Opera Omnia Luigi Einaudi

La commissione per i problemi del dopo guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/06/1918

La commissione per i problemi del dopo guerra

«Corriere della Sera», 16 luglio[1], 25 settembre[2], 16 novembre[3] 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 691-708

 

 

I

Spero che il fatto che mi hanno noverato fra quei 600 i quali compongono la commissione «per lo studio dei provvedimenti occorrenti al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace» non mi impedisca di esporre liberamente il mio pensiero su di essa. Di essere stato inserito in essa non ho nessuna responsabilità; ed in ogni caso ritengo sbagliatissima la consuetudine italiana per cui appena taluno fa parte di qualche cosa si sente costretto al silenzio, al mistero. Pare si debba cessare di avere delle idee e di poterle esprimere, non appena, in base all’opinione altrui, la quale può essere sbagliata, che un tale abbia qualcosa a dire, lo si sia invitato ad esprimerle in qualche pubblico consesso. Dirò dunque, parlando liberamente, che questa monumentale commissione ha così grandi difetti che solo per miracolo ne potrà uscir fuori qualcosa di meglio di una serie di relazioni, alcune delle quali ottime, altre mediocri e non poche pessime, di valore inferiore alla carta, costosissima, su cui dovranno essere stampate. Ma le mediocri e le pessime saranno costate milioni al pubblico erario e le ottime sarebbero state scritte ugualmente se le fonti ufficiali di informazioni, oggi chiuse con sette sigilli, se i giornali e le riviste ed i libri dei paesi nemici, oggi, per motivi misteriosi, proibiti, fossero accessibili agli studiosi, se i pratici fossero invitati ad esporre le loro idee e queste fossero rese di pubblica ragione. Quando esiste un bel materiale di studio, questo finisce di essere utilizzato; e scritti degni di essere letti vengono pubblicati.

 

 

Tutto ciò, nell’ipotesi più favorevole, servirà o servirebbe allo storico del futuro. Ma pare che la commissione debba giovare per proporre i provvedimenti occorrenti al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace. È un obiettivo reale, pratico. È ragionevole sperare di raggiungerlo per mezzo di una commissione di 600 membri? Bisognerebbe supporre che la commissione finisse i suoi lavori prima della fine della guerra. Altrimenti il suo rapporto giungerà quando il famigerato «passaggio» si sarà già compiuto e probabilmente in modi tutt’affatto diversi da quelli immaginati dai membri della commissione. I provvedimenti avranno, venendo alla luce, odor di muffa ed aspetto di roba passata di moda. Ora io non so quando la guerra finirà; ma pare probabilissimo, se almeno si deve giudicare dall’ esperienza dei lavori di commissioni anche meno numerose e quindi più snelle e rapide di quella odierna, che né nel 1919, né nel 1920, né nel 1921 i lavori saranno finiti. Mille e mille motivi cospirano a questo ineluttabile risultato. Se anche, per ipotesi, qualcuna delle 27 sezioni presentasse prima qualche sua relazione o conclusione provvisoria, come potrà essere fatta propria dalla commissione plenaria o dal comitato centrale senza coordinarla con le conclusioni delle più tardigrade consorelle? Ed anche se il governo volesse agire per conto suo su quelle conclusioni provvisorie, probabilmente esso si dovrebbe avvedere che esse sono già superate dall’ ora che volgerà. La commissione inglese di lord Balfour of Burleigh è stata un miracolo di celerità; ed ha già presentato da qualche mese il suo rapporto finale. Una delle osservazioni più fondate fatte intorno ad esso è che se ne sprigiona odor di cosa morta. Il rapporto è stato pensato e discusso, se non scritto e stampato prima che gli Stati uniti entrassero in guerra, e perciò prima che la volontà di Wilson diventasse un fattore importantissimo delle condizioni di pace; e questo bastò perché parecchie delle conclusioni della commissione acquistassero un sapore anacronistico. Quanti infortuni simili non capiteranno alla commissione italiana?

 

 

Pur supponendo una irrealizzabile rapidità di concezione e di realizzazione, dubito fortemente che la commissione, così come fu e fatalmente doveva essere composta, possa essere strumento fecondo d azione. Per agire, od anche per proporre di agire, occorre una volontà unica, ferma, che sappia dove vuole andare. Invece la commissione è un mosaico di opinioni, di fedi, di credenze opposte. Pare che lo studio maggiore di chi combinò il mosaico sia stato quello di mettere insieme in ogni sezione i rappresentanti delle opinioni più contrarie. Imparzialità, si disse, e desiderio di veder trionfare dal contrasto delle idee la scintilla della verità o della linea media. Inutilizzazione, io dico, di tutte le opinioni e loro confluenza in una soluzione intermedia, piatta, scialba e priva di ogni contenuto spirituale, di ogni forza persuasiva. Quando mai si sono lette in Italia, appunto per questo malanno del rispetto alle opinioni ed ai partiti contrari, conclusioni suggestive ai lavori di commissioni? Si sono letti talvolta rapporti bellissimi come raccolta di dati; il che è anche utile, ma non è lo scopo a cui oggi si tende.

 

 

Data l’inevitabile tendenza al mosaico, fu fatale che tutti coloro i quali avrebbero tra di loro una certa affinità di spirito e che, riuniti, avrebbero potuto proporre qualcosa di organico e di preciso, sia pure antipatico al governo del giorno e simpatico ad un partito di minoranza, dovettero studiosamente essere separati, in guisa che ognuno di essi si trovi solo nella propria sezione, insieme ad altri, i quali alla loro volta sono nella medesima spiacevole posizione. Provvederanno, si può pensare, i presidenti a coordinare, a riassumere, a creare l’uno dal molteplice. Illusione vana, perché da conclusioni speciali di compromesso non potrà non derivare una conclusione generale ancor più scialba ed incolore, ovvero, quel che sarebbe peggio ed è più probabile, confusionaria. E qui fa d’uopo dire una verità incontroversa, sebbene forse spiacevole: assai più che per metà, i presidenti delle sezioni sono stati scelti per le loro qualità «parlamentari» e non per la precisione del loro indirizzo politico e scientifico. Saranno assai più abili a smussare, a conciliare che non a far prevalere un’idea su un’altra.

 

 

Importa infine anche dire candidamente che all’ordinamento ed alla distribuzione dei lavori non ha presieduto un’idea precisa del contenuto delle indagini da farsi. Il che forse è dovuto alle qualità delle persone poste a capo delle due sottocommissioni. Se invero il sen. Scialoja è reputato da tutti i giuristi uomo eminente nella sua disciplina e finissimo interprete del diritto, forse non si troveranno molti economisti i quali siano disposti a riconoscere nell’on. Pantano un’adeguata competenza economica. Da ciò è provenuta la conseguenza che l’indice dei titoli delle sezioni ha l’aria di una di quelle rubriche in cui i direttori delle riviste classificano i libri ed opuscoli che loro giungono in dono per bibliografia. Siccome essi portano titoli diversi relativi agli argomenti cosidetti del giorno, così i direttori li mettono ognuno nella casella di quegli argomenti che sono più frequentemente ricordati negli articoli dei giornali quotidiani nella qualità di cosidetti problemi «urgenti». Ricorda quell’elenco anche certi discorsi parlamentari sul bilancio, dove si parla de omnibus rebus et de quibusdam aliis. Non c’è nessuna ragione, perché in questo modo non si possano fare assai più di 27 finche ed altrettante commissioni. Perché non c’è un’altra commissione per la questione del cambio e il deprezzamento della lira? Non è questo un problema ben più importante della maggior parte di quelli compresi nell’elenco? Come mai nessuno è chiamato ad occuparsi del problema doganale, come se riguardasse il mondo della luna e non l’Italia? E perché mai l’assistenza civile è un problema economico e la previdenza è un problema giuridico? Secondo l’elenco, i problemi di cultura toccano il diritto e l’insegnamento artistico l’economia; i problemi delle provincie irredente dovrebbero essere risolti da economisti, e quelli della ricostituzione della ricchezza nelle provincie invase, da giuristi. Tutta una serie di incongruenze inesplicabili.

 

 

La verità è che non esistono problemi speciali, principalmente economici. Esistono problemi generali di indirizzo e soluzione tecniche particolari delle direttive poste in generale. Come è possibile, ad esempio, dare «incremento al commercio», come è il comico titolo della XVII sezione, se coloro che sono incaricati di determinare i mezzi all’uopo opportuni si mettono su una via diametralmente opposta a coloro che sono incaricati di promuovere la produzione agraria ed industriale (sezioni XIII e XIV)? Da questa considerazione particolaristica dell’ unico problema economico non può non nascere la torre di Babele con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’ attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione, o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività privata, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? Risolto il punto fondamentale, le particolarità possono lasciarsi ai tecnici, i quali elaboreranno le soluzioni più adatte. Nella commissione nessuno e incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’ Italia e dell’umanità.

 

 

Se non fossi sicuro di non vederla neppure presa sul serio, vorrei fare una proposta: poiché la commissione dei 600 non si può ormai più disfare, poiché molti ci tengono ad essere commissari, ad andare a Roma e ad illudersi di creare l’ Italia del dopo guerra, poiché è più probabile che i 600 diventino 1.000 che non si riducano a 300, si aboliscano le sottocommissioni le sezioni e le presidenze; e si lasci ai 600 facoltà di raggrupparsi come credono e di trattare i problemi che ritengono più opportuni. Avremo molte soluzioni dello stesso problema, ma almeno saranno in se stesse logiche e coerenti; e pubblico e governo potranno scegliere la migliore; invece di adattarsi ad una raffinata assurda combinazione di idee contradittorie. Parecchi problemi riportati nell’elenco delle 27 commissioni rimarrebbero probabilmente ignorati; e che cosa potrebbe volere una relazione intorno ad argomenti di cui nessuno si interessa? Gli affini si attrupperebbero e scriverebbero qualcosa di sensato, od almeno di divertente contro i propugnatori di opinioni contrarie. Ogni persona desiderosa di diventar presidente riunirebbe i suoi amici attorno a sé; ed alla peggio si creerebbe presidente di un gruppo composto di un unico membro. Sarebbe sempre meglio dei presidenti aventi per ufficio di smussare e di conciliare e di coordinare l’ inconciliabile. Mi fermo qui nell’elenco dei vantaggi della mia proposta, poiché ben so che essa contrasta con tutte le abitudini delle commissioni italiane, a cui fanno difetto le caratteristiche le quali soltanto rendono interessanti ed importanti i rapporti delle commissioni inglesi ed americane: gli interrogatori dei testimoni ed i rapporti di minoranze e le riserve dei singoli commissari. E tal sia anche della commissione del dopo guerra e sui suoi lavori si inizi il periodo del religioso silenzio al quale seguirà fra cinque o dieci o vent’anni la valanga dei 100 o 200 volumi di relazioni, delizia (forse) degli storici fra 100 o 200 anni.

 

 

II

Quando si sente discorrere dei problemi del dopo guerra e si contempla il diluvio di carta stampata, la quale è cominciata a venir fuori e minaccia di crescere per gli studi diligenti delle innumerevoli commissioni all’uopo create, dei memorialisti ansiosi di far giungere ad esse i loro voti e dei progettisti inquieti per non aver veduto accolti i loro disegni, non ci si può liberare dal sospetto che, in fondo, si tratti in gran parte di una agitazione a vuoto e che il dopo guerra troverà da sé soluzioni opportune e diverse da quelle oggi immaginate dagli inquirenti, così come in guise per lo più inopinate si svolse fin qui la guerra. Il sospetto si afforza vedendo che i cosidetti problemi del dopo guerra sono posti, discussi e risoluti sovratutto da quelli che bene si potrebbero chiamare i «professionisti dei problemi». Vi è tutta una categoria di persone che vivono inventando problemi e mezzi di risolverli: e sono uomini politici ed aspiranti al parlamento, i quali vogliono segnalarsi come presidenti o relatori di qualche cosa, segretari di associazioni od organizzazioni rivolte allo studio ed alla soluzione dei problemi posti, funzionari od aspiranti-funzionari degli uffici creati o che si dovranno creare per quella tale soluzione, pubblicisti che traggono alimento ai loro scritti dall’esistenza di qualche cosa da discutere e sono perciò infervoratissimi nel magnificare l’importanza del rimedio che essi hanno inventato. Se si potesse fare un’analisi minuta dei problemi del dopo guerra si vedrebbe che per nove decimi sono creazioni artificiose, prive di consistenza e semplice pretesto per il conseguimento di fini pratici personali per coloro che li pongono. Vi fu un tempo, nei primi anni della guerra, in cui tutti si restava a bocca aperta, stupefatti, dinanzi ai miracoli dell’«organizzazione» tedesca; ed appena taluno si lamentava di pagare le uova o le patate troppo care, v’era subito chi proponeva un ufficio centrale delle uova o delle patate, con 69 uffici provinciali ed 8.800 uffici comunali. Adesso non solo i tedeschi, ma anche noi, abbiamo fatto bastevole esperienza di uffici e consorzi annonari e li tolleriamo come un malanno inevitabile, in attesa che la fine della guerra ci permetta di nuovo di fare senza di simili calamità e delle relative tessere e prezzi di calmiere, sicché non si senta più parlare dell’olio, del burro, della carne che non ci sono se si vogliono pagare al prezzo d’autorità e saltano fuori, a detta di tutti, in maniere inimmaginabili, con relativi bolli e visti di prefetti e commissari, quando ci si decide a pagare il necessario sovraprezzo.

 

 

Da qualche altro pò di tempo, è venuto di moda immaginare soluzioni ai conflitti, che si pretendono inevitabili il ritorno della pace, tra capitale e lavoro; ed è nato un baccano indiavolato intorno ad una cosa vecchissima, provata e riprovata, per lo più con insuccesso o mediocrissimo successo, come è la partecipazione ai profitti; e ci fu persino chi, senza aspettare che l’idea fosse nuovamente sperimentata, la voleva rendere obbligatoria per legge. Altri proporre «la terra ai contadini»; né si cura di indagare in che modi reali la terra sia già diventata proprietà dei contadini in tanta parte d’Italia, quasicché tale indagine non fosse la premessa necessaria di una legislazione che non voglia produrre il disordine e distruggere, alla russa, la produttività del suolo. Sicché, a furia di vedersi passare innanzi il cinematografo dei problemi del dopo guerra inventati dai «problemisti» vien fatto di esclamare: ma quando si decideranno a parlare industriali ed operai, impiegati e commercianti, latifondisti, medi e piccoli proprietari e contadini, per la salute di cui tanta brava gente si agita e scrive e discute in solenni adunanze! Purtroppo, gli «interessati» in grande maggioranza sono scarsamente adatti a vedere il problema e ad additarne la soluzione. La cultura generale e quella speciale economica sono ancora troppo poco diffuse, perché gli interessati siano in grado di elevarsi al disopra della «sensazione» di qualche cosa «che non va», sino alla vera impostazione del problema da risolvere. Tutta via queste «sensazioni» sarebbero preziosissima materia di studio, ed ancor più preziose sarebbero le critiche dei pratici alle soluzioni inventate dai problemisti; sicché il compito vero delle commissioni di studio create dai governi dovrebbe essere, invece che di elaborare progetti più o meno meravigliosi e «geniali», sovratutto di interrogare gli interessati, farli parlare, cavarne fuori racconti di vita vissuta e critiche dettate dal buon senso e dall’esperienza ai progetti di moda. Tutto ciò in pubblico, con interrogatori in contradittorio, diretti da commissari periti non nel far prevalere le proprie idee, ma nel mettere in luce le idee altrui. Così si faceva in Inghilterra nel buon tempo antico; e se ne ebbero frutti mirabili di inchieste feconde di risultati pratici e destinate a rimanere classiche nei secoli.

 

 

Lasciati a sé, gli interessati poco parlano; e scarso lume offrono a chi voglia saper quali sono i problemi che veramente sono sentiti da coloro che dovranno far le spese od ottenere i vantaggi delle proposte soluzioni. Persino le relazioni degli amministratori alle assemblee degli azionisti delle società anonime sono scarsamente informative. Chi ne legge i riassunti sul «Sole», prova l’impressione che l’unico problema vero oggi esistente per l’industria italiana sia quello di procacciarsi i capitali per far fronte al gran lavoro che si deve compiere oggi ed a quello maggiore si dovrà compiere in avvenire. Se non fossero note le cause – errori legislativi e tributari – che spiegano in gran parte la corsa odierna all’aumento dei capitali delle società, si sarebbe tentati di concludere che non fa d’uopo nutrire preoccupazioni per l’avvenire, tanto vasto è il campo di lavoro e di guadagni che si offre dinanzi a noi, a portata di mano.

 

 

In Francia ed in Inghilterra il tono è diverso: gli amministratori delle società discutono i provvedimenti governativi, pongono problemi, propongono soluzioni. Pochi mesi addietro, una lunghissima relazione del consigliere delegato della Banca jonia discuteva il problema monetario, proponendo che si adottasse in Inghilterra il sistema del cambio aureo che in Grecia funziona egregiamente. Quel banchiere si attirò le critiche vivaci di insigni economisti; ma di lui non si può dire certo che non avesse visto uno dei problemi essenziali del momento presente.

 

 

Oggi è il presidente di una delle maggiori compagnie di navigazione del mondo, la Cunard Company, proprietaria di una flotta valutata, ai prezzi antichi ante-bellici, 215 milioni di lire italiane-oro, il quale pone un problema che forse non è solo quello della sua società, ma di moltissimi che oggi esercitano industrie e commerci. Perché, si chiede sir Alfred Booth, noi seguitiamo a lavorare? Non certo perché vi abbiamo interesse. Se i sottomarini tedeschi mandassero a fondo tutta la nostra flotta, e ci costringessero così ad una liquidazione totale, la somma pagataci, sulla base dei prezzi attuali, dalle società di assicurazione, sarebbe parecchie e parecchie volte superiore ai 215 milioni scritti in inventario. Noi azionisti potremmo investire il ricavo in titoli di stato e godercene tranquillamente il reddito in cifra alta e fissa. Perché non vendiamo le nostre navi e non agiamo così come l’interesse ci consiglierebbe? Perché noi seguitiamo a navigare, ossia a far ciò che la logica ed il buon senso condannano? «Perché, – risponde sir Alfred, – nelle faccende veramente importanti della vita gli uomini non si fanno guidare mai dalla pura ragione. Altri fattori, chiamateli sentimento, patriottismo o come volete, entrano in gioco e non serve criticarli. Ognuno di noi, quando diventò azionista della Cunard, assunse l’impegno di mantenerla in vita come impresa di navigazione, come la chiave di volta della marina mercantile britannica. Sarà orgoglioso questo nostro convincimento, ma noi l’abbiamo».

 

 

Questo sir Alfred Booth parla come uno di quei navigatori dei tempi elisabettiani che fecero grande l’Inghilterra. Noi navighiamo perché abbiamo l’orgoglio di essere i primi tra i primi, ben sapendo che faremmo un ottimo affare a liquidare e chiudere bottega. Ci piace correre rischi e fare il nostro mestiere anche se i tempi corrono procellosi. Sir Alfred vede infatti grossi temporali all’orizzonte.

 

 

Io credo che i prezzi ed i costi andranno giù a guerra finita molto più rapidamente di quanto ora molti credono. L’edificio di valori artificiali che noi abbiamo eretto è così pericoloso che io son persuaso dovrà crollare al primo spirare del vento della concorrenza internazionale. I principali pericoli in vista, a parer mio, sono i seguenti:

 

 

  • le difficoltà di «sgonfiare» la circolazione monetaria ed il credito senza distruggere la fiducia;
  • la tendenza a mantenere il controllo governativo sull’industria, con tutti i suoi mortiferi effetti sullo spirito d’intrapresa;
  • il tentativo di affidare a qualche autorità internazionale il compito di repartire le materie gregge del mondo fra le industrie concorrenti. Ciò vuol dire che quelle materie non saranno fornite a chi offrirà i prezzi più alti, ma a norma di criteri politici. Le gelosie internazionali alimentate da un siffatto sistema saranno sufficienti ad uccidere qualsiasi germe di società delle nazioni;
  • il malcontento operaio dovuto alle speranze erronee di un nuovo paradiso terrestre dopo la guerra. La disillusione sarà amarissima.

 

 

Questi sono pericoli che tutte le industrie dovranno fronteggiare, e noi non possiamo sperare di non esserne tocchi. Ma la nostra nave è solida, noi possiamo fare affidamento sulla nostra ciurma e, ad ogni modo, i nostri capi faranno del loro meglio. Saremmo codardi se non tentassimo nemmeno il viaggio.

 

 

Così parla un uomo che ha una responsabilità : di milioni, di navi e di uomini. Subito si sente che i problemi da lui veduti sono problemi veri e non elucubrazioni oratorie o articolistiche di chi vuole intromettersi per disturbare gli altri.

 

 

Forse se si interrogassero gli industriali, gli operai, gli agricoltori, i contadini d’Italia, si vedrebbe che le loro preoccupazioni sono all’incirca le medesime da cui è angustiato sir Alfred Booth. Che cosa succederà negli anni prossimi dei valori che ora possediamo e di quelli di cui siamo debitori? Oggi possiamo guardare con tranquillità ad un debito di 100, perché possediamo 200. Ma che cosa accadrà, se fermo rimanendo il debito di 100, le attività si ridurranno al valore di 100 o di 80? Oggi paghiamo imposte cresciute e più siamo disposti a pagarne, perché i prezzi ed i redditi sono alti. Come le pagheremo, quando i valori sgonfieranno? Come potremmo, pensano operai e contadini, conservare, anche solo in parte, l’alto livello delle paghe, se tutti i valori si ridurranno? Fino a quando, riflettono tutti, avremo sul dosso l’odierna invasione di cavallette amministrative a disturbarci, ad insegnarci ciò che non sanno, a divorare tanta parte del frutto del nostro lavoro? La fine della guerra non dovrà portarci anche la liberazione dalle pestifere inframmettenze ministeriali, commissariali, consorziali? Avremo lottato e combattuto e sofferto contro il tentativo di egemonia germanica, solo per vederci tiranneggiati dai meno capaci di noi, insediatisi nei ministeri e nei commissariati?

 

 

Perciò bisogna insistere sul concetto semplice, che il paese non sa che farsene dei responsi delle commissioni e dei funzionari a cui il governo ha delegato la responsabilità del decidere sulle questioni più gelose del momento. L’avvenire d’Italia non può, non deve essere affidato a corpi irresponsabili, che agiscono in segreto, che deliberano su proposte e su idee artificiosamente messe innanzi da progettisti agitati e da problemisti di professione. Prima, e direi soltanto, il paese deve essere interrogato. Si deve sapere che cosa in realtà pensano e desiderano industriali, agricoltori, operai e contadini. Noi potremmo assai volentieri fare a meno di dotte relazioni, quando potessimo ascoltare la voce viva di quelli che lavorano e producono. Forse, non pochi di costoro conchiuderebbero, come sir Alred Booth: lasciateci arrischiare colla nostra nave in alto mare. L’orizzonte è scuro; ma la nave e solida, le ciurme sono fedeli e saremmo codardi se non ci avventurassimo nel viaggio verso l’ignoto. Chi vuol vivere vita sicura e tranquilla, senza fastidio di problemi da risolvere, stia a casa a far l’impiegato altrui, e non si lagni della paga scarsa. Viver tranquilli e lucrare assai furono sempre termini contradittori; ed ancor più lo saranno dopo la guerra, quando per vivere occorrerà lavorare e rischiare, come mai per il passato; e produr cose utili altrui. E fra le cose utili agli altri non trovano posto le «pratiche» dei ministeri, le chiacchiere ed i progetti di redenzione del mondo.

 

 

III

La vittoria che la patria nostra ha ottenuto sovra il nemico ereditario, la grandiosità storica dell’opera compiuta distruggendo uno stato non rispondente più alle nuove esigenze dell’Europa, ci fanno guardare con altro animo ai problemi che fino a ieri a molti apparivano paurosi, più paurosi della stessa guerra: a quei problemi che si riassumono nella denominazione del dopo guerra. L’Italia che ha distrutto, per virtù dei suoi figli e per virtù delle idee da essa disseminate nel mondo, uno stato privo della ragione del vivere, non può venir meno, non può piegare su se stessa nel passaggio dallo stato di pace allo stato di guerra. Quel passaggio deve compiersi ordinatamente, senza scosse violente, preparando nuove forme di vita più alte, più sane, più sicure ai cittadini della nuova Italia. Di ciò oramai siamo sicuri. La fede che abbiamo nelle nostre forze deve inspirare a tutti, allo stato ed ai privati, la consapevolezza dei propri doveri.

 

 

Dovremo combattere contro non pochi nemici. Sono gli stessi che hanno resa tanto aspra e lunga la fatica di vincere il nemico. Coloro che non sono riusciti a condurre sino in fondo l’oscuro disastro di Caporetto, coloro che non sono riusciti a bolscevizzare l’Italia, stanno già adottando oggi una nuova tattica: predicano che la vittoria sarebbe stata vana se non avesse la virtù di generare l’abbondanza, la felicità, il paradiso terrestre. Si odono grida: bisogna essere audaci, bisogna non contentarsi di piccole cose ma mirare alle ricostruzioni a fondo, alla palingenesi sociale. Chi aveva osato segnalare pochi mesi fa all’Italia l’esempio della Spagna che in non so quante decine d’anni pare si sia proposto di rigenerare se stessa, in tutti i campi, economici, educativi, ferroviari, ecc. ecc., spendendo somme che, ridotte ad anno, non superano quel che già noi spendiamo per la sola istruzione pubblica, grida oggi: bisogna andar avanti, «a sinistra» ; guai ai conservatori che osassero opporsi all’ascesa popolare!

 

 

Anche noi, non so se conservatori, o liberali o, poiché queste etichette suonano false, semplicemente italiani, vogliamo andare avanti. Ma vogliamo differenziarci dai disfattisti di ieri per ciò solo che il nostro procedere innanzi deve essere un cammino sicuro, verso una meta nota, verso l’elevamento sostanziale delle masse, non il precipitarsi verso mete ignote, dietro programmi privi di contenuto, dietro parole vuote, sotto di cui sta soltanto il disinganno ed il malcontento. Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari e che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuol giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione.

 

 

Nessun mezzo deve essere scartato a priori affinché il passaggio dalla guerra alla pace si compia nel modo migliore, con il minor numero possibile di attriti. Ma devono essere scartati senza pietà tutti quei mezzi, tutti quei propositi che scienza ed esperienza dimostrino atti soltanto a riempir la bocca agli oratori da comizio e disadatti a raggiungere alcunché di bene a vantaggio degli uomini. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così, egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica. Così oggi dobbiamo far noi, se vogliamo che il dopo guerra sia fecondo di bene. La regola deve essere questa: lo stato deve far moltissimo: tutto ciò che soltanto esso può fare e tutto ciò che esso può fare meglio dei privati. Ma deve astenersi dal fare ciò che è meglio sia lasciato ai privati, perché questi da una data spesa son capaci di trarre maggior frutto. Non si deve dire: bisogna spendere uno, due, dieci miliardi perché questi sono poca cosa in confronto ai cinquanta che la guerra ha costato. No, perché l`essere stati costretti a spendere per la difesa della patria somme enormi, non è una buona ragione per sprecare anche un solo miliardo, che dico! anche un solo milione per scopi inutili od usando mezzi inadatti a raggiungere sia pure utilissimi fini. Invece bisogna spendere, astrazion fatta da ciò che si è speso per la guerra, tutto ciò che fa d’uopo per il bene del paese nei limiti, s’intende, dei mezzi totali disponibili e della convenienza di spendere piuttosto in una maniera che in un’altra. Non bisogna dire: fa d’uopo che lo stato spenda un miliardo per dar lavoro durante la crisi della smobilitazione. Questa è tesi assoluta, aprioristica, per se medesima erronea. Quando il miliardo c’è, dà sempre lavoro, sia che venga usato a scopo di consumare merci – le quali dovranno prima essere prodotte e perciò richiederanno lavoro – sia che lo si risparmi e quindi lo si investa in costruzioni, in macchine, in migliorie, richiedenti anch’esso lavoro. È vero che se il miliardo di risparmi non c’è, lo stato può crearlo con emissione di biglietti: ma sarebbe ben doloroso dover aumentare la circolazione anche a guerra finita quando si può presumere che il risparmio nazionale basti a far fronte ai bisogni dei privati e dello stato. Bisogna invece chiedere: in quale modo è meglio impiegare il miliardo, affinché esso giunga più rapidamente in soccorso di quei disoccupati che la pace sorprenderà senza lavoro in quella tale località ed in quel tal momento? L’uomo di stato ha la responsabilità gravissima di scoprire il metodo più adatto, in quel dato momento e non in un altro, per quel genere di disoccupazione e non per un altro. Le soluzioni concrete, migliori possono non essere

sempre le stesse e fa d’uopo stare all’erta per scoprire la soluzione corretta per ogni data occasione.

 

 

Talvolta sarebbe persino assurdo che altri fuor dello stato pensasse a risolvere il problema. Prendasi uno dei problemi più gravi, forse il sommo problema economico del dopo guerra: la rivalutazione della moneta, il che significa il passaggio dal sistema di prezzi altissimi attuali ad un sistema di prezzi relativamente meno alti. Questo è problema di stato, atto a far tremare le vene ed i polsi ai ministri del tesoro e delle finanze; non è problema che i privati possano risolvere. Questi potranno veder fiorire o spegnersi l’attività propria, a seconda che gli uomini di stato diano al problema una soluzione buona o cattiva; ma non possono intervenire oggi in un senso o in un altro. Tanto più urgente è il dovere degli uomini di governo di veder ben chiaro ed annunciare apertamente ciò che oggi intendono di fare in questo che è davvero il problema economico sovrano del dopo guerra.

 

 

Altra volta lo stato deve contentarsi di lasciare aperta la via all’iniziativa privata. Leggo in questo momento un memoriale al governo degli industriali cotonieri. Denunciano essi che, astrazion fatta dalle richieste militari, la loro industria si trova di fronte ad una crisi gravissima di domanda: cessata la richiesta dall’interno, ridotta al 10 od al 20% quella dei mercati alleati o neutri, l’unico sbocco possibile nel momento attuale sarebbe quello della Grecia, di Salonicco, della Macedonia, della Serbia, della Siria, della Palestina, che i cotonieri italiani avevano lungo un ventennio di fatiche, conquistato alla nostra esportazione. Oggi i mercanti inglesi, francesi, nordamericani ed indiani vi si precipitano, ma l’esportazione dall’Italia rimane vietata. Ancora alcuni giorni di indugio, ed il mercato sarà perduto, forse per anni; e decine di migliaia di operai dovranno in Italia essere licenziati. Qui è chiaro il dovere urgente del governo: indagare con rapidità sulla verità dei fatti che si allegano. Se questi sono veri, riaprire le porte all’esportazione. Lo stato non ha qui nulla da fare fuorché togliere un divieto, che le nuove circostanze più non legittimano ed avrà contribuito a impedire che la disoccupazione si inacerbisca.

 

 

Ancora: la funzione dello stato può essere in altri casi mista: parte azione diretta e parte integrazione dell’opera privata. Se il problema della rivalutazione della lira ossia dei prezzi in genere è il sommo problema del dopo guerra, quello della smobilitazione è il più urgente. Che cosa faranno i milioni di soldati e di operai che saranno licenziati dall’esercito e dalle industrie di guerra? Come si farà ad impedire una terribile disoccupazione, minacciosa di torbidi e di miseria? Qui il governo deve già sapere che cosa farà. Molteplici sono i suoi compiti: 1) valutare la massa totale dei probabili disoccupati in mezzo all’esercito dei licenziati. È evidente che se i licenziati sono parecchi milioni, i disoccupati saranno assai meno, perché molti dei primi troveranno subito nelle campagne, nelle antiche aziende, nelle nuove industrie di pace, occupazione remuneratrice. Non occorrono questionari complicati, come quelli che da due o tre anni furono la croce prima e lo zimbello poi degli ufficiali di disciplina degli stabilimenti ausiliari incaricati di rispondervi. Inchiesta rapida, quasi telegrafica per conoscere i grandi numeri ed individuare i centri della possibile disoccupazione; 2) promuovere la costituzione di uffici di collocamento i quali, come opportunamente è proposto dal prof. Attilio Cabiati alla presidenza dell’ufficio studi per la ricostituzione economica del dopo guerra in Roma, dovrebbero essere composti in parti uguali di operai e di industriali. È la tendenza più recente, che si è affermata con successo, nei Labour Exchanges inglesi. Questi uffici, governati dagli interessati, dovrebbero spostare la mano d’opera dai luoghi in cui è abbondante a quelli in cui è richiesta. Il governo interverrebbe con sussidi per permettere indennità di viaggio e di disoccupazione. Meglio pagare un’indennità di disoccupazione all’operaio privo di lavoro che continuare a fargli sprecare materie prime e combustibili per fabbricare armi non richieste; 3) far fabbricare invece ciò di cui vi ha urgenza somma, se si vuole che la vita economica riprenda il suo cammino normale. Molte cose urgono; ma nulla più della ripresa dei trasporti ferroviari. Quattro anni di guerra, con riparazioni insufficienti e rinnovamenti inadeguati, hanno divorato il materiale fisso e mobile. Locomotive, carri, carrozze ansano, cigolano e mandano suon di ferraccio. Occorre che si inizi pronto ed intenso il lavoro di costruzione di materiale rotabile, di rotaie, di tettoie. Occorre che il lavoro, che era stato sospeso, di elettrificazione di alcune linee a grandissimo traffico e di altre di montagna a forti pendenze, sia ripreso a norma di un piano razionale. Qui v’è lavoro per anni per fabbriche e per maestranze; 4) avere pronto un piano di lavori pubblici, scelti fra quelli che è compito naturale e permanente dello stato di menare a buon fine: rimboschimenti, ricostruzione di strade, di argini, di ponti (provincie invase ed irredente), lavori di bonifica.

 

 

Una lista di simili lavori dovrebbe anzi essere sempre tenuta a giorno, accelerandoli quando volgono tempi di crisi nell’industria e di disoccupazione operaia e rallentandoli quando l’attività industriale è grande ed assorbe tutta la maestranza disponibile. I lavori debbono essere utili in se stessi, tali che lo stato meglio li possa compiere dei privati; e debbono potere allargarsi o restringersi a guisa di riempitivo. L’arte dell’uomo di stato non è quella di disturbare, con le sue richieste di lavoro, il mercato quando questo è congestionato, sibbene quella di giungere pronta nei momenti in cui sul mercato c’è un vuoto, che non si sa come riempire. Bisogna evitare di ostinarsi, come purtroppo si pretenderà dai ministri, a continuare a fare cose che solo la guerra imponeva e volgersi immediatamente ad apprestare il ponte di passaggio dalla guerra alla pace. Un anno o due dopo la fine delle ostilità non si dovrà più parlare di disoccupazione bellica; occorre quindi far fare cose che possano essere almeno sgrossate in un anno e dopo possano essere condotte innanzi con metro più lento senza danno. Ha il governo pronto un programma di lavori necessari, utili, possibili a compiersi a periodi saltuari?

 

 


[1] Con il titolo La commissione del dopoguerra. [ndr]

[2] Con il titolo I veri problemi del dopoguerra. [ndr]

[3] Con il titolo  I problemi urgenti del dopoguerra. [ndr]

Torna su