Opera Omnia Luigi Einaudi

Introduzione

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Introduzione

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 1-26

 

 

 

Capitolo I

Concetto della scienza delle finanze

Metodo di studio e rapporti con le scienze affini.

 

1. Concetto. – La scienza delle finanze si può dire la scienza dell’economia pubblica. Essa assume a suo oggetto le leggi secondo le quali gli uomini provvedono al soddisfacimento di certi bisogni particolari, che per distinguerli dai bisogni ordinari privati, si chiamano pubblici.

 

 

Contentiamoci per ora di questa prima definizione approssimata, salvo a precisare meglio in seguito che cosa si intenda per bisogni pubblici.

 

 

2. Rapporti storici e logici con la scienza economica in generale. – Dalla definizione ora data appare che la scienza economica generale studia le leggi con cui si provvede dagli uomini al soddisfacimento dei loro bisogni in generale; e la scienza finanziaria invece studia le leggi con cui dai medesimi uomini si provvede al soddisfacimento dei bisogni particolari pubblici. È chiaro perciò il rapporto da scienza generale a scienza particolare che vi è tra Economia politica e Scienza finanziaria.

 

 

I legami che intercedono tra la scienza delle finanze e l’economia politica sono ora meno evidenti di una volta per il fatto che esse si sono costituite in due discipline separate; ma erano ed apparivano una volta assai più stretti. Un tempo, e quando si dice un tempo si vuol rimontare soltanto alla prima metà del secolo XIX ed anzi, per molti trattati inglesi e francesi, sin verso il 1860-70 – la scienza delle finanze non era che un ramo della scienza economica. Date le quattro parti tradizionali in cui soleva in quei trattati dividersi la scienza economica, cioè produzione, distribuzione, distribuzione, circolazione e consumo, la scienza finanziaria prendeva posto precisamente nell’ultima parte del consumo. La scienza delle finanze in quell’ultima parte veniva ad avere una posizione preponderante, perché la trattazione dei consumi privati essendo argomento di per sé molto ristretto, non avrebbe giustificato uno svolgimento complesso al pari delle altre parti: quindi, come mezzo quasi didattico per dare importanza all’ultimo libro dell’economia, veniva in acconcio la trattazione della finanza degli Stati.

 

 

Il concetto che aveva consigliato in allora questa collocazione del trattato della scienza delle finanze nell’ultima parte dei corsi di economia era il seguente: La ricchezza innanzi tutto veniva concepita come prodotta dai privati; poi tra questi distribuita e negoziata; ed infine consumata. Ma il consumo avveniva ad opera dei privati ed insieme dello Stato; quindi il fenomeno finanziario era logicamente considerato come un fenomeno di consumo. La finanza era lo studio dei mezzi con cui la ricchezza prodotta dai privati si distruggeva per conseguire certi fini pubblici, il quale concetto corrispondeva anche alle idee allora predominanti riguardo alle funzioni dello Stato e alla natura loro. Si riteneva allora, quasi universalmente, dagli economisti, che lo Stato fosse un male necessario, un distruttore di ricchezza; si guardava con sospetto ogni estensione delle funzioni dello Stato al di là di quelle di conservatore della pace, dell’indipendenza, della sicurezza e della giustizia. I tristi effetti dell’intervento dello Stato nell’industria durante i secoli XVII e XVIII aveva fatti persuasi gli economisti della assoluta inettitudine dello Stato a produrre ricchezze. Sembrava quindi naturale il concetto che esso non producesse ma consumasse soltanto ricchezza, ossia mezzi atti al soddisfacimento dei bisogni umani.

 

 

Questo concetto a poco a poco si modificò. Il fenomeno finanziario cessò di essere considerato come un fenomeno puramente di consumo della ricchezza; si vide che questa concezione era troppo unilaterale, poiché lo Stato era non solo consumatore della ricchezza dei privati, ma anche un collaboratore nella produzione di questa ricchezza. Come si considerano quali fattori della produzione la terra, il capitale e il lavoro, così si può considerare come fattore, ed importantissimo, della produzione anche lo Stato, perché esso garantisce certe condizioni di giustizia, di sicurezza, di indipendenza nazionale, di cultura, di viabilità, che sono assolutamente indispensabili perché possa essere prodotta la ricchezza. Lo studio della finanza non poté quindi più esser fatto soltanto nell’ultima parte del consumo ma dovette essere inserito altresì nella parte della produzione.

 

 

Parve ben presto impossibile non tenerne conto anche nella trattazione della distribuzione, dal momento che la distribuzione del reddito doveva avvenire, non solo tra i privati, ma anche fra questi e lo Stato (o meglio i suoi funzionari). Poco alla volta il fenomeno finanziario finì per invadere tutte le parti della scienza economica, talché ad un certo punto sorse spontaneo il quesito se fosse opportuno separare in due discipline la trattazione di due fatti, l’uno economico privato e l’altro economico pubblico che ricomparivano insieme, seppure con caratteri diversi, in ogni parte della trattazione della scienza economica generale.

 

 

Ed i dubbi a prò della convenienza di scindere la scienza economica generale in due parti, l’una destinata allo studio del fenomeno economico privato e l’altra a quello del fenomeno economico pubblico furono rincalzati da altre considerazioni:

 

 

  • a) pedagogiche le une. La materia della trattazione economica da un lato e finanziaria dall’altro divenne a poco a poco così estesa da non poter essere compressa in un solo trattato o corso. Una divisione di lavoro si imponeva per necessità quasi materiali;
  • b) scientifiche le altre. Nell’ultimo trentennio la vecchia divisione della scienza economica nelle quattro classiche partizioni di produzione, distribuzione, circolazione e consumo fu abbandonata, come quella che era artificiale; essendoché è difficile scernere gli atti di produzione da quelli di circolazione e distribuzione. Il consumo, ossia l’analisi dei bisogni umani, moventi dell’azione dell’uomo, divenne uno dei capitolo introduttivi della scienza. In questo rimaneggiamento dello studio della scienza economica, per cui la parte centrale è costituita dall’indagine delle leggi dell’equilibrio del mercato, la posizione del fenomeno finanziario divenne sempre più incerta. L’azione dello Stato, si disse, è uno dei dati o gruppi di dati che influiscono a determinare l’equilibrio economico, come la popolazione, la terra, il risparmio, le qualità dei lavoratori, ecc., ecc.; e quindi influisce a determinare i prezzi, i salari, l’interesse, ecc.

 

 

Ma, se è così, non è opportuno studiare a sé quest’azione dello Stato? Si cominciò a chiedere: Il fenomeno finanziario è uguale a quello economico? o non si differenzia forse per alcuni suoi caratteri particolari? Le leggi del prezzo dei servigi delle diverse categorie rimangono nella finanza quali erano nell’economia o assumono fisionomia diversa? L’analisi accurata del fenomeno finanziario lasciò scorgere che esso era regolato da certi leggi speciali, che aveva dei connotati diversi da quelli del fenomeno economico, e questo risultato confermò la necessità della differenziazione delle due discipline. Su queste diversità di leggi e di connotati ritorneremo in seguito. Basti per ora avere accennato all’esistenza delle diversità per spiegare la differenziazione delle due discipline. È questa la ragione scientifica dell’autonomia della scienza finanziaria. Vedremo poi, anzi vedremo a poco a poco in che cosa il fenomeno finanziario si differenzi dal fenomeno economico. Essenzialmente vedremo come, mentre nella economia privata i prezzi dei beni o dei servigi utili a soddisfare i bisogni privati degli uomini si determinano liberamente sui mercati dove si incontrano produttori e consumatori dei beni o servigi medesimi in condizione di libera concorrenza o di monopolio, i prezzi invece dei servigi destinati a soddisfare i bisogni pubblici degli uomini non sono determinati liberamente, ma, più o meno, risentono l’influenza dell’impero dello Stato. È compito della scienza delle finanze di studiare queste leggi particolari del soddisfacimento dei bisogni pubblici; e questo compito ne spiega l’esistenza.

 

 

Per quanto, però, la scienza finanziaria abbia acquistato indipendenza ed autonomia, non si può dire che si sia del tutto emancipata dall’economia politica. Entrambe toccano il medesimo oggetto e cioè le leggi del soddisfacimento dei bisogni umani, sebbene sotto punti di vista diversi: entrambe adoperano maniere consimili di oggetto di studio della scienza economica, alle imposte che sono il peculiarissimo oggetto di studio della finanza. Onde gli insegnamenti della scienza economica sono fondamentali e necessariamente propedeutici a quelli della finanza. Questa non potrebbe essere concepita senza la prima.

 

 

3. L’importanza particolare del diritto positivo nella scienza finanziaria. – Una causa principalissima della separazione della scienza finanziaria dell’economia che in esse hanno la teoria pura e l’applicazione: mentre nella scienza economica lo studioso può fare, almeno in gran parte, astrazione dalle leggi positive dei diversi Stati, perché i principi ch’egli stabilisce sono validi in una prima approssimazione ovunque e in ogni tempo; nella scienza delle finanze invece, sebbene possano i principi essere stabiliti in maniera generale, tuttavia il lato applicativo acquista subito una assai maggiore importanza e si impone lo studio delle leggi positive tributarie, diverse d a paese a paese. È assai più agevole fare, ad esempio, la teoria del corso forzoso e dei cambi esteri senza riferirsi specificatamente a questo o quell’esempio pratico relativo al paese. A od al paese B, di quanto non sia fare la teoria dell’imposta sul reddito, facendo astrazione dalle applicazioni fattesi di quel tipo d’imposta nelle diverse epoche storiche e nei differenti paesi. Nello studio del corso forzoso, dell’aggio, dei cambi, si può procedere per via di casi ipotetici; mentre lo studio dell’imposta sul reddito o sui terreni fatto per casi ipotetici, se è utilissimo in un primo momento (quello in cui si voglia, ad es. studiare la delineazione generica dell’imposta) diventa ben presto poco soddisfacente quando si voglia passare a discorrere della organizzazione effettuale del tributo. Ogni Stato ha suoi ordinamenti politici, amministrativi, giudiziari, dai quali non si può fare astrazione quando si studia come un’imposta deve essere regolata per ottenere certi effetti od incidere su certe classi. Delineare in genere un’imposta buona è cosa abbastanza agevole; mentre è difficilissimo assicurarsi che essa effettivamente raggiunga i fini voluti in un dato paese. La necessità dello studio delle leggi positive deriva cioè dal fatto che i fenomeni finanziari, non sono già fenomeni finanziari, non sono già fenomeni che avvengono al di fuori, qualche volta anche a dispetto delle leggi dello Stato; ma fenomeni che avvengono sempre in relazione con esse. Lo Stato deve stabilire quale è il prezzo dei servizi che renderà ai contribuenti. Se si tratta di beni privati i prezzi si stabiliscono sul mercato, e sulla formazione dei prezzi il legislatore non può intervenire; e se anche esso a volte stabilirà un calmiere, tutti sanno come il calmiere sia un palliativo di nessuna efficacia. Invece quando si tratta di fissare il prezzo che il privato deve pagare allo Stato per i servizi pubblici, allora il prezzo non viene stabilito sul mercato, ma dallo Stato, il quale d’autorità fissa l’imposta che i contribuenti dovranno pagare, perché esso possa esplicare la sua azione, da paese a paese. Da ciò proviene che nella scienza finanziaria è grandissima del diritto finanziario. Lo studioso non può nella sua trattazione far astrazione delle leggi positive; perché queste influiscono naturalmente sui fatti le cui leggi egli deve studiare.

 

 

Naturalmente, siccome noi viviamo in Italia, noi studieremo di preferenza le leggi dei fatti finanziari riferiti alla legislazione italiana. I principi saranno generali; le applicazioni e le esemplificazioni si riferiranno principalmente all’Italia.

 

 

4. Difficoltà che si presentano nello studio della scienza finanziaria. Gli ostacoli alla codificazione del diritto tributario. – Dal fatto che questa nostra disciplina è da un lato uno studio di prezzi e quindi ha carattere di dottrina pura, mentre dall’altro lato è una costruzione di diritto positivo, ne viene ch’essa va incontro alle stesse difficoltà alle quali vanno incontro tanto le discipline giuridiche che le economiche. Le difficoltà, quanto alla parte giuridica, derivano dal fatto che manca una codificazione finanziaria né è prevedibile si possa attuare.

 

 

Il futuro codice finanziario infatti dovrebbe regolare istituti che sono mutevolissimi a seconda delle necessità finanziarie dello stato e delle condizioni delle classi contribuenti. Per dimostrare le difficoltà grandissime e quasi la impossibilità di una codificazione nel campo finanziario basta pensare a questo: L’Italia alla sua unificazione aveva un bilancio di 800 milioni di lire annue; ora lo ha di 2 miliardi e 400 milioni; da queste cifre si vede subito che i bisogni pubblici del nostro Stato deve oggi soddisfare; diversa era allora l’azione governativa e quindi diversi i mezzi con cui si doveva provvedere ai bisogni pubblici. Altro era provvedere un tempo, anche in condizioni di ricchezza minore, ad una spesa di 800 milioni di lire, altro è procurarsene ora 2 miliardi e 400 milioni.

 

 

A poco a poco variarono dizioni delle classi sociali che dovevano fornire questi mezzi.

 

 

L’Italia era soprattutto una paese agricolo: la ricchezza era rappresentata unicamente dalla terra, perciò l’imposta massima, la base di tutti i tributi diretti era l’imposta massima, la base di tutti i tributi diretti era l’imposta fondiaria; oggi per contro, mentre sono cresciuti i bisogni dello Stato, sono cambiate anche le forme di ricchezza che possono essere poste a sua disposizione; è fiorita la grande industria e anche il commercio. Onde è divenuto possibile di colpire con tributi nuove forme di ricchezza. Così ha preso grandissima importanza l’imposta sui fabbricati, essendo cresciute le città ed aumentati i redditi dei proprietari di stabili destinati ad affitto di classi industriali, commercianti, operaie che prima erano assai più esigue di numero e di potenza economica. È sorta e si è sviluppata sopratutto l’imposta di ricchezza mobile che colpisce multiformi specie di ricchezza mobiliare e di redditi personali che prima non esistevano od erano scarsamente diffusi. Le modificazioni che sono intervenute nella vita economica del paese hanno prodotto corrispondenti modificazioni nei congegni ch’erano atti a colpire l’industria quand’era ancora casalinga, non servono più ora per le grandi organizzazioni manifatturiere. Cinquant’anni fa, tra le imposte indirette avevano importanza capitale i dazi di consumo all’entrata delle merci nelle città chiuse e sulla minuta vendita; adesso il cespite di entrata che questi offrono è per lo Stato quasi trascurabile; mentre hanno per esso acquistato importanza altri tributi indiretti che non erano immaginabili cinquant’anni fa, come le imposte di fabbricazione, che colpiscono la merce nell’istante in cui viene prodotta. L’unica imposta, e odiatissima, di fabbricazione che esistesse in Italia prima dell’unificazione, era l’imposta sul macinato. La sua impopolarità dipendeva dal fatto che erano moltissime le intraprese che venivano colpite da questo balzello e dalla necessità di ricorrere a una ferrea organizzazione per esigerla. Ora, invece, che le intraprese sono divenute meno numerose e più grandi, si adoprano dei sistemi di esazione molto più semplici. Poiché i fabbricanti di zucchero sono appena una trentina, basterà per esempio colpire questo numero ristretto di fabbricanti per provocare un largo flusso di entrate nelle casse dello Stato.

 

 

Questi esempi valgano per dimostrare che le leggi finanziarie non sono codificabili, ma devono trasformarsi continuamente a seconda delle condizioni mutevoli dell’economia del paese: esse vengono modificate magari di decennio in decennio e anche a periodi più brevi; per talune imposte non passa annuo senza che si facciano dei ritocchi alle loro leggi organiche. Così l’imposta sugli spiriti da quando è stata creata ha subito variazioni quasi ogni anno; ciò perché le materie prime e purtroppo anche le pretese di favori legislativi da parte dei produttori di esse. Accadde perciò che la legislazione dovette mutare per adattarsi alle mutazioni della tecnica industriale; e, meno ragionevolmente, mutò anche per compiacere ai desideri di protezione di talune classi di produttori, per esempio dei produttori di vino e di vinello destinato in certi anni alla distillazione. Essendone così impossibile, o, sommamente ardua e non duratura, la codificazione, la costruzione di un corpo dottrinale di diritto finanziario non può avvenire così rigorosamente come quella del diritto civile. Questo ha principi che ci sono tramandati da millenni; si tratta di sistemarli logicamente, arricchendoli man mano con altri principi nuovi bensì ma ricollegantisi ai primi. Alcuni principi generali possono essere altresì, come abbiamo detto, dalla nostra scienza stabiliti; ma le condizioni di fatto cui si riferiscono le leggi finanziarie dipendono da necessità talora cotanto transitorie da imprimere alla legislazione finanziaria un carattere molto frammentario.

 

 

Ciò che rende relativamente difficile lo studio del diritto finanziario. Si aggiunga che non esistono solo le difficoltà derivanti dalla grande massa e dalla continua variabilità delle leggi finanziarie. Un altro difetto che in queste si riscontra è quello di essere spesso leggi di occasione e quindi di eccezione. Il che si vede specialmente nella materia delle tasse di registro sugli atti giuridici, ma non è fatto ignoto anche nelle tre nostre grandi imposte dirette. Il diritto civile ha sempre insegnato che un certo negozio giuridico ha una data indole, per es. di locazione o di deposito o di mutuo? Ciò non importa nulla al legislatore fiscale, il quale, quando l’indole propria del negozio giuridico sia tale da non permettere l’esazione d’una tassa od imposta abbastanza vistosa, afferma che ai fini fiscali altra è la figura del negozio giuridico e precisamente quello che più giova ai suoi fini. Il codice civile statuisce che un contratto determinato sia perfetto quando vi sia il consenso delle parti? Ed il legislatore fiscale dirà invece che i contratti di borsa cosidetti differenziali sono nulli se non siano stilati su foglietti bollati. Lo scopo di assicurare la percezione della tassa od imposta può cioè giungere a tale da deformare istituti giuridici che nella legge civile sono già stati ben fissati e precisati.

 

 

Onde nuove difficoltà che lo studio del diritto finanziario ad ogni passo fa sorgere. Basti avervi accennato, non essendo nostro proposito di studiare in modo particolare i rapporti tra diritto civile e diritto finanziario[1].

 

 

5. Le difficoltà oggettive dello studio della scienza finanziaria. – Se noi passiamo alle difficoltà che s’incontrano nello studio della finanza come corpo di dottrine economiche troviamo che esse sono le medesime di tutte le altre scienze economiche e sociali, dipendono cioè dalla natura dell’oggetto che si tratta di studiare e dalla persona dell’indagatore.

 

 

Le difficoltà della prima specie (oggettive) si ricollegano sopratutto alla mancanza dello strumento che è la miglior risorsa delle scienze positive, cioè dell’esperimento. Il fisico ed il chimico possono isolare un fenomeno, studiarlo a sé e quindi scoprirne le leggi, mentre invece il finanziere non può, nel suo studio, isolare gli istituti che vuole studiare, metterli in un crogiuolo e vedere da quali leggi sono regolati. I fenomeni finanziari non sono creabili a volontà dell’indagatore; ma sono il prodotto vivente di molteplici forze sociali e sono tra loro e con altri in stato di continua azione e reazione.

 

 

Poniamo, per esempio, che si vogliano conoscere gli effetti di un provvedimento finanziario: ad esempio, dell’aumento dell’imposta sulla fabbricazione degli zuccheri. Questo provvedimento produrrà un aumento del prezzo? Se fosse possibile isolare il fenomeno «aumento dell’imposta di fabbricazione degli zuccheri» da tutti gli altri e lasciarlo agire di per sé, la verificazione dei risultati sarebbe facile: ma, mentre questo fenomeno si manifesta, se ne verificano quasi sempre anche degli altri: mentre il governo aumenta l’imposta, il raccolto delle barbabietole può essere scarso ed il prezzo degli zuccheri aumentare dappertutto; ora, quest’aumento è dovuto all’accresciuta imposta o alla scarsità del raccolto? Poniamo ancora che l’anno seguente il raccolto delle barbabietole sia abbondante e che quindi anche il prezzo dello zucchero diminuisca: molti potrebbero dedurne che l’imposta accresciuta non ha avuto influenza sul prezzo, anzi che ha agito nel senso della diminuzione, mentre invece la diminuzione è dovuta all’abbondanza del nuovo raccolto. Questa incertezza nelle conclusioni dimostra come la nostra scienza debba accontentarsi di osservare, di paragonare quello che si verifica in diversi paesi, e sopratutto debba far uso del raziocinio. Ora, se il raziocinio serve assai nelle prime approssimazioni dello studio, quando si tratta di stabilire dei principii generali, esso è di minor giovamento quando si debba discendere alle applicazioni, dove occorre di tener conto di moltissime condizioni particolari e mutevoli per apprezzare l’influenza delle quali gioverebbe assai lo sperimento.

 

 

Data questa difficoltà, noi non ci atterremo ad un metodo solo esclusivamente, ricorrendo, a seconda che ne avremo il destro, alla deduzione ed allo studio dei fatti; alla storia passata ed alla legislazione attuale. Siccome però il nostro è un corso generale, il quale ha per iscopo di studiare i principi fondamentali e le loro applicazioni più importanti, avvertiamo che faremo scarsissimo uso della cosidetta comparazione internazionale. Citeremo poco, per dimostrare la verità delle nostre tesi, l’esperienza della Francia, Inghilterra, Prussia, Svizzera e di altrettali paesi cosidetti più progrediti. Perché quell’esperienza dovrebbe essere così accuratamente interpretata che troppo tempo il suo studio ci toglierebbe; ed a discorrerla frettolosamente, otterremmo risultati pessimi.

 

 

Un’altra avvertenza dobbiamo fare. Il nostro studio è sovratutto di prima approssimazione. Dovendo esporre teorie generali, esso pone il problema nella sua forma più semplice, scevra di molte tra le complicazioni che pure esistono nella vita reale e che hanno una influenza grandissima a determinare i fenomeni come veramente sono. Procedere in tal modo, studiando in una prima approssimazione solo il fenomeno puro, nella sua forma più semplice, è una assoluta necessità didattica di esposizione. A voler subito affrontare il fenomeno nella sua complessità, noi non otterremmo alcun risultato apprezzabile, ma solo una massa di dati empirici, mal raccozzati tra di loro. Il che non toglie che in seconde e successive approssimazioni si possa avvicinare il fenomeno puro tecnico primamente studiato al fenomeno reale esistente di fatto, facendo entrare in campo nuovi fattori che su di esso hanno influenza. Per la necessità di tempo imposta al nostro insegnamento, di solito ci terremo paghi della prima approssimazione, entrando in qualche maggior particolare solo nella parte speciale delle imposte.

 

 

A persuaderci dell’opportunità di tenersi paghi di una prima approssimazione giova anche ricordare le difficoltà soggettive che si incontrano nello studio della scienza finanziaria.

 

 

6. Le difficoltà soggettive nello studio della scienza finanziaria Le influenze perturbatrici degl’interessi di ceto, di regione, di classe. – Le difficoltà della seconda specie stanno nella posizione degl’indagatori di fronte all’oggetto. Nella chimica e nella fisica l’indagatore è perfettamente spassionato: a lui non importa che un corpo sia composto in un modo piuttosto che in un altro; il suo vanto sarà soltanto di esser riuscito a scoprire una legge qualunque essa sia. Nella finanza invece, più ancora forse che nell’economia, la situazione di chi studia i fenomeni è estremamente delicata, in quanto che gl’interessi suoi e, se non suoi, d’intiere classi di persone, possono essere lesi da un principio ch’egli giunga a scoprire, e lesi anche gravemente. Se egli afferma che deve essere messa un’imposta in un determinato modo per raggiungere un certo fine, potrà darsi che quell’imposta venga a colpirlo personalmente. Questa conseguenza immediata che i principi scientifici hanno sulla vita privata dell’individuo, può talvolta portare è buona cosa? molti produttori di grano non hanno esitato ad affermare di sì in quanto è favorevole ai loro interessi; ma per i consumatori, ossia per le generalità dei consociati, la soluzione è diversa: il dazio sul grano è da respingersi perché aumenta il prezzo del pane: quindi ecco una soluzione diversa data allo stesso problema secondo gl’interessi e la mentalità delle diverse classi sociali.

 

 

Talvolta questo contratto con gl’interessi generali si manifesta anche in categorie meno importanti. Per esempio, gl’impiegati dello Stato troveranno sempre che le imposte sono utilissime perché permettono loro di domandare aumenti di stipendio, mentre il contribuente che deve pagare non sarà probabilmente dello stesso parere.

 

 

Ancora: la piccola città che ha un liceo od un ginnasio giudicherà il problema finanziario in modo suo proprio: dirà che il liceo o ginnasio è una istituzione stupenda, perché richiama entro le sue mura studenti e professori, i quali daranno vantaggio agli affittacamere, ai padroni di casa e ai commercianti, e tutto questo dirà anche se il numero degli studenti fosse inferiore a quello dei professori. Mentre l’interesse generale vorrebbe che si istituissero scuole dove esse sono frequentate e corrispondono ad un bisogno della gioventù.

 

 

Così ancora: il problema militare è giudicato in modo diverso dai militari e da altri: il capo di stato maggiore naturalmente sosterrà che i reggimenti debbono prender stanza nei luoghi dove possono esser più utili per la difesa del paese e li vorrà distribuire in relazione puramente a concetti strategici; invece gl’interessi regionali grideranno che le forze debbono essere distribuite un po’ dappertutto equamente nelle provincie italiane, perché tutte pagano imposte per l’esercito e quindi debbono godere dei vantaggi che arreca la guarnigione. Lo stesso problema militare viene così risolto in base a concetti finanziari affatto antitetici, e ben spesso il capo di stato maggiore non può riuscire a raggiungere il minoro costo che importano le forze militari quando siano concentrate, appunto per le pretese degl’interessi particolari che offuscano la vista del fenomeno generale.

 

 

Altri casi si potrebbero citare: si potrebbe dire ad esempio che a seconda delle classi predominanti al governo, diversa è la soluzione che si dà al problema finanziario. Prima della Rivoluzione francese esistevano immunità a favore delle classi nobiliari ed ecclesiastiche per cui il problema finanziario era guardato in modo particolare da quelli che occupavano il potere. Essi ragionavano così: noi le imposte le paghiamo, ma in misura modesta, quindi a noi importa poco che anche le imposte aumentino, perché con esse aumentano le spese e queste si fanno sovratutto a nostro vantaggio perché spetta a noi di distribuirle come ci par meglio e le distribuiamo a sostener cariche e sinecure utili specialmente alle nostre classi.

 

 

Dopo la Rivoluzione francese fu stabilito il principio della universalità e della eguaglianza delle imposte: per cui ci fu un momento in cui tutti erano interessati a che si mettessero e si conservassero imposte solo per far fronte ai servizi fondamentali dello Stato, senza di cui lo Stato stesso non potrebbe essere concepito. Statisti famosi sostennero questo indirizzo, specialmente nell’epoca liberale inglese, in cui ad ogni esposizione finanziaria il cancelliere dello scacchiere si faceva un vanto di aver saputo ridurre le spese, per potere diminuire in correlazione anche le imposte.

 

 

Ora stiamo passando a un terzo stadio in cui si ritorna alle antiche immunità, rovesciate, s’intende: non sono più la nobiltà e il clero che godono delle immunità, ma è il proletariato; si torna all’immunità dalle imposte dirette prima, poi dalle indirette. Questo passaggio porta ad una considerazione diversa dei fenomeni finanziari. Il proletariato non ha più interesse a frenare le imposte, e viceversa ha tendenza a crescere le spese perché da esse gli deriva il massimo vantaggio; esso spera di poter ottenere dallo Stato delle pensioni per tutti i vecchi, casse di maternità, assicurazioni in caso di malattia, disoccupazione, ecc., refezioni scolastiche, ecc. Tutti questi esempi dimostrano che noi ci troviamo di fronte, non dico ad una falsificazione, ma ad una diversa concezione del fenomeno finanziario a seconda delle epoche storiche; concezione che non deriva da principi scientifici immanenti, ma solo dal fatto che le nuove classi sociali succedentesi al potere guardano il fenomeno finanziario da un punto di vista loro particolare.

 

 

7. Lo studio per approssimazioni graduali. Come il nostro studio sia principalmente di prima approssimazione, benché si riconosca l’importanza grandissima delle approssimazioni ulteriori. – È inutile avvertire che noi procureremo, per quanto sia possibile ed in quanto possiamo esserne consapevoli, di non lasciarci influenzare da tutte queste considerazioni personali o di classe. La scienza delle finanze che cercheremo di esporre sarà una scienza di prima approssimazione perché cercherà di esporre le leggi che regolano i fatti finanziari puri, quelli che si verificherebbero cioè se gli uomini fossero consapevoli dell’importanza dei servigi pubblici possibili quelli soltanto che corrispondono ad un bisogno generale e fossero capaci di coprire le spese di essi col minimo costo.

 

 

Purtroppo quest’ipotesi è irreale: poiché è innegabilissimo che le spese e le entrate pubbliche sono determinate spesso, come sopra si disse, da interessi di persone, di regioni, di ceti e classi sociali. Ma è del pari innegabile che è più facile porre un po’ d’ordine nella congerie dei fatti finanziari quando dapprima se ne studino le leggi più semplici: integrando poi, col metodo delle approssimazioni successive, i risultati così ottenuti col tenere ad uno ad uno conto di tutti i fattori che vengono a deformare, o se così si vuol dire, a modificare la legge semplice primamente esposta.

 

 

Oseremmo dire che queste approssimazioni od integrazioni successive sono assai agevoli, quando si siano poste le fondamenta dell’edificio teorico.

 

 

Nel corso delle nostre ricerche noi vedremo, ad esempio, quali caratteri hanno in teoria pura le imposte sui consumi. E si vedrà allora facilmente, al saggio di quei principi, come il dazio sul grano non possa prender posto tra quelle imposte vere e proprie sui consumi, perché: a) esso fa gravare sui consumatori un peso uguale a 60 milioni di quintali (quanti sono consumati in Italia tra grano nazionale ed estero) moltiplicato per L. 7,50 che è l’ammontare del dazio, ossia di 150 milioni di lire circa; mentre lo Stato incassa il dazio di L. 7,50 solo sul grano introdotto dall’estero, ossia su 10 milioni di quintali, ed incassa perciò solo 75 milioni di lire.

 

 

La differenza, in 375 milioni di lire, va a vantaggio non dell’erario pubblico, ma dei proprietari di terre a grano, contraddicendo così la regola secondo cui l’imposta non deve portar via ai contribuenti una somma maggiore di quella versata nelle casse dello Stato, o la differenza non deve accedere le spese di esazione dell’imposta stessa ridotte al minimo; b) esso grava sui consumi – risparmio, ossia grava su un bene, il grano, che costituisce un consumo primario per l’uomo ed un consumo che l’uomo deve fare per conservarsi in vita, per conservare e reintegrare il proprio capitale personale. Ora questi consumi, per un teorema che esporremmo in seguito, non debbono essere colpiti dall’imposta, dovendo questa osservare la regola di non colpire diversamente i contribuenti e colpendosi invece questi assai diversamente, come si dimostrerà, quando si tassano i consumi-risparmi.

 

 

In una prima approssimazione dunque il dazio sul grano per la scienza finanziaria pura non esiste. Esso è un non-fatto per essa. Viceversa tutti sanno che il dazio esiste. È compito della seconda o terza approssimazione di studiarlo. Si può, ad esempio, cominciare ad introdurre il fattore della «povertà del paese», in cui un certo sistema tributario esiste. In quel paese, per la grande povertà dei suoi abitanti, questi non fanno consumi secondari, più fini; ma debbono forzatamente ridursi a consumi primari: frumento, sale, petrolio, olio, verdure, vestiti di cotone, ecc. In questo paese, lo Stato, che pure ha bisogno di entrate per far fronte alle spese pubbliche e che non può fare a meno di mettere delle imposte sui consumi, tassa anche il frumento, sebbene sia un consumo primario. Contraddice con ciò al principio esposto sopra (sotto b) per cui i consumi primari o consumi – risparmio non possono essere soggetti ad imposta. Ma è contraddizione imposta dalla necessità.

 

 

Con ciò il non-fatto della teoria finanziaria pura diventa un fatto della teoria finanziaria di una paese povero. Ma il fatto, che ora sorge, non è ancora il dazio sul grano. È un altro balzello, ben noto sotto il nome di «macinato», ossia di imposta che grava su tutto il grano consumato (macinato per il consumo) nell’interno del paese, sia esso grano nazionale od estero.

 

 

Il macinato contraddice alle regole della finanza pura, perché colpisce un consumo primario; ma non contraddice ancora all’altra regola che tutto il provento dell’imposta deve andare a favore dello Stato, perché esso colpisce appunto a favore dell’erario pubblico tutto il grano nazionale ed estero, con una tariffa, supponiamo, di due lire per quintale. In questo caso, supposto un consumo (macinazione) di 60 milioni di quintali, i consumatori pagherebbero 120 milioni di lire e lo Stato incasserebbe altrettanto. È all’incirca quanto accadeva in Italia prima del 1884, perché in allora, essendo il paese povero, difficilmente lo Stato avrebbe potuto fare a meno di quel reddito. Con legge 19 luglio 1880, essendosi l’Italia alquanto arricchita, o, quanto meno, essendo le sue condizioni economiche migliorate, il macinato fu ridotto a L. 1,50 per quintale a partire dal 10 gennaio 1884, rendendo così omaggio alle leggi della scienza pura.

 

 

Abbiamo fatto un passo: l’imposta, che in teoria non esisteva, ha preso consistenza ed ha un nome: «macinato». Facciamone un altro. Introduciamo il fattore dell’influenza delle classi sociali. C’è una classe sociale, quella dei proprietari di terre a grano, che si lagna in un certo momento, per la concorrenza dei grani d’oltremare, di dover vendere il proprio prodotto a prezzi molto bassi. Questa classe è potente nei Parlamenti d’Italia, di Francia, di Germania, d’Austria; ma da sola forse la sua potenza non sarebbe decisiva. Essa allora si allea con altre classi, quelle, ad esempio, degli industriali cotonieri, siderurgici, lanaioli, zuccherieri, ecc. ecc., e viene con esse a compromesso, dicendo: se voi consentite che sia istituito un dazio sul cotone, lana, ferro, zucchero estero a vostro vantaggio. Così fu. Premendo concordemente sui Parlamenti, queste classi ottennero tra il 1880 ed il 1890 che si istituissero nei paesi dell’Europa continentale fortissimi dazi protettivi su molti prodotti agricoli ed industriali. Limitandoci al grano ed all’Italia, questa, che rendendo ossequio alla scienza finanziaria pura aveva con legge del 1880 abolito il macinato che pure contraddiceva alla scienza pura sotto un rispetto solo, istituì nel 1887 e crebbe in seguito il dazio sul grano, che la offende sotto due rispetti. La scienza, che non fa la schizzinosa, non rifiuta di spiegare e di dire le leggi di quest’altro fatto. E, nella terza approssimazione, spiega il fatto ed analizzandolo, dice: il dazio sul grano, che è di lire 7,50 per ogni quintale di grano introdotto dall’estero, rincara di altrettanto non solo ognuno dei 10 milioni di quintali introdotti dall’estero; ma anche ognuno dei 50 prodotti nell’interno. Perché, siccome il raccolto interno non basta al consumo, giuocoforza è ricorrere all’estero; e per introdurre un quintale dall’estero giuocoforza è pagarlo 20 lire, se questo è il suo prezzo, posto sulla banchina di Genova, più 7,50 di dazio doganale, in tutto 27,50. I produttori interni, vedendo che i consumatori, se vogliono avere il grano estero, debbono pagarlo lire 27,50, non vendono a minor prezzo il loro grano interno. Essi conoscono, senza bisogno d’averla imparata, la nota legge economica, cosidetta dell’indifferenza o di Jevons, dal nome dell’autore che la espose, secondo cui una stessa merce (grano) su uno stesso mercato (Italia) non può avere due prezzi differenti (20 per il grano interno e 27,50 per il grano estero). Se la legge dell’indifferenza, per assurda ipotesi, non valesse, tutti i consumatori comprerebbero il grano interno a lire 20 e nessuno vorrebbe il grano estero a 27,50. Quindi grande sarebbe la richiesta del grano interno e il prezzo ne aumenterebbe fino a raggiungere le 27,50 lire del grano estero. Dal che risulta dimostrato, salvo alcune più raffinate considerazioni che qui non accade di discutere perché hanno debolissime applicazioni in Italia, che il dazio sul grano aumenta il prezzo di L. 7,50 tanto per il grano nazionale che per l’estero. È resta dimostrato altresì che i consumatori pagano 60 milioni di quintali x lire 7,50 ossia 450 milioni di lire. Questa è l’imposta totale. L’erario dello Stato incassa invece, come si disse, solo L. 7,50 x 10 milioni di quintali di grano estero = 75 milioni. Questa è la parte dell’imposta che si può chiamare pubblica. I proprietari interni, vendendo il proprio grano a 27,50 invece che a 20 lire per quintale, lucrano per fatto del dazio 50 milioni di quintali x L. 7,50 = 375 milioni di lire. Questa è la parte dell’imposta che si può dire privata. Ecco nella terza approssimazione della scienza, spiegato il dazio sul grano, che nella prima non esisteva e nella seconda aveva natura di macinato. È la scienza dice anche le leggi del dazio sul grano, notando che il dazio durerà finché le classi dei granicultori e degli industriali protetti saranno unite e potenti e finché non acquisteranno coscienza della propria forza e del proprio interesse ad abolire il dazio medesimo altre classi sociali agricole, industriali ed operaie. Ciò accadde nell’Inghilterra di Roberto Peel, fra il 1840 ed il 1860; quando sotto la pressione delle classi industriali ed operaie, il dazio sul grano, insieme con molti altri, fu spazzato via.

 

 

Il fatto che la scienza finanziaria studia in terza approssimazione il contenuto e le leggi del dazio sul grano, che in prima approssimazione ignorava, ci può far concludere che questa prima approssimazione sia inutile? Mai no. Si tratta di una forse artificiale, ma utilissima, maniera di esporre distintamente in piani diversi fatti differenti. La utilità didattica di questa maniera di esporre i fatti è chiarissima: perché così chiaramente si apprende che cosa sia l’imposta sui consumi propriamente detta, poi l’imposta sui consumi primari necessaria nei paesi poveri (macinato) e finalmente l’imposta sui consumi primari pubblico-privata determinata dal predominio di una classe. Ed è utile questa maniera di esporre perché in tal modo colui che voglia costruire o magari in pratica lottare per la costruzione di un sistema di imposte alieno da influenze di classe vede subito che cosa gli convenga resecare dai sistemi tributari vigenti e verso che meta debba rivolgere la sua attività di propaganda.

 

 

È venuto di moda nei tempi recenti dire che la scienza economica e finanziaria deve mantenersi imparziale e deve dire oggettivamente le leggi tanto dei fenomeni di prima approssimazione, quelli che, per intenderci, diremo fecondi di utili risultati per la generalità, quanto dei fenomeni di seconda approssimazione, che rispondono ad interessi di persone, regioni o classi. Sono tutti fatti e tutti devono essere studiati. Il che è verissimo. Ma è falsissimo che la scienza ne debba fare tutta una miscela e studiarli tutti insieme; perché non ne ricaverebbe alcun costrutto. Ed è arbitrario pretendere che le nozioni scientifiche non debbono più servire a nessun fine pratico. Lo studioso, è vero, vede il suo compito finito quando ha detto in che consiste e quali sono le leggi dell’imposta propriamente detta sui consumi, del macinato e del dazio sul grano. Ma se egli ha adempiuto al suo compito, non è forse vero che dalle sue stesse leggi deriva logica la illazione che coloro, e saranno altri o magari gli stessi uomini di studio, i quali vogliono ottenere uno di quei tre fini, a cui i tre tipi di imposta tendono, devono tra di essi scegliere? Ciò è tanto vero che, lo vogliamo o no, gli studiosi tutti, oltrepassate le prime battute della teoria pura, studiano non i fatti del tempo degli assiri e dei babilonesi o del medio evo o del periodo pre-rivoluzionario ma i fatti attuali. I principi scientifici devono essere dedotti indipendentemente dal fine a cui servono; ma da questi fini non può fare astrazione il metodo di esporre i principi stessi.

 

 

Nel corso di queste lezioni, come fu già avvertito, ci si limiterà prevalentemente alle nozioni di prima approssimazione; non tanto però che qua e là non si facciano accenni alle successive; e la parte speciale delle imposte sarà poi quasi del tutto uno studio di seconda approssimazione ossia di applicazione al sistema tributario italiano.

 

 

A far parco studio specialmente dell’influenza delle persone, regioni e classi sociali ci consiglia il pensiero che trattasi di fatti troppo universalmente noti e che la dura esperienza della vita insegnerà purtroppo ai giovani divenuti uomini operosi, senza che vi sia d’uopo che l’insegnamento di tali fatti sia anticipato nella scuola. Giova dippiù nella scuola insistere sui ragionamenti che servono a spiegare come tali fatti non siano conformi all’interesse generale e come nell’interesse generale sia augurabile che essi siano fatti scomparire. L’insegnamento, ad esempio, delle cause per cui, dato il predominio di certe classi sociali, il dazio sul grano si è universalizzato in Europa ha il difetto di far sembrare il dazio quasi fatalmente necessario e inutile ogni reazione contro di esso: onde si educano le nuove generazioni a prendere i fatti quali sono e quasi si consigliano a trarre loro pro da istituti contrari all’interesse generale. Insistere invece a preferenza sulle prime approssimazioni ha per risultato di chiarire la distinzione tra interesse generale ed interesse particolare e di mettere in mano alle future classi dirigenti quelle armi logiche, grazie alle quali esse potranno fare prevalere il primo contro il secondo.

 

 

Non mancano del resto libri, nei quali si cercano le ragioni dell’atteggiarsi reale del fenomeno finanziario e dell’influenza del predominio di certe classi a deformare il fenomeno finanziario puro. Basti citare il meritamente celebre volume del prof. Achille Loria su Le basi economiche della costituzione sociale (Torino, Bocca, quarta edizione, 1912) di cui al capitolo III della parte terza è primamente destinato allo studio della «politica finanziaria». Anche chi non possa accettare in tutti i particolari la tesi dell’A., deve riconoscere che in quelle pagine sono raccolte prove formidabili dell’egoismo turpe con cui le classi dominanti foggiano il sistema tributario a loro profitto.

 

 

Le classi dominanti ed i ceti politici dirigenti non solo fanno spesso questo; ma vogliono inoltre, con le arti più fini, persuadere ai popoli contribuenti che essi non pagano imposte, o le pagano molto minori di quanto in realtà non siano. Anche questo delle illusioni tributarie in che i contribuenti sono fatti cadere è uno studio interessantissimo di ulteriore approssimazione, che qui, per le esigenze dello spazio, si dovette, salvo fugaci accenni, trascurare quasi del tutto. Epperciò riescirà utile la lettura del classico studio di Amilcare Puviani su La teoria della illusione finanziaria (Palermo, Sandron), a conoscere gli infiniti accorgimenti con cui la vera indole del fatto finanziario viene occultata e deformata agli occhi dei popoli.

 

 

Capitolo II

Dell’autonomia della scienza finanziaria e della classificazione dei bisogni pubblici e dei mezzi atti a soddisfarli

 

8. Se la scienza delle finanze debba essere considerata come una scienza autonoma. – Noi abbiamo sovra definito la scienza delle finanze come lo studio delle leggi secondo le quali gli uomini provvedono al soddisfacimento dei loro bisogni pubblici.

 

 

Gli individui devono provvedere, non solo a soddisfare molti bisogni privati, le leggi del cui soddisfacimento sono stabilite dall’economia politica, ma anche ai bisogni pubblici, ai quali si provvede nei tempi nostri di solito indirettamente per mezzo di enti collettivi che si dicono Stato, Provincia, Comune ed altri Enti pubblici territoriali od istituzionali minori. Di questa seconda categoria di bisogni si occupa appunto la scienza delle finanze.

 

 

Se non che già ci venne fatto di domandarci: è davvero indispensabile di stabilire questa scienza speciale? Dal momento che vi è la scienza economica che studia in generale tutte le leggi del soddisfacimento di una categoria speciale di essi. Come a nessuno è venuto mai in mente di stabilire una scienza per il soddisfacimento del bisogno del pane o del vino, così la difesa nazionale, la giustizia, la sicurezza pubblica saranno pur sempre bisogni cui si dovrà provvedere secondo le regole comuni.

 

 

9. Bastano le ragioni didattiche pratiche a giustificare l’autonomia. – Già vedemmo come vi siano ragioni didattiche le quali spiegano la separazione dello studio dei fatti finanziari da quello dei fatti economici generali (par. 2). Ma fu già osservato che non basterebbe che ragioni d’indole pratica consiglino di disgiungere dal novero di tutti i bisogni che per la loro speciale importanza possono essere considerati a parte. Da ciò non nascerebbe ancora la necessità di costituire una scienza economica per i bisogni pubblici e poi una scienza per i bisogni privati, e poi ancora una terza scienza per certi altri bisogni superiori (di cultura, estetici, ecc.). Questa divisione essendo soltanto suggerita da ragioni pratiche, si direbbero didattiche, darebbe luogo al sorgere di parecchie discipline di insegnamento, non di parecchie scienze autonome specificate per motivi di principio. Perché queste sorgano, è necessario che certe categorie di bisogni abbiano talune caratteristiche peculiari che ne rendano le leggi diverse da quelle che regolano i bisogni umani in generale.

 

 

10. I bisogni pubblici potrebbero essere soddisfatti per mezzo di intraprese private? Vediamo un po’ se ai bisogni pubblici possono applicarsi i medesimi ragionamenti elementari che l’economia politica fa per i bisogni privati.

 

 

È fuori di discussione che l’uomo ha dei bisogni: l’economia politica suppone che egli provveda seguendo la legge del minimo mezzo: cioè cercando di soddisfare a tutti questi bisogni facendo la minima fatica possibile.

 

 

Quindi egli lavorerà finché il costo del lavoro non sarà superiore al beneficio che ricava da esso, poiché se la fatica è per lui dieci mentre il beneficio è solamente nove, non gli conviene più lavorare. L’uomo in un primo momento lavora volentieri non foss’altro che per sottrarsi alla noia dell’ozio; quindi in questo primo momento il lavoro ha per lui un costo zero. Con questa dose di fatica egli soddisfa ai bisogni più urgenti: per esempio al bisogno del cibo: se continua a lavorare, il costo del lavoro aumenta un poco: nella seconda ora l’utilità delle merci che egli si procaccia non è certo più quella della prima: nella terza ora il costo del lavoro aumenterà ancora e l’utilità discenderà, e così nelle ore successive fino a che non giungerà un momento in cui non vi sarà più alcuna utilità differenziale e non sarà quindi conveniente continuare nel lavoro.

 

 

Gli uomini in generale agiscono in questo modo; seguitano a lavorare per procacciarsi delle merci, finché il costo del lavoro non sia superiore all’utilità delle merci che si procurano. Si soggiunga che ognuno di noi fa un solo mestiere, produce una sola qualità di beni o di servizi; ma se dovessimo consumare soltanto le merci che produciamo, lavoreremo pochissimo perché presto giungerebbe il momento non solo della decrescenza, ma della saturazione di quei dati bisogni: un calzolaio si fermerebbe dopo il secondo o il terzo paia di scarpe, un professore non comincierebbe neanche la lezione, perché è certo che non ritirerebbe nessuna utilità dall’insegnamento a sé stesso. Ma appunto perché tutti producono merci diverse, i lavoratori se le scambiano tra di loro e soddisfano così una serie indefinita di bisogni.

 

 

Questo discorso è vero anche per i beni pubblici? Dico, è vero non solo per quanto si riferisce al confronto tra costi e utilità dei beni pubblici, ma anche per il metodo di produzione dei beni stessi per mezzo di intraprese private a lavoro diviso e tra loro con correnti? Sarebbe forse lecito immaginare di sì in un primo momento; e che, come v’è il calzolaio che produce scarpe, e lezioni il professore, così vi sia un tale imprenditore privato che fabbrichi il servizio che si chiama sicurezza pubblica. Tutto ciò non sarebbe totalmente assurdo e lontano dalla realtà: in certi paesi in cui c’è un governo molto imperfetto, il servizio della sicurezza pubblica è amministrato da privati: così negli Stati Uniti, paese che si vanta, a torto, di essere alla testa della civiltà, si sono costituite organizzazioni private che si incaricano della sicurezza pubblica: famosa fra le altre la compagnia Pinkerton che manda degli agenti, a un prezzo convenuto, a chi ne ha bisogno per difendersi contro i malfattori, gli scioperanti, ecc.

 

 

Questo servizio, che in Europa è considerato come pubblico, è adunque soddisfatto negli Stati Uniti nello stesso modo come quelli privati. Senza spingersi tanto oltre, è certo che esistono dei bisogni pubblici che potrebbero essere entro certi limiti soddisfatti dai privati: così, dove lo Stato non mantiene università o scuole medie ci sono istituti privati; in Inghilterra lo Stato s’ingerisce pochissimo dell’istruzione media alla quale provvedono i privati. Se non che appare subito evidente che questa sostituzione di un’impresa privata allo Stato o agli altri enti coattivi, ha in sé qualche cosa di ripugnante al nostro modo di vedere: noi non potremmo ammettere che tutti i servizi pubblici fossero geriti da società private invece che da parte dello Stato. Come potremmo tollerare che imprenditori privati si incaricassero, così dell’amministrazione della giustizia, come della sicurezza pubblica, che tante agenzie Pinkerton, per esempio, organizzassero degli eserciti per la difesa nazionale? Il fatto che negli Stati Uniti esistono agenzie private di polizia e che in esse si ha più fiducia che nella organizzazione pubblica di sicurezza basta a far considerare, ed a giusta ragione, gli Stati Uniti come un paese sotto questo rispetto barbaro. Anche in Europa ed in Italia esistono organizzazioni private di pubblica sicurezza; ma hanno uffici secondari, sussidiari a quelli della polizia di Stato. E tutti abbiamo l’impressione che sarebbe assai meglio se il perfezionarsi dell’organizzazione di Stato rendesse inutili queste imprese private.

 

 

Esistono adunque forti ragioni, sentite confusamente dall’universale, sebbene non sempre chiaramente presenti dinnanzi alla mente, che impediscono che la concezione del soddisfacimento dei bisogni pubblici per mezzo di imprese concorrenti sia trasportata dal campo dell’economia pubblica a quello dell’economia privata.

 

 

11. L’inopportunità di soddisfare ai bisogni pubblici per mezzo di intraprese private non è in tutti i casi ugualmente evidente. – Le ragioni per le quali sembra inopportuno di ritenere che i bisogni pubblici abbiano ad essere soddisfatti da intraprese private in regime di divisione del lavoro non sono però ugualmente forti per tutti i bisogni pubblici: ve ne sono alcuni per cui si pensa che ciò sia impossibile, altri per i quali si comincia a dubitare, infine altri per i quali non si vedrebbe in ciò nessun inconveniente. Così alla difesa del territorio nazionale, si potrebbe provvedere come si provvede alla produzione del pane? Tutti diremmo d’accordo che questa cosa sarebbe assolutamente assurda perché, data l’organizzazione dello Stato moderno, è impossibile lasciare la formazione dell’esercito ed agenzie private.

 

 

Qualche cosa di simile avvenne all’epoca delle compagnie di ventura in cui molti imprenditori concorrenti, i capitani di ventura, si incaricavano di assoldare dei combattenti; ma tutti siamo d’accordo nel ritenere che quello fu un periodo quant’altri mai disgraziato, e che le compagnie di ventura furono un modo pessimo di provvedere alla difesa del territorio nazionale.

 

 

Noi che fummo i più larghi applicatori di quel sistema ottenemmo l’unità nazionale molto dopo dei paesi in cui esso fu più presto abbandonato. In questo caso dunque non sembra assolutamente possibile provvedere al soddisfacimento del bisogno pubblico come di un qualsiasi bisogno privato.

 

 

Ed il bisogno della difesa nazionale è considerato dall’universale un bisogno «pubblico», appunto perché tutti sono d’accordo nel ritenere che il suo soddisfacimento debba essere assunto dallo Stato e non da imprese private.

 

 

In altre circostanze si può essere in dubbio: per esempio per l’istruzione pubblica superiore. Per l’istruzione elementare sembra universalmente ammesso che se ne debba incaricare lo Stato, il quale anzi la rende obbligatoria per i ragazzi allo scopo di assicurare la formazione di cittadini aventi la cultura minima necessaria per partecipare alla vita pubblica medesima. Alcuni sostengono che coloro i quali hanno bisogno dell’istruzione superiore debbano pensarci per conto proprio e pagare di loro tasca il prezzo che gli imprenditori privati esigeranno, i quali alla lor volta pagheranno degli insegnanti perché facciano lezione, senza bisogno dell’intervento dello Stato. Ai sostenitori di questa tesi si può ricordare che c’è una certa specie d’istruzione talmente costosa che non si può immaginare che vi siano clienti disposti a sottoporsi al sacrificio di comperarla; bisognerebbe imporre tasse enormi perché gli imprenditori avessero convenienza a mantenere alcuni istituti. Quindi l’istruzione verrebbe a mancare con danno pubblico generale, perché quest’istruzione non è solo vantaggiosa a quelli che se ne servono, ma anche a quelli che hanno poi bisogno dei consigli o dell’aiuto dei professionisti formatisi in quelle scuole. Gli studenti d’ingegneria e di medicina, ad esempio, godono, andando a scuola di vantaggi speciali, perché apprendono nelle scuole le nozioni necessarie alla loro professione, ma renderanno più tardi anche vantaggi ai loro clienti, applicando gli insegnamenti ricevuti; onde si può concludere che è opportuno che lo Stato intervenga per mantenere gli studi superiori, dal momento che con essi rende un vantaggio indiretto all’intera collettività. Donde la conseguenza che è logico che una parte delle spese per l’università vada a colpire tutti i cittadini, e soltanto una parte, sotto forma di tasse, gli studenti. Si dà, è vero, il caso che talvolta in un paese, senza l’aiuto dello Stato, esistono istituti di istruzione superiore che si mantengono da sé; ma nella maggior parte dei casi la clientela non è abbastanza numerosa per sostenere finanziariamente l’istituto, e allora l’intervento dello Stato è indispensabile.

 

 

In altri casi infine il dubbio riguardo all’intervento dello Stato quasi scompare. Così è davvero necessario che esso eserciti direttamente, per esempio, le ferrovie? Vi sarà forse qualcuno che esisterà al riguardo: a noi pare che sarebbe ottima cosa che per delegazione pubblica l’esercitasse un privato per ragioni che più ampiamente saranno esposte in seguito. In questo caso dunque non è più niente affatto assurdo che le ferrovie siano esercitate da una impresa privata. Solo si ritiene opportuno che le intraprese private funzionino secondo certe regole fondamentali stabilite dallo Stato.

 

 

12. Alle categorie diverse di bisogni pubblici corrispondono altrettante categorie di mezzi per provvedervi. – A mano a mano che si accentua la necessità di provvedere a certi bisogni per mezzo dell’organizzazione statale, i mezzi da adoperare all’uopo si differenziano sempre più dai mezzi adoperati nell’economia privata, la qual cosa rende ancor meglio evidente la necessità di scinder sempre più lo studio del fenomeno finanziario da quello economico.

 

 

Nell’economia privata gli uomini soddisfano ai loro bisogni comperando sul mercato merci e pagandone il prezzo; nell’economia pubblica non si hanno più prezzi puri e semplici, ma prezzi privati con elementi pubblici (prezzi quasi privati), prezzi pubblici, tasse, contributi, imposte; ora quanto più questi concetti si allontanano dal concetto del prezzo dell’economia privata, quanto più noi avremo un fenomeno finanziario tipico differenziato dal fenomeno economico.

 

 

Il fenomeno finanziario si differenzia adunque a gradi dal fenomeno economico, e vi sono parecchi stadi di differenziazione progressiva ai quali corrispondono naturalmente mezzi diversi per provvedere al soddisfacimento dei bisogni corrispondenti.

 

 

La classificazione che si deve fare e che, da un canto è una classificazione dei mezzi con cui provvedere ai pubblici bisogni e dall’altro una classificazione dei bisogni pubblici stessi, è quella basata sui concetti appunto di prezzo quasi privato, di prezzo pubblico, di tassa, di contributo, d’imposta. Passando dall’una all’altra di queste categorie, ci allontaniamo sempre più dai metodi con cui si soddisfano i bisogni privati.

 

 

13. Classificazione dei bisogni pubblici e dei mezzi di soddisfarli. – Volendo fare una classificazione dei bisogni pubblici e dei mezzi corrispondenti si potrebbe ottenere il seguente quadro:

 

 

1) Si soddisfano bisogni individuali, perfettamente divisibili; e questi sono l’elemento quasi esclusivo da considerarsi. Contemporaneamente ed incidentalmente si provvede ad un interesse pubblico, più o meno importante. Il prezzo che si paga è stabilito con le stesse leggi con cui si stabiliscono i prezzi sul mercato (prezzo quasi privato).
2) Si soddisfano bisogni individuali, perfettamente divisibili; e questi sono ancora l’elemento di gran lunga più importante da considerarsi Si soddisfano però questi bisogni in modi diversi da quelli con cui vi si provvederebbe da un imprenditore privato. Queste modalità diverse sono necessarie nell’interesse dei consociati. Il prezzo che si paga è stabilito con leggi diverse da quelle secondo cui sono fissati i prezzi sul mercato (prezzo pubblico). Il prezzo pubblico propriamente detto copre tutto il costo del servizio.
3) Si soddisfano bisogni individuali e divisibili; e questi sono un elemento importante, ma non forse il più importante. Nel tempo stesso si soddisfano dei bisogni indivisibili di tutti i consociati. Si paga la tassa, la quale copre però soltanto una parte del costo del servizio; e precisamente quella parte che corrisponde al bisogno individuale e divisibile. La restante parte del costo, che si suppone corrispondente al bisogno indivisibile, rimane scoperta e dovrà essere sopperita con l’imposta.
4) Si soddisfa ancora un bisogno individuale e divisibile; ma questo è di importanza secondaria, o meglio, si soddisfa incidentalmente, mentre l’ente pubblico intende a soddisfare un bisogno indivisibile. Sovratutto si soddisfano dei bisogni indivisibili di tutti i consociati. Si paga il contributo, che, come la tassa, copre solo la parte divisibile del costo; il restante andando a carico delle imposte. Ma, essendo assai più difficile valutare e scernere la parte divisibile, il contributo è pagato obbligatoriamente, mentre i prezzi quasi privati, i prezzi pubblici e la tassa erano pagati volontariamente.
5) Il bisogno individuale e divisibile scompare. Si soddisfano esclusivamente dei bisogni indivisibili di tutti i consociati. Si paga la imposta.

 

 

Con questo quadro, tutt’altro che perfetto, data la successione dei concetti che penetrano l’uno nell’altro, abbiamo voluto far vedere come a grado a grado il fenomeno finanziario si differenzi da quello economico privato.

 

 

Si ha il prezzo quasi privato quando, ad esempio, gli uomini provvedono, per mezzo dello Stato, a soddisfare il loro bisogno di riscaldarsi per mezzo della legna. Ognuno di noi lo sente per conto suo. È un bisogno privato. Però gli uomini affidano talvolta allo Stato di produrre per loro conto legna e venderla loro ai prezzi di mercato, perché in tal modo essi raggiungono – e si reputa che lo raggiungano bene solo per mezzo dell’organizzazione statale – il fine incidentale pubblico, indivisibile e cioè di tutti insieme per parti aliquote non determinabile, di conservare la foresta.

 

 

Si ha prezzo pubblico quando gli uomini provvedono, per mezzo di una ferrovia di Stato, a soddisfare il loro bisogno individualizzabile e divisibile di viaggiare o spedire merci. È un bisogno privato; a cui gli uomini però non vogliono soddisfare per mezzo di un’intrapresa privata, la quale stabilirebbe dei prezzi privati, che sarebbero troppo alti, perché di monopolio. Facendo gerire l’impresa dallo Stato, gli uomini ottengono o sperano di ottenere un prezzo pubblico più basso. Il modo di gestione dell’intrapresa (per mezzo dello Stato direttamente o per intrapresa privata delegata dallo Stato) è condizione necessaria per ottenere il prezzo pubblico. Il prezzo pubblico si paga volontariamente così come il prezzo privato o semi-privato, trattandosi soltanto di soddisfare ad un bisogno divisibile ad un costo minore di quello che sarebbe stabilito da un’impresa privata.

 

 

Si ha la tassa quando, ad esempio, gli uomini provvedono, con una ferrovia di Stato, non solo a soddisfare il loro bisogno individualizzabile e divisibile di viaggiare o di spedir merci, ma anche all’altro bisogno comune a tutti, e indivisibile in parti aliquote per una più rapida mobilitazione.

 

 

Chiamasi tassa il prezzo che si paga perché comprende solo la parte divisibile del servizio, lasciando da parte il costo del servizio indivisibile, il qual costo sarà coperto dalle imposte. La tassa è volontaria, perché è sempre nell’interesse del popolo viaggiare e far domanda del servizio ferroviario.

 

 

Si ha contributo quando gli uomini provvedono in primo luogo a soddisfare un bisogno comune a tutti e indivisibile; come la costruzione di una strada ordinaria, i cui vantaggi praticamente non è possibile di ripartire in parti aliquote per ognuno di coloro che della strada si servono; in secondo luogo però soddisfano anche ad un bisogno particolare, individualizzabile, divisibile fra coloro che per mezzo della strada pubblica ottengono facile accesso alla propria casa od al proprio fondo. In allora costoro sono chiamati a pagare un contributo alla spesa che è soprattutto di utilità comune. Il contributo è obbligatorio, perché altrimenti il privato aspetterebbe che la strada sia fatta, nell’interesse comune, e se ne gioverebbe per accadere al suo fondo senza nulla pagare.

 

 

Si ha imposta quando si soddisfano bisogni comuni a tutti e indivisibili, ad esempio, la difesa nazionale. Non si saprebbe allora che vantaggio si sia arrecato ai singoli individualmente, e quindi si ripartiscono i costi con criteri propri, che si studieranno in seguito (proporzionalità ai redditi, alla capacità contributiva, ecc.) su tutti i consociati. L’imposta serve anche per ripartire i costi della parte indivisibile dei servizi compresi nelle categorie precedenti e non coperti con il ricavo delle tasse e dei contributi. L’imposta è obbligatoria, perché altrimenti tutti preferirebbero godere dei servizi indivisibili senza nulla pagare.

 

 

Da un’altra categoria si passa per gradazioni intermedie, che costituiscono quasi tante sfumature.

 

 

La classificazione che si è fatta delle entrate, e che corrisponde ad una eguale classificazione delle spese dello Stato, potremo chiamarla classificazione per diversificazione o anche per specificità, in quanto che distingue i bisogni pubblici e il mezzo del loro soddisfacimento a seconda che essi diventano più specifici rispetto ai bisogni privati. Naturalmente questa, come ogni altra classificazione, non deve essere presa troppo alla lettera. Essa serve soltanto ad orientarci nel mondo vario e ricco dei fenomeni finanziari; a far vedere la ragion d’essere della scienza finanziaria, mettendo in luce come essa debba trattare problemi, studiare fatti che sono differenti dai fatti economici ordinari studiati dalla scienza economica.

 

 

Nella realtà spesso esistono istituti che hanno dell’una e dell’altra categoria. Sono moltissimi i tributi che non si saprebbe se chiamar tasse ovvero imposte; e che in realtà tengono dell’una e dell’altra. Le tasse di registro sui trasferimenti a titolo oneroso, le tasse di negoziazione, la tassa di successione sono tutte tasse-imposte, alcune degenerazioni delle tasse in imposte, altre logiche trasformazioni delle prime nelle seconde; tutte formanti istituti misti, che non rientrano esclusivamente nell’una o nell’altra delle categorie sovraccennate. Ma la classificazione ad ogni modo serve per riconoscerci ed orizzontarci nel mondo finanziario, per passare gradatamente, così come lo impone la realtà, che è infinitamente varia e complessa, dal prezzo privato, esclusivamente proprio della scienza economica, all’imposta, che è il fatto specifico caratteristico della scienza finanziaria.

 



[1] Nella Università di Torino tale indagine è egregiamente perseguita nel corso libero del prof. C. Toesca di Castellazzo.

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