Opera Omnia Luigi Einaudi

La finanza empirica

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/01/1901

La finanza empirica

«La Stampa» 2 gennaio 1901

Per la giustizia tributaria, Torino-Roma, Roux e Viarengo, s. d. [1901], pp. 15-24

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)[1], Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 259-263

 

 

 

 

A due schiatte principali appartengono gli uomini che reggono la finanza pubblica.

 

 

Vi sono coloro che non ignorano le leggi regolatrici dell’incremento e della diminuzione del gettito delle imposte; che sanno come la giustizia e la equità debbano presiedere alla distribuzione dei carichi governativi e si inspirano a concetti ragionati e sistematici quando intendono modificare un regime tributario esistente.

 

 

Di fronte a questi, che sono scherniti come ideologi, stanno i finanzieri empirici, la cui gloria massima è di non lasciarsi mai guidare da alcun principio e di uniformare la propria azione unicamente alle necessità del momento. Essi abbandonano un tributo che è fonte di proventi cospicui per l’erario quando l’abbandonarlo può dare la vittoria al partito od al ministero a cui sono aggregati. Essi trovano sempre nuovi nomi per far passare come ottime le loro merci avariate dinanzi gli occhi attoniti della gente inesperta; alzano ed abbassano le aliquote; fanno scomparire un’imposta cattiva ed odiata per crearne una nuova sovra la quale l’odio popolare non ha ancora avuto tempo di accumularsi. Genialissimi nel trovare sempre nuovi spedienti per tirare innanzi senza far gittare strida troppo alte ai contribuenti, i finanzieri empirici sanno fare a meraviglia il gioco dei bussolotti: trasformano i disavanzi in avanzi, i debiti in crediti, le spese in accrescimenti di patrimonio. Quando la gente si insospettisce pel crescere delle spese, essi inventano la categoria delle spese straordinarie; e quando anche queste diventano, per la loro continuata presenza, fastidiose a tutti, tentano di far accettare nuovi dispendii, gabellandoli per ultra-straordinari. Se il gran libro del debito pubblico minaccia di schiacciare col suo pondo la nazione, i finanzieri empirici creano molti altri piccoli libri, di razza e titolo svariati, con cui si possono contrarre novelli debiti in nulla differenti dall’antico fuorché nell’essere, perché nuovi ed insoliti, meno accetti ai capitalisti e più onerosi allo Stato.

 

 

Tale la schiatta dei finanzieri empirici che sono applauditi in vita perché sanno tosare la pecora senza arrecarle troppo dolore, perché son servizievoli coi ministri, coi deputati e coi grandi elettori, e perché hanno appreso l’arte di contentar tutti, trasportando or qua or là l’onere delle imposte e, – quando non è possibile alcun trasporto perché tutti son già eccessivamente gravati, – facendo dei debiti al cui pagamento dovranno pensare i posteri.

 

 

Di tal razza di finanzieri son piene cotanto le cronache che sarebbe davvero inutile discorrere su un punto che già tutti conoscono a maraviglia. Ciò che noi vogliamo oggi dire si è che urge liberare il nostro paese da tal setta, se pure si vuol avere speranza di risorgere.

 

 

Anche stavolta l’Inghilterra dopo il 1815 ci dimostra che la vera risurrezione finanziaria, l’età dell’oro del bilancio di uno stato, non può aver inizio se non quando si abbandonino i metodi empirici e si accolgano quelle norme semplici e chiare di giustizia che sono il frutto della scienza e dell’esperienza dei paesi civili.

 

 

I lettori della «Stampa» conoscono diggià, per averla noi esposta qui alcune settimane or sono, la miseranda situazione del contribuente anglo-sassone al chiudersi delle guerre napoleoniche.

 

 

Altissime erano le sue lagnanze e nessun gabinetto avrebbe potuto far mostra di non ascoltarle, sotto pena di cadere dal potere.

 

 

Fu forza dunque lo ascoltarle. Una dopo l’altra le imposte più odiose caddero. Prima fra tutte l’allora odiata imposta sul reddito, che ad ogni buon britanno sembrava una violazione dei principii sanciti nella Magna charta; ed essa fruttava 350 milioni di lire. Caddero anche il dazio addizionale di guerra sulla birra, che rendeva quasi 70 milioni; il dazio sul sale, sul cuoio, ecc., con perdite gravissime per l’erario.

 

 

I finanzieri, allibiti, non sapevano resistere al furore del popolo, che esigeva un’ecatombe delle imposte vessatrici.

 

 

Come si provvide ad evitare la disorganizzazione dell’equilibrio del bilancio?

 

 

In parte si provvide con una politica di tagli altrettanto feroci nelle spese quanto erano stati profondi i tagli nelle entrate. In un solo anno (1817) il bilancio della guerra è ridotto di 100 milioni ed ulteriori riduzioni vi si apportano in seguito sì da ridurlo da 400 milioni nel 1816 a 250 nel 1830. Si preferisce rimanere senza scuole, senza strade, senza igiene, senza ministeri e senza impiegati pur di non pagare le imposte di guerra. Si riducono gli stipendi e si aboliscono le pensioni cosidette graziose.

 

 

Questa non fu finanza empirica. Fu una finanza di soldati coraggiosi, che per salvare la economia nazionale non dubitano di incorrere nel malvolere dei grandi corpi organizzati dello stato. Fu la finanza che si impone nei momenti supremi; quella che adoprò Quintino Sella in Italia ad eterno suo vanto.

 

 

Ma ciò non bastava a mantenere il pareggio. Per quanto falcidiate, le spese erano sempre superiori alle entrate. Ed allora intervengono gli empirici, che inventano imposte nuove, non ancora odiose ai contribuenti, per sostituire le imposte vecchie abolite. L’empirico inglese di quei tempi fu Vansittart, un eroe dell’equilibrismo finanziario a base di giuoco di bussolotti. Abolisce le imposte di guerra ed aumenta quella sul sapone, sul tabacco, sul tè, sul pepe, ecc. Continua a far finta di pagare i debiti vecchi che giungono a scadenza ed intanto crea sempre nuovi debiti. Quando il consolidato si scredita, inventa un nuovo tipo di debito, che intitola navale. Nel 1822 non può più andare avanti, ed allora tenta di fare un enorme pasticcio sulle pensioni, offrendo ai pensionati dei titoli di rendita che essi avrebbero potuto vendere, e che aumentavano il debito futuro dello stato, pure scemandone il gravame momentaneo. I pensionati non ne vollero sapere, ed egli dovette andarsene dal ministero, lasciando le finanze dissestate.

 

 

I suoi successori continuano ad abolire sotto la pressione popolare, le imposte vecchie, tirando avanti a furia di economie e di operazioni finanziarie, aiutati anche in parte dal risorgimento economico del paese, che faceva aumentare spontaneamente il gettito delle imposte.

 

 

Ma non si può andare innanzi all’infinito coll’abolire imposte, senza giungere ad un punto in cui la nave fa acqua. Fra il 1830 ed il 1834 si abolirono imposte per circa 175 milioni di lire, profittando di una momentanea prosperità dell’economia pubblica.

 

 

Era forse una necessità politica abolire le imposte contro cui si appuntava più fieramente l’ira popolare. Era l’epoca in cui il suffragio era stato allargato, e cominciava ad acquistar piede l’agitazione chartista, che voleva il suffragio universale, un reggimento democratico, e temevasi avesse anche degli ideali repubblicani. Un finanziere ideologo – e non mancavano allora in Inghilterra gli ideologi che, come sir Henry Parnell, si facevano banditori di ottime riforme finanziarie – avrebbe proposto di abolire quelle imposte che maggiormente comprimevano lo sviluppo della privata ricchezza, fornendo nel tempo stesso allo stato i mezzi opportuni per fronteggiare gli eventuali disavanzi.

 

 

Ma ad attuare cotali riforme era d’uopo avere un coraggio, che agli empirici è mancato sempre: il coraggio di resistere ai clamori della piazza, i cui desiderii sono spesso irragionevoli, ed il coraggio di imporsi agli interessi privati, favoriti dal regime tributario e doganale esistente. Era d’uopo abolire da un lato le corn laws (leggi di protezione dei cereali) senza curarsi delle alte strida delle classi alte, ed imporre novamente l’income tax (imposta sul reddito), superando le avversioni delle classi medie.

 

 

Questo coraggio non lo si ebbe in quei tempi; si abolivano le imposte, come si disse, per dare una soddisfazione ai contribuenti; né le abolizioni erano compiute in guisa da riuscire le più vantaggiose all’economia pubblica, né l’erario era posto in grado di sopperire altrimenti alle disastrose conseguenze di una politica tributaria fatta di concessioni forzate e di pentimenti vani.

 

 

Accadeva allora in Inghilterra qualcosa di simile a quanto avvenne in Italia quando la sinistra, per ingraziarsi le masse, abolì l’imposta del macinato. In Italia l’erario perdette un’ottantina di milioni – che oggi sarebbero più di cento – all’anno; il disavanzo crebbe ed aumentarono i debiti, e si finì col creare un’imposta – il dazio sul grano – ben più gravosa ed iniqua e meno fruttifera per lo stato di quanto non fosse l’abborrito macinato.

 

 

Anche allora in Inghilterra la medesima politica empirica produceva i medesimi effetti. Non sono tarde infatti a manifestarsi le conseguenze delle concessioni ai clamori pubblici, fatte inconsideratamente, senza pensare ai mezzi di riparare agli eventuali disavanzi. Nel 1837-38 si manifesta un deficit di 38 milioni di lire, che si ripete nei due anni successivi. Nel

1840-41 il deficit sale a 44 milioni.

 

 

Allora sorge un altro empirico: Francis Baring, che, deputato, aveva predicato bene contro i metodi di Vansittart, e, ministro, ne fu il degno emulo, simile in ciò a tanti ministri del tesoro che si sono succeduti in

Italia.

 

 

Per colmare il deficit egli ricorre al vecchio sistema di aumentare le aliquote, ed impone un 5% addizionale sui dazi doganali, un 5% in più sulle imposte di fabbricazione; accresce di 4 pence per gallone l’imposta sullo spirito; aumenta del 10% le imposte dirette, e procede ad una revisione straordinaria dei redditi dei fabbricati e delle altre imposte dirette. Egli si illudeva di poter così avere un maggiore introito di circa 50 milioni di lire.

 

 

Accadde allora ciò che era facile prevedere. L’incremento delle imposte fece aumentare il prezzo delle merci e diminuirne il consumo. L’erario introitò di più per ogni gallone di spirito; ma i galloni consumati scemarono di numero. Il ministro aveva presentato un bilancio in pareggio, facendo a fidanza sull’effetto dei suoi provvedimenti tributari; invece il consuntivo dell’anno 1841-42 segna un deficit di 62 milioni e mezzo di lire. A questo punto l’era della finanza empirica si chiudeva e si apriva il periodo della riforma finanziaria, che fa la gloria dell’Inghilterra moderna.

 

 



[1] Con il titolo Per la giustizia tributaria II.[ndr]

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