Opera Omnia Luigi Einaudi

La creazione della terra nella zona di Tripoli

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/03/1913

La creazione della terra nella zona di Tripoli

«Corriere della Sera», 2 marzo 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 467-474

 

 

 

 

È noto come il ministro delle colonie, on. Bertolini, abbia nominato una commissione per lo studio delle condizioni geologiche, agrologiche ed economiche della Libia; e poiché certamente la primissima condizione per il buon successo dell’opera colonizzatrice italiana è la conoscenza della colonia, l’iniziativa del ministro appare lodevole. Anche chi sia completamente scettico intorno ai risultati dei lavori delle commissioni governative, è indotto stavolta a sperar bene, sia a cagione della scelta, la quale non avrebbe potuto essere migliore, degli insigni uomini, gli ottimi davvero in Italia, chiamati a comporre la commissione, sia perché taluni di essi ebbero già a dare di sé in Libia splendida prova. Alludo all’ing. Franchi, ingegnere-capo nel corpo delle miniere, al dott. Francesco Tucci, direttore dell’istituto zootecnico di Palermo, al dott. Emanuele De Cillis, professore di coltivazioni nella scuola superiore di agricoltura di Portici, e al dott. Alessandro Trotter, libero docente di botanica nell’università di Napoli. Tutti costoro, che oggi fan parte della commissione nominata dall’on. Bertolini, erano già nella primavera del 1912 stati inviati a Tripoli dall’on. Nitti per un primo studio della zona tripolitana, la sola che allora fosse accessibile agli italiani. Frutto delle loro indagini è un magnifico volume intitolato Ricerche e studi agrologici sulla Libia-La zona di Tripoli, in cui alla bellezza tipografica ed alle numerose illustrazioni risponde la bontà del contenuto. È questa senza dubbio la migliore pubblicazione che in Italia si abbia sulla nuova colonia dal punto di vista agricolo; e fa davvero onore ai valorosi e sapienti che la scrissero ed al ministro che l’ideò. In attesa dei nuovi e maggiori rapporti che saranno pubblicati dalla commissione dell’on. Bertolini, credo che la lettura di questo volume ufficiale sulla zona di Tripoli sia indispensabile a tutti coloro, uomini politici, giornalisti, imprenditori e agricoltori, i quali vogliano formarsi un’idea giusta e seria di che cosa sia la colonia e di che cosa in essa si possa fare.

 

 

Farne un sunto compiuto è impossibile: poiché in due colonne non si sunteggiano 500 pagine tutte dense di fatti e di considerazioni assennate, lontane ugualmente dall’ingenuo entusiasmo di pubblicisti inesperti di cose agricole come dal pessimismo aprioristico degli anticolonialisti. Nelle pagine del Franchi e dei suoi colleghi parlano i tecnici e gli agricoltori; leggendole si ha la sensazione viva di trovarsi finalmente dinanzi alla realtà, veduta con l’occhio clinico dell’agricoltore, uomo d’esperienza e insieme di scienza. Chi vive a lungo in mezzo ai campi e sa vivere della vita della terra, a stento tollera le descrizioni dei dilettanti e solo si innamora degli scritti che «sanno» la terra. Ora questo dei quattro commissari inviati a Tripoli dall’on. Nitti, è un libro che «sa» la terra. È un miracolo, forse, negli annali della letteratura amministrativa. Ma è un miracolo certo. Leggendolo a me è venuta la sensazione diretta e vera di che cosa sia la terra che circonda Tripoli. È la sensazione che si prova leggendo Jacini, il vecchio Ottavi, Valenti ed altri; è la sensazione dell’agricoltore che conosce un angolo qualunque di terra nel mondo e sa quante siano le difficoltà di farlo «vedere» agli altri. Non certo spero di poter ridare ai lettori del Corriere questa impressione della realtà vera. Mi contenterò di guardarla per iscorcio, pago se avrò persuaso qualcuno a leggere tutto il libro stupendo.

 

 

C’è un capitolo nel libro intitolato «come la steppa può trasformarsi in giardino», il quale contiene l’idea centrale del libro. La zona di Tripoli, estesa ad ovest sino alla reggenza di Tunisi, a nord sino alla riva del mare, limitata ad est dal breve corso dell’uadi Sanga, che passa sotto Kasr Allachen, ed a sud dal ciglione settentrionale dell’altipiano del Gebel Nefusa, Yefren, Garian, Tarhuna e Mesellata, ha approssimativamente una superficie di 16.000 chilometri quadrati, la maggior parte terreni agrari incolti od utilizzati da colture estensive e saltuarie (terre badia), in minor parte costituiti da spiaggie, dune mobili, paludi, saline e rocce nude. Non però di questi 16.000 chilometri quadrati vive la popolazione della zona tripolitana. Essa vive sovratutto dei 200 chilometri quadrati su cui si estende la cosidetta oasi, quella che più propriamente si può chiamare la terra dei giardini. Noi italiani conosciamo come si formano le terre dei giardini. La natura non le offre generosa agli uomini; ma gli uomini le «creano» colla loro fatica. Così gli italiani hanno creato, traendole dal nulla delle paludi e delle rocce, dai pendii sassosi e dai greti dei torrenti, le terre di Lombardia, i giardini della riviera ligure, gli agrumeti della conca d’oro. Dappertutto dove la terra frutta, in Italia, essa è stata creata, attraverso i millenni della nostra storia, dall’uomo. È storia di ieri la creazione della terra nell’antico lago di Fucino e nelle magnifiche bonifiche del ferrarese, la pagina economica forse più gloriosa e prodigiosa della nuova Italia. Così deve essere «creata» la terra nella zona di Tripoli. Chi immaginasse che la terra tripolitana sia «naturalmente» feconda, errerebbe di gran lunga; come grande sarebbe stato l’errore dei primi abitatori d’Italia, i quali avessero immaginato di essere giunti finalmente su terra senza fatica fruttifera, solo perché essa era apparsa ai loro occhi soleggiata e ridente. Dalla terra «badia» tripolitana, tenuta a cultura estensiva, oggi non si trae «che un frutto tale che sarà sempre superato dalla rendita più meschina che potrà trarsi dalla più infelice delle terre italiane». Se frutti cospicui si vorranno ricavare – e l’impresa è tecnicamente possibile – sarà d’uopo trasformare una parte dei 16.000 chilometri quadrati della zona, così come furono trasformati gli odierni 200 chilometri quadrati di giardini. Come una «macchia d’olio», dicono i commissari, il giardino potrà estendersi, conquistando quelle parti della pianura stepposa che meglio si presenteranno adatte alla creazione della terra feconda. La conquista della steppa non potrà essere completa mai perché mancherebbe l’acqua, indispensabile alla creazione del giardino. Supponendo, il che è assurdo, che dell’acqua caduta nulla si perda e nulla si evapori, la provvista d’acqua nella zona di Tripoli può calcolarsi a 420 millimetri di pioggia in media all’anno; mentre ne occorrerebbero 728 per consentire dappertutto la cultura irrigua a giardino. Laonde circa una metà almeno dovrà essere conservata a cultura asciutta semi-estensiva, mista tra arborea ed erbacea. Se a ciò si aggiunge che in non poche località la profondità dell’acqua probabilmente è tale da rendere non economico lo scavo dei pozzi e la elevazione dell’acqua, che la produzione di frutta e di ortaggi non può essere aumentata nei giardini oltre un certo segno per il pericolo della sovraproduzione, riesce agevole convincersi che la cultura ad alti rendimenti dovrà essere limitata ad una parte e probabilmente a parecchio meno della metà dei 16.000 chilometri quadrati della zona di Tripoli. «Una accesa fantasia – scrivono i commissari – potrebbe anche intravvedere in un avvenire più o meno lontano, la deliziosa oasi tripolitana estendersi fino ai piedi del Gebel, coprendo della sua superba vegetazione di palme e di ulivi migliaia di chilometri». Ma l’ideale, oltrecché essere economicamente e tecnicamente impossibile ad attuarsi in tutto, dovrà raggiungersi assai lentamente, pur entro i confini della convenienza pratica.

 

 

La terra dei giardini invero rende molto, quando è stata creata: i fitti, ossia i redditi netti, sono altissimi, da 200 a 600, fino a 1.000 lire per ettaro; ed i prodotti lordi sono ancor maggiori, non essendo esagerate talune cifre apparentemente eccessive di prodotti forniti dalla terra dei giardini: erba medica che dà 10 tagli all’anno e 2 volte la produzione italiana, orzo che frutta 20-25 volte ed anche 40-60 volte la semente e simiglianti meraviglie. Non però la terra allo stato naturale rende tanto; poiché anzi, data la scarsità delle piogge e l’asciuttore assoluto per otto mesi circa dell’anno, quasi nessuna cultura erbacea è possibile senza irrigazione, vedendosi a metà marzo bruciata dal sole quella erba medica che poco dopo la seminagione aveva di sé fatto concepire ai nuovi venuti splendide speranze. Gli alti e gli altissimi prodotti si hanno solo dove è possibile l’irrigazione. Ossia dove è stato creato il piccolo podere irriguo a cultura mista arborea – erbacea. Il giardino della zona tripolitana è una formazione meravigliosa dei secoli. Val la pena di citare un brano scultorio della relazione dei quattro commissari:

 

 

Il coltivatore arabo o berbero sulla costa infuocata dell’Africa, con una esperienza millenaria, ha saputo costituire delle associazioni vegetali, anzi delle vere formazioni, le quali, raggiungendo la massima utilizzazione del suolo, creano intorno ad ogni specie coltivata le condizioni più favorevoli al suo sviluppo. In alto la chioma della palma, avida di sole, che lascia più sotto, tra i suoi stipiti regolari e sottili, espandere le loro fronde all’olivo, all’albicocco, al mandorlo, agli agrumi; più sotto ancora, o le culture ortensi, o le foraggere, o i cereali, o le piante industriali, che l’acqua frequente, tratta dai pozzi, mantiene per mille ruscelli in una continua freschezza, in un ininterrotto rigoglio. Si tolga la palma, ed il sole cocente, con una luminosità che non conosce tregua, ecciterà con troppa violenza i tessuti più sensibili delle erbe, rendendo più ardua l’opera della irrigazione. Si tolga, al frutteto od all’agrumeto, il beneficio delle culture irrigue sottostanti e ne vedremo diminuito il prodotto e tutto il vantaggio economico di una così fatta cultura intensiva.

 

 

Ma questa «così intensa ed ammirevole utilizzazione del suolo», da cui «il colono italiano avrà molto da imparare, poco da mutare», deve essere creata e mantenuta a prezzo di continue, assidue, amorosissime cure. Sui 5.244 ettari dei giardini di Tripoli, Tagiura, Gargaresc e Gurgi vi sono forse 7.333 poderi di una superficie media di 7.153 metri quadrati, estesi cioè su circa sette decimi di ettaro l’uno. Culture e proprietà frazionatissime dunque, come era imposto dall’intensità e varietà grandi delle coltivazioni. Nelle oasi di Tripoli un podere di due ettari è grande, al di là di tre ettari diventa grandissimo. Il «latifondo» dei Caramandi a Sciara el Bel è il massimo della regione, e misura 4,9 ettari, di proprietà indivisa fra tre persone! È il paese tipico della piccola proprietà coltivatrice, della terra che in superficie minima richiede una enorme e paziente quantità di lavoro da parte del contadino innamorato della terra, frugale, economo, individualista. La grande proprietà potrà forse avere qualche successo nell’allevamento del bestiame e nella cultura arborea asciutta sulla steppa migliorata. Sulla terra irrigua dei giardini dura invece e vince solo il contadino paziente. Ci vollero secoli di fatica del contadino arabo, abituato a non tener calcolo dei costi e delle ore di lavoro perdute, per tracciare la fittissima rete di strade, «che incrociano in ogni senso il territorio, disposte in maniera tale che nessuna delle nostre regioni italiane potrebbe vantare un sì mirabile e perfetto sistema». Cosa meravigliosa, ognuno dei 7 od 8000 poderi dei giardini della zona strettamente tripolitana, ha accesso perfettamente indipendente e libero dalla strada; sicché sono abolite del tutto le servitù di passaggio. Ogni podere è una unità culturale indipendente dalle altre. Un muro, costrutto a gran fatica, lo circonda, e serve a segnare il confine, a difenderlo dai ladri, a proteggerlo contro i venti, la sabbia, l’invasione delle dune mobili, ad impedire gli smottamenti del terreno degli altri giardini costruiti ad un livello più alto. Entro le mura, ciò che sovratutto attrae l’attenzione e senza di cui non potrebbe concepirsi la vita del podere, è il pozzo. Su 7 od 8000 poderi si noverano 7 od 8000 pozzi, con alta armatura sovrastante, per il maneggio dell’otre di pelle che discende e sale per trar su e versare nella vicina vasca l’acqua necessaria ad irrigare ogni giorno da una quinta ad una sesta parte della superficie del giardino. Il pozzo, colla vasca, coll’arabo e la vacca la quale fa la manovra di va e vieni lungo una strada infossata ed ombreggiata avente dal 20 al 30% d’inclinazione per tirar su l’otre pieno d’acqua, è la caratteristica del giardino tripolitano. Furono tentati altri mezzi più moderni di estrazione dell’acqua; ma dopo lungo esame, i commissari concludono che il pozzo arabo, malgrado il diuturno lavoro del contadino e della vacca, è il metodo più sicuro ed economico di irrigazione. Vicino al pozzo, sorge per lo più – e sempre nei giardini prossimi alla città – la casa del proprietario coltivatore. Attorno, in questo piccolo microcosmo, sotto l’ombra protettrice delle palme, si estendono le culture arboree ed erbacee, su un terreno che prima si è dovuto sistemare con trasporti cospicui di terreno. Ogni settimana ed ogni mese dell’anno, salvo i periodi delle piogge torrenziali, si sussegue l’opera diuturna delle irrigazioni e dei raccolti.

 

 

La colonizzazione italiana non può concepirsi che come un’imitazione e un perfezionamento dell’opera dei contadini arabi delle terre a giardino. Molto si potrà perfezionare, specie nell’allevamento del bestiame grosso e degli animali da cortile, nell’impiego delle concimazioni, le quali dovranno essere prevalentemente organiche e non chimiche. Ma si tratterà sempre di costruire accanto ed ai margini della zona dei giardini, sulla terra badia o stepposa, nuovi poderi, piccoli, anzi piccolissimi, ad alto costo d’impianto, non meno di 2.500 lire per ettaro, richiedenti il lavoro personale, manuale, aiutato da arnesi semplici, simili agli arnesi oggi usati dagli arabi – le macchine agrarie in un terreno simile non hanno possibilità di larghe applicazioni – del contadino proprietario. A poco a poco la macchia d’olio si potrà estendere su una parte dei 16.000 chilometri quadrati posti fra il mare e il Gebel. Ma sarà una conquista lenta; poiché il contadino coltivatore solo col tempo può aver modo di accumulare i risparmi necessari a comprare il terreno dagli attuali proprietari – terre vuote e libere non pare esistano, neppure nella steppa – a creare poi il giardino e quindi ad aspettare i non pochi anni – almeno 4 e normalmente più – che devono trascorrere prima che la palma rechi frutti, e sovratutto ombra alle coltivazioni sottostanti. Creato il giardino, è d’uopo difenderlo contro l’assalto ripetuto dei nemici che da tutte le parti lo assediano.

 

 

L’oasi littoranea, osservano i commissari, è un prodotto eminentemente artificiale e si mantiene e prospera sotto gli sforzi assidui dell’uomo. Abbiamo detto si mantiene, perché tutto lascia supporre che, per le condizioni climatiche, l’abbandono costituirebbe la perdita quasi completa non solo del reddito, ma in buona parte dello stesso capitale fondiario. Gli alberi di tessitura più delicata finirebbero per morire, né prontamente si costituirebbe una steppa simile alla primitiva, capace di essere un discreto pascolo di ovini… In Tripolitania la terra produce solo grazie al lavoro faticoso dell’estrazione dell’acqua dal sottosuolo. I pozzi, di cui la maggior parte costano anni di scavo, si colmano ed inaridiscono presto, appena non siano più mantenuti. Le dighe protettrici, gli sbarramenti di riserva rovinano quando più non siano rafforzati dopo ogni valanga.

 

 

Ed altrove, per dimostrare l’urgenza di riparare subito i danni inevitabili della guerra, i commissari descrivono efficacemente la lotta diuturna che l’uomo deve combattere contro la natura nemica:

 

 

L’oasi è il risultato di una lotta assidua e paziente tra l’agricoltore e la steppa: il giardino è strappato a questa, grazie a delle spese e ad un lavoro abbastanza sensibile, ed è mantenuto tale per mezzo del costante lavoro e di continue spese. Se cessa lo stato attivo di difesa da parte dell’agricoltore la sabbia prende il sopravvento, ingoia a poco a poco l’oasi e la distrugge. La corrosione del giardino comincia dall’argine che lo cinge e che lo difende dall’uomo estraneo, dall’animale vagante, dalla sabbia portata dal vento. Sotto l’azione appunto di questi agenti esterni, non più difeso dall’agricoltore, l’argine si rompe in più parti e scoscende. La sabbia invade, dall’esterno, il terreno dell’interno, e questo, a sua volta inaridito, non lavorato e calpestato, si trasforma in sabbione. Le coltivazioni erbacee più non esistono, perché da sole non possono sostenersi: quelle arboree cominciano a deperire, e sono anzitutto le più gentili, quelle che più hanno bisogno di cure e di acqua. Gli agrumi vanno afflosciandosi e perdendo le loro foglie; in seguito, man mano, vengono le più resistenti, finché ultima a scomparire è la palma, dopo avere intristito per alcuni anni ancora. La morte definitiva del giardino si ha poi quando il pozzo, non più curato, si è insabbiato ed ha perduto l’acqua: allora il simbolo che distingue l’oasi dalla landa desertica non esiste più.

 

 

Se al mondo ci sono contadini capaci di collaborare con gli arabi alla creazione ed alla conservazione della terra da giardino, questi sono i contadini italiani, che hanno redenta la loro terra dalla palude, dalla malaria, dalle pietre e dai rovi. Ma è d’uopo che essi conoscano la rude bisogna a cui vanno incontro ed i capitali di lavoro, di aspettativa e di denaro che occorre impiegare perché sorga la nuova terra italiana. Aver messo in luce quali siano i frutti della terra di Tripoli, ed entro che limiti si possono ottenere, e quali ne siano i costi è merito grande dei commissari scelti dall’on. Nitti; e più gioveranno le più compiute nozioni le quali ci saranno recate dalla nuova commissione che adesso studia la terra libica. Chi vuol vincere deve prima conoscere l’oggetto della conquista. Molti errori commisero i francesi in Algeria perché nulla sapevano; ed assai meno in Tunisia perché più larga era la loro esperienza. Saviamente opera perciò il governo italiano a diffondere luce sicura sui problemi delle nuove terre italiane innanzi che si inizi la colonizzazione. Il ritardo di un anno oggi può risparmiare domani mezzo secolo di errori e di disillusioni.

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