Opera Omnia Luigi Einaudi

La legge delle otto ore e la relazione Turati

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 24/07/1919

La legge delle otto ore e la relazione Turati

«Corriere della Sera», 24 luglio 1919

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 310-316

 

 

 

La relazione che l’on. Filippo Turati ha dettato, a nome del consiglio superiore del lavoro, intorno al disegno di legge per fissare ad 8 il massimo delle ore di lavoro effettivo al giorno che può essere prestato dagli operai ed impiegati nelle aziende industriali e commerciali e dagli avventizi e salariati nelle aziende agricole è degna di rilievo per parecchi rispetti: per considerazioni relative alle modalità e deroghe con cui la riforma dovrà essere applicata, e per quelle intorno alla convenienza ed alla probabilità di successo della riforma. Su quest’ultimo punto non è forse inopportuno riassumere le idee del Turati.

 

 

A parer suo, la lotta per la diminuzione delle ore di lavoro è la lotta per una vita umana. La vera vita, in regime di divisione del lavoro, laddove l’artefice è estraneo ai mezzi di lavoro ed al prodotto del proprio lavoro, comincia esattamente a quel punto dove il lavoro per il salario, la giornata lavorativa, ha il suo termine. «Ogni minuto strappato a codesto periodo e non dato al riposo ebete o al sonno, è un minuto di vita vera, di vita conquistata e vissuta». Egli non tace le preoccupazioni che una riduzione troppo accentuata e rapida della giornata lavorativa fa nascere dal punto di vista economico. Ricorda, è vero, come in passato le preoccupazioni e gli allarmi degli industriali per le conseguenze di ogni successiva riduzione di orario siano sempre stati smentiti dalla esperienza; mentre al contrario le riduzioni stimolarono la provvida selezione fra le varie aziende, assicurando il trionfo a quelle meglio organizzate e più alacri sopra quelle infeudate alla inerte e stupida routine. Ma egli non tace che, la riforma, per raggiungere questi effetti, deve essere graduale, deve adattarsi alla singolarità dei casi – e di questi casi singolari egli compone un quadro degnissimo di attenzione anche per gli studiosi del problema -; né si nasconde che forse

 

 

«nessun momento della storia può apparire meno propizio del presente alla generalizzazione di così ardita riforma, mentre tutte le fonti di ricchezza sono state devastate ed impoverite, il debito dello stato si è sestuplicato, la pressione fiscale s’è più che raddoppiata e dovrà raddoppiarsi un’altra volta o dovranno escogitarsi misure equivalenti, non certo benevole alla capitalizzazione del privato risparmio, e il cambio sale alle altitudini note, il valore della moneta corrente s’è dimezzato, e le industrie debbono trasformarsi mentre grava su di loro la incertezza più imbarazzante in fatto di materie prime, di mercati, di misure doganali».

 

 

Né il Turati chiude gli occhi dinanzi alla gravità della riforma.

 

 

«È grave, per il suo allearsi a pretese di più laute mercedi, conseguenti al crescente caro-viveri, noi, non saputo o non potuto infrenare, dal che un circolo vizioso, anzi una spirale interminabile di elevamenti nelle paghe, di ricrudimenti nei prezzi, di nuovi elevamenti delle mercedi, ecc. che ha del pazzesco. Anche è grave, codesto coincidere con un diffuso stato d’animo di aneliti sconfinati e di reluttanza ad ogni disciplina (produrre meno e godere e consumare di più), che è un po’ in tutte le classi, che si rivela, fra l’altro, nella epidemia degli scioperi, proclamati e prolungati sovente senza causa proporzionata, a dispetto della resistenza degli organizzatori e dei consigli delle commissioni operaie, suggestionati e accompagnati da vaghe aspettazioni, non ben definite, di rinnovamenti taumaturgici del mondo e della società».

 

 

Non è il solo Turati a vedere la gravità della introduzione delle otto ore nel momento presente. Un altro capo del movimento socialista ed operaio, A. Vergnanini, in un opuscolo Il circolo vizioso del rialzo dei costi e dei salari scrive:

 

 

«Occorre persuadere le masse lavoratrici-operai, impiegati, professionisti – che data l’attuale dolorosa situazione politica ed economica d’Italia, in forza della quale la nostra produzione è al disotto del livello ante-bellum, ogni aumento di salario non porta che ad uno svalutamento della moneta. I 13 milioni di lavoratori, che la nuova legge delle assicurazioni considera come arruolabili, potrebbero spingere i loro salari fino a 20, a 30 lire al giorno e realizzare ciascuno 5 o 6 mila lire all’anno, ma l’importo totale dei loro salari ammontante a più che 60 miliardi non potrebbe servire che a comperare una proporzionale quantità di prodotti disponibili in Italia molto al disotto di questa cifra. L’aumento dei salari non aumenta la disponibilità delle cose, non quella dei prodotti agrari, non quella della produzione industriale. Le 5 o 6 mila lire di salari non potrebbero servire dunque che ad aumentare il costo dei prodotti. Anzi l’effetto più immediato sarebbe quello di porre l’Italia in una condizione molto peggiore di fronte alle nazioni concorrenti. Basterà considerare infatti che il nostro paese si trova già in una posizione d’inferiorità sui mercati esteri per la mancanza di molte materie prime, come il carbone, il ferro, e per la deficienza di parecchi prodotti agricoli ed industriali e che questa inferiorità non è certo compensata da una oculata e razionale organizzazione tecnico-amministrativa della nostra produzione. E non solo la siderurgia, la metallurgia e molte arti tessili si troveranno fortemente scosse, ma la stessa agricoltura sarà messa nelle condizioni di dovere abbandonare molte sue vecchie e redditive colture. La California ci manderà frutti meravigliosi a prezzi inferiori al costo dei nostri prodotti; le carni congelate sostituiranno per ragione di prezzo la nostra produzione. Non appena cesserà la protezione sul grano, questo prodotto, il cui costo di mano d’opera raggiunge ormai le 100 lire al quintale sarà completamente abbandonato».

 

 

Forse l’economista non vede la concorrenza estera così spaventosa come questi capi del socialismo italiano; poiché egli non può non farsi la domanda: questi stranieri disposti a mandare in rovina le nostre industrie vendendoci la roba a così bassi prezzi di concorrenza si contenteranno in eterno di essere pagati con promesse di pagamento? Se no, se essi vorranno essere pagati in buona moneta sonante, che altro vuol dire ciò – data la notoria nostra mancanza d’oro, simile del resto alla notoria mancanza d’oro di tutti i paesi del mondo – se non che essi dovranno rassegnarsi ad essere pagati con merci nostrane? Non è dunque evidente che noi dovremo mandare all’estero e quindi produrre almeno un valore di merci nostrane uguale a quello delle merci venduteci dai paesi stranieri?

 

 

Il pericolo non è lì; esso è nazionale, interno. Sta nell’idea penetrata nell’animo degli uomini e che Turati sintetizza nella frase: «produrre di meno e godere e consumare di più!» Come risolvere il problema posto da questa frase che scultoriamente sintetizza l’assurdo? In fondo, Turati non lo risolve; contentandosi di constatare che essa esprime un fatto, e, che il fatto è ineluttabile e irrevocabile, è «divino», come sentenziarono i savi. Il fatto strappa tuttavia a lui una professione di fede nell’avvenire del paese.

 

 

«La società, che ha patito l’urto immane di così immane massacro di uomini, di cose, di ideali e tuttavia si regge; che era forte ieri, ed è oggi, e più sarà domani di tutte le risorse della scienza moderna, che fecero la guerra più assassina e più rivoltante; questa società non perirà perché debba accogliere una riforma economica, destinata a rendere più umana la vita delle moltitudini. Al contrario: le avverrà come ai forti, cui sovente una malattia superata, riconducendoli a una igiene più saggia, è rinnovamento di vita e di giovinezza. Tutto sta nell’affrontare il problema con serenità, nel cercare ai danni fuggitivi i ripari e i compensi indiretti, larghi e durevoli, di cui la politica e l’economia contemporanee possono e debbono essere feconde. Bisogna aver fede nella vita. Dopo gli enormi rincari di tutte le merci più indispensabili, le otto ore aggiungeranno qualche nuova quota di rincaro su qualche merce; l’industria riverserà, come sempre, tutto il carico, o la maggior parte possibile, sui consumatori. Frattanto le più gravi cagioni del rincaro generale andranno necessariamente attenuandosi, per ricostituirsi delle fonti di ricchezza e di produzione normali. Il danno sarà assorbito e annegato nel vantaggio maggiore. Il periodo sociale, eminentemente dinamico, sanerà, con tutte l’altre, questa tenue ferita. Questo comprese l’intuito delle masse operaie e furono pronte ed accorte a cogliere l’attimo fuggente della loro fortuna. Non crediamo se ne pentiranno».

 

 

Perché non se ne pentano, occorre che la fede nella virtù compensatrice del fatto divino si traduca in azione. Da sé, nessun ostacolo si supera. Non credo nella virtù delle cose. Le cose sono morte se gli uomini non le fanno agire. In passato, nessuna industria morì per colpa della riduzione delle ore di lavoro o del rialzo dei salari, perché gli operai seppero gradualmente, a mano a mano che la fatica diminuiva, migliorare la qualità del lavoro compiuto e perché gli imprenditori seppero organizzare meglio la loro intrapresa. Oggi, se si vuole che il colpo recato all’industria sia superato, se si vuole che la riduzione delle ore ed il rialzo dei salari non significhino aumento di costi – non dico di costi monetari, che è l’apparenza, ma di costi reali, che è la sostanza e che equivale a minor prodotto e quindi a minor massa di beni ripartibili – se si vuole insomma risolvere l’assurdo turatiano «produrre di meno e godere e consumare di più» nella verità eterna «produrre di più e godere meglio», bisogna che operai ed imprenditori facciano uno sforzo maggiore di prima. Un tempo, quando l’orario si riduceva da 12 a 11 ½ e poi da 11 ½ ad 11 bastava uno sforzo piccolo per riportare la produzione al punto di prima. Oggi che il salto è stato da 11 o da 10 ad 8, lo sforzo deve essere più energico.

 

 

Esso deve compiersi fuori delle ore di lavoro e durante le ore di lavoro. Credo, fermamente credo, fin da quando, ancor sui banchi della scuola, scrivevo sulla virtù della piccola proprietà nella «Critica sociale» di Filippo Turati, alla benefica, meravigliosa influenza che la casa, la scuola, la lotta contro l’alcoolismo possono avere a migliorare la capacità produttiva delle masse operaie. La pagina che Turati ha dedicato a questi tre fattori di elevamento rimarrà tra le più belle della sua relazione.

 

 

Semplificando, il Vergnanini a proposito della casa osserva:

 

 

«L’investimento in case giardino di una parte degli aumenti di stipendio e mercedi che il comune di Roma in questi ultimi anni è stato costretto di concedere al suo personale, e che raggiunge la cifra di parecchi milioni all’anno rappresenterebbe un aumento di patrimonio ed un reddito costante dal quale gl’impiegati ritrarrebbero un più largo e sicuro beneficio e verrebbe a costituire un potente fattore di calmiere sul mercato delle case e degli alimenti. Si può ritenere che con una casa di due o tre ambienti ed un centinaio di metri quadrati di orto una famiglia di 4 o 5 persone può ricavare più dei due quinti e quasi la metà del necessario alla propria sussistenza».

 

 

Ma perché la casa linda e lieta, l’orto soleggiato, la scuola attraente, la biblioteca, il luogo di ritrovo educatore, i divertimenti sani, le escursioni fortificanti sottraggano l’operaio ed il contadino «alle torbide tentazioni della bettola ed alle suggestioni malsane del cinematografo» è d’uopo lavorare in un ambiente non guasto e non tenuto in orgasmo dall’odio, dallo spirito di rivolta, dalla voluttà della distruzione e del saccheggio. Finché l’ideale sarà la dittatura del proletariato per abbattere il capitalismo non si costruirà nulla di solido. Il «capitalismo» è una cosa morta, che, conquistata, si dissolve e non lascia in mano al proletariato neppure gli strumenti della produzione; perché esso non è nulla, quando non sia vivificato dallo spirito di organizzazione e dallo spirito di risparmio. Il grande errore di Carlo Marx fu di avere considerato come realtà, come le sole realtà vive ed operanti due finzioni teoriche, buone, tutt’al più, per certi scopi di analisi scientifica provvisoria: il «proletariato» ed il «capitalismo». Le macchine, le fabbriche, le miniere sono nulla quando non siano vivificate dallo spirito di organizzazione e da una corrente continua di nuovo risparmio. I veri fattori della produzione non sono entità metafisiche, ma uomini: lavoratori, organizzatori, risparmiatori. Bisogna trovare la via dell’accordo, della cooperazione tra di essi, se non si vuole andare alla rovina. Organizzatori e risparmiatori debbono persuadersi che per essi è un ottimo impiego di energie e di capitali dare la casa bella, dare la scuola attraente, dare la ricreazione sobria al lavoratore, affinché questi possa fornire un lavoro fecondo in un tempo più breve di prima. Il lavoratore deve dal canto suo persuadersi che non è nel suo interesse terrorizzare ad ogni momento i risparmiatori, queste api mellifere della società, che rinunciano a consumare subito tutti i loro guadagni per averne un reddito nell’avvenire, che è nel suo interesse lasciare un tanto per cento d’interesse al risparmiatore per ottenere che si risparmino i capitali necessari a costruire case, fabbriche, scuole, a migliorar terreni. Deve anche persuadersi che, purtroppo, gli uomini atti ad organizzare – eserciti, fabbriche, ferrovie, leghe operaie, bonifiche ecc. – sono pochi e che ad essi conviene dare un premio atto a stimolarne l’attività.

 

 

Lo sforzo necessario per superare la crisi presente non può rimanere tuttavia limitato alle ore che il lavoratore passa fuori del luogo del lavoro. Casa, scuola e ricreazione sono fattori potentissimi di elevazione. Non sono tutto. L’azione dei lavoratori e degli organizzatori della produzione deve esplicarsi anche sul lavoro. Qui deve essere combattuta la teoria che Turati espone, ed a cui ho già accennato in principio: che la vera vita dell’uomo cominci dove la giornata lavorativa ha il suo termine. Questa è una bestemmia, a cui Turati stesso non crede. Perché avrebbe egli, se davvero vi credesse, riassunto i capisaldi di quel movimento magnifico, promettente, sorto in Inghilterra ben prima che i soviet russi ne facessero la caricatura, il quale tutto si impernia nella cooperazione tra lavoratori ed organizzatori (imprenditori) per la risoluzione, con comitati misti, delle questioni del lavoro? L’industria moderna, con la divisione del lavoro, ha dapprima distrutto l’interesse del lavoratore nel lavoro compiuto. Fu una necessità tecnica, ma fu un danno sociale. Oggi, raggiunti stupendi risultati tecnici ed economici, aumentata la produzione a mille doppi in confronto dei tempi idillici in cui ognuno era artefice a casa sua, riconosciuta la impossibilità di ritornare indietro, riconosciuto d’altra parte il carattere suicida della dittatura del proletariato, che equivale alla soppressione degli organizzatori e dei risparmiatori, è necessario risolvere il problema di ridare, ferma rimanendo la divisione del lavoro, al lavoratore l’interesse al lavoro. Il grande problema dell’ora presente è di ricreare la gioia del lavoro, di ridare a tutti quella gioia nel lavorare, quell’interesse al lavoro compiuto che voi sentivate, Filippo Turati, scrivendo la vostra relazione, che ognuno di noi lavoratori indipendenti sente compiendo il lavoro, che è parte di noi stessi. Il grande sperimento delle otto ore non sarà stato compiuto invano se avrà iniziato la soluzione di questo massimo tra i problemi sociali odierni.

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