole trascuranza dei veri interessi dei lavoratori.

 

 

Se questa argomentazione potesse essere accolta, ne deriverebbe la conseguenza che qualunque sbaglio commesso nella politica economica interna sancirebbe un diritto per l’industria di assoggettare ad una taglia perpetua la collettività italiana.

 

 

7. Limiti in cui l’argomento delle imposte è valido. Non dovrebbe valer la pena poi d’indugiarsi sull’esame di altre fruste argomentazioni a proposito della tariffa doganale, di cui l’esempio più insigne può trarsi dall’uso e dall’abuso che si fa dell’argomento delle alte imposte pagate in Italia.

 

 

L’argomento delle imposte è, entro dati limiti, legittimo in materia di dazi doganali fiscali. Nel materiale di studio non vi è tuttavia traccia della distinzione che, trattandosi di tariffa doganale, dovrebbe essere fondamentale fra i dazi fiscali ed i dazi protettivi.

 

 

È ovvio che ogni paese deve tenersi le mani libere per quel che riguarda i dazi fiscali: essendo chiamati fiscali soltanto i dazi i quali alla frontiera colpiscono la merce estera col medesimo gravame con cui in paese sono colpite le eguali merci nazionali con una imposta di fabbricazione od altra imposta diversamente chiamata la quale colpisca in modo specifico una determinata merce.

 

 

Praticamente non esistono altri dazi fiscali fuor di quelli i quali compensano una identica imposta specifica nazionale, essendo difficile concepire la possibilità di una merce che non sia producibile assolutamente in paese. Se questa merce esistesse, il dazio che colpisse la merce forestiera sarebbe anch’esso fiscale non avvantaggiando nessuna industria nazionale. Può darsi che qualche voce si possa scoprire di merce assolutamente non producibile in paese; ma trattasi di rari casi, perché ogni merce, se non col medesimo nome e con la medesima struttura tecnologica, può essere prodotta in paese per surrogato. Certamente il caffè non può in pratica essere prodotto in Italia, salvo che in serra; ma si possono produrre molte specie di surrogati del caffè, e quindi un dazio sul caffè, che non fosse controbilanciato da una corrispondente imposta sui surrogati nazionali del caffè, sarebbe protettivo. Esso è invece fiscale perché il dazio sul caffè forestiero è sempre controbilanciato da una imposta sui surrogati del caffè.

 

 

Tutti gli altri dazi, che sono, sulle parecchie migliaia della tariffa doganale, la grande maggioranza, sono protettivi e quindi non interessano la finanza.

 

 

La finanza per suo conto può disinteressarsi probabilmente del 99% dei dazi, sicura com’è di compensarsi della rinuncia ai dazi non rigidamente fiscali con il maggior provento che le altre imposte darebbero per l’incremento che ne verrebbe al reddito nazionale.

 

 

Le poche esperienze che nella storia si sono fatte in materia sono assolutamente probanti: dopo pochi anni il gettito dei pochi dazi fiscali sopravvissuti superò quello delle migliaia di voci daziarie protettive abolite.

 

 

La tariffa doganale è cosa che solo per tradizione spetta al ministero delle finanze; in realtà è faccenda la quale dovrebbe essere studiata all’infuori delle voci fiscali sulla base di considerazioni che non hanno niente a che fare con la materia finanziaria.

 

 

8. Assurdo di una tariffa generale estesa a migliaia di voci. Quali sono i principi in base a cui potrebbe essere pensata una tariffa doganale rivolta ad ottenere scopi, discutibili sì, ma in ogni caso discutibili al punto di vista dell’interesse collettivo?

 

 

In primo luogo si dovrebbe escludere che una tariffa possa estendersi a migliaia di voci e praticamente a tutte le merci, dalle più grezze alle meglio finite, di cui si possa immaginare la produzione ed il consumo nel paese.

 

 

Una tariffa basata su questo concetto è assolutamente priva di senso comune.

 

 

Alessandro Manzoni in un passo celebre del romanzo ha messo in chiaro la comica irrazionalità del principio: «Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano». Quando tutte le produzioni sono ugualmente protette è come se nessuna fosse protetta. E, badisi, questa dell’uguale protezione è la filosofia – se pur si possa adoperare così solenne parola per così grossolana proposizione – inavvertita della nuova tariffa doganale: tutte le industrie dovendo essere protette con un dazio uguale alla presunta differenza fra il costo nazionale ed il costo straniero. È una uguaglianza dedotta da un metro inesistente; ma nelle intenzioni è un’uguaglianza. L’uguaglianza vera essendo assurda, nasce dalla falsità del principio informatore una profonda ingiustizia. Riescono ad ottenere un vantaggio soltanto quelle industrie le quali per maggior furberia dei loro rappresentanti sono riuscite ad ottenere un dazio proporzionalmente più elevato di quello che spetta a tutte le altre industrie. Ma siccome ciò è dovuto a furberia, senz’altro la ingiustizia impronta di sè la tariffa. Il dazio è concesso non perché adempia ad un fine pubblico, ma soltanto perché nelle contrattazioni quel tale è riuscito ad imbrogliare meglio i funzionari incaricati della elaborazione della tariffa, i diplomatici che ne trattarono con i cosidetti avversari stranieri e gli uomini politici che misero la firma al risultato dell’imbroglio.

 

 

Se una tariffa «protettiva» deve esistere, questa dev’essere stabilita a favore di un numero limitato di industrie per le quali si può assumere, con fondatezza maggiore o minore, ed in ogni caso con quella minore infondatezza che potrà essere il risultato di una pubblica discussione, l’esistenza di chiari motivi, particolari a quelli industria, i quali giustifichino l’onere imposto alla generalità in favore di quella industria.

 

 

9. Esemplificazione di alcuni tipi non alfabetici di protezione. Si tratterà in qualche caso di consentire ad una industria nuova di superare le prime difficoltà inerenti al periodo iniziale in cui si sopportano costi, si cercano clienti, si deve vendere il prodotto a prezzi forse inferiori ai costi pur di conquistare il pubblico. Si devono formare gli stati maggiori dei tecnici dirigenti e raccogliere ed educare maestranze; tutto ciò costa e costituisce un gravoso peso iniziale. È la teoria degli Hamilton, dei List e dei Mill, a cui, come si disse sopra, non si può negare almeno il fumus boni juris.

 

 

L’argomento è noto soprattutto per la sua pericolosità; ed è noto come il più celebre degli espositori di questo argomento a favore dei dazi, Giovanni Stuart Mill, qualche anno dopo la pubblicazione del suo trattato, in cui quell’argomento può essere letto per disteso, scrisse una non meno celebre lettera ad un suo corrispondente australiano il quale gli aveva esposto l’iniziale entusiasmo e le successive delusioni del principio. E ciò per una ragione ovvia: istituito il dazio, se questo potesse essere limitato alle imprese sorte subito, esso potrebbe esser fatto cessare dopo quattro o cinque anni o dieci quando la giovane impresa avesse fatto le ossa e, divenuta adulta, potesse reggersi da sé e vincere anche all’estero la concorrenza forestiera. Ma ciò non accade perché sempre nuove imprese in quella industria sorgono, sicché trascorsi i dieci, quindici, venti e più anni, sempre vi è in ognuna di quelle industrie qualche impresa la quale è giovane e necessita ancora di protezione.

 

 

Laddove gli inventori del principio si riferivano ad imprese, gli applicatori parlarono, e forse non potevano esprimersi altrimenti, di industrie . Si protegge l’industria, già vecchia e forse decrepita, perché in quella industria sempre sorge un’impresa nuova e giovane, la quale si è fidata dei dazi e spera di goderne ancora per qualche anno. Cosicché la protezione, concepita come temporanea, si perpetua.

 

 

La protezione alle industrie giovani deve essere perciò razionalmente concessa soltanto a quelle che siano in realtà tali e non decrepite, come la maggior parte di quelle le quali sono contemplate dal progetto di nuova tariffa doganale, ma dev’essere concessa per un limitato periodo di tempo decrescendo da un massimo iniziale sino allo zero terminale: alla fine, ad esempio, del decennio o quindicennio o ventennio concesso.

 

 

Vi può esser qualche altra industria che senza esser giovane debba, per circostanze particolarissime, sormontare un periodo che da tutti gli indizi si può ammettere essere transitorio, di prezzi bassi che ucciderebbero l’industria senz’altro, col rischio di doverla poi ristabilire in seguito. Sebbene la scelta presenti difficoltà grandissime, una protezione temporanea per quel periodo limitato di tempo potrebbe essere consigliabile.

 

 

Si può anche ricordare il caso del dumping esercitato da qualche impresa straniera allo scopo deliberato di uccidere la concorrenza nazionale. Anche qui si tratta di applicazioni limitate. In primo luogo perché non bisogna confondere il dumping provvisorio con una politica di prezzi differenziati, la quale potrebbe essere stabilita nell’interesse della generalità; ed in secondo luogo perché se non è difficile di stabilire un controdazio di ritorsione contro i premi palesi di esportazione da parte di stati stranieri, è invece difficilissimo misurare l’ammontare del premio o sottoprezzo di esportazione quando questo sia il frutto della particolare condotta di imprese private straniere.

 

 

Un argomento in favore della protezione, di cui in qualche raro caso si può tener conto, è quello in favore della fabbricazione di armi e munizioni, per cui non si può ricorrere al nemico in caso di bisogno. Ma è argomento del quale si può tener conto altrimenti, dato che si tratta di industrie, spesso nazionalizzate, di cui unico cliente è lo stato il quale fissa per lo più prezzi fin troppo larghi; e di cui è pericolosissima l’estensione, essendo oramai bellica la produzione di quasi ogni bene necessario alla vita civile. Estesa così, la protezione si risolve nell’affermare che giovi alla difesa del paese un metodo il quale rincara la vita e rende le moltitudini avverse alla società in cui vivono.

 

 

La tariffa proposta, nel cui materiale di studio non si trova la più lontana traccia di argomentazioni di cotale specie, può essere dunque considerata come intesa a creare una protezione universale caratterizzata da prezzi all’interno più alti di quelli che esisterebbero senza la protezione concessa dalla tariffa.

 

 

10. La tariffa proposta ha per risultato la perpetuazione di una politica di carestia. Scopo non dichiarato ma inevitabile della applicazione di questa tariffa è quindi la perpetuazione nel nostro paese di una politica intesa a creare la carestia ed il caro vita.

 

 

Se non si vuole stravolgere il significato delle parole è evidente infatti che alti prezzi, carestia, carovita, produzione scarsa, diminuzione del reddito nazionale sono parole tra di loro intercambiabili e praticamente sinonime.

 

 

Se una tariffa non ottiene il risultato di elevare i prezzi interni ad un livello uguale ai maggiori costi di cui gli agricoltori e gli industriali nazionali si lamentano, essa è perfettamente inutile. Se invece, a parità di altre circostanze, i prezzi si elevano ciò vuol dire che la produzione è scarsa, e se la produzione è scarsa vuol dire che la collettività consuma poco. Una tariffa indiscriminata e generale è perciò sinonimo di consumo scarso, di carestia, di povertà e di miseria.

 

 

11. La tariffa proposta promuove l’odio di classe. Quando un provvedimento ha per iscopo di creare la miseria è senz’altro condannato. Ma vi sono disparità nella miseria e queste disparità sono particolarmente pericolose per il nostro paese.

 

 

La tariffa doganale è uno strumento efficace per creare odio fra classe e classe e fra regione e regione. Crea odio fra classe e classe perché dalla carestia e dai prezzi alti traggono profitto le categorie sociali le quali si trovano nella posizione strategica migliore per approfittare dei prezzi alti.

 

 

Si tratterà di alcuni gruppi di agricoltori avvantaggiati dai lucri differenziali nella produzione del frumento in confronto all’alto costo necessario per produrre gli ultimi milioni di quintali di frumento coltivati in terreni disadatti a quella cultura.

 

 

Si tratterà degli industriali e degli operai occupati in quelle industrie le quali sono riuscite – come si è detto sopra – ad imbrogliare i fabbricanti di tariffe e i relativi negoziatori ottenendo un di più in confronto a quegli altri che si sono dovuti accontentare della tariffa ordinaria.

 

 

Al di sotto di tutti coloro i quali, alzandosi in punta di piedi, non hanno potuto vedere meglio di quanto vedevano quando erano con le piante in terra, vi sono moltitudini le quali dalla tariffa non possono ricevere se non danno, e sono quelle tali classi già ricordate che vendono servigi personali o vendono prodotti che non possono essere oggetto se non di contrattazioni interne, senza mobilità verso o dall’estero.

 

 

Il reddito nazionale, che non può essere aumentato da una tariffa ma tutt’al più diminuito, è appropriato in maggior misura dalle classi favorite dai dazi superiori alla media, sicché i meno favoriti dalla protezione e tutte le classi di impiegati, professionisti, artisti, appartenenti alle occupazioni non proteggibili, vedono il loro reddito diminuito dal sistema di carestia creato dalla tariffa.

 

 

12. La tariffa proposta inasprisce il dissidio tra regioni e regioni. La tariffa inasprisce il dissidio fra le diverse regioni italiane. Non v’è dubbio che le regioni meridionali hanno avuto ragione di dolersi in passato di una politica doganale la quale, in cambio del miserabile boccone di pane largito sotto forma di dazio sul grano non alla popolazione meridionale ed insulare, ma ad alcuni ceti di proprietari terrieri, ha assoggettato il mezzogiorno intiero ad una taglia a favore dei produttori del nord messi in grado dalle tariffe del 1887 e più del 1921 di far pagare prezzi elevati per i propri prodotti industriali ai consumatori del sud.

 

 

Importa che questo lato politico del problema sia ampiamente discusso cosicché, a ragion veduta, si decida di continuare nel sistema ovvero di abbandonarlo.

 

 

Non è soltanto il mezzogiorno il quale ha ragione di dolersi di comprare le macchine agricole, gli aratri, gli strumenti di lavoro, i concimi chimici, i vestiti, le scarpe a prezzi rincarati dalla protezione doganale: del rincaro si dolgono anche le popolazioni delle altre regioni d’Italia; ma per le altre regioni, a magro conforto dei danneggiati, si può dire che qualcun altro vi è nella loro regione che trae profitto dal rincaro. Nelle regioni prevalentemente agricole il compenso, sia pure distribuito sperequatamente, non esiste.

 

 

L’opinione pubblica deve esser chiamata apertamente e preventivamente ad esprimere il suo parere, cosicché chi dovrà decidere conosca con precisione quali saranno le reazioni provocate dai suoi deliberati.

 

 

13. La tariffa proposta promuove i monopoli. Avvenimenti recenti hanno presentato dinnanzi all’opinione pubblica il problema della lotta contro i monopoli economici; e da varie parti si è insistito sulla necessità di una legislazione la quale tenga in freno i monopolisti e ponga un limite all’opera dei trusts, cartelli, consorzi e simili.

 

 

Una legislazione antimonopolistica, pur presentando difficoltà grandissime di formulazione e di attuazione, è certamente fra le esigenze maggiori del momento presente. Sarebbe, tuttavia, una farsa tragica se, quando le richieste contro i monopolisti si fanno particolarmente vive, si consentisse ad un’altra specie di legislazione di dare incremento ai monopoli medesimi.

 

 

La prima specie, e più sicura, di legislazione antimonopolistica è quella che si astenga dal creare monopoli. Vano è combatterli da un lato, quando dall’altro lato il legislatore medesimo si affanna a promuoverli ed a premiarli. Orbene, una delle specie di legislazione più sicuramente colpevole di promuovere monopoli è appunto la tariffa doganale. Questa, creando ai confini dello stato una barriera la quale non può essere sormontata se non pagando una taglia al doganiere, assicura i produttori interni contro la concorrenza straniera e dice ad essi: «Accordatevi tra di voi; costituite dei consorzi sia palesi come taciti. Sarà per voi più facile accordarvi perché siete sicuri che, entro i limiti del dazio, i forestieri non potranno disturbare le vostre azioni, non potranno impedirvi di mettervi d’accordo per aumentare i prezzi di tutto l’ammontare del dazio».

 

 

Se questo non è incoraggiamento, provocazione agli accordi, ai cartelli, ai monopoli non si sa più quale sia il significato delle parole.

 

 

É vero che l’incoraggiamento dato dalla tariffa doganale anche nella misura prevista dal progetto di tariffa è un peccato veniale in confronto agli incoraggiamenti ben più efficaci che durante la guerra e dopo di essa furono dati e continuano ad essere dati dai divieti d’importazione, dai contingenti stabiliti in tutti i trattati commerciali e dalle restrizioni di valuta. Ma da questa constatazione non si può trarre la conclusione che ai contingenti, alle proibizioni ed alle restrizioni valutarie si debba aggiungere, soltanto perché si tratta di un delitto minore, anche la provocazione monopolistica della tariffa doganale indiscriminata e generalizzata. Cominciamo a non assoggettare l’italiano medio a quest’altro malanno: ci sarà tempo poi ad eliminare gradatamente i malanni più grossi.

 

 

14. Dell’abito mentale bellico dei negoziatori di convenzioni commerciali. Purtroppo i negoziatori dei trattati commerciali, quando devono discutere con la contropartita straniera una tariffa doganale, sono preda di un vocabolario bellico che sarebbe comico se fosse invece tragico.

 

 

Essi partono oggi per Annecy, domani per un’altra città pensando con spavento alle concessioni che essi dovranno fare agli stranieri. Da tempo immemorabile essi ritengono che sia loro dovere, quando sul progetto di tariffa è scritto, ad esempio, il 50%, di lottare strenuamente per cercare di concedere la minore riduzione possibile su quel 50% e tornano trionfanti in paese quando possono riferire che essi sono riusciti a ridurre quel 50% soltanto al 40%, e si considererebbero squalificati quando dovessero riferire di essere stati costretti a ridurre invece quel 50 per cento al 10 per cento. È questo uno degli innumerevoli esempi del danno prodotto dal trasferire parole proprie del linguaggio bellico al linguaggio ordinario. Costoro non si avvedono, nell’entusiasmo della lotta, di avere arrecato il massimo danno alla collettività dei loro connazionali.

 

 

Che cosa invero essi hanno concluso riuscendo a rimanere al 40 per cento invece che consentendo di ridursi al 10 per cento? Il risultato è chiaro. Il connazionale deve purtroppo subire il danno che gli stati stranieri, animati dal medesimo spirito bellico, arrecano, per esempio, alla esportazione degli aranci o dei tessuti o delle macchine da scrivere, o delle macchine da cucire nazionali colpite da dazi del 20 o 40% quando tentano di introdursi nel mercato straniero.

 

 

È indiscutibile che questo è un danno; ma a riparare il danno non giova affatto l’ulteriore danno arrecato ad altri italiani di dover pagare i prodotti stranieri aumentati di prezzo o di dover pagare una taglia sotto forma di prezzo cresciuto ai produttori nazionali. La perdita arrecata dal dover vendere talune merci nazionali all’estero ad un prezzo minore per sormontare i dazi stranieri non è compensata dall’ulteriore danno di dover pagare più cari altri prodotti forestieri o nazionali a causa dei nostri dazi. I due danni noi si elidono, ma si sommano.

 

 

Per fortuna, si osserva, i negoziatori stranieri «costringono» i nazionali a ridurre i dazi italiani allo scopo di ottenere i dazi minimi per le nostre merci di esportazione. Innanzitutto è doloroso essere ridotti ad implorare dagli stranieri il bene del nostro paese; ed in secondo luogo se accada, come non di rado accade, che ai forestieri non interessi ottenere una riduzione su una particolare nostra voce, il dazio qui rimane alto perché nessuno ne ha chiesto la riduzione. Nasce così un sistema di dazi creati dalla fortuna o dall’accidente, non dalla logica.

 

 

15. La tariffa doganale non è un affare internazionale; è il risultato di una lotta interna. Essa crea disoccupati e fa pagare imposte, non sopprimibili, a coloro che meno le possono sopportare. È errore grave presentare una tariffa doganale come un mezzo di difesa dei nazionali contro gli stranieri. A ben ragionare la contesa non è affatto fra nazionali e stranieri. La lotta è invece esclusivamente interna. Si tratta di una lotta tra i ceti, i quali riescono ad ottenere il privilegio del dazio contro gli altri ceti i quali sono soggetti al danno della carestia provocata dal dazio. La lotta si combatte fra italiani e italiani, fra classe e classe, fra regione e regione del medesimo nostro paese.

 

 

Le tariffe doganali protettive, alla pari, sebbene in minor misura, dei contingenti, delle proibizioni, e delle restrizioni valutarie, sono uno strumento di lotta delle classi organizzate contro le classi disorganizzate. Lo stato deve scegliere la sua via: deve sapere se suo dovere sia quello di difendere principalmente le classi disorganizzate ovvero quelle organizzate, di coloro che sono in posizione migliore nella battaglia della vita ovvero dei deboli e dei miserabili che dal rincaro della vita sono spinti sempre più in giù nella scala sociale.

 

 

È certo che l’esistenza in un paese di un milione e mezzo o di due milioni di disoccupati è un grave danno sociale; ma l’ammontare del danno sociale non scema quando si usano strumenti atti a diminuire la massa totale dei beni prodotti in paese, a rincararne il prezzo e a creare carestia.

 

 

Supporre il contrario, supporre che la protezione doganale cresca la occupazione, è un sofisma eguale a quello che, a proposito delle tariffe doganali, viene frequentemente addotto a proposito delle imposte. Non si tratta qui delle imposte specifiche le quali gravano un determinato prodotto. Si è già detto sopra che se una imposta di fabbricazione (accisa) o una tassa entrata o simigliante sugli affari grava in modo specifico una merce prodotta in paese, la stessa imposta del medesimo ammontare deve gravare sulla merce straniera introdotta nello stato. Altrimenti lo stato favorirebbe le merci introdotte dall’estero.

 

 

Qui si parla invece delle altre imposte che, sotto nomi diversi, colpiscono i contribuenti nazionali. Una delle difese volgari più comuni dei dazi doganali è questa: «Bisogna colpire la merce straniera di un dazio, suppongasi del 20%, per compensare i produttori nazionali delle imposte (di ricchezza mobile, complementare, patrimoniale, registro, bollo, fondiarie ecc. ecc.) che gravano sui contribuenti nazionali».

 

 

Il comico di questa esigenza si è che in tutti i paesi del mondo contemporaneamente tutti i produttori raccontano la medesima storiella e tutti pretendono di ottenere un dazio protettivo allo scopo di compensare le enormi imposte che i nazionali pagano e da cui sarebbero esenti i forestieri. Il che dimostra soltanto che ognuno deve rassegnarsi a sopportare i propri gravami tributari, salvo a cercare di ottenere il miglior governo possibile che esiga il minimo di imposta e l’impieghi nel miglior modo possibile. Ma è evidente che il dazio per sé non muta in nulla la condizione dei contribuenti nazionali; varia soltanto la distribuzione del carico delle imposte.

 

 

Se un industriale italiano dice, ad esempio: «Io pago una somma uguale al 50% del mio reddito a titolo di imposta, e perciò chiedo un dazio che mi compensi di quest’imposta permettendomi di poter aumentare il prezzo di altrettanto», costui fa forse scomparire l’imposta?

 

 

Suppongasi che quell’imposta sia di un milione di lire all’anno. Forse che per il fatto del dazio l’imposta scompare? No. Quel tale industriale seguita a pagare il milione di lire di imposta allo stato; ma riesce però, grazie al dazio, ad ottenerne il rimborso dai consumatori della sua merce aumentando il prezzo quanto basta per ricavarne un milione. Che cosa è accaduto? Semplicemente questo: è variata la distribuzione delle imposte. Prima quell’imposta di un milione era pagata dall’industriale X; dopo è pagata dai numerosi Y consumatori della merce da lui venduta. Il problema non sta nel dazio compensatore. Questa è la semplice parvenza del fenomeno: il problema consiste semplicemente nel sapere se, a norma dei principi di giustizia tributaria riconosciuti in quel determinato paese, sia più giusto che l’imposta di un milione sia pagata dall’industriale ovvero dai numerosi Y consumatori della merce da lui prodotta. La lite non verte fra italiani e stranieri; essa verte esclusivamente fra due specie di italiani: l’industriale X a cui rincresce di pagare un milione di lire ed i numerosi Y a cui rincresce altrettanto di pagare l’uno cento lire, l’altro mille, l’altro diecimila e in totale quel milione che dovrebbe essere pagato dall’industriale X.

 

 

Il legislatore deve discutere soltanto questa questione, non l’altra, e se egli decide, come di solito accade, che le imposte siano pagate da coloro che hanno un certo reddito ricavato da una certa fortuna o da una certa attività industriale o professionale o di lavoro alle altrui dipendenze, egli non si deve lasciare menomamente impressionare dai sofismi intorno alla virtù compensatrice dei dazi.

 

 

Il sofisma dei dazi rimedio alla disoccupazione è della stessa natura. Se i dazi doganali protettivi avessero la miracolosa virtù di aumentare la produzione nazionale si potrebbe dire che essi sono atti ad assorbire una parte e magari la totalità dei disoccupati. Il punto da discutere è di sapere, ed è esclusivamente di sapere, se i dazi abbiano questa miracolosa virtù.

 

 

Nel materiale approntato per lo studio della nuova tariffa doganale non esiste la minima allusione, anche lontanissima, ad un principio di prova della fecondità produttiva dei dazi protettivi. In questa materia l’onere della prova spetta a coloro i quali, invocando, con i dazi doganali, un sistema che per definizione spinge all’aumento dei prezzi, perciò stesso vogliono qualcosa che è sinonimo di diminuita produzione, di diminuita occupazione, di cresciuta miseria. I dazi doganali – e peggio, si intende i contingenti, i permessi e le restrizioni monetarie, che vi aggiungono di peculiarmente proprio i deleteri effetti dell’incertezza derivante dall’arbitrio ministeriale – non hanno la virtù mirifica di crescere di una unità sola i fattori esistenti della produzione: terra, macchine, operai restano quello che erano; sono distribuiti diversamente, in conformità allo stimolo dei mutati prezzi derivanti dall’esistenza del dazio. La diversa distribuzione dei fattori produttivi ne cresce l’efficacia? A priori si può rispondere negativamente, non constando che l’impiego dei fattori produttivi a norma degli stimoli creati dalla legge sia più produttivo dell’impiego compiuto in assenza della legge di dogana. Ma non è escluso che la risposta positiva possa essere data in qualche caso.

 

 

16. A chi spetta l’onere della prova della convenienza dei pochi dazi plausibili. Spetta ai proponenti i dazi doganali l’obbligo di provare che essi sono proposti soltanto in quei casi, necessariamente limitatissimi di numero, nei quali si può avere una qualche fondata speranza di poter, grazie ad un sacrificio temporaneo – il sacrificio ci sarà sempre e non se ne potrà fare a meno – ottenere in avvenire un aumento di produzione a costi ridotti capaci di sopportare la concorrenza straniera.

 

 

Quel che non fu provato nella fase di studio degli elementi offerti ai negoziatori della nuova tariffa doganale ad Annecy, può ancora essere provato. E tutti si inclineranno dinnanzi alla dimostrazione di qualche plausibile caso di possibile creazione di una nuova branca della attività agricola od industriale italiana o di salvezza di qualche ramo di attività umana veramente minacciata da circostanze transeunti straordinarie.

 

 

17. Il dovere dei negoziatori della tariffa. Ma la tariffa non deve essere la difesa della poltroneria, non deve essere un’arma in mano di coloro che, sia pure inconsapevolmente, fanno affidamento sugli alti costi e sulla carestia per salvare le loro imprese. La guerra ed il dopo guerra con le restrizioni, in parte soltanto inevitabili, al commercio internazionale hanno consentito a troppa gente non seria di impiantare imprese malsane e di conseguire con esse profitti immorali. L’autarchia, prima voluta come programma di governo e poi continuata per le vicende belliche e per il regime di restrizioni conseguito alla guerra, ha favorito il vigoreggiare dei monopoli sia dei datori di lavoro come dei lavoratori. Da ambe le parti, gli organizzati sono mossi all’assalto della cosa pubblica ed al danno dei non organizzati.

 

 

Tutto ciò che in materia economica si è fatto di buono in Italia dal 1945 in poi è collegato con la reazione contro i monopolisti, contro i restrizionisti, contro lo sfruttamento dei disorganizzati. L’allargamento delle maglie all’importazione, il ristabilimento della fede pubblica con la maggiore stabilità monetaria, la progredita osservanza delle leggi tributarie, il ritorno alla sicurezza nella vita e negli averi, le migliorate comunicazioni interne, che vogliono dire crollo dei monopoli e dei taglieggiamenti locali, sono tutte tappe meritorie sulla via della ricostruzione.

 

 

Importa però non arrestarsi nella via della eliminazione dei vincoli opposti a chi vuol lavorare. La tariffa doganale è uno di questi vincoli, sebbene, ripetiamolo ancora una volta, non il maggiore in confronto agli obbrobrii dei contingenti, delle licenze e dei vincoli valutari. Esso è però il vincolo più duraturo e più significativo.

 

 

È necessario perciò che i negoziatori di Annecy non rechino nelle discussioni che avranno con i rappresentanti degli altri paesi la solita mentalità bellica. Essi non sono chiamati a difendere il nostro paese contro nessun nemico straniero. La loro battaglia è un’altra: essi devono difendere il povero, il senza voce, il non organizzato, l’indifeso industriale, agricoltore, lavoratore, professionista, impiegato italiano contro altri italiani, contro quei monopolisti od aspiranti monopolisti, contro i ceti di lavoratori, alleati dei monopolisti nel taglieggiare i consumatori; tutti italiani i quali raccontano che la politica degli alti prezzi è vantaggiosa non solo ai loro profitti ma anche alla prosperità nazionale. Perciò i negoziatori inviati ad Annecy dovranno essere accompagnati da almeno un paio di economisti e rassegniamoci a sceglierli fra i teorici, purché abbiano in primo luogo il fil della schiena diritto e non prestino l’orecchio alle pressioni da qualunque parte vengano e purché in secondo luogo appartengano alla prima delle due categorie nelle quali Pantaleoni distingueva i cultori della scienza economica: quelli che la sanno e quelli che non la sanno. Inoltre si dovrà fare a meno di collocare accanto ai negoziatori i soliti specialisti, rappresentanti delle varie branche dell’industria e dell’agricoltura. Codesti cosidetti esperti furono sentiti fin troppo nella fase preparatoria ed i frutti dei loro consigli si leggono già squadernati nel materiale di studio presentato a corredo del progetto di tariffa. Da quella parte non vi è più da attendersi nulla di utile per l’interesse generale. L’augurio più vivo di coloro i quali amano l’Italia e la vogliono economicamente prospera è che i negoziatori italiani non si lascino «imporre» il bene del paese dalle «pressioni» dei negoziatori stranieri; ma anticipino quelle pressioni con la chiara visione di quello che è il vero bene del paese; sicché l’Italia possa incamminarsi anche in questo campo su una nuova via feconda, non già consentendo di malavoglia, e quindi trascinati, al volere altrui; ma scegliendo quella via per virtù ed elezione propria.

 

 

Il problema della tariffa doganale è certo tra i più gravi e si potrebbe anche dire, a causa dell’indirizzo posto così alla soluzione di altri problemi della nostra politica economica, il più grave problema del momento presente. Tanto più importa che la sua soluzione sia meditata a lungo ed a fondo.

 

 

31 marzo 1949.

 

 

Su un punto particolare dei principi da adottare in materia di tariffe doganali.

 

 

Un’argomentazione ragionevole in materia di tariffa doganale è quella della opportunità di non passare bruscamente da una situazione di alta protezione ad una di libertà commerciale.

 

 

È questa in verità una ragionevolezza non del tutto incontestabile. Se la memoria non falla, fu Camillo di Cavour il quale sostenne che il momento migliore per operare mutazioni grosse era appunto quello delle crisi e delle difficoltà economiche. Sono i momenti di crisi – egli argomentava – quelli nei quali è più facile lavorare col bisturi. Industriali ed agricoltori sono in quei momenti già abituati alle variazioni nei prezzi ed a sopportare perdite, sicché una variazione di prezzi dovuta ad una riforma doganale o valutaria scompare in mezzo a tutti gli altri mutamenti. Quando succedono cose grosse, qualcosa di più o qualcosa di meno non ha una grande importanza. Le riforme benefiche hanno sempre avuto luogo in momenti difficili; nei momenti tranquilli nessuno si decide a sconvolgere il quieto vivere.

 

 

Ammettasi, tuttavia, che una variazione notabile nel regime doganale debba aver luogo gradatamente. Il punto essenziale di discutere è se la gradualità debba essere preannunciata oppure riservata in pectore.

 

 

Supponiamo, ad esempio, che si abbia l’intenzione di stabilire oggi un dazio sul grano di duemila lire al quintale corrispondenti, grosso modo, alle lire 7,50 che per tanti anni, prima dell’altra guerra, costituirono il regime doganale del frumento in Italia. Supponiamo anche che si sia d’accordo nel ritenere che il dazio in un certo numero di anni, pongasi ad esempio anche venti, debba essere ridotto a zero con riduzioni successive, ad ogni quinquennio, a millecinquecento, mille e cinquecento lire.

 

 

È preferibile annunciare fin d’ora le successive tappe della riduzione, ovvero limitarsi a dichiarare che per ora e per un quinquennio il dazio è limitato a lire duemila, salvo a discutere alla scadenza del quinquennio la misura del dazio che fin da ora si annuncerebbe essere intenzione dei proponenti di stabilire in cifra inferiore alla attuale?

 

 

È evidente che la seconda alternativa non è seria. Essa si limita a dichiarare la speranza che il futuro legislatore abbia le medesime intenzioni di quello odierno. La speranza si dimostra fin dal momento iniziale debole perché non corroborata dalla deliberazione. Il futuro legislatore sarà pienamente giustificato nel pensare che l’attuale legislatore era assai poco persuaso della convenienza della riduzione, anzi esitava in merito giacché non prese alcuna deliberazione in materia. Se la riduzione non fu decisa cinque anni fa, perché dovrebbe essere decisa oggi? Nel frattempo tutti gli interessi favorevoli al dazio delle duemila lire si saranno coalizzati per ottenere che esso sia mantenuto, anzi quegli interessi saranno cresciuti di forza perché gli agricoltori marginali, quelli cioè che non potrebbero continuare a seminare grano se non fossero protetti con un dazio di duemila lire, saranno probabilmente cresciuti di numero, si saranno abituati per altri cinque anni a non fare alcuno sforzo per trasformare le loro colture, non saranno stati incitati a fare nessun esperimento per vedere se sui loro terreni convenga coltivare qualcosa d’altro invece del frumento.

 

 

Sarà stato perfettamente inutile di scrivere in qualche relazione del disegno di legge che le duemila lire erano temporanee. Il fatto bruto e chiaro è che il dazio fu stabilito in duemila lire e che non si è osato stabilirlo in una cifra diversa.

 

 

L’alternativa del preannunciare fin d’ora in virtù di una precisa disposizione di legge che il dazio sul grano sarà di duemila lire per un quinquennio di millecinquecento per il secondo, di mille per il terzo, di cinquecento per il quarto e di zero a partire dalla scadenza del ventennio afferma invece una volontà precisa di cui tutti gli agricoltori dovranno prender nota. È vero che gli agricoltori potranno poi insistere e far propaganda, come è nel loro diritto, per far mutare la legge attuale e stabilire anche per il secondo quinquennio e per i successivi un dazio magari più alto delle duemila lire attuali, ma occorrerà perciò che essi facciano una propaganda positiva e persuadano l’opinione pubblica della necessità non semplicemente di prorogare il dazio di duemila lire, ma di mutare la legge la quale ordina tassativamente allo scadere del quinquennio la riduzione a millecinquecento lire.

 

 

Frattanto almeno una parte degli agricoltori marginali avrà pensato alla convenienza di adattare le colture al nuovo regime di dazi già deliberato per il nuovo quinquennio. All’avvicinarsi di questo le richieste di conservazione del dazio nella misura antica saranno meno vivaci e meno diffuse.

 

 

La trasformazione colturale avrà preso inizio e sarà più facile senza troppo strepito di attuare la riduzione progressiva del dazio.

 

 

In conclusione o si crede sul serio che un regime di dazi gradualmente ridotti sia buono e fa d’uopo adottarlo subito; ovvero non si è persuasi della bontà del principio della riduzione graduale ed in questo caso è preferibile evitare affermazioni inutili e non impacciarsi di lasciar intendere che dopo X anni i dazi saranno ridotti.

 

 

18 maggio 1949.

 

 

Nota redatta leggendo la relazione del disegno di legge per la emanazione della nuova tariffa doganale.

 

 

Si deve prendere nota con compiacimento del fatto che la relazione è inspirata al concetto fondamentale di promuovere sempre maggiore libertà di movimento delle merci, degli uomini e dei capitali.

 

 

In relazione a tal fine sono accolti due principi fondamentali:

 

 

1)    che i dazi i quali dovranno essere stabiliti siano gradualmente decrescenti nel tempo;

 

2)    essi non siano universali e si applichino soltanto a quelle specie della attività economica che saranno reputate bisognevoli di una protezione temporanea;

 

3)    che questa protezione debba fin dall’origine avere carattere di moderazione.

 

 

Se questi principi saranno tradotti in formule precise legislative, è legittimo fare affidamento su una riduzione notevole del numero delle voci contemplate nella tariffa, così da ridurla da qualche migliaio a qualche centinaio di voci.

 

 

Fa d’uopo tuttavia riconoscere che parecchie considerazioni svolte nell’attuale relazione recano tracce ancora profonde di quello spirito protezionista e autarchico che aveva ispirato la minuta di tariffa doganale che pur costituisce a tutt’oggi il documento ufficiale con cui il governo italiano si è presentato alla conferenza di Annecy.

 

 

Particolarmente le riserve con le quali la relazione limita la portata delle affermazioni di principio sopra riassunte (necessità di procedere con sano realismo – di avanzare a gradi – di riflettere alla maggiore densità demografica ed alla insufficienza della attrezzatura tecnica che impedisce a noi di fare quelle belle cose che sono lecite ai paesi più ricchi ed economicamente agguerriti – difficoltà di comprimere i nostri alti costi, considerati come un costo costante, che preme sul paese e richiede difesa – onere di imposte gravose a cui occorre offrire una compensazione) riescono praticamente a mettere nel nulla le affermazioni di principio ed a far domandare il lettore: qual è l’indirizzo che in materia doganale il governo vuole seguire? Domanda alla quale, in tanto contrasto di affermazioni opposte, male si riesce a trovare una risposta.

 

 

Giova perciò limitare il discorso all’analisi di alcuni punti fondamentali, i quali meritano di essere chiariti affinché la ricerca di un indirizzo qualsiasi sia possibile.

 

 

Pongasi mente, ad esempio, al rimpianto che si legge verso uno stato di cose, collocato in un futuro più o meno lontano, nel quale sarebbe possibile «procedere ad attendibili confronti di prezzi e costi fra paesi diversi». Che se quel confronto potesse essere fatto, sembrerebbe aperta la via ad una razionale compilazione della tariffa doganale; cosa che oggi si lamenta di non poter fare a causa di quella impossibilità.

 

 

Fa d’uopo invece asserire in modo esplicito che, se anche fosse possibile un confronto fra costi e prezzi del nostro e dei paesi stranieri, non perciò sarebbe possibile attendere ad una razionale compilazione della tariffa. Non fu in passato, non è oggi e non sarà mai in avvenire concepibile una tariffa fondata su quella base. Partire dal confronto di costi e di prezzi significa, almeno per una delle due lame della forbice, richiedere l’assurdo. Si possono conoscere i prezzi, in altri tempi tendenti facilmente all’uniformità ed oggi intesi alla medesima meta attraverso ostacoli più o meno grandi; ma il costo sarà sempre qualche cosa di inconoscibile perché nessuna segreteria tecnica di nessuna commissione, anche se «particolarmente attrezzata con funzionari dell’amministrazione e con esperti chiamati al di fuori dell’amministrazione», riuscirà mai a cavarsi i piedi da una indagine così priva di senso comune com’è quella della indagine dei costi, che sono variabilissimi nella medesima industria, da impresa ad impresa, da momento a momento, da luogo a luogo, nel medesimo paese. Non su questa base si potrà mai costruire una qualunque tariffa fornita della cosidetta razionalità.

 

 

Una tariffa è e sarà sempre qualche cosa di empirico, deliberato in rapporto a certi particolari fini di difesa in tempo di guerra, di sviluppo di una certa industria per certi particolari scopi che si vogliono raggiungere, scopi che non hanno niente a che fare con vani confronti di prezzi e di costi internazionali.

 

 

È bene non ricorrere all’usbergo dei progressi della scienza per giustificare questo o quel dazio; ché la scienza in queste faccende non ha nulla da vedere.

 

 

Con tutta la migliore buona volontà del mondo, qualsiasi commissione tecnica, partendo da basi assurde (indagine su costi!) non potrà riuscire ad altro che a risultati assurdi. Ricordiamoci sempre di quel che scriveva Galiani nei Dialogues: «Souvenez vous que même le plus grand sot peut répondre, si on le consultait; mais il n’y a que le grand homme qui sache interroger»; ed evitiamo di trasformare gli uomini intelligenti chiamati a far parte delle commissioni tecniche in sots per forza, obbligandoli a ricerche in fondo alle quali c’è il nulla assoluto.

 

 

Le grosse questioni che si agitano oggi in Italia rispetto alla tariffa doganale: siderurgia, grano, barbabietole e simili, sono questioni di carattere politico e sociale su cui quella povera diavola che si chiama la scienza ha ben poco da dire.

 

 

Nella decisione da prendere occorre eliminare le argomentazioni extravaganti. Ben poco, ad esempio, ha da dire in merito la necessità per la finanza di non diminuire l’attuale gettito dei dazi doganali e del diritto di licenza. Attraverso una flessione momentanea il gettito tributario sarà tanto maggiore quanto più ristretto sarà il numero delle voci colpite da dazio fiscale. Né par possibile di prendere sul serio l’importanza di una tariffa elevata e generalizzata come strumento per ottenere ribassi tariffari dagli stati stranieri. Questi negoziatori di Annecy sono paragonabili agli auguri di un tempo che, incontrandosi nel foro, sorridevano delle sentenze che essi erano chiamati a pronunciare per soddisfare alle curiosità del popolo. Poiché non è possibile considerarli tutti innocenti della farsa rappresentata, è logico reputarli invece consapevoli di combattere a gran fendenti di spade di legno e consapevoli che agli accordi si verrà in virtù soprattutto di altre considerazioni di carattere politico simili a quelle in base a cui la clausola della nazione più favorita era sempre ottenuta tra il 1860 e il 1900 anche dai paesi i quali, non possedendo una tariffa protettiva, non avevano proprio niente da dare in cambio agli stati contraenti.

 

 

Purtroppo nessuno toglierà di mente ai negoziatori l’idea balorda che, nelle trattative doganali, si debba aspettare che gli altri comincino a fare quel che noi reputeremmo saggio che tutti facessero. La esigenza di una contemporanea riduzione per gli ostacoli frapposti al movimento internazionale delle merci, degli uomini e dei capitali continua ad essere posta come condizione preliminare di una politica di maggiore libertà degli scambi.

 

 

Al pari della vana ricerca di confronti internazionali fra costi di produzione, questa esigenza praticamente annulla qualsiasi affermazione favorevole alla libertà degli scambi. Infatti se tutti gli stati attendono che cominci l’altro, attenderemo fino alle calende greche.

 

 

Bisogna mettersi bene in mente che la politica doganale di un paese non dipende affatto dalla politica doganale degli altri paesi. La confutazione della esigenza del «comincino gli altri» o «cominciamo tutti insieme» è nota, è stata esposta milioni di volte; sempre senza successo, ma non per ciò essa è meno vera.

 

 

Nessuno dubita che i dazi posti alle nostre esportazioni non siano dannosi all’Italia. Se noi non possiamo esportare macchine da scrivere o da cucire, olio di oliva, aranci o vino perché gli stati stranieri li colpiscono con dazi esorbitanti, noi dovremo bensì concludere che quello è un grosso guaio; potremo invocare la maledizione di Dio contro gente così nequitosa ai nostri danni; ma dopo aver fatto a costoro tutte le boccacce possibili, dovremo da ciò ricavare la conseguenza che sia utile, che sia un compenso al danno anche enormissimo che altri ci arreca la ritorsione di un dazio contro le loro esportazioni in Italia? Evidentemente no; perché i dazi così stabiliti rincareranno o le materie prime, o i prodotti finiti, o le derrate alimentari desiderate e domandate dagli italiani, rincareranno i costi di produzione ed il costo della vita di noi stessi, aggiungendo al danno dei dazi stranieri contro le nostre esportazioni la inutile beffa di un successivo danno da noi arrecato a noi stessi volontariamente. Questi dazi sono la manifestazione di una vera e propria libidine di autolesionismo, testimonianza di un vero e proprio complesso di inferiorità derivato da non si sa quali tradizioni barbariche.

 

 

Ugualmente priva di valore logico generale è l’argomentazione, la quale vuol dimostrare, a proposito del dazio sul grano, che esso è richiesto dalla necessità di evitare una riduzione ulteriore di occupazione, oltre quella di ventiquattro/ventotto milioni di giornate che sarebbero la conseguenza della riduzione a cui si è già rassegnati, della superficie investita a grano dalla punta massima di 5.316.001 ettari ottenuta in passato sino a circa i 4.500.000 ettari prevedibili per l’avvenire.

 

 

Pare cioè pericoloso di aggiungere a questa perdita di ventiquattro-ventotto milioni di giornate lavorative una ulteriore riduzione di trentacinque milioni di giornate, conseguenza di una eventuale maggior riduzione dai quattro milioni e mezzo previsti ai tre milioni e mezzo a cui forse la coltura del grano si restringerebbe se il grano non fosse più protetto ed il frumento straniero potesse entrare in Italia a prezzi ribassati che potrebbero anche giungere a poco più di un dollaro per bushel, corrispondenti a circa tremila lire cif per quintale Italia.

 

 

Qui occorre che il problema che si discute sia messo bene in chiaro. Non vi è nessun dubbio che una riduzione del prezzo del frumento tenda a ridurre la superficie investita a grano. Si può discutere sul più o sul meno; ma all’incirca le cifre sopra ricordate di 5,3 4,5 e 3,5 milioni di ettari possono anche essere accettate come attendibili, e quindi possiamo considerare come attendibile la conseguenza delle parecchie decine di milioni di giornate di minore occupazione derivanti dalla riduzione del prezzo. Ma la discussione non può finire a questo punto. La riduzione degli occupati nelle terre a grano è quel che si vede del problema; ma al solito, quel che si vede è la parte meno importante dei problemi economici. Importa chiedere: c’è qualche cosa che non si vede?

 

 

Supponiamo che il dazio sufficiente a mantenere il livello delle semine a quattro milioni e mezzo di ettari sia di duemila lire al quintale. A questo livello si producono settantacinque milioni di quintali (queste sono le previsioni della relazione). Aperte le frontiere al grano forestiero senza dazio, il prezzo si riduce di duemila lire e la coltura a grano cade a tre milioni e mezzo di ettari.

 

 

Supponendo che il milione di ettari perduti, evidentemente i meno adatti, producesse quindici quintali di grano ad ettaro, invece dei quasi diciassette della totalità prodotta dai quattro milioni e mezzo, la produzione del grano si riduce a sessanta milioni. Sono trentacinque milioni di giornate di occupazione tolte ai braccianti agricoli.

 

 

Per quale ragione i trentacinque milioni di giornate di lavoro sarebbero fornite, nell’ipotesi della esistenza di un dazio di duemila lire a quintale, ai braccianti cerealicoli? Evidentemente perché ognuno dei settantacinque milioni di quintali prodotti al prezzo più remunerativo sarebbe gravato di un onere a carico dei consumatori di pane e di pasta di duemila lire al quintale. È una taglia di centocinquanta miliardi di lire che verrebbe pagata dai consumatori di pane e di pasta allo scopo che potessero essere distribuiti trentacinque milioni di giornate lavorative. Ognuna di queste giornate lavorative costerebbe perciò ai contribuenti del dazio sul grano una somma di quattromilatrecento lire circa, di cui ai braccianti medesimi toccherebbero sì e no, a seconda delle varie regioni italiane, da settecento a mille lire; il resto evidentemente andando a pro di altre categorie sociali. Sembra che questo sia un metodo assai costoso di procacciare occupazione ai braccianti agricoli.

 

 

I centocinquanta miliardi risparmiati dai consumatori in seguito alla riduzione del prezzo del frumento dovuta alla abolizione del dazio sul grano non perciò sfumerebbero. Essi sarebbero rivolti a domanda di qualche cosa d’altro, ossia a creare occupazione nella misura del proprio ammontare. Anche se una parte dei centocinquanta miliardi fosse risparmiata, questa sarebbe rivolta sempre a domanda di qualche bene strumentale invece che di consumo. Non si vede perciò per quale ragione la domanda di lavoro debba diminuire in conseguenza del ribasso del prezzo del frumento. La domanda di lavoro sarebbe diversamente distribuita nello spazio e forse anche nel tempo: ecco tutto. Diminuirebbe la domanda di lavoro in certe regioni prevalentemente cerealicole, in quelle regioni dove per la scarsezza delle piogge, la arretratezza dei metodi culturali e la distribuzione della proprietà non si sapesse sostituire al grano altro che la pastorizia con le pecore; ma aumenterebbe la domanda di lavoro in tutti quei luoghi e quelle industrie nei quali si diffondesse la benefica pioggia dei centocinquanta miliardi di lire risparmiati in conseguenza della diminuzione del prezzo del grano. Sorgerebbero alcuni problemi nel Tavoliere delle Puglie, nella campagna romana, in talune zone del mezzogiorno e della Sicilia e diminuirebbe l’intensità di altri problemi in altre regioni italiane.

 

 

Se si vuol discutere correttamente il problema non bisogna quindi parlare di mancata occupazione in conseguenza della mancata protezione frumentaria. Occorre parlare invece di diversa occupazione e si aggiunga, con ogni probabilità, di cresciuta occupazione nell’insieme del territorio nazionale. L’abolizione del dazio, cioè, scema la occupazione in talune regioni, ma l’accresce in altre e probabilmente la accresce nell’insieme delle regioni.

 

 

Infatti altra è la quantità di occupazione che sorge se i singoli sono capaci di destinare i centocinquanta miliardi di lire alla domanda di beni che essi maggiormente desiderano, altra è la occupazione che nasce in conseguenza del dazio, quella certa massa di numerario è artificiosamente destinata ad una coltura che il fatto medesimo della necessità del dazio dimostra essere una coltura povera, produttrice di beni in quantità scarsa. A priori si può ritenere che la massa totale della occupazione in tutta Italia sia maggiore se il prezzo del frumento non è rincarato artificiosamente.

 

 

Non si vuole con ciò negare la gravità del problema della minore occupazione in certe zone agricole; si vuole solo affermare che è scorretto difendere il dazio sul grano affermando che esso crea occupazione. Esso non crea, e non può creare, occupazione; probabilmente diminuisce la occupazione totale; distribuisce questa diversamente. Il problema è essenzialmente politico, e bisogna affrontarlo analizzando bene quale esso sia. Non giova all’interesse pubblico presentarlo come un problema di mancata occupazione solo: chiarendolo nella sua vera natura si può giungere a conclusioni delle quali almeno non si potrà dire che esse partono da premesse sbagliate. Nessuno nega che talvolta la collettività debba assumersi un onere per evitare danni particolari; ma si deve sapere che l’onere c’è, che magari esso è superiore al vantaggio che si riceve, ma che tuttavia si ritiene conveniente far subire un danno di centocinquanta per ottenere un vantaggio di trenta.

 

 

Certo l’uomo politico deve tener conto del fatto che i braccianti danneggiati dalla perdita dei trentacinque milioni di giornate di lavoro si agiteranno e che dalla agitazione altri trarrà profitto, laddove i molti i quali si avvantaggeranno altrove della maggiore occupazione staranno zitti e non dimostreranno alcuna riconoscenza a chi li ha beneficati. L’arte del politico sta nel bilanciare danni economici e vantaggi sociali; ma nessuna arte deve essere adoperata per far passare lucciole per lanterne, dimostrando che quel che è una perdita economica è invece un guadagno.

 

 

Per considerazioni analoghe si può giungere alla conseguenza che importi far subire alla collettività dei consumatori di zucchero un determinato onere, allo scopo di mantenere un certo numero di ettari, ad esempio centoventimila, investiti a barbabietole nella Valle padana. In questo caso, tuttavia, per somma fortuna noi abbiamo il mezzo di dichiarare apertamente qual è l’onere che si intende far gravare sugli italiani e per giunta senza aumentare il prezzo dello zucchero. Il caso dello zucchero è uno dei pochissimi per i quali, se lo stato vuole intervenire a favore della coltura delle barbabietole, può farlo senza far sorgere gli inconvenienti inevitabili nell’altro caso del frumento.

 

 

Esistono invero due metodi per favorire una industria: l’uno è quello del dazio e l’altro è quello del premio. Il metodo del dazio è grossolano e barbaro. Come si disse sopra, per garantire la produzione del frumento su un milione di ettari di più, ottenendo quindici milioni di quintali di più, bisogna stabilire un dazio a favore di tutto il frumento prodotto, ossia far pagare ai consumatori duemila lire per ognuno dei settantacinque milioni di quintali, e cioè centocinquanta miliardi per ottenere una maggiore produzione di quindici milioni di quintali. Ognuno dei quindici milioni di quintali prodotti in più costa perciò diecimila lire ai contribuenti, che è un bel pagare. Ma non si può fare diversamente perché non è possibile conoscere fra i settantacinque milioni di quintali di produzione totale quali siano quei quindici milioni che non si sarebbero prodotti se il prezzo non fosse stato cresciuto di duemila lire a causa del dazio. Tutti pretenderebbero di produrre proprio quei quindici milioni e occorrerebbe un nugolo di impiegati, che da tutti sarebbero, con grave danno della pubblica moralità, reputati corruttibili, per fare la cernita. Perciò il metodo del premio per il grano non è pratico.

 

 

Invece per le barbabietole il problema è molto semplificato a causa dell’imposta di fabbricazione sullo zucchero. Esistono già organi fiscali incaricati dell’accertamento della quantità dello zucchero prodotto e della sua tassazione. Questi organi funzionano bene e non si ha notizia di frodi apprezzabili in materia. Gli stessi organi potrebbero pagare il premio che fosse deliberato per ogni quintale di barbabietole portato agli zuccherifici, ed il premio potrebbe anche essere stabilito in ragione del contenuto zuccherino delle barbabietole, contenuto che già fin d’ora, per ragioni loro proprie, è accertato dagli zuccherifici.

 

 

Il premio sarebbe goduto da tutte le barbabietole portate agli zuccherifici. Invece niente sarebbe dato e giustamente quando le barbabietole, per convenienza dell’agricoltore, fossero consumate come foraggio od utilizzate ad altri fini.

 

 

Il sistema del premio, invece di quello del dazio, produrrebbe due vantaggi:

 

 

1)    sarebbe chiaro a tutti l’onere sopportato dalla collettività per mantenere in piedi la coltura a barbabietole su centoventimila ettari. Nessuno potrebbe cambiare le carte in tavola affermando che quello è un guadagno invece che un onere;

 

2)    il premio tenderebbe ad un risultato opposto a quello del dazio. Il dazio tende ad aumentare il prezzo al disopra del prezzo internazionale di concorrenza; il premio tende a far sì che gli zuccherifici possano comprare le barbabietole ad un prezzo eguale al prezzo internazionale della materia prima; e ciò nonostante conveniente per l’agricoltore, il quale riscuoterebbe, oltre il prezzo internazionale dallo zuccherificio, il premio dallo stato.

 

 

Il sistema tende a consentire al popolo italiano di acquistare questa derrata così necessaria all’organismo umano a prezzi non superiori a quelli internazionali. La disgrazia è che il sistema del premio non si può estendere a tutti i casi, perché incontra nella sua applicazione difficoltà notevoli che lo rendono non pratico; ma dove queste difficoltà, come accade miracolosamente per le barbabietole, non ci sono, è evidente la convenienza della sua applicazione.

 

 

Né la finanza sarebbe in definitiva danneggiata; perché il ribasso del prezzo aumenterebbe il consumo e quindi il gettito della imposta di produzione sullo zucchero. E gli zuccherieri sarebbero costretti a piantarla con le loro dichiarazioni di sviscerato affetto per l’agricoltura, quando essi pensano solo a proteggere se stessi.

 

 

18 maggio 1949.

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