Opera Omnia Luigi Einaudi

La introduzione e la abolizione del controllo dei cambi esteri in Austria (1931-1934)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1937

La introduzione e la abolizione del controllo dei cambi esteri in Austria (1931-1934)

«Rivista di storia economica», dicembre 1937, pp. 312-322

 

 

 

La memoria del Dr. Oskar Morgenstern, professore nella Università di Vienna, direttore dell’Istituto austriaco per gli studi sui cicli economici e redattore della Zeitschrift fur Nationalokonomie, fu già pubblicata nel quaderno dell’ottobre 1937 di International Conciliation bollettino mensile della Fondazione Carnegie. Ma l’autore volle integrare per la nostra rivista quello studio con nuove considerazioni, sì da raddoppiarne la mole e farne cosa praticamente nuova.

 

 

Di che gli sono grato, perché mi ha consentito di offrire ai lettori della rivista una scrittura che reputo modello di quel che dovrebbe essere la narrazione storico – critica degli avvenimenti economici. Non monta che i fatti studiati dal Morgenstern, riferendosi ad anni vicini a noi (1931 – 1934), siano storia recente. Il metodo è uguale per tempi antichi e per tempi moderni. La difficoltà di appurare i fatti è talvolta, non sempre, più grande per epoche remote che per quelle attuali; ma per amendue le epoche teoria e storia falliscono medesimamente per difetto del criterio di interpretazione dei fatti. Il difetto ha nome comunemente di «oggettività». La quale è virtù stupenda, finché lo studioso restando sulla soglia della storia, è occupato ancora nella constatazione dei fatti. Nessuna cura è superflua per giungere a conoscere esattamente i fatti, tutti i fatti rilevanti. Naturalmente, è impossibile scegliere i pochi fatti rilevanti tra i milioni di fatti accaduti se non si è armati di un qualche strumento di scelta, ossia di una ipotesi o teoria o premessa; ma si può ammettere che lo studioso conosca parecchie teorie o premesse o ipotesi e colla loro scorta imparzialmente appuri i fatti i quali potranno poi essere interpretati al lume di quelle teorie.

 

 

Non si può certo far rendere molto ad una ipotesi di scarsa consistenza logica; ed i fatti trascelti sulla base di essa avranno un significato dubbio. Lo studioso, mero ricercatore di fatti, non ci ha colpa. Egli non vuole essere uno storico pieno; è quel che gli storici di professione chiamano, a quanto parmi capire, un «filologo»; ed il suo compito, degnissimo, è esaurito quando ha accertato i fatti, li ha sottoposti al vaglio della critica per separare i certi dai falsi e dai semplicemente verosimili, li ha esposti nella loro sequenza cronologica ed ha messo il lettore in condizione di poter capire quel che è accaduto. Qui comincia il bello. I lettori hanno la brutta abitudine di voler capire i racconti che ad essi si fanno.

 

 

Vogliono una spiegazione. Non basta raccontare che nel tal anno vennero al pettine certi nodi in Austria, una certa banca, la Credit Anstalt, si trovò in imbarazzi, il governo ritenne opportuno o necessario intervenire, e, non bastando sussidi o moratorie, dovette vincolare il movimento dei capitali fra l’Austria ed i paesi esteri ed alla fine decidersi ad istituire il monopolio dei cambi esteri, con le sue naturali conseguenze della limitazione alle importazioni, dei contingentamenti e della distribuzione delle divise d’autorità. Questa è la solita filastrocca degli avvenimenti che si sono succeduti in tutti i paesi nei quali si è cominciato dal poco, dal pochissimo di un salvataggio bancario e si è finiti coll’assoggettamento totale dell’economia del paese ai dettami di una autorità centrale.

 

 

Un’ipotesi, che fu e forse è ancora di gran moda, spiega i fatti introducendo il fattore «fato» o «necessità». Non si poteva fare altrimenti; se non si introduceva il controllo dei cambi con tutta la sequela, nasceva il finimondo, il paese rimaneva del tutto privo di riserva aurea, il commercio internazionale avrebbe dovuto cessare del tutto; i capitali sarebbero tutti fuggiti all’estero. Di fronte allo stato di necessità non valgono quelli che, pur essendo esposti dagli economisti sotto forma di proposizioni ipotetiche, si suppone volgarmente siano invece comandamenti da osservare sotto pena di infiniti malanni. Non vale addurre l’esempio dei paesi, nei quali non si ricorse al controllo dei cambi; ché ivi le circostanze erano diverse: gente ricca sfondata, con immensi tesori aurei; e tuttavia anche in quei paesi nacquero guai e o si lasciò andare la moneta alla deriva od i cambi dovettero essere controllati, forse in modo diverso dal monopolio governativo, con ingerenze statali d’altro tipo: fondi di stabilizzazione, manovre bancarie sapienti, di cui non si vede ancora il termine.

 

 

Nel saggio del Morgenstern è notabile sovratutto la pacata descrizione dell’esperienza di un paese il quale, fattosi persuaso di quel tale stato di necessità o fato o comandamento di dio, introdusse il monopolio statale dei cambi; ma poi, fattosi ugualmente persuaso delle dimostrazioni e dei dati raccolti divulgati spiegati dagli economisti, lo abolì e ritornò alla libertà dei cambi. Vi ritornò, notisi bene, senza preoccuparsi di quel che avrebbero fatto gli altri stati, senza stipulare nessun trattato monetario con nessuno; vi ritornò spontaneamente, da solo, correndo tutti i rischi di quel ritorno.

 

 

L’Austria abolì il controllo dei cambi fidandosi delle dimostrazioni di certi poveri visionari chiamati economisti, i quali assicuravano il governo del proprio paese che in conseguenza del gran salto non sarebbe successo nulla che non fosse di vantaggio al paese stesso. Da che mondo è mondo, quando gli economisti tentarono di dimostrare che una certa cosa, se è vantaggiosa, si può fare senza preoccuparsi menomamente di quel che faranno gli altri stati; quando predicarono, ad esempio, tra il 1840 ed il 1860, che un paese poteva abolire per conto suo i dazi doganali protettivi, aprendo le proprie frontiere alla inondazione dei prodotti esteri, senza informarsi preventivamente di quel che avrebbero fatto gli altri stati, rassegnato a vedersi sbattere in faccia con maggiore fracasso le porte straniere dinnanzi alle proprie esportazioni, quasi sempre i disgraziati ebbero la peggio.

 

 

Ci volle il miracolo di tre economisti al governo: Sir Robert Peel, Napoleone Terzo (fantastico uomo, ma uomo colto) e Camillo di Cavour, perché una volta tanto si facesse qualcosa con o senza accordi preventivi internazionali, cogliendo momenti di crisi, di disavanzi e di gravi preoccupazioni per osare riforme liberatrici in apparenza rischiosissime.

 

 

Siccome, tra gli avvenimenti verosimili non ha frequentemente luogo il caso di economisti i quali siano anche, per accidente, uomini di governo, gli stati seguono invece il consiglio della prudenza: nelle faccende che toccano i rapporti internazionali, innanzi di decidersi ad una azione rischiosa cercano di premunirsi con trattati od accordi contro il pericolo di essere lasciati soli. Del che si vede oggi un esempio calzante nelle cose monetarie; nessuno dei paesi decidendosi a far nulla prima di sapere che cosa siano disposti a fare gli altri.

 

 

Frattanto, lo squilibrio e l’incertezza che travagliano il mondo si aggravano e periodicamente provocano e provocheranno a ripetizione ognor più frequente crisi di interruzione e di collasso nell’attività economica. L’accordo tripartito fra l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Francia non ha impedito che il franco francese andasse alla deriva; non impedisce il perpetuarsi di sospetti di sopraffazione fra dollaro e sterlina; non vieta le pazze fughe dei capitali impauriti (la cosidetta hot money) di qua e di là dell’Atlantico; eccita a provvedimenti di difesa contro l’importazione dei capitali stranieri, un tempo desideratissimi ed oggi, non senza qualche ragione, più che la peste bubbonica temutissimi. Nell’attesa di un accordo che verrà in un futuro non si sa quanto lontano, il mondo resta diviso fra coloro che hanno paura di ricevere in casa l’oro fuggiasco e paesi i quali sarebbero disposti ad utilizzarlo, ma non possono, perché i capitalisti non hanno fiducia nella loro stabilità politica ed economica.

 

 

L’esempio dell’Austria dimostra che il problema monetario è per gran parte – io sono convinto che esso è tale intieramente, ma voglio lasciare, per scrupolo scientifico, un margine al dubbio – un affare interno. Gli altri stati, il mondo esteriore, i finanzieri internazionali, la speculazione delle grandi borse, bianche nere rosse o gialle, non c’entrano. Se lo stato, per conto suo, ha il bilancio in ordine, se non ricorre all’istituto di emissione per anticipazioni in biglietti; se le banche ordinarie fanno il loro mestiere di banca e non quello, ben diverso, di speculatori in terreni case azioni; se, facendo altri mestieri, la loro ricostruzione ha luogo a spese esclusive degli azionisti e dei depositanti; se la banca di emissione fa bene il suo unico mestiere che è quello di far buon governo dei biglietti, rifiutandosi ad emetterne né più né meno di quei tanti che l’esperienza insegna potersi rimborsare a vista alla pari dei cambi in moneta metallica; se essa non oppone nessuna difficoltà a chi, senza dirne le ragioni, chiede il cambio in oro dei biglietti; perché la pari dei cambi dovrebbe essere perduta? perché il paese dovrebbe rimanere privo di quella quantità di riserva aurea che gli è bisognevole? Se sono soddisfatte le poche ovvie notissime condizioni all’uopo richieste e sopra elencate o se, essendo esse state violate, si ha cura di ristabilirle gradualmente, sono fantasmi privi di ogni consistenza logica i timori di non poter pagare le merci acquistate all’estero, di rimanere privi di divise pregiate, di veder uscire tutto l’oro ecc. ecc.

 

 

Il pericolo esiste solo quando si violino alcune delle condizioni richieste. Suppongasi che in un dato paese il biglietto si cambi in oro alla pari dei cambi – 4 scellini austriaci contro 1 dollaro -; e ciò accada quando la Banca di emissione ha emesso 1 miliardo di scellini carta e contro questo suo debito, unica partita, per ipotesi, al passivo del suo bilancio, possiede ed iscrive nell’attivo del bilancio una riserva di 400 milioni di scellini – oro ed un portafoglio di 600 milioni di scellini – carta per sconti commerciali, anticipazioni, titoli, ecc. Suppongasi che la bilancia dei pagamenti risulti in un dato anno sfavorevole al paese; sicché occorra pagare all’estero un saldo di 100 milioni di scellini – oro[1]. I debitori dei 100 milioni, posseggono gli scellini – carta richiesti al pagamento e li recano all’istituto di emissione chiedendo il controvalore – oro.

 

 

Se l’istituto li dà e ritira i 100 milioni – carta, non succede niente per quanto ha tratto al mantenimento della pari dei cambi. L’istituto il quale prima possedeva 400 milioni di riserva aurea e 600 milioni di portafoglio contro 1.000 milioni di debito per biglietti emessi, ora possiede 300 riserva più 600 portafoglio contro 900 debito per biglietti; ed è, per conto suo, in una botte di ferro. Il paese si trova un po’ allo stretto, dovendo provvedere al giro degli affari con 900 milioni soli di biglietti. Ma è uno stretto salutare, il quale obbliga i nazionali a meditare sulle cose loro: se il raccolto è stato cattivo e si dovettero spedire all’estero 100 milioni per comprarsi il pane, quegli stessi 100 milioni non si possono usare ad altro scopo; se si vollero acquistare materie prime in copia per la speranza di lavorarle e guadagnarci su, non si possono quegli stessi 100 milioni impiegare per costruire case, consumar panettoni e far viaggi di piacere.

 

 

Occorre restringersi da qualche parte; ed occorre che i prezzi interni di qualche merce o di molte merci ribassino alquanto per mancanza del numerario occorrente all’acquisto. Ed ecco aperta la via al riequilibramento: un po’ per volta, spinte sponte, i prezzi interni ribassando, ed aumentando un po’ i prezzi esteri per l’afflusso all’estero di quei tali 100 milioni spediti fuori, la convenienza ad acquistare all’estero e quindi ad importare scemerà, e crescerà la convenienza di esportare le merci nazionali divenute relativamente a buon mercato. A poco a poco, un po’ dell’oro mandato via ritornerà; un po’ diminuirà la domanda degli sconti per il minore interesse a produrre merci ribassate di prezzo; sicché, dopo qualche tempo, il bilancio dell’istituto di emissione segnerà: all’attivo 380 milioni di scellini – oro più 580 milioni di portafoglio, totale 960 milioni, ed al passivo 960 milioni di biglietti in circolazione. La banca è sempre nella solita botte di ferro ed il paese, digerito il fabbisogno straordinario di merce estera, si è messo su un piede di lavoro solido. Purtroppo, i dirigenti delle cose bancarie, quando capita che le riserve degli istituti di emissione scendano da 400 a 300 milioni di scellini – oro si mettono le mani nei capelli, quasi stesse per arrivare il finimondo.

 

 

Ribasso dei prezzi? rischi di disoccupazione? ohibò! ciò non fia. I biglietti non devono far difetto al paese, non deve mancare all’attività economica l’alimento indispensabile monetario. è una disgrazia che il paese sia stato privato dei 100 milioni di scellini – oro prima posseduti; almeno non depauperiamolo dei 100 milioni di biglietti indispensabili alla sua normale attività. L’istituto di emissione, il quale aveva ritirato, contro 100 milioni di scellini – oro, 100 milioni di biglietti, è spinto a «riemetterli», il che vuol dire a darli ad industriali e commercianti contro cambiali.

 

 

Il paese, il quale aveva dovuto comprare, per sua disgrazia, frumento estero o, per speranza di guadagno, materie prime estere in maggior copia del solito, si persuade così stravagantemente di potere attendere alle altre sue faccende nella maniera solita. è pura illusione; perché i 100 milioni di biglietti sono carta, carta qualunque e non merci e non strumenti di produzione e non forza muscolare. Accade bensì che l’istituto di emissione ha tornato a portare al passivo 1.000 di debito per biglietti in circolazione ed ha all’attivo 300 milioni di riserva aurea e 700 milioni di portafoglio.

 

 

In apparenza è sempre in una botte di ferro. In realtà è sul falso. Quei 100 milioni di sconti in più (700 invece che 600) non ebbero origine da un effettivo aumento di capacità produttiva del paese; uomini, macchine, terre, case, piroscafi, ecc. sono gli stessi di prima, la sola differenza essendo che gli uomini dopo aver speso 100 milioni in acquistare frumento o balle di cotone all’estero, si immaginano di non aver soltanto i 900 logicamente residui in confronto ai 1.000 che avevano prima, ma ancora tutti 1.000; e fanno acquisti in relazione a 1.000. Quindi i prezzi all’interno non ribassano e forse rialzano. Non conviene o non si può esportare merce cara; epperciò le esportazioni languono. Se la bilancia dei pagamenti era ieri passiva, non c’è ragione oggi vada a posto o diventi attiva.

 

 

Nell’anno nuovo bisognerà mandare all’estero altri 100 o 50 o 20 milioni di scellini – oro per saldare i conti. Si impongono nuove iniezioni di carta per sostenere il mercato. Il paese è avviato fatalmente al corso forzoso, al controllo dei cambi, all’aumento dei costi, ossia – trattasi di sinonimi – all’abbassamento del tenor di vita della popolazione. Tutti parlano del problema dell’oro; nascono fughe; si farneticano cause misteriose. Non c’è nessun mistero. Si è voluto fare il passo più lungo della gamba; ed il risultato non muta da secoli: fa d’uopo battere sulla pubblica piazza il sedere sulla pietra dei decotti.

 

 

Il Morgenstern dimostra che le difficoltà monetarie austriache nascevano dalla contraddizione insanabile fra la pretesa di tenere lo scellino – carta ad un valore ufficiale in peso d’oro (o in divise estere) superiore a quello che era il suo vero valore di mercato e quella di importare, produrre ed esportare come se l’unità monetaria fosse liberamente negoziabile al suo valore effettivo di mercato.

 

 

Se di scellini – carta ce ne sono tanti che 6 di essi equivalgono effettivamente in libera negoziazione, ad ipotesi, ad 1 dollaro – oro – supponiamo che esista, come un tempo esisteva, il dollaro – oro – è vano fissare legalmente il rapporto a 4 scellini contro 1 dollaro. Chi fissò il rapporto al livello più favorevole è certo animato da ottimi sentimenti; ma se il sentimento urta con la logica, questa finisce col prevalere. La fissazione del livello 4 invece che 6 non muta i prezzi forestieri delle merci importate ed esportate.

 

 

Se l’unità di merce valeva 1 dollaro – oro, il prezzo rimane 1 sia che il cambio austriaco sia 4 o 6. Quindi l’importatore che acquista l’unità di merce al prezzo di 1 dollaro – oro e può sdebitarsi versando 4 scellini austriaci all’Istituto di emissione o dei cambi, il quale penserà lui a versare il dollaro, ha interesse ad importare molta merce, perché la può vendere all’interno al prezzo conveniente di soli 4 scellini.

 

 

L’Istituto cambi è fastidito da domande di dollari ed offerte di scellini per quantità crescenti ed impreviste. Inversamente, l’esportatore dalla merce venduta all’estero ricava pur sempre 1 dollaro; ma quando egli lo reca all’Istituto cambi, come la legge gli impone di fare, riceve solo 4 scellini. Pochi, egli pensa; e non coprono i costi o non lasciano margine. Perciò egli non esporta o esporta sempre meno.

 

 

L’Istituto cambi deve risolvere il problema della quadratura del circolo; contro i pochi dollari che riceve per merci esportate dovrebbe dare molti dollari per merci importate. Naturalmente, l’Istituto si difende, come può: chiama a raccolta gli industriali ed i commercianti e dice: ecco i miei pochi dollari; bisogna razionarli e ripartirli equamente fra voi. E quelli rissano e si accoltellano, con grave scandalo del Dott. Kienboch, il governatore dell’Istituto di emissione di cui parla Morgenstern. Peggio: le merci, contingentate, si rarefanno sul mercato interno e rincarano. Chi non riuscì a procurarsi, per contingente legale, i dollari utili a comperare materie prime, cerca di procurarseli sottomano da chi ne ha ricevuti troppi o preferisce lavorar oggi meno di quanto facesse nell’anno (suppongasi 1929 o 1930) che servì di base alla ripartizione della esistente provvista di cambi.

 

 

Il prezzo corrente, risaputo ufficiosamente, ma ignorato ufficialmente, del dollaro utile a comprare all’estero lana, cotone, pelli, ferro, carbone sale da 4 scellini a 6, ad 8, forse a 10 scellini. Le materie prime estere aumentano di prezzo e, per simpatia, fanno altrettanto quelle nazionali. I costi di produzione salgono; e gli esportatori diventano sempre meno capaci ad esportare prodotti finiti su quei benedetti mercati esteri, su cui essi si ostinano a valere 1 dollaro; che, portato agli sportelli dell’Istituto cambi, è mutato nei soliti 4 scellini. Gli esportatori si lagnano di non poter vendere; l’Istituto preme perché si venda.

 

 

La via di uscita si trova o con premi di esportazione o consentendo all’esportatore di tener per sé tutti o parte dei dollari ottenuti dalle vendite all’estero e di venderli a trattative private a 6, a 8 ed a 10 scellini l’uno.

 

 

A questo punto, il sistema del controllo dei cambi, più non funziona; e intervengono gli economisti della scuola viennese (nuova generazione) a spiegare che sono inutili i palliativi, che ogni rimedio empirico, ogni ulteriore vincolo è vano sinché non si scopra il vero valore effettivo dello scellino. Questo è il punto ed è il solo essenziale. Se il valore, che poi vuol dire rapporto fra scellino – carta e grammo d’oro, ovvero tra scellino – carta e dollaro – oro è di 1 dollaro contro 6 scellini, occorre rassegnarsi e riconoscerlo legalmente. Ma fatto ciò, non occorre altro. Le cose si aggiustano da sé. Il controllo può essere abolito. Anzi bisogna abolirlo.

 

 

Al cambio di 1 a 6, l’importatore si raziona da sé, automaticamente, perché acquistano merci estere al prezzo corrente di 1 dollaro per unità solo coloro che hanno interesse a pagare 6 scellini; ed anche costoro comprano solo se non le trovano in paese ad un prezzo minore. Al cambio medesimo l’esportatore è incoraggiato, perché, vendendo ad 1 dollaro, incassa 6 scellini, i quali rimunerano convenientemente le sue fatiche.

 

 

In sostanza, l’ufficio degli economisti viennesi fu unicamente quello di ripetere con infinite varianti la dimostrazione della verità elementare che l’unico cambio stabile è quello corrispondente alla realtà dei fatti; ed i fatti sono i costi e i prezzi quali vengono fuori dalle contrattazioni degli interessati in un mercato nel quale si fanno molte contrattazioni. Non fu agevole cosa appurare i fatti atti a persuadere l’opinione pubblica, della quale il dott. Kienboch, governatore dell’Istituto di emissione, giustamente voleva avere il consenso prima di decidersi a quella abolizione del controllo dei cambi della cui convenienza egli era arciconvinto. In un paese a cambi controllati quali sono invero i prezzi effettivi? Come si calcolano? Come si conoscono e si apprezzano, accanto ai prezzi palesi, i premi pubblici e privati, i sovraprezzi di valuta estera, l’incidenza media dei dollari acquistati privatamente ad alto prezzo sul costo medio delle materie prime?

 

 

Batti e ribatti, il giovane direttore dell’Istituto per le ricerche sulla congiuntura ed ai suoi colleghi economisti riuscirono finalmente a trascinare con sé l’opinione pubblica, a mettere in chiaro e ridurre al nulla i vuoti sofismi con i quali si alimentano i pazzi terrori del volgo in materia monetaria. Ed è singolare l’omaggio che il teorico tributa al pratico per la lentezza, la prudenza, gli avvedimenti accorti con cui il pratico governatore dell’Istituto di emissione riuscì a mascherare, mentre procedeva innanzi sulla via della libertà dei cambi, il proposito di abolire interamente il controllo. Il Morgenstern è teorico valoroso anche perché vede che al teorico non giova pretendere l’attuazione immediata e piena della libertà astratta.

 

 

Il teorico, il quale abbia tali sciocche pretese, non è un vero teorico; è un dottrinario, il quale non sa che i fattori dell’azione sono infiniti, e che l’arte del politico sta nel cogliere il momento per raggiungere il voluto scopo senza suscitare difficoltà dovute agli imponderabili, ognuno dei quali non vale logicamente nulla, ma tutti insieme possono far miseramente naufragare l’impresa più bella, ove non si sappia farne giusto conto, passando oltre solo quando il peso maggiore dell’imponderabile è dalla parte del riformatore. La insistenza del Morgenstern nell’affermare che gli economisti debbono adempiere al dovere di illuminare ma non debbono presumere di vedere tradotti subito e intieramente in atto i loro insegnamenti, si accompagna alla prudenza con la quale egli raccomanda l’esempio austriaco alla imitazione altrui.

 

 

Sì, l’esempio gli pare imitabile; ma le circostanze possono essere in altri paesi diverse e possono sconsigliare l’esperimento od almeno suggerire modalità diverse di applicazione. Egli stesso addita una circostanza che capitò in buon punto a favorire l’esperimento successivo: i prezzi mondiali ribassarono quando si lasciò svalutare lo scellino; e perciò i prezzi austriaci, i quali avrebbero dovuto crescere, rimasero fortunatamente fermi, sicché il popolo quasi non si accorse del mutamento. Sarebbero altrettanto fortunati gli altri paesi se volessero ritentare l’esperimento?

 

 

L’omaggio reso dal teorico al pratico è in particolar guisa significativo dal punto di vista storico. Muove spesso alla stizza od al riso, a seconda dell’umore, vedere certi storici pigliare per oro di coppella qualunque fandonia sia stata raccontata da uomini di governo o di azione dei secoli passati per propugnare o giustificare quel provvedimento monetario doganale annonario che ad essi in quel momento piacque far proprio. Sulla base di quelle dichiarazioni si costruirono interpretazioni ariose nuove complicate degli avvenimenti e della storia. Ma no, ma no! Il fatto, il provvedimento è quello che è.

 

 

Dopo aver, per conoscerlo esattamente, sfruttato i canoni più rigorosi della critica dei testi; dopo averlo collocato nel quadro dei fatti e dei provvedimenti del tempo, non è lecito fermarsi e concludere: perché quel provvedimento fu, non poteva non accadere e gli uomini, che lo vollero, erano l’eco dei tempi. La conclusione non è né peregrina né illuminante.

 

 

Che cosa varrebbe essere nati dopo secoli, e, dopo tanto avanzamento scientifico, essere in grado di analizzare i provvedimenti odierni, senza lasciarci imbrogliare da sofismi volgarissimi, se quei medesimi canoni di interpretazione non li dovessimo applicare ai fatti del passato?

 

 

Se è vero oggi che il rapporto di 4 scellini a 1 dollaro non è stabile quando il rapporto effettivo è 6 ad 1; perché non dovrebbe essere stato vero uno due o tre secoli addietro? Perché la conoscenza di siffatta verità incontrovertibile non dovrebbe servirci a mettere a posto, ciascuno a norma della loro fondatezza, i ragionamenti che leggiamo nelle storie in difesa di qualcuno degli innumerevoli tentativi di controllare i cambi al rapporto 4 ad 1 quando il rapporto vero era 6 ad 1, i quali ebbero luogo, nomine mutato, nei secoli scorsi? Perché quella conoscenza non ci dovrebbe servire a scoprire, sotto il velame dei versi strani, i rigiri di qualche dott. Kienboch del cinque o seicento, costretto a raccontar favole per fare del bene al prossimo? Perché la teoria dei costi comparati e quella della divisione del lavoro non dovrebbero essere usate come strumenti di interpretazione della politica mercantilistica dei secoli tra il sedicesimo e il diciottesimo? Tanto val dire che, a far storia imparziale, giova essere innocenti di ogni sapere; e a far storia economica giova non sapere verbo della scienza economica, s’intende di quella sola che importa conoscere a tale fine ed è la scienza del prezzo, del prezzo dei beni di consumo, dei beni capitali e dei servizi produttivi, con i suoi amminicoli della moneta, del credito, del commercio internazionale, delle crisi e della traslazione dell’imposte.

 

 

I profani chiamano «tecnica» dell’economia od economica in senso stretto questa a cui i chierici riducono la loro scienza; e, trovandola fastidiosa ad apprendersi, immaginano talvolta che sia altresì economica un insieme di dissertazioni miscellanee sui motivi delle azioni umane, sull’egoismo, sull’altruismo, sull’individualismo, sul socialismo, sull’importanza del fattore economico, sul suo prevalere o subordinarsi, sulla borghesia, sul proletariato, sulla lotta di classe e simili.

 

 

Non mi stancherò mai dal ripetere che chi intende far storia economica, storia di fatti e di idee, e parte da siffatta ultima formazione mentale può far opera di grande serietà scientifica, ma non fa certamente storia economica. Questa si fa esclusivamente da coloro i quali si appassionano alla «economica» in senso stretto, ossia alle trattazioni che, ad apertura di pagina di un qualunque trattato, respingono il profano per il contenuto seccamente razionale, condotto a fil di logica per premesse, teoremi e corollari, arieggiante, anche quando è esposto in lingua volgare, ad un trattato di matematica o di fisica. Dire che lo storico dell’economia deve interessarsi all’economia non vuole dire affatto che egli debba illustrarsi come cultore di essa, o debba mai scrivere un rigo in economica pura.

 

 

Basta, ma è necessario, entrare nello spirito di essa ed affrontare i problemi di interpretazione dei fatti con le chiavi logiche che l’economica fornisce. Perciò Morgenstern scrisse la storia del controllo dei cambi in Austria dal 1931 al 1934 con facilità spontanea; laddove un dotto in mercantilismo individualismo socialismo comunismo materialismo, ecc., avesse durato fatica di mill’anni, sarebbe riuscito soltanto a non farci capir nulla di quel che accadde.

 



[1] Le cause della esistenza di un saldo passivo possono essere varie: un raccolto sfavorevole, importazione insolita di materie prime per sviluppo industriale, aumento relativo dei prezzi delle merci di importazione in confronto a quelle di esportazione e simili. Escludo soltanto la causa: «»fuga di capitali«» che anche Morgenstern esclude. La tecnica delle fughe è materia per ora oscura; ed i mezzi di riequilibramento adoperati in tempi recenti sono ancora malsicuri, una più lunga esperienza sembrando necessaria innanzi si possa dir qualcosa di fermo intorno ai fondi all’uopo creati in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia ed in Italia. Né, temo, la esperienza potrà insegnar molto quando non si parta dalla premessa che la «fuga» non è un fatto « primo », a cui occorra o sia possibile trovare un rimedio autonomo. Essa è un fatto «secondario»; ed importa sovratutto, se non forse esclusivamente, far cessare le cause psicologiche o patologiche di sfiducia dalle quali la fuga deriva. Cessate quelle, cessa la conseguenza.

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