Opera Omnia Luigi Einaudi

La corporazione aperta

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1934

La corporazione aperta

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1934, pp. 129-150

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 72-92

Ombretta Mancini, Francesco Perillo, Eugenio Zagari, La teoria economica del corporativismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1982, pp. 483-506

 

 

 

1. – L’articolo Trincee economiche e corporativismo pubblicato nel fascicolo del novembre-dicembre 1933 di questa rivista, ha avuto la ventura di qualche benevolo apprezzamento, e più di critiche. Parecchie si riferiscono al mio tentativo di costruire le primissime linee di una teoria del prezzo corporativo, sia partendo dalle medesime premesse astratte del prezzo in caso di concorrenza, di monopolio o di monopolio bilaterale, qualificato o non dalla condizione della pienezza di occupazione dei fattori produttivi, sia negando che da quelle premesse si possa partire ed affermando invece la necessità di porre una nuova premessa corporativa propria.

 

 

Il ritornare sull’argomento da parte mia sarebbe, per ora, un fuor di luogo, poiché da un lato una trattazione adeguata, pro’ o contro, intorno all’esigenza, che a me pare essenziale, dell’occupazione piena dei fattori produttivi non ha veduto la luce, sia perché la posizione di nuova o nuove premesse proprie su basi diverse da quelle economiche classiche non è andata oltre una formulazione cotanto generica da non prestarsi ad una discussione proficua.

 

 

Di due specie di fonti dottrinali sono nel momento presente curiosissimi gli studiosi: le une son fonti di fatto e queste, dicevo nell’articolo del dicembre 1933, sono fornite dalle dichiarazioni dell’on. Mussolini, dalle opere degli organizzatori di associazioni di datori di lavoro e di lavoratori e dal testo dei contratti collettivi, dalle sentenze della magistratura del lavoro, dalle leggi corporative. Queste, che dirò fonti legislative e storiche, stanno aperte dinanzi a noi; e sono il materiale solido su cui si deve costruire e sulla base delle quali avevo tentato; senza presumere affatto di compiere opera che fosse nonché definitiva,

neppure delibatrice, di enunciare qualche caratteristica del sistema economico corporativo.

 

 

La seconda specie di fonti è contenuta nelle meditazioni di coloro i quali, rigettando le ipotesi teoriche tradizionali, intendono costruire una nuova scienza su nuove basi. Costoro non sono più né uomini di governo né uomini operanti in cose economiche. Sono studiosi puri, i quali vogliono semplicemente, al par dei vecchi economisti, elucubrar dottrine. Essi possono star sicuri che i loro sforzi sono seguiti con interesse sostenuto e con curiosità vivissima; un qualunque studioso potendo reputar se stesso morto quando non lo punga più la curiosità di apprendere, nei limiti delle sue forze intellettuali, quel che di nuovo si pensa, principalmente nel proprio paese.

 

 

Ma vi ha una differenza capitale fra le fonti legislative e storiche da un lato e le fonti dottrinali dall’altro. Le prime sono fatti vivi, importanti, determinatori di cambiamenti nello stato economico, epperciò sono materia interessante di studio, materia più o meno feconda a seconda della abilità degli studiosi, ma per essi necessaria e propria materia di studio. Le seconde, e cioè le fonti dottrinali di coloro i quali vogliono creare, nobile conato, una scienza economica corporativa su ipotesi diverse da quelle astratte tradizionali della economia pura, non sono ancora riuscite a cattivare l’attenzione degli anziani, al par di me attaccati non a questa più che a quella premessa, ma alla unica esigenza che da una premessa chiara si deducano chiaramente ragionamenti di indole economica. Il cattivamento di attenzione non è mancato perché le idee esposte siano difficili a penetrare, che anzi sono facilissime; sibbene, perché in argomento di indagine scientifica, occorre, per interessare, che esista perlomeno un trattato (non nel senso di grosso libro, ma di trattazione ragionata e serrata) su un qualunque problema economico proprio. All’economista non interessa discutere a perdifiato sulla premessa del ragionare. Facciamola finita e poniamone una: ben chiara e ben definita; ma, postala, procedasi a costruire[1].

 

 

Non si pretende che venga fuori d’un colpo un nuovo gioiello simile ai Principii di Pantaleoni od all’Alphabet of Economic Science di Wicksteed. Basterebbe un capitolo: sulla teoria del prezzo, sulla teoria dell’interesse, su quella della moneta della banca, dei salari, ecc., ecc.; un capitolo il quale dicesse in teoremi e corollari e lemmi quale sia la fecondità della promessa posta. Poiché prezzi salari profitti moneta banche saggi d’interesse e di profitto esistono oggi ed esisteranno domani in regime corporativo, non pare eccessiva la pretesa che coloro, i quali ritengono di dover partire da premesse nuove, ne diano una teoria, che sia veramente nuova e non la parafrasi, con mutato linguaggio, di teorie note. Non piacciano gli spunti da me offerti? Benissimo. Altri parta da altre premesse e vada avanti. Se qualche nuova verità teorica sarà affermata, il plauso sarà pronto e pieno.

 

 

2. – Per ora, dunque, preferisco prestare orecchio alla critica privatamente pervenuta da uomo non alieno dagli studi, ma dall’urgenza di quotidiane occupazioni industriali ridotto a dare a stento ad essi alcune poche horae subsecivae. Il corrispondente non s’impaccia di teoria e si fa eco di preoccupazioni diffuse nel mondo della gente che lavora.

 

 

«Ella, volendo costruire la teoria del prezzo corporativo, ha escluso si potesse partire dallo schema noto nella scienza economica dei due o più monopolisti contrattanti sul mercato: dell’associazione sindacale dei datori di lavoro la quale monopolizza la domanda di lavoro e dell’associazione sindacale dei lavoratori la quale monopolizza la offerta; – delle corporazioni, suppongasi, dei filatori, dei tessitori, dei grossisti e dei dettaglianti in manufatti di lana, le quali monopolizzerebbero offerta e domanda dei rispettivi prodotti o servizi. Ella dice, se ho bene compreso il suo pensiero, che, se associazioni e corporazioni, su quel mercato che ci sarà, – e sarebbe mercato anche la stanza dove convenissero per discutere e per accordarsi i rappresentanti delle associazioni e delle corporazioni interessate – si comportassero come monopolisti, l’ideale corporativo non sarebbe raggiunto. Il monopolista, quando sia tenuto a freno da un contraente altrettanto monopolista, è un po’ meno mala bestia del monopolista vero e proprio; è alquanto raffrenato nella sua voglia di scegliere il prezzo o i prezzi che gli diano il profitto od il salario o l’interesse od il fitto massimo; ma, se sono tenuti in freno, gli istinti della mala bestia non sono domati. La corporazione dei tessitori di lana è un po’ frenata dalla corporazione dei grossisti e più da quella dei dettaglianti in manufatti di lana, le quali possono avere interessi diversi dai suoi. Ma fate che tutte queste corporazioni ed, accanto od attraverso ad esse per quanto tocca salari ed orari, le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori possano accordarsi sui salari, sulle tariffe, sui prezzi di vendita all’ingrosso ed al minuto e ne vedrete delle belle! Chi proteggerà i consumatori? Chi ci assicurerà che i salari siano fissati ad un livello tale che i datori di lavoro abbiano interesse ad assorbire tutta la mano d’opera disponibile? Chi ci assicurerà che il saggio dei profitti sia fissato ad un livello tale che tutto il risparmio disponibile trovi applicazione nelle industrie? Ella dice che il sistema corporativo sostituisce il sistema delle associazioni sindacali private di datori di lavoro e di lavoratori e dei consorzi (trusts, cartelli, ecc.) privati, appunto perché quest’ultimo non si preoccupa dell’interesse pubblico. La concorrenza piena, se esistesse, vi provvederebbe automaticamente; ma Poiché essa è oramai come l’araba fenice di cui, che ci sia, tutti lo dicono ma dove sia nessun lo sa, e Poiché al luogo della concorrenza piena esistono dappertutto quelle che Ella chiama trincee e volgarmente si dicono limitazioni proibizioni protezioni accordi monopoli, occorre sostituire al meccanismo della concorrenza arrugginitosi nei monopoli, un sistema il quale raggiunga diversamente il fine che la concorrenza otterrebbe, se esistesse. Ricordo di aver letto nei testi scolastici un ragionamento simile che un tempo si faceva a pro delle statizzazioni e delle municipalizzazioni. Ad evitare che l’esercente privato monopolista di ferrovie, di tramvie, di luce elettrica, di gas pigliasse per il collo i consumatori, occorreva che lo stato od il comune esercitasse i servizi al costo od almeno vietasse che i monopolisti esercenti divenuti “concessionari” si facessero pagare prezzi superiori al costo. Fin d’allora si vide quanto fosse difficile ottenere che i concessionari adeguassero i prezzi al costo. Che cos’è il costo? È quello di Tizio, che lavora bene, o di Caio che lavora male? È il costo medio? Od è quello che sui testi dicesi costo marginale e che io invano cerco di immaginare quale sarebbe, dato che in regime di concessione ad un sol esercente, questi dovrebbe essere nel tempo stesso dentro e fuori del margine e sul filo del margine medesimo?»

 

 

«Quanto più difficile il problema dovrebbe essere risoluto dal sistema corporativo! Le corporazioni dovrebbero risolvere contemporaneamente un così grande numero di problemi da far tremare davvero le vene ed i polsi. Come Ella osserva, i salari dovrebbero essere determinati ad un livello tale da occupare tutta la popolazione lavoratrice. Le leggi sulla tutela delle donne e dei fanciulli, sulla invalidità e sulla vecchiaia, il possesso di ricchezza propria, il costume, continueranno sempre, domani come ieri, a dividere la popolazione intiera del paese in lavoratrice e non lavoratrice. Ma, dati il suo numero e la sua composizione, la popolazione lavoratrice, domani come ieri, non potrà essere occupata tutta, se non si riesce ad ottenere una tariffa di salari tale da rendere conveniente alla totalità dei datori di lavoro di assorbire tutti i lavoratori esistenti. Se noi supponiamo che la media dei salari – diversificatissimi salari, da quello del direttore generale dell’impresa colossale a quello del manovale ordinario – sia di 12 lire al giorno ed, a quel livello, esista un milione di disoccupati, non è forse evidente che il salario medio deve essere ribassato sino al punto dimostrato dall’esperienza capace di assorbire anche il milione disoccupato? Come persuadere le associazioni di lavoratori specializzati, bene organizzate e consapevoli della necessità di mantenere il tenor di vita conquistato, a retrocedere? Eppure, il milione di disoccupati vien di lì: dal fatto che in qualche punto, forse lontano e non visibilmente connesso, dell’economia nazionale esiste una trincea, che dentro essa i lavoratori si sono create condizioni di salario o di orario privilegiato, e che, con o senza il concorso dei datori di lavoro, il costo di produzione lì è aumentato, e, per l’aumento dei prezzi, il consumo si è ridotto e quindi la domanda di lavoro si è ristretta. O, forse, il punto dolente non si trova nel campo del lavoro. Forse i datori di lavoro hanno ottenuto un dazio protettivo; ed all’ombra di questo hanno elevato i prezzi e, pur vendendo di meno ed occupando minor numero di operai, hanno guadagnato di più. Ossia hanno tirato a sé ed ai propri operai troppa coperta e qualcuno è rimasto esposto al vento di salari troppo scarsi o della disoccupazione».[2]

 

 

«Parimenti che cosa accade oggi degli operai e delle operaie che non sono in grado di guadagnare i minimi di salario fissati dai contratti collettivi? e dei lavori che a quei minimi non conviene compiere? A me è accaduto di conoscere casi pietosi di lavoratori che non furono potuti assumere o dovettero essere licenziati perché essi non meritavano il salario minimo del contratto collettivo. Padroni ed operai riconoscevano nel caso specifico la impossibilità di pagare e la giustizia di non ricevere più di 8 lire al giorno; ma il contratto collettivo imponeva le 11 lire. Fu giocoforza al datore di lavoro rassegnarsi a rinunciare al lavoro che pure sarebbe stato, ad un certo prezzo, utile compiere, ed al lavoratore rimanere disoccupato. C’è qualcuno che rifletta dove vadano a finire codesti reietti e quanti siano i lavori che non si fanno perché essi non sopportano il costo del contratto collettivo? Il saggio dell’interesse dovrebbe essere tale che tutto il risparmio di anno in anno prodotto nel paese sia impiegato, a parità di rischio, alle medesime condizioni. Che, in un dato momento e nello stesso paese, i depositi bancari fruttino il 2% ed i riporti, i quali sono altresì impieghi brevi, il 4 od il 5%; che taluni impieghi lunghi, in cartelle fondiarie od in valori pubblici, diano il 4% e si acquistino case al 6 od al 7%; che la proprietà rustica frutti il 3 ed i proprietari si acconcino a mutuare al 7%; che in Francia esistano 25 miliardi di biglietti o d’oro tesaurizzati al zero per cento, sono pronto ad ammettere siano fatti contradittorii. Ma quali corporazioni potranno porvi rimedio? Sul mercato del denaro, vedo solo le corporazioni dei banchieri, privati e pubblici (casse di risparmio ed istituti pubblici), degli agenti di cambio, degli impiegati di banca. Troppo poco. Non vi è pericolo che richiedenti (imprenditori ed agricoltori) ed intermediari (banche ed impiegati di esse) contrattino e si accordino tra di loro, senza tener conto dell’opinione dei risparmiatori, la quale, dopotutto, è la categoria più interessante in proposito, sebbene io non veda davvero come sia possibile organizzarla?»

 

 

«Soprattutto, come organizzeremo le corporazioni di quei lavoratori, di quegli imprenditori, di quegli agricoltori, di quei risparmiatori che non esistono? Ai miei occhi questo è il problema dei problemi che il corporativismo deve risolvere. La sorte di noialtri, che ci siamo fatti già una posizione più o meno buona o cattiva, è relativamente poco interessante. Importano assai di più i nuovi, coloro che oggi o domani batteranno alle porte della industria per trovare un posto. Confesso che qualcuna delle leggi nuove mi preoccupa gravemente, specie quella sui nuovi impianti industriali. Il mondo sinora è andato avanti non per merito di coloro i quali esercitavano una qualche industria avviata e mettevano sul mercato un qualche prodotto già conosciuto; ma per merito di coloro i quali hanno dimostrato la possibilità di buttare a terra, ricorrendo a nuovi sistemi di produzione e di organizzazione, le imprese esistenti o di creare nuove industrie per prodotti nuovi o non ancora introdotti. Quale sarà la sorte dell’inventore, dell’innovatore in un mondo economico organizzato in corporazioni? Egli non appartiene a nessuna e, se riesce, tende a sovvertirne, forse a rovinarne qualcuna. L’innovatore non si troverà di fronte al muro di bronzo degli interessi costituiti e rafforzati dalla organizzazione giuridica ad essi data? Chi, ancora, si farà l’eco della domanda? Non si correrà rischio che le corporazioni emanando fatalmente da produttori, da lavoratori e da commercianti non siano portate a spostare il punto d’appoggio del mondo economico, che finora ha sempre fatto perno sui bisogni dei consumatori, sul perno opposto che è l’offerta dei produttori? e che un po’ per volta si voglia disciplinare regolare e soggiogare la volontà dei consumatori? A sentire ed a leggere le tante querele di miei colleghi, i quali si arrabbiano perché i consumatori non sanno scegliere la roba buona, hanno cento ubbie per la testa, preferiscono l’articolo con su questa o quella marca od etichetta, nazionale o forestiera, vengono i brividi. Per poco che abbiano il mestolo in mano, si salvi chi può dagli uomini avviati, collocati! Per essi, ogni concorrente è una peste, ogni cliente che vorrebbe comprare quel che non si ha è un disturbatore; ogni fabbricante in seta guarda con sospetto ai fabbricanti in lustrina o rayon che si voglia dire; ogni addetto all’arte del legno diffida dei lavoratori in ferro, che producono cose atte a servire da surrogato alle sue proprie. Quel dover chiedere il permesso di fare impianti nuovi o cresciuti mi allarma. Non verremo presto dappertutto al punto a cui giunsero già avvocati, procuratori e farmacisti, ed ora vogliono arrivare medici, ragionieri, dottori commercialisti, ingegneri, geometri, ecc., ecc., di proclamare il numero chiuso e s’arrangi chi non è entrato! Per ora e per parecchi decenni ancora, io vivo tranquillo di non vedere le corporazioni fatte mancipie di gruppi monopolistici. Ma le debbo confessare che la ragione del mio presente animo tranquillo non mi lascia in tutto soddisfatto. Vivo tranquillo perché so che il sistema è in mano dell’on. Mussolini, cioè di un uomo fornito di un intuito straordinariamente pronto delle necessità della nazione e del momento e nient’affatto disposto a lasciarsi dominare da nessun gruppo monopolistico, né di ricchi né di poveri, né di datori di lavoro né di lavoratori. Non è chi ha, alla pari dell’on. Mussolini, proclamato che la potenza della nazione dipende dalla sua capacità di incremento in numero, il quale possa per un istante tollerare che sia sbarrata la via ai milioni di italiani che verranno. Ma è naturale che io desideri persuadermi altresì che il sistema corporativo è capace di funzionare per virtù propria oltreché per quella del suo capo. Ecco perché io vorrei che Ella mi spiegasse come le corporazioni possano farsi soprattutto le paladine dei produttori che non ci sono ancora, dei ribelli i quali vogliono distruggere le vecchie tecniche, degli inventori, i quali meditano nuovi metodi di produrre, dei lavoratori disoccupati, dei risparmiatori, i quali sono incerti se consumare o risparmiare per investire in nuovi impianti, dei milioni di italiani che verranno ad aggiungersi ai 42 milioni già viventi».

 

 

3. – Avevo, leggendo, l’impressione di cose già altra volta vedute per le stampe. Ma penai un pezzo prima che la memoria locale mi consigliasse a trarre giù dal gruppo dei volumi in cui i nostri vecchi facevano legare gli opuscoli ed i fogli volanti, quello in cui il conte Salmatoris Rossillon del Villar riuniva, per riporle nella biblioteca andata dispersa del suo storico palazzo di Cherasco, le copie degli editti francesi che un corrispondente di Lione, attraverso ad un Monsieur Collomb, à Turin, gli faceva pervenire. Lì, nell’estratto del processo verbale del letto di giustizia tenuto dal re Luigi XVI nel castello di Versailles il martedì 12 marzo 1776, si trovano le pagine che la lettera del mio corrispondente aveva improvvisamente rievocato alla mia mente. Sono contenute nel preambolo del celebre editto di Turgot del febbraio 1776 per la soppressione delle giurande o corporazioni d’arti e mestieri. L’editto si legge dappertutto (fra l’altro in Oeuvres de Turgot, ed. curata da G. Schelle, Paris, Alcan, tomo V, pag. 238-255); ma a leggerlo contemporaneamente al verbale del letto di giustizia tenuto per ordinarne la registrazione, alla descrizione della solenne processione della corte del parlamento di Parigi dalla capitale a Versailles, della collocazione degli intervenuti su poltrone sedie seggiolini sgabelli e panche, secondo le precedenze, dai fratelli del re ai principi del sangue, ai marescialli, ai duchi e pari, ai ciambellani, ai magistrati, agli avvocati, alle grandi cariche di corte e di stato, fa una certa impressione. Perché il Re aveva chiamato al suo castello i più alti magistrati del reame? Per sentirsi leggere taluni editti e sentirsi ordinare la registrazione, formalità senza la quale nessun regio editto aveva valore in Francia. Le corti di giustizia avevano recalcitrato all’invito; sicché s’era dovuto ricorrere all’estremo mezzo, che era di convocarle in letto di giustizia, in cui soltanto la volontà del re era sovrana e la registrazione doveva farsi per atto di ubbidienza. Principalissimo tra gli editti, che furono così dovuti registrare era quello per la abolizione della corporazioni d’arti e mestieri. Val la pena di tradurre il brano essenziale del preambolo. Le corporazioni d’arte e mestieri sono dette a volta giurande, comunità, più spesso corpi.

 

 

«In quasi tutte le città del nostro reame, l’esercizio delle arti e dei mestieri è concentrato nelle mani di un piccolo numero di maestri riuniti in corpo (communauté) i quali soli, ad esclusione di ogni altro cittadino, possono fabbricare o vendere gli oggetti particolari di commercio di cui essi hanno il privilegio esclusivo, in modo che quelli dei nostri sudditi, i quali per inclinazione o per necessità si destinano all’esercizio delle arti e dei mestieri, non possono giungervi se non acquistando il maestrato. Ma essi non l’ottengono se non attraverso a prove altrettanto lunghe e penose quanto superflue, e dopo avere provveduto al pagamento di diritti e di tasse molteplici, da cui i fondi, abbisognevoli per iniziare mercatura od impiantare laboratorio o persino per vivere, si trovano in parte consumati in pura perdita.

 

 

Coloro, cui i mezzi non bastano per soddisfare alla spesa, son costretti a condurre una esistenza precaria, sotto il comando dei maestri, a languire nell’indigenza od a recar fuori della patria una industria che essi avrebbero potuto rendere utile allo stato.

 

 

Tutte le classi dei cittadini sono private del diritto di scegliere gli operai che essi vorrebbero impiegare e dei vantaggi che la concorrenza garantirebbe col basso prezzo e la perfezione del lavoro. È spesso impossibile compiere il lavoro più semplice senza ricorrere a parecchi operai di corpi diversi, senza sperimentare le lungaggini, le infedeltà, le estorsioni rese necessarie o promosse dalle pretese dei diversi corpi e dai capricci del loro regime arbitrario ed egoistico.

 

 

Questi istituti cagionano perciò, per quanto tocca allo stato, cospicua diminuzione del commercio e dei lavori industriosi; per quanto tocca una parte numerosa dei nostri sudditi, perdita di salari e di mezzi di sussistenza; per gli abitanti in generale delle città, asservimento a privilegi esclusivi, di cui l’effetto è assolutamente analogo a quello di un monopolio effettivo, monopolio di cui coloro i quali, lavorando e vendendo, ne approfittano contro il pubblico, sono essi medesimi vittime ogni qualvolta essi abbiano a vicenda bisogno delle merci e del lavoro forniti da un altro corpo.

 

 

Gli abusi si sono introdotti gradatamente. In origine erano il frutto dell’interesse dei privati i quali li avevano introdotti contro il pubblico. Ma l’autorità, talvolta sorpresa talvolta sedotta da una parvenza di vantaggio, solo dopo un lungo intervallo di tempo li ha in qualche modo sanzionati.

 

 

La fonte del male sta nella facoltà medesima accordata agli artigiani di un medesimo mestiere di concertarsi e di riunirsi in corpo.

 

 

Sembra che quando le città cominciarono ad affrancarsi dalla servitù feudale ed a costituirsi in comuni, la comodità di classificare i cittadini a seconda della loro professione abbia introdotto siffatta usanza, fin allora sconosciuta. Le varie professioni si trasformarono così quasi in altrettanti corpi separati, da cui il corpo generale del comune era composto. Le confraternite religiose, rafforzando viemmeglio i legami i quali a vicenda univano le persone di una medesima professione, diedero ad esse occasione più frequente di riunirsi e, nelle riunioni, di occuparsi dell’interesse comune dei membri di ogni particolare compagnia, interesse perseguito con attività assidua a danno del vantaggio della società in generale.

 

 

I corpi, non appena costituiti, compilarono statuti e, pretestando motivi vari di pubblico vantaggio, li fecero sanzionare dall’autorità.

 

 

Base fondamentale degli statuti è dapprima l’esclusione del diritto ad esercitare il mestiere per chiunque non sia membro del corpo; lo spirito informatore è di restringere, quanto più sia possibile, il numero dei maestri e di rendere l’acquisto del maestrato difficile in maniera quasi insopportabile per chiunque non sia figlio degli attuali maestri. All’uopo si complicano le spese e le formalità del ricevimento, le difficoltà del capolavoro, giudicato sempre in modo arbitrario, soprattutto il caro e l’inutile lungaggine dei tirocini e la prolungata servitù del compagnonaggio; istituzioni il cui scopo è pur sempre quello di fare godere gratuitamente ai maestri, durante parecchi anni, il lavoro degli aspiranti ad entrare nel mestiere.

 

 

I corpi si affaticarono soprattutto ad allontanare dal loro territorio le merci ed i lavori dei forestieri, invocando il preteso vantaggio di bandir dal traffico merci a cui si dava la taccia di essere mai fabbricate. Il pretesto li indusse a far, a proprio vantaggio, richiesta di regolamenti di nuova specie intesi a prescrivere la qualità delle materie prime, e le maniere del loro impiego e della loro fabbricazione. I regolamenti, la cui esecuzione fu affidata agli ufficiali dei corpi, diedero a costoro un’autorità, la quale presto divenne un mezzo non solamente per allontanare con sicurezza ancor maggiore i forestieri sotto pretesto di contravvenzione, ma di assoggettare inoltre i maestri medesimi del corpo al comando dei capi, e di forzarli, per la tema di essere accusati di supposte contravvenzioni, a non disgiungere mai il proprio interesse da quello della associazione e per conseguenza a rendersi complici di tutte le manovre consigliate dallo spirito di monopolio ai principali membri del corpo.

 

 

Fra le norme irragionevoli e moltiplicate all’infinito degli statuti, norme dettate sempre dall’interesse prevalente dei maestri di ogni corpo, talune escludono intieramente chiunque non sia figlio di un maestro o non sposi le vedove dei maestri. Altre respingono coloro che son chiamati stranieri e cioè coloro i quali siano nati in altre città. In molti corpi basta essere ammogliato per essere escluso dal tirocinio e per conseguenza dal maestrato.

 

 

Lo spirito di monopolio che presiedette alla elaborazione degli statuti, è stato spinto tant’oltre da escludere le donne dai mestieri più convenienti al loro sesso, ad esempio dal ricamo, che esse non possono esercitare per proprio conto.

 

 

Noi non proseguiremo più a lungo l’enumerazione delle norme bizzarre tiranniche contrarie all’umanità ed ai buoni costumi di cui son pieni questi codici oscuri redatti dall’avidità, adottati senza esame in tempi di ignoranza ed ai quali mancò solo l’esser fatti noti, perché diventassero oggetto della pubblica indignazione.

 

 

I corpi riuscirono tuttavia a fare autorizzare in tutte le città principali i loro statuti ed i loro privilegi, talvolta per mezzo di lettere patenti dei nostri predecessori, ottenute con pretesti svariati o mediante sborso di denaro e confermate di regno in regno con nuovi pagamenti; spesso per mezzo di decisioni delle nostre corti; qualche volta di semplici deliberazioni di polizia e persino della mera consuetudine.

 

 

Da ultimo, codesti impedimenti frapposti all’industria finirono di essere generalmente riguardati quale diritto comune. Il governo si abituò a trarre vantaggio finanziario dalle tasse imposte sui corpi e dalla moltiplicazione dei loro privilegi.

 

 

Enrico III, coll’editto del dicembre 1581, diede alla istituzione il contenuto e la forma di legge generale. Egli stabilì le arti ed i mestieri in corpi e comunità in tutte le città e luoghi del reame; assoggettò al maestrato ed alla giuranda tutti gli artigiani. L’editto dell’aprile 1597 appesantì le norme precedenti, assoggettando tutti i mercanti alla legge a cui già erano soggetti gli artigiani. L’editto del marzo 1673, di carattere puramente economico, nell’ordinare l’esecuzione dei due precedenti, aggiunse ai corpi già esistenti altri sino allora sconosciuti.

 

 

La finanza cercò sempre più di crescere le entrate che essa ricavava dall’esistenza dei corpi. Indipendentemente dalle imposte ordinarie, dai diritti per la costituzione di nuovi corpi e di nuovi maestrati, furon creati nei corpi medesimi uffizi sotto diversi nomi; obbligandosi poi i corpi a riscattare gli uffizi creati, con prestiti che essi furono autorizzati a contrarre e di cui pagarono gli interessi col ricavo di stipendi o di diritti ad essi alienati.

 

 

Senza dubbio l’ingordigia di così fatte entrate finanziarie impedì per lungo tempo che si conoscesse il grave pregiudizio cagionato all’industria dall’esistenza dei corpi e l’offesa che questa recava al diritto naturale.

 

 

L’errore giunse fino al punto da far sostenere a taluno la teoria che il diritto di lavorare era un diritto regio che il principe poteva vendere e che i sudditi dovevano acquistare.

 

 

Noi respingiamo risolutamente una siffatta massima.

 

 

Dio, dotando l’uomo di bisogni, rendendogli necessario di ricorrere al lavoro, ha fatto sì che il diritto di lavorare diventasse proprietà di ogni uomo, prima più sacra e più imprescrittibile di ogni proprietà.

 

 

Noi consideriamo quale uno dei primi doveri della nostra giustizia e come atto tra i più degni della nostra beneficenza l’affrancamento dei nostri sudditi da ogni offesa recata a questo diritto inalienabile dell’uomo. Noi vogliamo per conseguenza abrogare tutte queste istituzioni arbitrarie, le quali non permettono al povero di vivere col frutto del proprio lavoro, le quali respingono il sesso che per la sua debolezza ha maggiori bisogni e minori mezzi e sembrano, condannandolo ad una miseria inevitabile, incoraggiare la seduzione e la corruzione; le quali spengono l’emulazione e l’industria e rendono inutili le doti di coloro cui le circostanze vietano l’entrata in un corpo d’arte; le quali privano lo stato e le arti delle conoscenze che gli stranieri potrebbero recarci; le quali ritardano i progressi delle arti, a causa degli ostacoli molteplici incontrati dagli inventori, a cui i corpi disputano il diritto d’attuare le scoperte che i corpi medesimi non sono riusciti a fare; le quali, con le immense spese che gli artigiani son costretti ad assolvere per acquistare la facoltà di lavorare, con le estorsioni di ogni specie da essi esperimentate, con i numerosi sequestri per pretese contravvenzioni, con le spese e sprechi di ogni fatta, con i processi interminabili provocati fra tutti questi corpi dalle rispettive pretese intorno al contenuto dei loro privilegi esclusivi, sovraccaricano l’industria con un balzello enorme, oneroso ai sudditi, privo di qualsiasi frutto per lo stato; le quali finalmente, a causa della agevolezza fornita ai membri dei corpi di concertarsi tra di loro e di costringere i membri più poveri a subire la legge dei ricchi, diventano strumento di monopolio e favoriscono manovre il cui effetto è di aumentare al disopra del livello naturale il prezzo delle derrate più necessarie alla sussistenza del popolo.

 

 

Nel compiere quest’atto di giustizia noi non ci lasceremo trattenere dal timore che troppi artigiani profittino della libertà resa a tutti per esercitare mestieri che essi ignorano e dalla paura che il pubblico sia inondato da lavori male fabbricati. La libertà non ha affatto prodotto questi effetti dannosi nei luoghi in cui essa è da lungo tempo stabilita. Gli operai dei sobborghi e degli altri luoghi privilegiati non lavorano affatto meno bene di quelli dell’interno di Parigi. Tutti sanno d’altra parte quanto sia illusoria la polizia delle giurande, per quanto tocca la perfezione dei lavori, e come, essendo tutti i membri tratti dallo spirito di corpo a sostenersi gli uni gli altri, il privato il quale si lagni si vegga quasi sempre condannato e si stanchi di invocare di tribunale in tribunale una giustizia più dispendiosa dell’oggetto per cui egli la richiede.

 

 

Coloro i quali sono periti di cose commerciali sanno altresì che ogni intrapresa importante di traffico e di industria richiede il concorso di due specie di uomini di imprenditori i quali anticipano le materie gregge e gli utensili necessari al commercio, e di semplici operai i quali lavorano per conto dei primi in compenso di un salario convenuto. Questa è la vera origine della distinzione fra imprenditori o maestri ed operai o compagni, distinzione fondata sulla natura delle cose e non dipendente dalla istituzione arbitraria delle giurande. Coloro i quali impiegano in un commercio i propri capitali hanno certamente interesse massimo a non confidare le loro materie gregge se non a buoni operai; e non si deve temere che essi assumano a caso operai cattivi i quali guasterebbero le merci ed allontanerebbero i clienti. Dobbiamo presumere altresì che gli imprenditori non investano la loro fortuna in un commercio da essi non abbastanza conosciuto per essere in grado di scegliere operai buoni e sorvegliarne il lavoro. Noi non temiamo dunque che la soppressione dei tirocini dei compagnonaggi e dei capilavoro esponga il pubblico ad essere mal servito.

 

 

Noi non paventeremo neppure che la subita affluenza d’una moltitudine di operai nuovi cagioni la rovina degli antichi e dia al commercio una scossa pericolosa.

 

 

Nei luoghi in cui il commercio è più libero il numero dei mercanti e degli operai di ogni specie è sempre limitato e necessariamente proporzionato al bisogno e cioè al consumo. Esso non eccederà la medesima proporzione nei luoghi nei quali la libertà sarà restituita. Un nuovo imprenditore non vorrà rischiare la propria fortuna, azzardando capitali in uno stabilimento di cui il successo potrebbe essere incerto, ed in cui si dovrebbe temere la concorrenza dei maestri già stabiliti ed in possesso dei vantaggi di un commercio iniziato ed avviato.

 

 

I maestri i quali compongono attualmente i corpi, perdendo il privilegio esclusivo goduto oggi come venditori, guadagneranno in qualità di compratori a causa della soppressione del privilegio esclusivo degli altri corpi. Gli artigiani otterranno il vantaggio di non più dipendere, nel compimento dei loro lavori, da maestri di parecchi altri corpi, ognuno dei quali accampa oggi il privilegio di fornirgli qualche indispensabile pezzo. I mercanti si avvantaggeranno dal poter vendere tutti gli assortimenti accessori al loro principale commercio. Gli uni e gli altri trarranno soprattutto profitto dal non dipendere più dai capi e dagli uffiziali dei propri corpi; dal non dovere più pagar loro frequenti diritti di visita; dall’essere affrancati da numerosi contributi per spese inutili e nocive, per spese di cerimonia, di conviti, di adunanze e di processi, tanto frivoli per il loro scopo come rovinosi per la loro molteplicità».

 

 

Ho voluto riprodurre il testo del documento di Turgot per far toccar con mano, a quelli i quali tacciano gli uomini del ‘700 di astrattismo, di giusnaturalismo, di ignoranza delle condizioni di fatto quanto erronea sia la loro opinione. Turgot e gli economisti del secolo XVIII non hanno forse previsto in tutto quel che doveva accadere nel secolo seguente; ma essi ragionarono e legiferarono sulla base della esperienza del loro tempo. Non ci sono parole vane nel preambolo di Turgot, non rettorica, non ragionamenti contrattualistici, non richiami ad uno stato di natura alla Gian Giacomo Rousseau. Turgot ricorda la storia, dolorosa storia del passato, narra la esperienza presente di operai che non riescono a lavorare, di privilegi ai soci ed ai figli di soci, di ostacoli frapposti alle invenzioni ed alla espansione della industria, di intese dei maestri a danno dei consumatori, di illusorie garanzie di bontà di merce e di prezzi onesti, di ostracismo ai francesi di altre città e regioni. Egli non invoca la libertà di lavoro per ossequio ad un idolo, ma perché l’esperienza gli ha dimostrato che nella Francia medesima, a due passi da Parigi, in luoghi dove per avventura i vincoli di corpo non giungono, si fabbricano merci altrettanto buone che in paesi di giuranda, né vi sono imprenditori in rovina ed operai turbolenti e disoccupati.[3]

 

 

4. – Avendo riprodotta la parte sostanziale del preambolo di Turgot, è doveroso riprodurre altresì le difese che del vecchio ordine di cose fecero, prima di inchinarsi al perentorio ordine del re, i rappresentanti della corte del parlamento. Usavano costoro del loro diritto di rimostranza con linguaggio aperto e talora rude.

 

 

Il primo presidente Messire Etienne-François d’Aligre paragona i sentimenti «di riconoscenza e di gioia» che si sarebbero letti in tutti gli occhi, sicuri interpreti dei cuori, se il Re avesse soltanto voluto esercitare un atto di bontà e di beneficenza. Purtroppo «l’uso assoluto che Vostra Maestà fa del suo potere incute a tutti i sudditi un profondo terrore ed annuncia una dolorosa coazione… Perché dunque una muta tristezza si offre soprattutto agli augusti sguardi di Vostra Maestà? Se Ella si degna di guardare il popolo, lo vedrà costernato. Se guarda alla capitale, la vedrà in allarme. Se volta gli occhi verso la nobiltà, la vedrà profondamente afflitta».

 

 

Dopo tanto preambolo, la critica. Il primo presidente trae oscuri pronostici dalla abolizione delle corporazioni.

 

 

«L’editto di soppressione delle giurande rompe tutti i legami dell’ordine stabilito per le professioni di commercianti e di artigiani. Esso lascia senza regola e senza freno una gioventù turbolenta e licenziosa la quale, contenuta a mala pena dalla pubblica polizia, dalla disciplina interna dei corpi e dall’autorità domestica dei maestri sui loro compagni, è capace di lasciarsi andare ad ogni sorta di eccessi, allora quando essa non riterrà più di essere strettamente sorvegliata e crederà di essere indipendente».

 

 

Ad ogni editto Maître Antoine-Louis Seguier, facondo e popolarissimo avvocato del re, pronuncia un’arringa che è una requisitoria. Ecco i brani essenziali di quella relativa alle corporazioni:

 

 

«Prima del regno di Luigi IX i prevosti di Parigi esercitavano insieme con l’ufficio di magistratura anche quello di esazione del pubblico denaro. Le sventure del tempo avevano costretto a dare in qualche modo in fitto il prodotto della giustizia ed il provento dei diritti reali. Sotto l’avida amministrazione dei prevosti – fermieri tutto era, per così dire, abbandonato ai saccomanni della città di Parigi e la confusione regnava in tutte le classi di cittadini. Luigi IX volle far cessare il disordine e la prudenza non gli suggerì altro mezzo fuor di quello di formare di tutte le professioni altrettanti corpi distinti e separati che potessero essere diretti a volontà del governo. Il rimedio, origine delle attuali corporazioni, riuscì al di là di ogni speranza. Il brigantaggio cessò. L’ordine fu ristabilito. Al medesimo principio si inspirò il governo per le altre parti del corpo statale; e così riuscì a mantenere il buon ordine. Tutti i vostri sudditi, Sire, sono divisi in altrettanti corpi diversi quante condizioni di stato esistono nel reame. Il clero, la nobiltà, le corti sovrane, i tribunali inferiori, gli ufficiali addetti ai tribunali, le università, le accademie, le compagnie di finanza, le compagnie di commercio; tutti, ed in tutte le parti dello stato, sono costituiti in corpi che si possono considerare come gli anelli di una grande catena, di cui il primo trovasi nelle mani di Vostra Maestà, capo e sovrano amministratore dell’intiero corpo della nazione.

 

 

La sola idea di distruggere codesta preziosa catena dovrebbe spaventare. I corpi di mercanti e di artigiani sono una parte di questo tutto inseparabile, il quale contribuisce al buon governo generale del reame. Essi sono divenuti necessari. La legge, Sire, ha eretto corpi d’arte, ha creato giurande, ha stabilito regolamenti, perché l’indipendenza è un vizio nella costituzione politica, perché l’uomo è sempre tentato di abusare della libertà. La legge ha voluto prevenire le frodi di ogni genere e rimediare a tutti gli abusi. La legge veglia ugualmente all’interesse del venditore ed a quello del compratore; mantiene reciproca fiducia fra i due. Per così dire, il commerciante espone sotto il sigillo della fede pubblica la sua merce agli occhi del compratore e questi la riceve con sicurezza dalle mani del commerciante.

 

 

I corpi d’arte possono essere considerati come altrettante piccole repubbliche, preoccupate unicamente dell’interesse generale di tutti i loro componenti; e se è vero che l’interesse generale è costituito dalla riunione degli interessi di ogni individuo in particolare, è egualmente vero che ogni membro lavorando alla propria utilità personale, lavora necessariamente, pur senza saperlo, a pro’ dell’utile vero di tutto il corpo. Allentare i congegni, i quali fanno muovere questa moltitudine di corpi; distruggere le giurande, abolire i regolamenti, in una parola disunire i membri di tutti i corpi vuol dire distruggere i diversi mezzi che debbono essere desiderati dal commercio medesimo per la propria conservazione. Ogni fabbricante, ogni artista, ogni operaio si considererà quale un essere isolato, dipendente da sé solo e libero di lasciarsi trascinare da una immaginazione spesso sregolata. Ogni subordinazione sarà distrutta, non esisterà più né peso né misura; la sete di guadagno animerà tutti gli opifici. Siccome l’onestà non è sempre la via più sicura per arrivare alla fortuna, il pubblico intiero, i cittadini come gli stranieri, saranno lo zimbello dei mezzi segreti preparati ad arte per sedurli…

 

 

Fu agli occhi di Vostra Maestà fatto brillare lo scopo di estendere e moltiplicare il commercio liberandolo dalle noie, dagli impacci, dalle proibizioni introdotti, dicesi, dal regime regolamentare. Noi osiamo, Sire, dichiarare a Vostra Maestà la proposizione diametralmente contraria: queste noie, questi impacci, queste proibizioni sono la gloria, la sicurezza, la grandezza del commercio della Francia. È nostro dovere non solo affermare ma dimostrare la proposizione. Se l’erezione di ogni mestiere in corpo di comunità, se la creazione dei maestrati, lo stabilimento delle giurande, il fastidio dei regolamenti e l’ispezione dei magistrati sono altrettanti vizi segreti opposti alla diffusione del commercio per soffocarne tutti i rami ed arrestarlo nelle sue speculazioni; perché il commercio francese è sempre stato così fiorente, perché le nazioni estere sono così gelose del suo progresso, perché, nonostante la gelosia, son desse tanto desiderose degli oggetti fabbricati nel reame? La ragione della preferenza è evidente. Le nostre merci hanno vinto le merci estere; tutto ciò che si fabbrica, soprattutto a Lione ed a Parigi, è ricercato nell’Europa intiera, a causa del gusto, della finezza, della solidità, della correzione del disegno, della finitezza nell’esecuzione, della genuinità della materia prima. Tutti i pregi vi si trovano riuniti; e le nostre arti, recate al più alto grado di perfezione, arricchiscono la vostra capitale, di cui il mondo intiero è diventato tributario.

 

 

Non è dunque evidente che i corpi d’arte e mestieri, ben lungi dall’essere nocivi al commercio, ne sono piuttosto l’anima ed il sostegno, perché ci assicurano la preferenza sulle fabbriche estere le quali cercano di copiarci senza poterci imitare?

 

 

La libertà indefinita farà ben presto svanire codesta perfezione, sola causa della preferenza da noi ottenuta; e la folla di artisti e di artigiani di ogni professione, di cui il commercio sarà sovraccarico, lungi dall’aumentare le nostre ricchezze diminuirà forse d’un tratto il tributo versatoci dai due mondi. Le nazioni estere, ingannate dai loro commissionari, i quali a loro volta saranno stati ingannati dai fabbricanti da cui avranno comprato nella capitale le loro merci, non vi troveranno più la perfezione che oggi le fa ricercare; esse si disgusteranno di far trasportare a gran rischio e gran spesa lavori simili a quelli che esse troveranno in patria.

 

 

Il commercio languirà, ricadrà nell’inerzia dalla quale Colbert, il ministro saggio, laborioso, previdente, con tanta pena era riuscito a trarlo; e la Francia perderà una fonte di ricchezza che i suoi rivali da lungo tempo cercano di strapparle… I migliori operai fissati a Parigi dalla certezza del lavoro, dalla prontezza dello spaccio non tarderanno ad allontanarsi dalla capitale, e la speranza di rapida fortuna in paesi esteri in cui non avranno concorrenti li indurrà forse a trasportarvi le nostre arti ed i nostri mestieri.

 

 

L’emigrazione, già troppo frequente, diverrà ancora più comune a causa della molteplicità degli artisti; l’effetto più sicuro di una libertà indefinita sarà di confondere tutti i valori ed annullarli con la mediocrità del salario diminuito a poco a poco dall’affluenza delle merci. Non solo il commercio subirà una perdita irreparabile, ma tutti i corpi in particolare proveranno una scossa che li annienterà del tutto. I maestri attuali non potranno più continuare il loro negozio; coloro i quali vorranno abbracciare la medesima professione non sapranno trarne bastevole sussistenza; il beneficio troppo frazionato impedirà agli uni ed agli altri di sostentarsi e la diminuzione del guadagno darà luogo a numerosi fallimenti. Il fabbricante non oserà fidarsi a colui che vende al minuto. Interrotta la circolazione, un timore così legittimo come abituale arresterà tutte le operazioni di credito; e la mancanza di sicurezza snerverà a poco a poco e finirà per distruggere tutta l’attività del commercio, il quale si estende e si moltiplica solo grazie alla fiducia più cieca…

 

 

La nuova legge recherà un colpo funesto all’agricoltura in tutto il reame. La facilità di vivere nelle grandi città mercé un piccolissimo commercio farà disertate le campagne; le fatiche laboriose della coltivazione della terra sembreranno servitù intollerabile in paragone dell’ozio che il lusso mantiene nelle città. La sovrabbondanza dei consumatori rincarerà ben presto le derrate agrarie; ed, effetto ancor più spaventoso, la sicurezza sarà distrutta senza speranza di ristabilirla, eccettoché coi mezzi più violenti. Il numero immenso di giornalieri e di artigiani concorrenti nelle grandi città e soprattutto nella capitale fa temere per la pubblica tranquillità. Venuto meno lo spirito di subordinazione, in tutti i cuori fiorirà l’amore dell’indipendenza. Ogni operaio vorrà lavorare per proprio conto; i maestri d’oggi vedranno abbandonate botteghe e magazzini; la mancanza di lavoro e la carestia che ne sarà la conseguenza ecciterà la folla di compagni fuggiti dai laboratori nei quali trovavano sussistenza; e la moltitudine, che nessuna forza potrà tenere a freno, darà luogo ai maggiori disordini.

 

 

Le erezioni dei corpi di arti e mestieri sono state fatte non sulla domanda dei mercanti, degli artigiani, degli operai, ma in seguito alle suppliche degli abitanti delle città arricchite dalle arti. Enrico IV, il re che farà sempre la delizia dei francesi, il re il quale non era occupato d’altro che della felicità del suo popolo, il re che Vostra Maestà ha preso per modello, l’idolo, Sire, della Francia, sul consiglio dei principi del suo sangue, dei suoi consiglieri di stato, dei più notabili personaggi e dei principali ufficiali radunati nella città di Rouen per il bene del suo reame, ha ordinato che ogni ceto (état) fosse diviso ed inquadrato sotto l’ispezione di giurati scelti dai membri di ogni corpo ed assoggettato ai regolamenti propri di ogni corpo di mestiere. Enrico IV si è deciso ad emanare siffatta legge generale, non a somiglianza del suo predecessore, il quale vi cercava soltanto un sussidio momentaneo di denaro, ma per prevenire gli effetti dell’ignoranza e dell’incapacità, per porre fine ai disordini, per assicurare la percezione dei suoi diritti e farne in avvenire opportuno uso. Fu, dunque, il bene pubblico causa della creazione dei maestrati e delle giurande; la nazione medesima invocò la legge generale ed Enrico IV altro non fece se non esaudire il voto generale del suo popolo. Non è senza una specie di fremito che noi vedemmo la saggezza di un monarca così buono e così amato esser detta autrice di leggi bizzarre tiranniche contrarie all’umanità ed ai buoni costumi. Questa asserzione avrà dunque luogo in una pubblica legge emanata da Vostra Maestà?

 

 

Colbert pensava ben altrimenti. Quel Colbert, il quale ha mutato la faccia della Francia, ne ha rianimato il commercio, lo ha per così dire creato e gli ha assicurato la preponderanza su quello di tutte le altre nazioni; quel Colbert, il quale guardava soltanto alla gloria ed all’interesse del suo padrone ed altro scopo non aveva fuor della grandezza del popolo francese; quel genio creatore il quale rianimò ugualmente l’agricoltura e le arti, quel ministro sorto per servir di modello a tutti coloro che verranno dappoi, ordinò che ogni persona trafficante nella città di Parigi dovesse essere per l’avvenire costituito in corpo di maestrato e di giuranda.

 

 

Mai alcun principe fu più amato di Enrico IV; mai la Francia è stata più fiorente che sotto Luigi XIV; mai il commercio è stato più esteso e più profittevole che sotto l’amministrazione di Colbert. Tuttavia, oggi vi si propone di distruggere l’opera di Enrico IV e di Luigi XIV, di Sully e di Colbert!».

 

 

La difesa delle corporazioni abolite da Turgot non manca di un certo afflato storico. A tratti si intravvede l’ideale di una società gerarchicamente costruita, organizzata in corpi di ceti sociali e gruppi professionali, nei quali ogni cittadino trovava difesa e nel tempo stesso forniva garanzia di equo adempimento del proprio dovere. Qualcosa di queste pagine è passato nei libri nei quali Tocqueville e Taine descrissero la vecchia società francese prima della rivoluzione. Al di là dei ricordi che Federico Le Play lamentò fossero stati, ahimè! Anche in passato troppo di rado tradotti in viva realtà, il fondo della difesa delle decadute corporazioni era tuttavia retorica: previsioni lugubri di quel che sarebbe accaduto, affermazioni non dimostrate del rapporto di causa ad effetto tra vincoli corporativi e largo spaccio delle merci francesi all’estero, predizioni di fuga dei migliori artigiani, di abbandono dell’agricoltura, di dissoluzione dell’industria. Turgot aveva già smontato in precedenza la difesa dimostrando che le corporazioni allontanavano e non attraevano i migliori uomini, proteggevano l’insolenza dei maestri monopolisti e non garantivano affatto i consumatori, asservivano per lunghi anni i giovani volonterosi ai figli di coloro che erano riusciti prima ad entrare nelle corporazioni. Ebbero gran spaccio a Parigi, in quei giorni di ardenti dispute, le copie ritornate alla luce di un libretto stampato nel 1768, sotto la falsa data di Londra, nella tipografia reale, Chinki, historie cochinchinoise, qui peut servir à d’autres pays, in cui l’abate Coyer narrava la fine miseranda della famiglia di un agricoltore, che le troppe imposte avevano cacciato dalla terra e nella città è respinto da tutti i corpi di mestiere, asserragliati in se stessi dal numero chiuso, dai privilegi ai figli dei maestri e dagli alti diritti di ammissione. Racconti a chiave, che il re incoraggiava e le corti del parlamento facevano bruciare in piazza.

 

 

5. – Ha dunque ragione il mio corrispondente? I suoi timori rispetto alle nuove corporazioni sono giustificati dall’esperienza storica delle antiche corporazioni? Sarebbe contrario all’indole della ricerca scientifica rispondere per sì o per no, non perché, come diceva il Manzoni, la ragione ed il torto non si possono distinguere nettamente l’una dall’altra, ma perché, trattandosi di accadimenti futuri, la risposta è in mano nostra. Se noi vorremo, se gli italiani vorranno, le corporazioni nuove saranno diverse e produrranno effetti diversi da quelli delle corporazioni antiche.

 

 

Un istituto non è qualcosa di soprannaturale di esteriore a noi, che ci costringa e si sostituisca alla nostra volontà. Esso è quello che lo vogliono far essere gli uomini operanti. Noi studiosi adempiamo il nostro ufficio facendo palesi le conseguenze probabili delle opere compiute, sicché gli uomini d’azione possano trarne guida monito ed incitamento. Perciò ho voluto riprodurre il testo dei documenti solenni, i quali segnarono una svolta nella storia dell’economia del mondo per chiarire in modo parlante la differenza fondamentale fra l’antica e la nuova corporazione. Nell’articolo su Le trincee io avevo voluto soltanto indicare quale via convenisse all’economista seguire per costruire una teoria, necessariamente astratta, del corporativismo; ed avevo opinato che l’ipotesi del monopolio bilaterale esposta da taluni egregi studiosi fosse all’uopo disadatta. Se di monopolisti può parlarsi, dicevo, occorre qualificare l’ipotesi con la condizione che si tratti di monopolisti costretti, nel loro complesso nazionale, ad occupare tutti i fattori produttivi, personali e materiali.

 

 

Occorre riesporre la conclusione in maniera non indirizzata ai confratelli in economica, ma ai molti più i quali di teoria economica non si interessano affatto ed abbandonano volentieri le relative disquisizioni agli affiliati alla confraternita. Industriali agricoltori commercianti operai professionisti non si interessano dei nostri teoremi. Essi pongono in altra maniera gli stessi quesiti. Essi chiedono: il corporativismo è un sistema durevole? Funzionerà? In che modo?

 

 

6. – Rispondo: le antiche corporazioni caddero perché erano divenute corpi chiusi monopolistici privilegiati; perché volevano perpetuare i metodi di lavoro e di organizzazione tecnica e commerciale propri del tempo in cui esse avevano ottenuto le loro carte di incorporazione; perché respingevano i nuovi, gli inventori, i creatori di nuove industrie, di nuovi prodotti; perché creavano una classe di paria, reietti da tutti i lavori scelti organizzati incorporati e ridotti ai lavori umili occasionali spregiati dai maestri, dai compagni (operai) e dagli apprendisti in carica. Finché i paria furono pochi e randagi, il sistema resistette; cadde quando i paria, divenuti molti, si accontentarono e vollero avere la loro parte al sole della vita.

 

 

La corporazione moderna vivrà e durerà perché e Finché opererà in modo opposto all’antica. In una parola, il carattere fondamentale della corporazione moderna è di essere “aperta”. Tutti, s’intende tutti coloro a cui la legge non vieta, per ragione di età, di sesso, di malattia od altra di interesse pubblico, di lavorare, devono poter entrare nella corporazione. La organizzazione corporativa è incompatibile con un residuato di uomini e di capitali legalmente disoccupati.

 

 

Entro l’ordinamento corporativo attuale non possono esistere barriere leali, le quali impediscano agli uomini ed ai capitali di muoversi dall’una all’altra corporazione; non possono esistere vincoli alla creazione di nuovi lavori, di nuove industrie e quindi di nuove corporazioni. Il divieto alla creazione di nuovi impianti ed all’allargamento di vecchi impianti non è fondato sul motivo che il nuovo debba essere respinto, ma esclusivamente su quello che l’impianto, nuovo o vecchio, è contrario all’interesse pubblico; non mai sull’argomento che di impianti ve ne sono già troppi, ma su quello che l’industria offende qualche preminente interesse generale. Non potrebbe, a cagion d’esempio, mai venire in mente ad alcuno che sulla ammissibilità di nuovo impianto si chiegga il parere di coloro i quali già eserciscono analoga industria o che sulla accettazione di domanda di nuove filiali di banca si desideri il consiglio delle banche che nel luogo stesso posseggono filiali. Chiaramente, il valore di siffatti pareri e consigli sarebbe nullo o, tutt’al più, la forza maggiore o minore del parere contrario potrebbe essere assunta a vago indizio della maggiore o minore urgenza di eccitare nuova concorrenza, essendo supponibile che tanto più gli interessati in essere si affatichino a dimostrare la sconvenienza di nuovi impianti quanto più quelli esistenti concedono lucri eccedenti il livello normale. Deve esistere cioè, in sostituzione di quelli che la piena concorrenza ci forniva e che per ragioni storiche sono venuti meno, un meccanismo, un insieme di organi regolatori, indipendenti dai produttori esistenti, il quale provveda non alla «limitazione dei nuovi impianti», ma «alla creazione continua di nuovi ed alla contemporanea continua eliminazione dei vecchi impianti superflui». Quale sia questo organo od insieme di organi o quale il meccanismo regolatore che sarà dagli organi creato non so; perché la creazione di avvenimenti o di istituti economici non è, a parer mio ancora, propria di studiosi sibbene di uomini d’azione e di stato. So soltanto come cosa certa che l’ordinamento corporativo vivrà perché e se creerà organi e meccanismi capaci non di “limitare” ma di “selezionare” imprese imprenditori lavoratori; non di escludere e di ridurre, ma di accogliere ed accrescere produttori e prodotti.

 

 

7. – È giunto anzi il momento di dire alto che l’andazzo dal quale il mondo è travagliato, da che la crisi vi si è abbattuta sopra, di limitare consorzializzare adeguare ossia diminuire la produzione, è pura follia. Bisogna ritornare all’insegnamento antico di J.B. Say e di James Mill.[4] Gian Battista Say ammoniva nel 1803:

 

 

«Non l’abbondanza del denaro rende facile lo spaccio, ma l’abbondanza degli altri prodotti in generale. Si immagini un uomo industriosissimo, il quale possegga tutto il necessario per produrre: ingegno e capitali. Lo si immagini unico industrioso, in mezzo ad una gente, la quale non sappia crear nulla fuori di qualche grossolano nutrimento. Che farà egli dei suoi prodotti? Acquisterà gli alimenti grossolani necessari al suo bisogno. Che cosa farà del sovrappiù? Nulla. Ma se le produzioni del paese si moltiplicano e diventano varie, egli può collocare tutti i suoi prodotti, ossia scambiarli contro le cose di cui può aver bisogno sia per goder maggiormente delle dolcezze della vita, sia per impiegare i risparmi che egli giudicherà opportuno di fare. Ciò che dico di un sol uomo può ripetersi per centomila. La nazione offrirà ad essi tanta più larghezza di spaccio, quanto più essa potrà pagare più cose ed essa potrà pagare tanto più quanto più produrrà… Perciò, quando una nazione ha troppi prodotti di una qualità, per venderli occorre creare altri prodotti d’un’altra specie».

 

 

Poco dopo, nel 1808, James Mill scriveva:

 

 

«La produzione delle merci crea ed è la causa unica ed universale capace di creare un mercato per le merci prodotte. Si pensi per un istante che cosa sia un mercato. Forseché possiamo intendere per mercato, ossia potenza di acquisto, qualcosa che non sia permutabile colla merce di cui noi ci vogliamo sbarazzare? Chi porta una merce al mercato, desidera un compratore. Ma, se si vuol comprare, bisogna aver qualcosa con cui pagare. Il mercato della nazione è perciò costituito dai mezzi collettivi di pagamento esistenti nella nazione. In che cosa consistono essi? Non forse nell’annuo prodotto, nell’annuo reddito della massa generale dei suoi abitanti? Se dunque è indubitato che la capacità di acquisto di una nazione è esattamente misurata dal prodotto annuo, è evidente che, più cresce la produzione annua, più si estendono il mercato nazionale, il potere d’acquisto e le compre effettive della nazione. Qualunque entità addizionale di merci si crei in qualsiasi momento in un paese, ecco nel medesimo istante crearsi per ciò stesso una quantità esattamente equivalente di potenza d’acquisto… Siano le merci componenti il prodotto annuo poche o molte, sia cioè il paese ricco o povero, una metà delle merci non bilancia forse in ogni caso l’altra metà?, non forse la metà dei beni di un paese forma universalmente il mercato per l’altra metà e viceversa? Può in siffatto mercato immaginarsi sovrabbondanza? Perché non nasca crisi, basta che i beni siano gli uni adatti agli altri; basta cioè che ogni uomo il quale ha qualcosa da vendere trovi sempre tutte le differenti specie di beni di cui egli desidera approvvigionarsi. Che cosa importa che i beni siano molti o pochi? Importa certo molto, perché nel primo caso gli uomini hanno larghezza e nel secondo scarsità di beni a propria disposizione; nel primo caso il paese è ricco, nell’altro è povero. In amendue i casi però, l’intiera massa dei beni sarà scambiata, gli uni contro gli altri… In ogni caso la domanda di una nazione è uguale alla sua produzione… La quantità prodotta di una merce può certamente essere in eccedenza alla giusta proporzione; ma ciò significa necessariamente che qualche altra merce si produce in quantità insufficiente. Dire che una merce è sovrabbondante non è dire che per una parte di essa non si ottiene nulla in cambio? Ossia non è dire che si produce troppo poca altra merce da dare in cambio di essa?».

 

 

Non occorre che il mondo sia un mercato solo, che il commercio internazionale rinasca perché si debba rendere ossequio alla verità che la crisi è dovuta a sotto e non a sovraproduzione. Se il mondo è matto, siamo savi noi. Se non possiamo vendere all’estero, mettiamoci in condizione di vendere in paese. Primissima condizione è di allontanare da noi l’idea storta che si sta male perché si produce troppo. Se qualche industria, se anche parecchie industrie soffrono per difficoltà di vendere, esse soffrono non perché producono troppo, ma perché qualchedun altro produce troppo poco.

 

 

Questa è l’idea madre la quale deve inspirare la politica economica nel momento attuale. Si potrà poi discutere se e quali errori si siano commessi, aumentando troppo la produzione di certe merci o derrate; se esista troppa potenza d’acquisto presso alcuni gruppi di consumatori e troppo poca presso altri; si potrà dar opera ad incoraggiare l’affinamento ed il moltiplicarsi dei bisogni e dei gusti; si potranno fare cento altre belle cose; ma tutte queste belle cose devono essere subordinate al concetto primo fondamentale: si sta male se e perché si produce troppo poco; si starebbe peggio se si riducesse ancora la produzione; non si potrà star meglio se non si produrrà di più.

 

 

8. – Partire dal concetto che la crisi è dovuta a sotto produzione forse non può far mutare subito le soluzioni comunemente adottate. Deve mutare lo spirito del ragionare. Troppi industriali, troppi agricoltori, troppi banchieri, troppi pubblicisti si sono inavvertitamente imbevuti del principio che si sia ecceduto, che si sia prodotto troppo, che bisogni far macchina indietro. Da troppe parti vanno ai governi invocazioni a restringere, a limitare, a disciplinare con consorzi la produzione, a far conseguire prezzi remuneratori, ossia più alti. Importa che le corporazioni non nascano in un ambiente imbevuto di spirito restrittivo monopolistico. Importa che esse nascano e si tengano lontanissime dallo spirito informatore delle vecchie corporazioni abolite da Turgot. La commissione oggi incaricata di esaminare le domande di creazione di nuovi impianti o di ampliamenti degli impianti antichi – ha giustamente osservato il sottosegretario alle corporazioni on. Asquini in un discorso tenuto il 23 marzo a Milano – «ha diradato i nebulosi dubbi che il suo annuncio aveva in un primo tempo creati. In otto mesi di applicazione, su 193 domande esaminate, 53 ne sono state respinte, 104 accolte, 36 inviate a nuovo esame». Nella nuova disciplina corporativa, ha egli soggiunto: «nulla vi è che possa ritardare il passo di chi marcia per accodarsi il pesante fardello dei fuori servizio». È proprio della corporazione moderna “aperta” di accentuare le caratteristiche di selezione tra le imprese vecchie e nuove. Le discussioni pubbliche, che in seno alle corporazioni od al loro consiglio generale non mancheranno di sorgere, metteranno in chiaro come il criterio della selezione non debba essere la conservazione degli interessi acquisiti ma la eliminazione spontanea dei disadatti; non l’impedimento ma piuttosto l’incoraggiamento ai nuovi od ampliati impianti. Non è necessario che l’incoraggiamento sia costoso per l’erario. Il fondo delle imposte e il credito pubblico possono essere chiamati a raccolta per i rimboschimenti, per le bonifiche, per le strade, per i porti, per le opere di lunghissima lena alle quali manca l’attrattiva di redditi netti vicini nel tempo. Nella grande maggioranza dei casi l’aiuto del denaro pubblico sarebbe inutile, anzi dannoso. Quel che importa è operare in una atmosfera in cui il nuovo, l’aggiunto, il non ancora tentato trovi accoglienza lieta, sicurezza di tutela giuridica, in cui all’avventuroso pronto a rischiare lavoro e capitali non si oppongano trincee monopolistiche di nessuna specie. Ponti d’oro a chi vuol fare, e sia pur travolto dall’impeto delle acque chi, vantando posizioni acquisite e difficoltà di sopravvivenza, vorrebbe impedire alle nuove generazioni di imprenditori e di lavoratori di farsi avanti. La corporazione italiana moderna, a differenza di quella antica, vuole essere “aperta”; ed “aperta” significa atta ad esaltare i giovani, ossia gli uomini i quali vogliono far più e diversamente e meglio di quanto nelle cose economiche operassero gli uomini venuti prima.



[1] Questa esigenza non si può evidentemente porre a coloro i quali non credono che la scienza si costruisca astraendo dalla complessa realtà alcune ipotesi semplici ma vogliono orientarsi «verso il metodo di studio per grandi masse di dati quantitativi, al fine di formulare analiticamente leggi empiriche di portata generale» (in Riv. it. di stat., ec. e fin. VI, I, 94). Col metodo empirico – statistico evidentemente non si può fare teoria di una società economica impostata, nonché sulla premessa corporativa, su qualsiasi altra premessa; ed accade invero con quel metodo di veder ridotto il corporativismo ad un elenco, che potrebbe essere dal più dei lettori allungato assai, di regolamento pubblico di faccende economiche, elenco al quale l’attributo corporativo non è meglio proprio di altri attributi di tempo in tempo conferitigli. Lo scrittore bene riconosce che, trattandosi di puro elenco, dopo allungatolo in momenti eccezionali, esso potrebbe essere accorciato col ritorno della normalità. Se il corporativismo fosse davvero, come in tal modo implicitamente pare intendersi, una norma di condotta pratica contingente inspirata al caso per caso, esso sfuggirebbe all’analisi scientifica, la quale consiste nella ricerca delle conseguenze necessariamente derivanti dalla ripetizione delle medesime premesse. A tanta decapitazione non si possono rassegnare gli studiosi, i quali debbono prendere atto della volontà espressamente dichiarata dai politici di voler creare un nuovo sistema economico e su quella base debbono compiere le loro costruzioni dottrinali. Perciò la esigenza del «procedere a costruire», può invece porsi a scrittori fiduciosi nel ragionare economico, dai quali si desidererebbe dopo che essi hanno posto i presupposti del corporativismo – unitarietà della produzione e della distribuzione della ricchezza, disciplina dell’attività produttiva conforme alle sue storiche finalità, attraverso la corporazione, che attuerebbe l’ordinamento gerarchico delle energie produttive nello stato, assunzione del lavoro a soggetto della nuova economia (in ALBERTO BERTOLINO, Postille corporativistiche, in «Studi senesi», XLVIII, 1-2, 34) – e sono giunti così ad limina del campo destinato al nuovo tempio della scienza economica, che ne iniziassero risolutamente la costruzione.

[2] Il mio corrispondente ha così risoluto per conto suo un problema da me posto, ma da altri dichiarato «Né semplice né facile, per la semplice ragione che è insolubile» (in «Economia», XIII, I, 88) ovvero «più che determinato e d’impossibile risoluzione» (nella sopra citata Riv. it. di stat., ec. e fin., VI, I, 92). Il problema era analogo a quello, risolutissimo dal mercato le mille volte, dei calmieri imposti nel tempo di guerra su talune merci o derrate. Gli alti prezzi, rimasti liberi da vincoli, gonfiarono. O non fu di esperienza comune il fatto che, vincolati i fitti a mete di gran lunga inferiori al livello dei prezzi determinato nel 1916-1922 dalle abbondanti emissioni monetarie, il reddito rimasto libero dei ceti sociali favoriti dalla inflazione si riversò nei consumi di ordine superiore; e mai si bevve tanto vino a prezzi tanto stravaganti e mai furono tanto atroci le sofferenze dei ceti a reddito fisso per l’innalzamento dei prezzi delle cose ad essi abituali ed ora accaparrate dai redditieri nuovi, a cui i calmieri lasciavano largo margine libero? Non è forse chiaro che, inversamente, se fosse prescritto un minimo a taluni prezzi, superiore al punto che, se quella prescrizione non fosse esistita, quei prezzi avrebbero avuto tendenza a toccare, e se contemporaneamente e corrispondentemente non fosse cresciuto il reddito monetario della collettività considerata, qualche altro prezzo, tra quelli non vincolati, dovrebbe ridursi? Il mio corrispondente ha in mente una situazione di questo genere e vi ragioni su, senza neppure supporre che il problema sia insolubile. Ma, astrazione fatta dalla scarsa disposizione di talune letture ad interpretare le parole scritte secondo il loro significato più ovvio, della asserita insolubilità la colpa è probabilmente mia, che avrò esposto in modo inutilmente complicato un fatto semplicissimo [L. E.].

[3] Turgot non era una eccezione. La scienza economica ebbe la disgrazia di trovarsi associata, quando mosse i primi grandi passi, con le filosofie del diritto naturale, dell’individualismo e dell’utilitarismo. Pochi perciò, anche oggi, sanno rappresentarsela dissociata da quelle concezioni della vita. Eppure taluno dei più grandi costruttori della scienza, e basti citare Cantillon e Ricardo, erano uomini d’affari che di filosofia non si curarono, ragionando, astrattamente sì, ma sulla mera base della esperienza concreta che ad essi era famigliare. Per altri, principalissimo Adamo Smith, bisogna guardare sotto la superficie della invisibile hand la quale guida gli uomini automaticamente alla consecuzione del bene comune. Vi si troverebbero spirito penetrante di osservazione, cautela di storico scrupoloso nel giudizio del passato, animo alieno dal consigliare provvedimenti di stato sulla mera base di un ragionamento dedotto da ipotesi arbitraria. Utilissimo, per un primo orientamento, il breve volume, altra volta ricordato, di Richard Schüller, Les économistes classiques et leurs adversaires (Paris, Guillaumin et Alcan, 1896 e 1914). Aggiungo l’indicazione, suggestiva, dei titoli dei capitoli: I. La scuola economica classica non tiene conto delle condizioni di civiltà, di tempo e di luogo? II. …non tiene conto della diversità fra uomini? III. …non tiene conto di altro movente dell’azione umana, fuor dell’egoismo? IV. …non tiene conto dei contrasti d’interesse? V. La politica economica della scuola classica: a) relatività della legislazione economica; b) restrizioni alla libertà individuale a nome dell’interesse generale; c) intervento economico dei governi. Lo Schüller, testi alla mano, dimostra che gli economisti classici tenevano ampio conto precisamente di quei fattori che si vuole essi abbiano trascurato ed erano favorevoli a ragionati interventi dello stato nelle cose economiche.

[4] Il brano di J. B. SAY è riprodotto dalla prima edizione del Traité (I, 153-154) ed è forse più felice nella sua stringatezza della più ampia discussione delle edizioni successive; quello di JAMES MILL da Commerce defended. An answer to the arguments by which Mr. Spence, Mr. Cobbett, and others, have attempted to prove that Commerce is not a source of National Wealth (London, 1808, pag. 81-85). Il brano è stato da me già riprodotto in un articolo Di un inesistente paradosso economico nel numero di marzo della rivista «La Cultura». A chi sia dovuta la paternità della teoria dello spaccio non è dubitabile, quando si noti che certamente James Mill aveva letto nel 1808 il Traité di SAY, che egli cita, sebbene ad altro proposito. Tuttavia, leggendo i due testi, non ci si può sottrarre all’impressione che il Mill abbia primo veduto il legame tra la teoria che la domanda dei prodotti sta nella produzione di essi ed il problema della crisi. Da questo punto di vista la polemica SPENCE Britain independent of Commerce, 1807), COBBETT (in Political Register, 1807) e Mill (1808), precede il più celebre dibattito – carteggio Sismondi – Say – Malthus – Ricardo e merita ricordo segnalato nella storia delle dottrine sulla crisi. Questo il giudizio intorno al merito corporativo di Say e di Mill, che io sostituirei a quello che la pietà filiale aveva suggerito (in Principles, III, XIV, 4) a John Stuart Mill: «il merito di avere collocato l’importantissimo problema nella sua vera luce spettare principalmente, sul continente al saggio J.B. Say ed in questo paese al signor James Mill». Amendue erano persuasi dell’importanza del principio scoperto, J.B. Say dichiarandola «una delle verità più importanti dell’economia politica» e James Mill permettendo al ragionamento un avviso solenne: «Nessuna proposizione della scienza economica sembra più sicura di quella che io sto per annunciare, per quanto paradossale essa possa a prima vista sembrare; e nessuna, se vera, può indubbiamente essere considerata di maggiore importanza». La consapevolezza di dir verità di grandissimo rilievo imprime ai detti amendue il vero marchio della scoperta scientifica.

 

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