Opera Omnia Luigi Einaudi

La esportazione dei principali prodotti agrari dall’Italia nel periodo 1862-92

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1894

La esportazione dei principali prodotti agrari dall’Italia nel periodo 1862-92[1]

«Giornale degli Economisti», luglio 1894, pp. 1-22

 

 

 

A facilitare la esposizione ho diviso i prodotti agrari in tre gruppi che comprendono il primo i cereali, il secondo il vino e l’olio, il terzo gli agrumi e la frutta.

 

 

La voce più importante nel primo gruppo (diagramma I e II) è certamente il grano. Lasciando da parte gli anni 1870/73 in cui è confusa insieme colle Granaglie, Marsaschi ed Avena, noi possiamo notare due grandi periodi all’incirca nella esportazione di questa derrata; uno comincia nel 1862 e va fino al 1882; il secondo comprende l’ultimo decennio 1883-92.

 

 

Nel 1862 l’esportazione è di 209 mila Ett.; nel 1882 raggiunge i 962 mila quintali e scende poi nel 1892 alla quantità trascurabile di 5 mila quintali.

 

 

Quali le cause di questo doppio ed opposto movimento nel commercio di esportazione dei grani italiani?

 

 

L’aumento che si verificò nel ventennio 1862-82 dipende da un accrescimento nella produzione interna di questo cereale; dopo le unificazione di Italia i campi sativi erano aumentati per i minori impacci messi alla libera circolazione fra le varie provincie italiane, i migliorati metodi di coltivazione, le bonifiche dei terreni paludosi ed incolti, le strade ferrate, la sostituzione nell’Italia meridionale del grano alla cultura del cotone, la quale avea avuto un effimero rigoglio all’epoca della guerra di secessione americana e nell’Alta Italia al canape. Un impulso vigoroso alla coltivazione del grano avea dato anche l’introduzione della trebbiatura meccanica e delle macchine mietitrici[2]. Favorita dal continuo accrescersi della produzione nazionale, la esportazione era anch’essa aumentata, in ispecie nelle provincie di confine, per le quali era più conveniente il mandare per via di mare il proprio grano all’estero in Austria ed in Francia che sopportare le troppo forti spese di trasporto nelle provincie interne del regno.

 

 

Ma questa tendenza all’accrescersi delle esportazioni fu fermata dal continuo svilimento dei prezzi occasionato dalla concorrenza dei grani americani ed indiani, la quale, rendendone meno proficua la coltura, diminuì la superficie dei nostri campi sativi. Aggiungasi il depauperamento dei terreni che trae origine da mancanza di razionali ed abbondanti concimazioni ineffettuabili per deficienza di capitali[3]. I diminuiti prezzi scemarono il consumo dei cerali inferiori cosicché il grano nazionale che prima andava all’estero rimane ora in patria per soddisfare alle crescenti richieste delle nostre popolazioni. Queste in breve le cause che fecero sì che la esportazione del frumento italiano la quale nel 1892 avea raggiunto 962 mila quintali, scendesse nel 1884 a 379, nel 1885 a 130, nel 1888 a 36 e nel 1892 a 5 mila quintali. Poche parole si possono aggiungere sull’esportazione delle Granaglie e dell’Avena, la quale non raggiunse che una sola volta nel 1878 i 131 mila quintali ed ora è caduta a 900; ha seguito cioè il movimento stesso del frumento.

 

 

Un aumento invece non interrotto se non da poche oscillazioni dovute più che altro alla scarsità dei raccolti presenta la esportazione delle castagne, la quale fu di

 

 

19 mila quintali nel

1862

73 ” “

1872

99 ” “

1882

132 ” “

1892

 

 

Questa derrata, la quale ora è detta di poco conto ora di molto per la esportazione, dalla Commissione pei valori doganali presenta, eccetto nelle annate di scarso raccolto, una eccedenza sul consumo interno che prende la via della Francia prima e dell’Austria poi. La Svizzera che prima importava pochissimo, assorbe ora parte importante ed eguale a quella dell’Austria. Un’altra causa di questo aumento si deve ricercare nel rinvilito prezzo del grano che permise alle popolazioni montanine di usarne per la loro alimentazione più che prima non facessero, il che occasionò una più larga offerta di castagne sul mercato.

 

 

Le Patate seguirono una curva poco differente da quella delle Castagne;

 

 

nel 1862 se ne esportavano

8 mila quintali

” 1872 “

32 “

” 1882 “

70 “

” 1892 “

203 “

 

 

dal nostro paese si esportano quasi tutte come primizie e vanno specialmente nell’Austria, Germania e Svizzera.

 

 

E veniamo al riso. Per il passato il riso figurava per quantità cospicue sì all’esportazione che all’importazione; il nuovo regime daziario inaugurato con la legge del 21 aprile 1887, la quale introdusse per la prima volta il dazio sul riso (con lolla L. 3, senza L. 6 il quintale), aumentato col regio decreto 8 marzo 1888 (L. 5 e 11 rispettiv.), ha grandemente modificato se non l’aspetto del commercio certo il modo di sua rappresentazione nelle statistiche doganali. Durante un primo periodo la esportazione del riso che avea cominciato nel 1862 con 26 mila tonnellate era aumentata nel 1867 a 86 mila, rimanendo poi stazionaria su questa cifra e così era stata

 

 

nel 1871

di 84 mila tonnellate

” 1876

53 “

” 1881

83 “

” 1886

69 “

 

 

Questa quantità di riso esportata dall’Italia si reputa per una metà di riso nazionale e per l’altra metà di riso stato importato per subirvi la brillatura.

 

 

Da una relazione del Comm. Locarni sull’agricoltura nel Vercellese[4] si rileva che la forte esportazione del riso nostrano era dovuta alla produzione, aumentata in grazia delle grandi opere irrigatorie che si fecero in Piemonte e nella Lombardia nella prima metà di questo secolo. Così per la risicoltura piemontese, cito le parole del Locarni, il Conte di Cavour nel 1853 mentre, schiudeva, applicando largamente il libero scambio, alle nostre derrate i mercati d’Europa, fondava quella società di irrigazione all’ovest della Sesia, che associando le acque fecondatrice alle terre fecondate, aprì nel trentennio di vita, che le assicurava il suo patto fondamentale, numerosi, grandi e sapientemente ordinati canali di irrigazione, che resero possibile il grande sviluppo assunto poi, non solo dalla coltivazione del riso, ma da tutta l’industria agraria. Scomparsa ogni traccia di malattie distruggitrici, straordinariamente migliorate le condizioni dei mercati, gli affittuari si trovarono ad un tratto di fronte a quei lautissimi compensi che resero possibile, coll’accrescimento dell’estensione delle risaie, le bonifiche ed i prosciugamenti e dettero impulso alla coltivazione intensiva col mezzo di energici concimi. Anche in altre parti d’Italia si fecero grandi opere di irrigazione; così per la Lomellina, oltre il Canale Cavour, i canali derivatori Sella e si diede inoltre una cultura irrigatoria a terreni asciutti del Friuli e di altri luoghi.

 

 

Ma anche questi rapidi progressi della risicoltura furono interrotti da varie cause; già nel 1883 le notizie raccolte dalla Direzione dell’agricoltura recavano una diminuzione dell’area coltivata a riso da 232,669 ettari a 202,355, del prodotto medio per ettaro da 42.20 a 36.36 e del prodotto totale da ettolitri 9,818,151 a 7,335,709. A questo risultato contribuirono gli aumentati prezzi delle acque irrigatorie, da 1550 a 2200 lire al modulo metrico per le grandi Associazioni di irrigazione all’ovest della Sesia, i danni prodotti dalla grandine, il brusone, le restrizioni portate dai regolamenti alla cultura del riso intorno ai centri abitati, e, più di tutto, la diminuzione dei prezzi causata dalla concorrenza del riso indiano, che ne resero meno conveniente la coltivazione e spinsero i produttori italiani a chiedere ad alte grida una protezione doganale che fu loro concessa, come si è già visto, nel 1887 ed aumentata nel 1888. D’allora in poi la esportazione di riso nostrano si ridusse a poco più di nulla.

 

 

nel 1887

531 mila quintali

” 1888

86 “

” 1889

72 “

” 1890

74 “

” 1891

277 “

” 1892 273 “

 

 

Ed ancora di questa la maggior parte è costituita da riesportazione di riso con lolla importato solo per la lavorazione e riesportato dopo la brillatura eseguita in fabbriche nazionali; nel 1889 la esportazione di riso nostrano comprendeva solo 9 dei 72 mila quintali esportati. Negli ultimi due anni si verificò un aumento a causa del favorevole raccolto che permise ai coltivatori di lottare con efficacia sui mercati stranieri, specialmente in Austria, col riso indiano.

 

 

II. Nel secondo gruppo (Diagramma III) sono compresi il vino in fusti od in bottiglie, l’olio d’oliva, l’agro di cedro e di limone, il tartaro o feccia di vino.

 

 

La esportazione del vino rappresenta per l’Italia uno dei più grandi cespiti d’entrata, specialmente per le provincie meridionali. Poche parole dirò riguardo alla esportazione del vino in bottiglie, per essere questa di poco conto.

 

 

Difatti si esportarono

 

 

nel 1862

2 cent. migl. di bottiglie

” 1872

22 “

” 1882

19 “

” 1892

31 “

 

 

Come si vede, l’aumento dal 1872 in poi non è grande, si ebbero poche variazioni considerevoli ed il progresso è diminuito ancora dal fatto che il vermouth il quale compone in massima parte questa voce, comincia ad essere inviato all’estero in caratelli.

 

 

Dove l’aumento invece fu considerevole è nell’esportazione del vino in botti. Per la importanza sua è necessario riportare le cifre annue in migliaia di ettolitri:

 

 

1862

214

1878

525

1863

462

1879

1063

1864

223

1880

2188

1865

264

1881

1741

1866

347

1882

1312

1867

285

1883

2611

1868

228

1884

2361

1869

273

1885

1463

1870

224

1886

2330

1871

227

1887

3582

1872

586

1888

1802

1873

290

1889

1408

1874

259

1890

904

1875

352

1891

1158

1876

498

1892

2417

1877

354

 

 

Come si vede essa fu quasi stazionaria fino al 1879; in quest’anno comincia il movimento ascendente che dura fino al 1887 seguito da una precipitosa caduta fino al 1890; gli ultimi due anni segnano invece un certo risveglio.

 

 

Quali le cause dell’accrescersi di questa nostra massima fonte di guadagno?

 

 

Cominciamo dalle interne: lo svilimento dei prezzi del grano ed in genere dei cerali ebbe certo una larga influenza nel determinare in principal modo nel mezzogiorno d’Italia la trasformazione dei campi sativi in fiorenti vigneti; si aggiunga la continuata e persistente tendenza al ribasso dei prezzi dell’olio d’oliva, che fece svellere molte di queste piante per sostituirvi altre coltivazioni più proficue. Ma lo stimolo maggiore alla esportazione nostra fu la crescente richiesta che la Francia faceva dei nostri vini. Ecco la quantità dei vini italiani esportata in Francia dal 1879 fino alla rottura delle relazioni commerciali nel 1887 in migliaia di ettolitri:

 

 

1879

679

1884

1882

1880

1825

1885

1099

1881

1426

1886

1849

1882

910

1887

2782

1883

2113

 

 

Le devastazioni della fillossera costrinsero la nostra vicina a rinnovellare intieramente la sua viticoltura mercé le viti americane e la diffusione della vigna in Algeria; ma questo processo di ricostruzione dei vigneti dovea per necessità avere una lunga durata, e dei bisogni crescenti del consumo francese approfittarono l’Italia e la Spagna[5].

 

 

La rottura delle relazioni commerciali fra l’Italia e la Francia dovuta in parte a cause politiche, ma in parte ancora alla corrente protezionista che cominciava allora ad ispirare la legislazione doganale francese recò un colpo fierissimo alla nostra esportazione nella Francia, la quale discese nel 1888 ad 817 mila ettolitri per calare negli anni seguenti sino al 1891 ancora più basso e cioè nel

 

 

1889

172 migl. di ettolitri

1890

19 “

1891

27 “

1892

281 “

 

 

Ma se la rottura delle relazioni commerciali accelerò la discesa dell’esportazione nostra in Francia, questa sarebbesi certamente prodotta in seguito come conseguenza delle ricostituzione ormai compiuta delle vigne francesi. Già adesso i viticultori sono afflitti dalle stesse ansie che affliggono i nostri. La difficoltà crescente di vendere il vino nazionale ha fatto chiudere le porte al vino spagnuolo e rende inevitabile una riforma dei dazi comunali onde rendere più diffuso il consumo del vino nelle classi popolari ed impedire così la fabbricazione del vino adulterato[6].

 

 

 

Produzione in Francia

Importazione del vino in Francia

Esportazione in Francia

1850-59

30,251,000

80,098

1,767,761

1860-69

50,244,000

193,882

2,479,593

1870-79

51,703,000

834,334

3,283,429

1879

25,769,552

2,938,111

3,046,737

1880

29,677,472

7,219,642

2,488,013

1881

34,138,715

7,838,807

2,572,196

1882

30,886,352

7,537,139

2,618,316

1883

36,029,182

8,980,080

3,093,500

1884

31,300,225

6,902,756

2,763,752

1885

28,536,000

8,182,000

2,580,000

1886

25,063,000

11,011,000

2,704,000

1887

24,333,000

12,277,000

2,402,000

1888

30,102,000

12,064,000

2,118,000

1889

23,223,000

10,470,000

2,166,000

1890

27,416,000

10,831,000

2,162,000

1891

29,450,000

9,730,000

2,488,000

1892

29,082,000

9,283,000

1,840,000

 

 

Si aggiunga l’accrescersi continuo della produzione in Algeria come si rileva dal seguente specchietto:

 

 

Anni

Ettari

Milioni di Ettolitri

1884

50,716

896

1885

60,410

1,018

1886

69,666

1,569

1887

78,687

1,902

1888

88,326

2,728

1889

94,842

2,512

1890

98,541

2,844

1891

107,048

4,058

1892

108,843

2,866

 

 

e si riconoscerà come noi non potremmo certamente ritrovare in Francia uno sbocco alla sovrabbondante nostra produzione.

 

 

La perdita del mercato francese fece scendere a precipizio la esportazione italiana del vino che fu nel

 

 

1888

di 1802 migliaia ettol.

1889

1408 “

1890

904 “

1891

1158 “

1892

2417 “

 

 

Il commercio dei vini rimase un momento paralizzato anche per il cattivo raccolto del 1889 che fu di ett. 21,757,139 ossia solo il 57,77% della media; ma si sviluppò sensibilmente in seguito ai nuovi sbocchi trovati dagli esportatori in regioni che prima poco o punto importavano del vino italiano.

 

 

E così l’Austria per l’adozione di una tariffa di favore ricevette invece di 30 mila ett., nel 1891, 629 mila; aumento notevolissimo che fece sperare ai coltivatori pugliesi di aver trovato in esso un sollievo alla crisi che da più anni li affligge. Così pure la Svizzera la quale importava nel

 

 

1887 ettol.

165 mila di vino nostro ne importò nel

1888 “

303 “

1889 “

336 “

1890 “

273 “

1891 “

445 “

1892 “

553 “

 

 

L’Argentina da 62 mila ettol. nel 1887 salì nel 1892 a 216 mila.

 

 

Aumentarono pure le nostre esportazioni nel Brasile negli Stati Uniti ed a Malta; non quanto però sarebbe possibile se non fossero così cattive le condizioni economiche dell’America meridionale e se la California non avesse già cominciato coi suoi vini ad esercitare una temibile concorrenza all’Europa[7].

 

 

Dove male corrisposero le sconfinate speranze che ivi aveano riposto il Governo e gli esportatori italiani sono l’Inghilterra la quale ne ricevette una ancor minore quantità e la Germania che da 92 mila nel 1887 salì solo

 

 

a 97 “

” 1888

197 “

” 1889

100 “

” 1890

147 “

” 1891

260 “

” 1892

 

 

Fenomeno questo dovuto alla predilezione spiccata delle popolazioni nordiche per le bevande fortemente spiritose e per la birra più confacente ai loro gusti. Così, se non hanno ancora sorpassata la crisi in cui la privazione del mercato francese li avea fatti cadere, pur tuttavia con lodevole operosità si sono già i coltivatori italiani assicurato un largo sbocco alla esuberante loro produzione; conviene ora sapere conservare i mercati così faticosamente conquistati, colla bontà dei nostri vini ed insieme colla unità di tipo duratura per una lunga serie di anni.

 

 

Certo agli sforzi per allargare lo smercio dei nostri prodotti all’estero devono corrispondere i conati incessati per accrescerne il consumo da parte delle classi popolari, principalmente nelle pianure dell’Alta Italia e nelle città chiuse; onde la necessità urgente di una diminuzione nell’alto saggio dei dazi, i quali coll’accrescerne il prezzo impediscono ai poveri la compera del vino schietto e favoriscono la confezione di vini adulterati nocivi alla salute dei consumatori.

 

 

Un movimento quasi parallelo a quello del vino ha avuto il tartaro; la esportazione però è sempre andata aumentando con leggere oscillazioni, ad es. nel 1886 e nel 1890 dovute più che ad altro al cattivo raccolto del vino nell’anno precedente. E così fu nel 1862 di 14 migliaia quintali

 

 

1872

21

1882

96

1892

187

 

 

La maggior parte va in Inghilterra e negli Stati Uniti; unico paese in cui la esportazione del tartaro italiano abbia regredito è la Francia a cominciare dal 1888; il dazio differenziale di L. 2,20 al quintale non è stato inefficace. Stazionario invece è il commercio, importante per la Sicilia, del sugo di cedro e di limone soggetto per le vicende del raccolto a periodiche annue oscillazioni.

 

 

Nel 1862

e se esportarono 13 mila quintali

1872

” 30 “

1882

” 29 “

1892

” 26 “

 

 

La esportazione dell’olio d’oliva presente accentuatissimo il fenomeno dell’alternarsi di annate favorevoli dovuto all’essere questo raccolto in genere biennale. Attraverso però a questi alti e bassi si notano distintamente tre periodi dei quali il primo va dal 1862 al 1868, quanto la esportazione era poca; il secondo dal 1869 al 1883 rappresenta il massimo fiore di questa industria, ed il terzo che arriva fino al 1892 è contrassegnato invece da un continuo decadimento.

 

 

In media si esportarono negli anni:

 

 

1862-68

40 mila tonnellate

1869-83

70 ” “

1884-92

48 ” “

 

 

Le cause della forte esportazione del secondo periodo si devono ricercare nell’alto limite a cui erasi spinta la coltivazione dell’olivo per i prezzi rimuneratori, per la crisi granaria che nell’Italia meridionale convertì molti campi in chiudende, pel disboscamento di colline prima appartenenti alle manomorte, per l’accrescersi delle relazioni commerciali dovute all’adozione più o meno compiuta della politica del libero scambio. Ma già fin d’allora i prezzi per l’aumentata produzione e per la concorrenza che sui mercati esteri ci faceva la Spagna, sola nostra competitrice con una esportazione media di oltre 1.600.000 ettolitri, diminuirono continuamente con progressione raramente interrotta (come nell’84 per l’infelice raccolto dell’83) e da 180 lire l’ettolitro nel 1874 scesero a 120 lire nel 1885.

 

 

Si aggiunga la concorrenza degli olii di seme e si spiegherà facilmente come, mancando il tornaconto, si estirpassero gli olivi per piantarvi le viti; solo e parziale rimedio alla crisi olearia sarebbe stato il perfezionamento degli utensili e delle macchine per l’oleificio onde sostituire alla fabbricazione sparsa e costosa dei trappeti famigliari quella concentrata ed economica delle macchine moderne. Ma per essersi la diminuzione dei prezzi inacerbita allora appunto quando si volgeva ad altri scopi l’attività economica dei coltivatori e per la sopravvenuta mancanza delle correnti fecondatrici di capitali stranieri, la cultura dell’ulivo non poté sostenere la concorrenza degli olii di seme e degli olii meridionali esteri, onde diminuiva la esportazione e si facevano vive le istanze dei produttori nazionali per una maggiore protezione sul mercato interno.

 

 

III. Il terzo gruppo (Diagramma IV, V e VI) dei prodotti agrari comprende gli aranci, i bergamotti, i limoni, l’uva, i fichi, la manna, le noci, le carrube, le mandorle, i foraggi ed i legumi. Le due voci più importanti di questa categoria sono gli aranci e l’uva specialmente fresca, che rappresentano le risorse maggiori di una grande parte degli agricoltori italiani.

 

 

Il commercio degli agrumi costituisce uno dei più grandi cespiti di entrate per le provincie di Salerno, Reggio, Palermo, Messina, Siracusa, Girgenti e Trapani. Esso segna un aumento continuo fino al 1887. Per la importanza dell’argomento credo utile riportare le cifre della esportazione di questo prodotto negli ultimi trent’anni:

 

 

1862

458

1878

969

1863

688

1879

994

1864

644

1880

928

1865

692

1881

1280

1866

901

1882

1194

1867

672

1883

1585

1868

714

1884

1732

1869

880

1885

1520

1870

777

1885

1246

1871

887

1886

2296

1872

875

1887

1649

1873

832

1888

1940

1874

704

1890

1903

1875

942

1891

1344

1876

892

1892

1699

1877

969

 

 

Le richieste maggiori di questo nostro prodotto ci sono sempre venute dagli Stati Uniti americani. Da 222 migliaia di quintali nel 1874 la nostra importazione in quello Stato salì nel 1879 a 548, nell’84 a 987, nell’89 a 1104 raggiungendo nel ’90 le 1164 migliaia di quintali.

 

 

Anche l’Inghilterra assorbì una buona parte del prodotto a noi sovrabbondante:

 

 

113 mila quintali nel 1874
174 “ 1879
333 “ 1884
321 “ 1889
296 “ 1892

 

 

L’aumento è notevole fino al 1882; d’allora in poi non vi sono state variazioni notevoli. Un paese che pare destinato ad offrire un largo sbocco agli agrumi italiani e l’Austria che ne ricevette nel

 

 

1874

136 mila quintali

1879

138 “

1881

181 “

1889

301 “

 

 

L’aumento notevolissimo degli ultimi anni è dovuto alla convenzione del 7 dicembre 1887 per cui fu consentita l’esenzione doganale per l’importazione degli agrumi italiani. Anche la Germania ne riceve una più gran quantità ora (46 mila quint. nel ’92) che non prima (24 nel ’75) e potrà accrescere ancora, secondo il signor Randegger,[8] il nostro commercio mediante facilitazioni doganali in modo da compensare la minore esportazione dei prodotti nostri nella Francia e nella Olanda attribuita per le arance alla ognor crescente produzione spaguola.

 

 

Ma il pericolo maggiore che sovrasta alla produzione agrumaria italiana non sta già nella perdita dei vicini mercati europei, ma nella perdita di quello ben più importante degli Stati Uniti. L’esportazione nostra degli agrumi in quel paese che era salita, come già si è detto, a 1164 mila quintali nel ’90, discese nel ’91 a 754 e nel ’92 a 909; diminuzione che a prima vista può parere di non grande importanza, ma che ne acquista una grandissima come sintomo di una ancor più rapida discesa nel nostro commercio. Perché bisogna tener conto della concorrenza attivissima che esercita sul mercato della repubblica nord americana la produzione della California e della Florida. Nella Florida, dice lo Yohnson[9], l’arancio amaro cresceva già da immemorabile età allo stato selvatico ed alcuni dei primi stranieri esploratori lo considerano come una pianta indigena; ma certamente fu portata dagli Spagnuoli nelle isole dell’Est dell’India e quindi fu con ogni probabilità più tardi trapiantata da loro stessi o dai pirati loro nemici.

 

 

Il clima della Florida è mirabilmente adatto alla coltivazione degli aranci e gli aranceti vi crescono in numero ed in estensione. Gli aranci sono grossi e dolci e sono valutati a prezzi molto elevati, secondo il Bolles[10], ed è certo che diverranno una fonte di ricchezza, quando potranno portarsi dovunque sui mercati del Nord.

 

 

Da una acre di terreno con 75 alberi d’aranci si raccolgono da 37,500 a 150 mila aranci a seconda dell’età delle piante[11]. Il raccolto del 1886 è stato di un milione di cassette e d’allora in poi è diventato sempre più grande.

 

 

Ancor più temibile si presenta la concorrenza della California meridionale, non solo per gli agrumi ma anche per l’uva, le frutta e gli olii. La feracità di questa contrada, dice il signor Charles Dudley Warner[12] è tale che dieci acri del suo suolo valgono meglio che 160 negli Stati Uniti orientali. La più grande difficoltà per la California sta in questo che per sei mesi dell’anno dal Maggio al Dicembre non vi piove mai. A cagione di questa periodica siccità nessuna specie di agricoltura vi protrebbe fiorire, ma quello che natura non ha dato, vi è supplito dall’uomo. Si sono formate alcune compagnie le quali da grandi distanze conducono l’acqua per mezzo di canali e dighe e ne cedono a ciascun proprietario la quantità che gli fa bisogno mediante una somma fissa od un canone annuo. Questa irrigazione rende non solo possibili ma facili molte specie di coltivazione e dà all’agricoltore una certezza della sua messe quale non può sperare da alcuna naturale clemenza nel cielo. In tali condizioni non deve fare meraviglia che la California meridionale si sviluppi molto rapidamente. Il villaggio di Redlands che nel 1887 constava di poche casupole, ora ha 2000 abitanti. Nella stagione del 1888/89 il villaggio esportava ottanta vagoni di aranci; ogni vagone rappresenta in media un valore di 1000 dollari. Nella stessa stagione furono piantati più di 1200 acri di aranci. Riverside nel 1880 esportò 15 vagoni di merci, nel 1890 ne esportò 1253. Los Angeles avea nel 1880 una popolazione di 11 mila abitanti, ora ne ha 50 mila. La sua proprietà tassabile che nel 1881 non giungeva agli otto milioni di dollari nel 1889 avea superato i 44 milioni. Alla iniziativa privata corrispose anche l’opera del Governo che fece istituire studi intorno ai metodi migliori di frutticultura adottata nei diversi paesi[13] e stabilì una stazione sperimentale a Berkeley[14]. La produzione di olio del distretto di S. Francisco è salita da 590 galloni nel 1888, a 1142 nel 1889, a 5202 nel 1890, a 11,018 nel 1891. Negli ultimi anni furono spedite colla Southern Pacific Railway segnatamente negli Stati dell’Est, a Chicago, N. York e Boston le seguenti quantità di frutta:

 

 

 

1891

1890

Uva, libbre

36,658,000

27,370,000

Altre frutta fresche

109,368,000

86,578,000

Frutta in scatola

46,334,000

77,738,000

Frutta secche

58,000,000

43,379,000

 

250,360,000

234,965,000

 

 

Il raccolto dell’uva è calcolato approssimativamente per il 1891 a 2 milioni di cassette contro 1 e mezzo milione nel 1890 mentre nel 1884 non era stato che di 125 mila. La California può calcolare sopra una produzione totale di 20 milioni di galloni di vino, di cui quasi 8 sono spediti negli altri Stati. Negli ultimi anni si sono introdotti molti miglioramenti, tanto nella coltivazione della vite quanto nella fabbricazione del vino[15].

 

 

E non basta: la coltivazione dell’arancio, dice il Yohnson, è stata iniziata con successo in molte parti dell’Australia, specialmente nella Nuova Galles del sud, dove gli aranci di Paramatta danno un abbondante consumo alle colonie. Gli aranceti di Queensland e dell’Australia meridionale, sono di una grande produttività, quantunque essi sieno ancora consumati per intiero nell’Australia. In molte isole del Pacifico questa pianta è già coltivata da molto tempo: Thaiti esporta una grande quantità di aranci a S. Francisco ed a Fidji questa coltivazione promette di divenire importantissima[16].

 

 

Nelle statistiche italiane del Movimento commerciale, i limoni sono confusi cogli aranci; a provare l’importanza di questo commercio cogli Stati Uniti farò notare che nell’87 ne arrivarono nel solo porto di Boston 264,833 cassette e nell’88 cassette 263,203 (Bollettino citato 1890, I semestre pag. 79). Anche in Inghilterra, afferma il console Durando, sono preferiti i limoni italiani a quelli spagnuoli per bontà ed abbondanza di sugo. I limoni di Spagna sono piccoli e non possono essere paragonati agli italiani. Secondo il «Giornale della Camera di commercio italiana in Londra» (Luglio-Dicembre 1888, pag. 278) circa 300,000 casse vengono annualmente spedite dalla Sicilia al Regno Unito.

 

 

Fra breve l’Italia sarà in parte esclusa dal nuovo mondo; non le resterà per trovare uno sbocco ai suoi aranci che il tentare di accrescerne lo smercio nel Nord d’Europa; prima condizione per raggiungere questa meta, il mandare della merce ottima e di poco costo tanto da poter diventare oggetto di consumo anche per le classi popolari.

 

 

Dopo quanto è stato detto per gli aranci poco rimane da aggiungere per le altre voci comprese in questa categoria.

 

 

L’esportazione dell’uva secca è di poco conto si limita alle uve passe del Mezzogiorno le quali di rado si preparano da noi a scopo commerciale e non possono competere con quelle di Corinto e della Spagna.

 

 

L’uva fresca che rappresentava una delle maggiori risorse degli agricoltori italiani tende in massima a diminuire; la maggior parte va nella Svizzera ed è destinata poi al confezionamento dei vini, si è creduto però più conveniente da qualche tempo l’esportare i mosti che non le uve. Negli ultimi anni si è però notato un risveglio rimarchevole in questo commercio che da 24 mila quintali nell’89 ascese a 54 mila nel ’90, a 130 nel ’91, a 226 nel ’92; aumento da attribuirsi a maggiore produzione delle regioni esportatrici ed a cresciuta richiesta da parte della Germania, la quale ne assorbe più della metà. È da augurarsi che questo non sia un rigoglio momentaneo e che le relazioni commerciali colla Germania si vadano facendo più strette per lenire i mali della crisi viticola.

 

 

In via generale un aumento si deve anche notare nella esportazione delle noci, nocciuole, fichi secchi, frutta fresche, carrube, mandorle, ove le nazioni straniere difficilmente possono esercitare una concorrenza forte con noi nei mercati settentrionali d’Europa. Aumento notevole si verificò anche per i foraggi e prodotti vegetali diversi, principalmente nel 1891/92 per i pessimi raccolti del fieno in Francia, Olanda e Belgio.

 

 

IV. Da quanto è stato detto riguardo alle singole voci, rimarrebbe ora a trarre qualche conclusione generale. Certo le condizioni dell’esportazione agraria italiana non sono così floride come erano alcuni anni fa sotto l’impulso fittizio delle ricerche da parte del mercato francese, quando anche l’abbondanza dei capitali offerti sul mercato avea spinto ad un alto grado la coltivazione della vite e degli agrumi; gli agricoltori italiani si erano allora troppo facilmente illusi che i subiti guadagni avessero a durare per lungo tempo ed avevano febbrilmente iniziato una trasformazione grandiosa nelle colture agrarie.

 

 

Esempio notevolissimo dell’attività nostra è il Tavoliere delle Puglie che vide trasformati i suoi immensi campi sativi in floridissime vigne.

 

 

Ma purtroppo gli agricoltori italiani scarsi a danaro aveano dovuto, per operare tali portenti, attingere alla fonte ingannatrice ed insidiosa del credito, allettati anche dai buoni patti offerti dalle banche di emissione rivaleggianti per riuscire a collocare tutti i loro biglietti di banca superiori ai veri bisogni di un paese a sviluppo economico imperfetto, come è ora l’Italia.

 

 

Venne la rottura delle relazioni commerciali colla Francia prima, e l’inaridirsi continuo di quasi tutti i principali sbocchi per le nostre produzioni ed i proprietari terrieri, che aveano fatto troppo a fidanza colle future prospere annate, si trovarono dinanzi ad un terribile enigma da risolvere: soddisfare agli impegni assunti col reddito decrescente e qualche volta nullo delle terre faticosamente adattate alle nuove culture.

 

 

Certo è che i rimedi a questo stato di cose sono difficili a concepirsi ed ancora più a tradursi in atto; ad ogni modo si appalesa indispensabile la ricostituzione economica delle aziende agrarie mercé la trasformazione graduale del debito ipotecario in debito fondiario a mite interesse ed a capitale ammortizzabile in lungo periodo di anni.

 

 

Questo per portare un primo sollievo agli agricoltori nostri, i quali però dovranno colle forze loro proprie tenacemente ricercare il loro risorgimento economico senza aspettare la manna governativa. Ed in verità un certo risveglio nel movimento commerciale agricolo si nota già da qualche anno; già ho detto come i viticoltori abbiano saputo ritrovare nuovi sbocchi ai vini ed alle uve italiane nelle regioni settentrionali d’Europa, come il mercato estero per i limoni italiani vada facendosi più largo, come sotto buoni auspici si presenti la esportazione di alcuni prodotti secondari, castagne e frutta in genere; come leggermente, ma pure in qualche misura, tenda ad aumentare anche quella dell’olio. Solo occorre che gli esportatori nostri si persuadano di una cosa; che cioè: «occorre mandare all’estero buona merce, soprattutto nessuna miscela di buona con mediocre e peggio della scadente, persistenza nei tipi e scupolosissima buona fede commerciale». Sono queste parole del console Durando per l’Inghilterra[17].

 

 

Il conte Thaon di Revel ripeteva la stessa cosa per la esportazione dei vini negli Stati Uniti: «Il solo modo per poter lottare vittoriosamente è di perfezionare continuamente la produzione dei nostri vini; di adottare dei tipi e di mantenerli rigorosamente, di soddisfare colla massima premura e col massimo scrupolo le ordinazioni, di mettere salde radici col credito e coll’onestà delle contrattazioni. È un errore grossolano il credere che si possa spacciare facilmente la merce scadente. Ingannati una volta da stranieri, gli americani rifiutarono di avere che fare più a lungo con essi e la disonestà di uno va a danno di molti»[18]. Quando i produttori italiani si fossero assicurati con la bontà della loro merce un largo credito all’estero, non sarebbe certamente per mancare loro la dimanda; prova ne sia la Francia che anche attraverso alla crisi fillosserica ha mantenuta costante la sua esportazione di vini fini.

 

 

Non bisogna dimenticare che la massima parte dei vini che noi mandavamo in Francia , non meritava quasi nemmeno tal nome; ma erano grossolani vini da taglio che servivano agli accorti enologi francesi per confezionare le loro più rinomate marche per l’estero. È necessario che anche noi li seguiamo nella stessa via; alla coltivazione empirica ed affrettata allo scopo di vendere il prodotto greggio bisogna far seguire la lavorazione diligente ed accurata che rende atti i nostri prodotti ad affrontare la concorrenza dei migliori prodotti stranieri; di questo se ne hanno già splendidi esempi in alcune case esportatrici italiane che hanno saputo con vero intuito commerciale, fare accettare e ricercare dai consumatori stranieri le loro merci. È necessario, in poche parole, diventare forti ed agguerriti nella lotta economica; osservatori accurati delle nuove e durature tendenze commerciali; ho detto, durature perché una delle maggiori cause della moderna crisi viticola è stata appunto la foga giovanile con la quale i viticultori, specialmente meridionali, hanno volta tutta la loro attività economica all’unico scopo di produrre una grande quantità di vini purchessia. L’esperienza delle cose ci ha ormai avvertiti che invece val meglio produrre una minore quantità, ma una migliore qualità di derrate.

 

 

Certo ad agevolare queste conquiste dei mercati stranieri da parte dei migliori prodotti italiani, gioverebbe assai una legislazione doganale informata a principi schiettamente liberoscambisti, almeno per quanto riguarda le frutta, gli agrumi ed il vino.

 

 

Già i trattati convenzionali e le tariffe speciali colla Svizzera, Austria e Germania hanno iniziato un ritorno alle antiche massime liberali a cui il Conte di Cavour avea informata la nostra politica commerciale; ed a permettere lieti presagi per l’avvenire si produssero pur ora alcuni fatti sintomatici (come il recente trattato commerciale russo tedesco e la riforma della tariffa Mac Kinley) auguranti una specie di ricorso contro le rigide teorie protezioniste imperanti da troppo lungo tempo in Europa e negli Stati Uniti, se pure lo potrà consentire l’opposizione dei proprietari fondiari e degli industriali attaccati tenacemente a quelle tariffe che sembrano loro assicurare una vita qualunque per quanto artificiale.

 

 



[1] I dati statistici sono tolti dalla pubblicazione del Ministero delle Finanze sul Movimento Commerciale del regno d’Italia dal 1862 al 1892. – Notizie accurate sulle cause dell’annue variazioni del commercio internazionale si trovano pure negli Annali dell’Industria e del Commercio. Commissione centrale dei valori per le dogane 1878-92 e nelle Relazioni sull’Amministrazione delle Gabelle 1883-92.

[2] Atti della Commissione d’Inchiesta per la revisione delle tariffe doganali. Relazione del senatore F. Lampertico. Roma, 1885, p. 325.

[3] Veggasi per la Sicilia uno studio del Salvioli (Contadini e Gabellotti nella regione del latifondo in «Riforma Sociale», 1894, N. 1 – 2), il quale acutamente nota come il corso forzoso al valore reale dei prodotti siciliani aggiungesse un valore fittizio rappresentato dall’aggio sulla moneta metallica spesa nelle piazze marittime dagli stranieri che venivano a comprarli; questo aumento fittizio diede un aumento di prezzo alle derrate; onde la speculazione si riversò su larga scala alla cultura dei cereali, al che contribuirono anche il tifo bovino ed il vaiolo pecorino che nel 1866-67 distrussero gli armenti siciliani, mettendo così in perdita la pastorizia.

[4] «Bollettino di notizie agrarie». Anno VII, 1884, N. 66.

[5] Tolgo dalla citata relazione del Lampertico il seguente specchietto compiendolo per gli ultimi anni: p. 172.

[6] Il Leroy Beaulieu nell’«Economiste francais» del 10 Febbraio 1894 in un articolo intitolato Le mevente des vins calcola la produzione del vino naturale in Francia nel 1893 a 50,070,000 ettolitri a cui aggiungendo l’eccedenza sull’esportazione, il vino di uva secca di zucchero si arriva a 57,114,000 ettol. offerti al consumo; da ciò in certe regioni, sopratutto nel Sud Est una crisi viticola così acuta come in Italia, ed impossibilità assoluta «de se debarasser de cette denree, à quelque prix que ce soit».

[7] Il signor Ringelmann però, inviato del governo francese all’esposizione di Chicago, afferma nella sua relazione, che riguardo alla coltura della vite… non bisogni troppo impaurirsi della concorrenza che può fare la California. In quest’ultimo paese, non ostante il suo clima incomparabile, i vigneti non occupano che 80 mila ettari; cioè l’estensione che occupano i vigneti di un dipartimento medio francese. Secondo il signor Ringelmann, la cultura della vite è stata una delusione per la California. I ceppi francesi, trasportati là, non hanno prodotto che dei vini ordinari. Inoltre i vigneti californiani sono infestati non solo alla fillossera, ma anche da altre malattie.

[8] Randegger, La questione degli agrumi p. 25.

[9] Nella Cyclopaedia Britannica IV edizione 1884, la voce Orange di C.E. Yohnson.

[10] Industrial History of the United States IV edizione 1878, Cincinnati, pag. 180-81.

[11] Bollettino di legislazione e statistica doganale e commerciale, 1884. I, pag. 145. Cenni sulla concorrenza americana, ricavati dall’opera del dottor R. Meyer, Ursachen der amerikanischen Concurrenz.

[12] In un articolo pubblicato nello «Harper’s Monthly Magazine», Gennaio 91 e riassunto nella Minerva di Gennaio, ’91.

[13] Ne risultò una pubblicazione in due volumi intitolata: Fruit culture in foreign countries. Reports, from the consuls of the United States. Washington, 1890.

[14] Vedi il Report of the viticultural work during the seasons 1887-89 Part. I Red wine grapes. Sacramento: Staten office 1892 compilato, sotto la direzione di E.W. Hilgard direttore della stazione di Berkeley, dal signor L. Paparelli.

[15] Il The World Almanac Pulitzer, New York del 1894 a pag. 195 riferisce le seguenti cifre riguardo alla produzione ed alla importazione (dall’Europa) degli aranci negli Stati Uniti

 

 

Anni

Florida

California

Cassette Importate

1885

900.000

160.000

1.044.012

1886

1.250.000

300.000

935.925

1887

1.450.000

545.500

1.240.706

1888

1.900.000

780.640

1.180.500

1889

2.150.000

1.036.240

950.000

1890

2.460.000

1.300.000

980.760

1891

3.750.000

1.000.000

1.158.890

1892

3.450.000

2.000.000

650.820

1893

4.500.000

2.500.000

847.227

 

[16] Se la esportazione degli aranci pare destinata a diminuire, non così quella dei limoni, per i quali le condizioni telluriche ed atmosferiche del nuovo mondo non sono adatte. Ecco quello che ci dice a questo proposito il conte Thaon di Revel in un suo studio sul commercio degli agrumi in Boston (pubblicato nel Bollettino del Ministero degli affari esteri, 1889, secondo semestre, pag. 903): «Mentre la coltivazione degli aranci in Florida dà ottimi risultati, non così è per quella dei limoni, stante i geli assai forti che accadono colà tratto tratto e che danneggiano l’albero assai sensibile al freddo. I geli di due o tre inverni danneggiarono assai molte piante di limoni e quindi il frutto nell’anno passato fu scarso. Si spera che il raccolto dei limoni quest’anno sarà migliore, ma oramai si rimane persuasi che sarà impossibile portare la coltivazione dei limoni allo stesso grado degli aranci. In riguardo alla qualità, cinque anni di dimora in questo paese mi hanno persuaso che i limoni nostri sono di molto superiori per ricchezza di succo, per profumo; quantunque all’apparenza esterna quelli della Florida sembrino più belli e più grossi».

[17] Bollettino del Ministero degli affari esteri. 1890, II, pag. 258.

[18] Bollettino citato, 1890, I, pag. 7

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