Opera Omnia Luigi Einaudi

La crisi del Giappone

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 26/06/1901

La crisi del Giappone

«La Stampa», 26 giugno 1901

 

 

 

Non si tratta soltanto della crisi ministeriale la quale condusse alla faticosa formazione del Ministero del visconte Katsura. Le crisi di gabinetto sono divenute un fenomeno normale anche nel Giappone, di guisa che vi sarebbe ben poco a dire al riguardo, sovratutto essendo quel paese tanto lontano dal nostro.

 

 

Ma la crisi del Gabinetto preseduto dal marchese Ito fu soltanto una manifestazione esteriore di una crisi profonda, la quale perturba nel momento presente il giovane paese del Sole Levante. La crisi giapponese si può definire una crisi di crescenza. Da 35 anni l’impero si è slanciato sulla via del progresso politico ed economico. Nuovi organi di governo, scuole, Università, eserciti, marina da guerra, ferrovie, arsenali, porti, ecc., ecc., tutto fu creato in breve tempo con una forza ed un costanza da meritare ai giapponesi il nome di inglesi dell’Oriente.

 

 

Ma purtroppo i progressi costano, le conquiste della civiltà moderna non si possono ottenere senza gravi sforzi; e quando l’impiego dei capitali nelle intraprese di carattere permanente diventa molto accentuato, si corre il rischio di trovarsi privi di capitale circolante. In Italia noi ne facemmo l’esperienza, quando la pompa assorbente del debito pubblico di guerra e ferroviario tolse il capitale necessario alle industrie ed ai commerci. Nel Giappone avviene ora qualcosa di somigliante; e la caduta del Gabinetto Ito fu provocata appunto dal rifiuto opposto dal ministro delle finanze visconte Watanabe a contrarre nuovi imprestiti per opere pubbliche. Aveva ben ragione il Watanabe ad opporre un rifiuto categorico alle proposte di nuove spese.

 

 

Il denaro è scarsissimo nel Giappone. I Consolidati 5 per cento, che sette anni fa erano a 105, ora sono caduti a 90. L’anno scorso il Tesoro tentò invano di negoziare sul mercato interno un prestito di diciotto milioni di yen. I capitali necessari a costrurre nuove opere pubbliche, che pure urgono e sarebbero utilissime, non si trovano. Il risparmio nazionale basta a mala pena alle richieste delle industrie e delle imprese esistenti.

 

 

Eppure gli impieghi di capitale finora fatti sono stati eccezionalmente produttivi. Molti dati si potrebbero citare per provare la verità di questa affermazione: che le imprese pubbliche e private hanno largamente corrisposto alle speranze concepite dai loro promotori. Vogliamo soltanto citare alcune cifre relative al bilancio dello Stato. Nell’ultimo decennio le entrate sono salite da 85 a 201 milioni di yen.

 

 

Le imposte dirette entrano per 58 milioni, quasi tutta imposta sulla terra, il cui gettito è cresciuto un po’ per il rialzo dell’aliquota, ma in gran parte anche per l’estensione delle terre a cultura e l’aumento dei prezzi del riso. L’imposta sugli spiriti frutta ora 55 milioni, 40 di più che non dieci anni fa; il che è indizio sicuro della cresciuta ricchezza del paese. I dazi doganali producono 16 milioni, il tabacco 10, le poste, i telegrafi e le ferrovie 32 milioni di yen. Il resto è fornito da intraprese pubbliche di vario genere, le quali danno un profitto crescente.

 

 

Né queste imposte sono gravose a pagarsi. Il valore della terra aumenta; e crescono altresì il salario ed il benessere delle classi lavoratrici. Ciò che manca è il capitale nuovo, per continuare nell’opera il progresso economico. E poiché il risparmio nazionale è ben lungi dall’essere sufficiente, la necessità consiglia ai giapponesi di rivolgersi al capitale straniero.

 

 

Finora il Giappone è stato molto restio ad aprire il suo territorio al capitale ed al lavoro straniero. Mossi dal desiderio di conservare la propria indipendenza economica, e persuasi che non saprebbero mantenersi indipendenti politicamente senza essere economicamente autonomi, i giapponesi hanno posto ogni sorta di ostacoli all’immigrazione del capitale estero.

 

 

Divieti alla proprietà della terra da parte di stranieri, divieti all’esercizio di molte industrie, ingerenza fastidiosa nelle Banche e nei commerci, obbligo di avere un certo numero preponderante di giapponesi nei Consigli di amministrazione delle Società anonime: ecco un conserto di cause più che bastevole ad intimidire il capitale straniero. Il quale sarebbe lieto di accorrere al Giappone, dove le obbligazioni emesse dalle ferrovie fruttano il 10 per cento, dove le migliori Banche pagano sui depositi vincolati per sei mesi un interesse del 7 per cento, dove potrebbero sorgere numerosissime aziende grandemente produttive. Ma chi si fida ad importar capitali quando è necessario depositarli in Banche giapponesi, e quando agli stranieri non è concessa una ragionevole facoltà di controllo?

 

 

È noto come, a differenza dei commercianti cinesi, fedelissimi alla parola data, i commercianti giapponesi colgono volentieri tutte le occasioni per esimersi dall’obbligo di far fronte agli impegni assunti.

 

 

Non è quindi meraviglia che i capitalisti europei vogliamo veder ben chiaro nelle loro faccende, e non siano per nulla disposti ad azzardar capitali in imprese dove essi non siano i padroni. Il Giappone deve quindi scegliere. O rinunciare all’aiuto straniero, ed allora andare incontro ad una gravissima crisi economica, la quale avrebbe altresì un funesto contraccolpo sulla potenza politica del paese: oppure aprire le sue porte alla benefica immigrazione del capitale europeo ed americano.

 

 

L’Impero giapponese non perderà nulla della propria indipendenza se sceglierà questa seconda alternativa. Il paese è ricco, le sue potenzialità di progresso sono enormi. I capitalisti stranieri farebbero un buon affare andando nel Giappone; ma un migliore affare ancora lo farebbero i nazionali,i cui guadagni crescerebbero notevolmente e li porrebbero in grado in non lungo periodo di tempo di rimborsare gli imprestiti graziosamente concessi dalla vecchia Europa. In quel giorno il Giappone potrà forse darsi il lusso d’una politica aggressiva verso gli occidentali.

 

 

Ma per ora deve contentarsi o di rimaner stazionaria, il che significa regredire; o chiedere a noi gli strumenti del progresso. In nessuno dei due casi la sua politica potrà essere pericolosa per l’Europa.

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