Opera Omnia Luigi Einaudi

La leggenda del servo fuggitivo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1937

La leggenda del servo fuggitivo

«Rivista di storia economica», marzo 1937, pp. 1-30

In estratto: Torino, Einaudi, 1937, pp. 30

 

 

 

1. Alcuni anni fa, discorrendo di un libro stupendamente costrutto intorno alle finanze della repubblica fiorentina[1], lamentavo che «tra gli storici di Firenze e delle città medievali italiane fosse da tempo venuta di moda la spiegazione economica della storia» e questa li facesse propensi ad una certa quale «applicazione di schemi generici» e ad una «rappresentazione di battaglie inventate da astrattisti i quali discorrono di rendita, di capitale, di proletariato, di artigianato, come se fossero persone viventi le une contro le altre schierate», laddove la storia economica dovrebbe essere la ricostruzione viva delle persone realmente esistite, di quei tali mercanti, grossi e piccoli, di quei tali magnati, di quelle tali vedove…. con i loro sentimenti veri, con i loro interessi specifici trapelanti dalle vecchie carte, con le loro fondamentali passioni umane, buone e cattive.

 

 

Quando scrivevo, da laico, queste ed altre male parole contro insigni storici di null’altro colpevoli fuorché di accettare di tratto in tratto canoni correnti di interpretazione dei fatti e di lasciarsene occasionalmente guidare nel classificare ed apprezzare i fatti osservati, una bella battaglia contro i metodi usati nello scrivere storia era già stata condotta con dottrina e successo in questo medesimo campo del duecento e trecento fiorentino. Confesso di aver letto soltanto or ora il libro di Nicola Ottokar su Il comune di Firenze alla fine del dugento che segnò nel 1926 l’inizio di una nuova concezione della storia delle rivoluzioni fiorentine. Scrisse l’Ottokar nel suo libro fondamentale, ribadendo in breve la tesi da lui illustrata prima sotto tutti i suoi aspetti:

 

 

«La vita fiorentina non fu affatto dominata da un contrasto fra due opposti gruppi della cittadinanza, organizzata nei ”partiti” dei magnati e dei popolani. Il predominio di tali contrasti non si verifica né nell’ambito della politica finanziaria ed economica, né nel campo dell’azione militare e diplomatica del comune. Abbiamo invece la netta impressione che il solito modo di vedere la storia di Firenze di quel periodo sia basata su presupposti assolutamente arbitrari e fittizi. Questo solito modo di vedere la storia consiste nel ricercare ovunque i segni di presunti antagonismi sociali e nel ricondurre ad essi il significato di tutti gli eventi e di tutte le situazioni della vita pubblica fiorentina. L’artificiosa impalcatura di questi presunti contrasti sociali oscura la chiara visione dello storico, e non lascia intravvedere il nesso di continuità e il significato intimo dei fatti, cioè lo spirito della realtà storica fiorentina di quel periodo.

 

 

Tutte le manifestazioni della vita pubblica di Firenze vengono, infatti, interpretate dagli storici dal punto di vista di contrasti fra magnati e popolani; e tutte le leggi o i provvedimenti amministrativi nel periodo 1282 – 1292 si sogliono generalmente attribuire a influenze o prevalenze di uno di questi cosidetti «partiti». Tale modo di trattare la storia fiorentina si basa su preconcetti arbitrari ed erronei, e non si trova minimamente giustificato da quei presunti dati di fatto che generalmente vengono addotti a suo sostegno» (243 – 44).

 

 

I consigli del comune legiferano intorno agli affitti? Subito gli storici dell’«interpretazione economica» esclamano: ecco un episodio della lotta fra i «grandi» proprietari di casa ed i minuti affittuari di botteghe e fondachi! Ottokar ribatte: di chi sono le case?

 

 

«L’affermazione, completamente gratuita, di alcuni storici che i Cerchi, dopo aver comprato nel 1280 le case dei conti Guidi, diventarono proprietari di ”quasi tutto il sesto di Por San Piero”», è semplicemente enorme…. Moltissimi rappresentanti dell’alto ceto popolano, che governava Firenze nel penultimo decennio del trecento possedevano vasti complessi di case, torri e palazzi nel centro stesso della città…. Atti di compra e vendita di case o di locazione in affitto di locali per uso di abitazione o di traffico, da parte di più umili artefici fiorentini, sono frequentissimi (157). Si deliberano provvedimenti intesi ad impedire l’esportazione del grano oltre i confini del territorio fiorentino e a favorire viceversa l’importazione di esso o comunque a rendere meno cari i generi alimentari? Ed ecco quei provvedimenti diventare un episodio dei contrasti fra magnati e popolani e significare una conquista del regime popolare impersonato nel governo del priorato artigiano.

 

 

Gli economisti sanno trattarsi di un solitissimo esempio della politica tenuta dai governanti d’ogni tipo e partito e classe per tener quieto il popolo minuto; ma fa piacere sentirsi ridire da Ottokar che guelfi e ghibellini, magnati e popolani, nobili e plebei a gara ricorrevano alle medesime grida. L’insigne storico va più in là: è un errore credere che la politica annonaria dei bassi prezzi sia diretta dai popolani cittadini contro i magnati grandi proprietari di terre nel contado. La lotta del nascente capitalismo industriale e mercantile della città contro la proprietà fondiaria feudale del contado è mera fantasia.

 

 

«Si dimentica così che una cospicua parte del contado era già passata in questi tempi in piena proprietà di liberi contadini o si trovava nelle mani di cittadini popolani. Condizioni feudali si mantenevano ormai quasi unicamente nelle parti più remote e meno popolate del territorio fiorentino, ai confini dei veri centri feudali, quasi del tutto indipendenti dal comune, come i possessi dei conti Guidi, degli Ubaldini, dei Pazzi di Val d’Arno, degli Ubertini ed altri. Sarebbe un grave errore generalizzare simili condizioni e voler estenderle su tutto il contado fiorentino. Gli atti dei notai fiorentini ci hanno conservato una notevole quantità di documenti che illustrano le condizioni di proprietà nel contado. E da essi si vede che numerosissimi cittadini fiorentini, di ogni condizione sociale, possedevano beni terrieri fuori della città.

 

 

Si potrebbe affermare, senza esagerazione alcuna, che quasi ogni «artefice» fiorentino, anche per poco che fosse agiato, possedeva qualche «podere» o «terra» nel contado. Vediamo i cittadini comprare e vendere pezzi di terra, più o meno estesi, concedere terre ad affittuari o a mezzadri, condurre lavoratori agricoli, affidare bestiame «ad soccidam» ecc. E lo stesso fanno anche i liberi contadini. Manca negli atti notarili che si riferiscono agli abitanti del contado ogni indizio di condizioni feudali di qualsivoglia genere, di limitazioni dell’indipendenza personale o dei diritti di proprietà. Piuttosto possiamo osservare nel contado il sorgere di rapporti di tutt’altro genere. Molti cittadini fiorentini vanno sfruttando colle loro operazioni usuraie gli abitanti del contado, specialmente nelle località dove si trovano i loro possessi.

 

 

Talvolta concedono prestiti ai contadini facendosi ipotecare le loro terre e impossessandosi di esse alla scadenza del termine. Spesso in questi casi essi concedono poi queste terre ai medesimi contadini con un contratto di affitto o di mezzadria. Non solo singoli contadini, ma talvolta anche comunità intere («popolo») vengono a trovarsi in una dipendenza economica dai loro vicini, cittadini di Firenze, facendosi prestare danaro per il pagamento delle libre e di altre imposte o per le spese dei carichi pubblici, come il mantenimento dei ponti, delle strade, ecc. In tal modo vanno stabilendosi rapporti quasi di patronato e di clientela, specialmente quando questi cittadini fiorentini posseggono una certa autorità nel comune che permette loro di presentarsi come protettori delle rispettive comunità del contado e di procurare ad esse sgravi e favori»(152 – 154).

 

 

L’importanza del brano ora riprodotto non sta nei particolari, i quali possono essere controversi. La terra del contado era «passata» alla fine del tredicesimo secolo in piena proprietà di liberi contadini ovvero, dopo essere stata da questi posseduta stava passando ad altre mani? o quale importanza comparativa avevano i due processi?

 

 

Lo «sfruttamento» dei contadini da parte di cittadini a mezzo di operazioni «usurarie» aveva il peso che l’Ottokar suppone? è corretto dal punto di vista linguistico – tecnico l’uso del vocabolo «usura» che si fa oggi da chi sa che esso era usato in passato in un senso diverso da quello presente e sa che l’interesse non ha alcun connotato immorale di sfruttamento e normalmente è vantaggioso nel tempo stesso al debitore ed al creditore? Non sarebbe necessario tentare la casistica delle situazioni che nel duecento consentivano e di quelle che escludevano i fatti i quali grosso modo si vogliono segnalare colla parola di sfruttamento? Se i particolari meritavano di essere approfonditi, il brano era grandemente suggestivo.

 

 

Esso sostituiva all’immagine di un contado dominato dalla grande proprietà feudale, e di una città che muove alla distruzione dei nobili con l’arma dei provvedimenti annonari di ribasso dei prezzi dei prodotti agricoli e con le arti sottili di prestiti usurari a nobili desiderosi di lusso un’altra immagine: di un contado, nel quale la grande proprietà feudale sopravvive solo agli estremi confini ed è invece posseduto da numerosissimi piccoli e medi proprietari, contadini e cittadini; e di cittadini grandi, medi e minuti, vogliosi di acquistar terra, di condurla ad economia in affitto od a mezzadria, di dotarla di case di piantagioni e di bestiame; sicché la città non appare nemica al contado ma a questo associata e di esso patrona.

 

 

2. Immagine suggestiva e punto di partenza, anche per rapporti da maestro a discepolo, di un libro che segna davvero una pietra miliare nella storia dei rapporti fra città e campagna nell’epoca più gloriosa delle città medievali italiane. Direi che il libro di Jollan Plesner su L’émigration de la campagne à la ville de Florence au tredicesimo siècle[2], dovrebbe suscitare almeno tanto fervore di controversia come, a ricordare un solo esempio, i famosi libri del Weber, del Sombart e del Tawney intorno alle origini protestantiche del capitalismo; se ad ottenere uguale successo non facessero ostacolo la faticosa stesura in incerto francese[3] e la faticosissima illustrazione di un materiale archivistico ristretto ad un paio di villaggi del contado fiorentino.

 

 

Gran parte del pubblico ama tuttavia i voli d’aquila, le tesi cosidette nuove, le visioni del mondo suffragate da fatti tratti da molti luoghi ed assai tempi, le formule riassuntive. Se non c’è un po’ di borghesie nascenti o decadenti, di capitalismi bassi o alti o tardi, di profitti rendite salari personificati, di capitale bancario o mercantile vampireggianti il capitale industriale o la terra o il lavoro; se magnati e popolani, servi e feudatari, castelli e conventi, non scendono in campo a singolar tenzone; o se le rivoluzioni, inglese francese americana italiana, non sono ridotte al brodo concentrato di circolazione di classi scelte o di cerchie sociali più o meno dotate degli istinti degli aggregati o delle combinazioni e più o meno atte a maneggiare questa o quella formula o derivazione, il pubblico non è contento.

 

 

Si intende che il pubblico non contento non è composto di lettori di libri e di studiosi desiderosi di comprendere o di far comprendere il mondo circostante o l’epoca studiata; ma di inventori di interpretazioni economiche e sociali e di teorizzatori di leggi regolatrici delle forze e delle vicende sociali.

 

 

Leggendo interpretazioni e teorizzazioni storiche, sono talvolta indotto a chiedermi se non avesse un fondo di verità la repugnanza degli economisti tedeschi della cosidetta scuola storica verso le leggi astratte dalla scienza economica classica. Quel fondo di verità pare consista nell’illogica reciproca usurpazione degli ufficii proprii del teorico e dello storico.

 

 

Lo storico, il quale neghi la possibilità di leggi teoriche economiche, confonde l’indagine sua che volge sull’individuale e sul concreto con l’ipotesi astratta, la quale è necessariamente arbitraria ed, anche quando trae le sue astrazioni dal mondo reale, definisce con precisione alcuni pochi dati del ragionamento che si intende di condurre. Se il teorico deve sempre ricordare che le conclusioni raggiunte sono valide soltanto entro i limiti dell’ipotesi originaria e non può azzardarsi, se non consaputamente, a suggerimenti di opere concrete, lo storico dal canto suo non può disprezzare quei ragionamenti o quelle conclusioni, perché astratte, anzi può giovarsene a guisa di strumenti di interpretazione dei fatti concreti accaduti.

 

 

Se lo strumento è usato con cautela consapevole delle sue limitazioni, esso può essere utilissimo, alla pari di qualsiasi altro strumento o meccanismo, a risparmiare sforzo ed a capire i fatti. Aver studiato talun libro sul capitale e sull’interesse giova allo studioso a non prendere sul serio sciocche querele di frati o pappardelle di giuristi infiorate di dotte citazioni sull’usura imperversante; ma, come si disse sopra, non giova a risparmiargli anzi lo eccita a compiere la più fruttuosa fatica di scoprire, sotto il veleno di quelle generiche declamazioni o sofisticherie, quel che nei fatti concreti è propriamente interesse e quel che invece è compenso del rischio di perdere, a causa dei divieti legali, la sorte mutuata o strumento di frode o raggiro a danno di debitori malcauti o inesperti o impotenti.

 

 

La teoria, se fatta veramente carne e sangue di se stessi, giova a capire i fatti ed a scernere il vero e il caratteristico in mezzo al generico al retorico ed al falso dei testi. Ma la teoria nuoce quando lo storico ne trae argomento per collocar marionette al luogo degli uomini.

 

 

La conoscenza delle leggi del saggio dell’interesse giova a tenere a posto predicatori ed azzeccagarbugli, nuoce se è usata dallo storico a risparmiar la fatica di studiare ad uno ad uno – purtroppo son tanto pochi coloro di cui ci è rimasto un ritratto parlante che si possono e si debbono studiare singolarmente! – i prestatori di denaro e conoscerne od intuirne i motivi ed i modi dell’operare e se è pretesto a surrogar quei ritratti con formule stenografiche, a volta a volta dette capitale bancario od usurario o mercantile, le quali agiscono come se fossero un’entità realmente esistita e divorano od assorbono o sfruttano altre abbreviazioni scritturali chiamate popolani od artigiani o servi o contado o proprietà feudale. Gran mercé se alla formula cittadina non si attribuisce l’istinto delle combinazioni e col suo aiuto non le si fa riportare la vittoria sulle formule rurali dotate dell’istinto degli aggregati!

 

 

Quel che così si crea non è né storia né teoria; ma una brodaglia scema nella quale rivoluzioni luoghi e tempi diversissimi annegano frammezzo a parole prive di sapore che meglio sarebbe addirittura risparmiare sostituendole con altrettante lettere dell’alfabeto.

 

 

Così condannando le abbreviazioni pseudo – storiche non si condannano le astrazioni che il teorico fa quando riassume certi numerosi tipi di condotta umana in una categoria detta dell’istinto delle combinazioni, che vorrebbe poi dire dell’inventività della ricerca del nuovo e della mutazione ed insieme dell’astuzia e dell’intrigo o in altra categoria detta dell’istinto degli aggregati, che vorrebbe poi dire dell’ossequio alla tradizione all’esperienza al passato alla terra alla famiglia al dovere alla religione.

 

 

Lo storico si serve anche delle astrazioni sociologiche, entro i limiti nei quali esse illuminano il fatto singolo; ma non se ne lascia dominare né sostituisce, nel narrare, alla descrizione di quell’intrigo, se di intrigo si tratta, o di quel sacrificio, se l’uomo ha sacrificato se stesso al compimento di quel che credeva il suo dovere, la pallida fraseologia combinatoria o aggregatoria, nella quale il trecento muore nel quattrocento e questo non è dissimile dal seicento, e le differenze si riducono ad un diverso dosaggio di a e di b e di altre simili sicumere.

 

 

Lo storico, il quale apertamente adopera questa o quella teoria propria della scienza economica o sociologica o politica nel narrare o ricostruire vicende di fatti, se anche sia scienziato di gran classe, manca di buon gusto. La teoria per lui deve essere uno dei tanti ferri del suo mestiere; e nel modo stesso con cui, liberandone il testo, si ordinano in appendici od introduzioni metodologiche le avvertenze intorno alle fonti, al modo tenuto nell’adoperarle ed alla critica dell’uso fatto da altri delle fonti stesse, così i piani e le ombre del quadro di un tempo o di un luogo non devono essere guastate da fastidiose dichiarate applicazioni di teorie le quali, chi ne abbia voglia, può leggere meglio altrove.

 

 

3. Il libro di Plesner è stato scritto per guardar dentro ad una, famigeratissima, fra le tante marionette economico – sociologiche inventate a spiegare storia e rivoluzioni storiche: quella del «servo fuggitivo». «Scopo dello studio è di descrivere l’emigrazione medievale dalla campagna alla città di Firenze, emigrazione dagli storici raffigurata come l’esodo di miserabili fuggenti l’oppressione della nobiltà feudale od il giogo dei sovrani ecclesiastici. Siffatta rivoluzione, prolungatasi per parecchi secoli, avrebbe formato una nuova classe sociale: la borghesia mercantile urbana la quale, al dir pressoché di tutti, avrebbe alla fine conquistato le terre della nobiltà e si sarebbe appropriato tutto il territorio che in antico apparteneva alla città, ossia al suo ”contado”» (p. 1) …

 

 

Tutti questi storici riconoscono più o meno esplicitamente uno schema preciso dell’evoluzione della città italiana sino al 1300 circa. Tratto principale del sistema è l’opposizione fondamentale originaria fra campagna e città, fra nobiltà e borghesia.

 

 

La tesi è presentata quasi fosse un dogma di natura. (Secondo il grande storico del diritto Pertile) per creare il comune libero, la città doveva necessariamente separarsi, materialmente e politicamente, dal contado con cui essa era ancora unita all’epoca carolingica; ed era mestieri inoltre che nelle città s’operasse una nuova fusione delle differenti classi ed il nuovo corpo si rendesse padrone della campagna circostante…. Pasquale Villari parte dalla finzione classica «che a Firenze vivesse pur sempre una popolazione composta sovratutto di artigiani romani d’origine e tradizioni. Sulle alture circostanti alla città, egli raffigura il nemico in tutta la sua prevalenza: la nobiltà barbara degli innumerevoli castelli – forti da ogni lato minacciosa per la città ed ostacolo al suo commercio; situazione strategica causa necessaria dell’inevitabile e sanguinoso conflitto fra città e campagna» (sesto – settimo).

 

 

Al fondo romano della popolazione artigiana cittadina si aggiunge, presto sommergendo il nucleo originario, l’emigrato dalla campagna: «Romolo Caggese, Robert Davidshon ed altri hanno narrato, a forti tratti, come la «borghesia» ed il «proletariato» fossero nati dalla fuga nella città dei contadini servi della gleba e reputano di avere così spiegata la mentalità dei borghesi che, divenuti grandi mercanti e grandi finanzieri, conquistarono il ”contado” con il sangue e con l’usura. La teoria suppone che il forte incremento della popolazione urbana sia principalmente dovuto ai «servi fuggitivi» i quali «abbandonano le capanne poste sulle terre dei monasteri e dei signori feudali. Si legge di falliti di scontenti, di disorientati, di vittime del regime feudale che «d’ogni parte precipitano verso la città numerosa e fervida di vita». Come i ruscelli della montagna inondano la pianura, così i miserabili servi fuggendo il duro giogo feudale vengono alla città a cercar rifugio dietro le sue mura fortificate, dove la vendetta dei signori non li potrà raggiungere» (116-17).

 

 

4. Plesner saggia al lume delle fonti la teoria e la scopre calante. Il predominio della dottrina economico – giuridico aveva, volutamente o inconsapevolmente, indotto gli studiosi a seguire metodi pericolosissimi di ricerca.

 

 

«Posti dinnanzi alla necessità pratica di dover fare una scelta tra un materiale di ricchezza imbarazzante, gli storici si sono quasi sempre attaccati a documenti isolati di cui il contenuto poteva servire ad illustrare o modificare le classiche teorie. Persino in Robert Davidsohn, in apparenza dotato di spirito così critico, le innumerevoli citazioni di documenti sinora sconosciuti, sono in maggior parte una scelta fortuita frammezzo all’enorme materiale esistente» (pag. decima).

 

 

Nel 1933, quando il libro del Plesner non era uscito, scrivevo altrove – e per non ripetermi riproduco senz’altro – a proposito del metodo della scelta arbitraria dei fatti citati a dimostrazione di una tesi. Nel caso specifico si voleva dimostrare la tesi che «gli uomini del duecento informavano grosso modo la loro condotta economica alla regola tomistica la quale considera la ricchezza mezzo alla beatitudine eterna ed invece gli uomini del quattrocento agivano massimamente in base all’altro fondamento della ricchezza mezzo alla felicità terrestre».

 

 

Sfilano fatti e fatterelli scuciti relativi a singole azioni di uomini pratici, che, per la paura dell’inferno, si pentono in punto di morte del mal guadagnato, che imbrogliano il prossimo meno o più secondo capita l’occasione, che se gela ed i germogli delle uve sono bruciati, alzano il prezzo del vino e si infischiano dei rimbrotti del confessore, ma se ne infischiarono nel duecento come nel quattrocento; o si leggono le solite grida dei soliti legislatori rompiscatole contro il lusso e l’usura; ovvero, ancora, le consuete lodi al buon tempo antico in cui anseatici ed indigeni e turchi non guastavano le ova nel paniere ai fiorentini ed ai senesi e perciò tutti si guadagnava in Firenze e Siena, e si faceva la figura dei cuor contenti e dei generosi, ossia, secondo la terminologia inventata dai moderni, dei «pre-capitalisti», ed i solitissimi confronti col tempo posteriore in cui c’è qualche crisi o bisogna lottare con la concorrenza ed i tempi si sono fatti duri e non si possono avere tanti riguardi ai vicini, epperciò gli uomini sono affitti dallo spirito «capitalistico».

 

 

Critiche, queste, mosse non alla dottrina e neppure ai fatti; ma alla pretesa di dimostrare una dottrina con la citazione di fatti sparpagliati. E consigliavo di limitarsi ad un piccolo territorio e ad un breve tempo e di scavare a fondo. E prima di ragionare sulla sostanza del problema, «di quel che veramente gli uomini comuni pensassero intorno alle ordinarie occorrenze della vita e del modo come conformassero le azioni ai pensamenti» chiedersi:

 

 

«Esistono fonti in merito? Quale è il valore effettivo delle leggi, dei testamenti, delle scritture contabili, dei carteggi, delle novelle? Esiste un inventario di queste fonti redatto dal punto di vista del loro valore probatorio rispetto alla condotta reale tenuta dagli uomini?» (in «La riforma sociale» luglio – agosto 1933, e in Nuovi saggi, 1933, pagg. 339 – 40).

 

 

Il pericolo del metodo della scelta tra fatti sparpagliati nel tempo e nei luoghi era apparso già ad uomini come Volpe ed Ottokar. Volpe aveva dimostrato, negli studi su Montieri, Pisa, Volterra e Massa Marittima, il valore delle ricerche approfondite in un ristretto territorio, Ottokar aveva rinnovato la storia di un periodo che era reputato esaurito: l’ultimo quarto del secolo decimoterzo a Firenze. Plesner vuole studiare quanto c’è di vero nella teoria del servo il quale, fuggendo la tirannia feudale, emigra nella città, ivi diventa artigiano e mercante, accumula ricchezze e con l’usura e le armi muove alla conquista della campagna; e studia intensamente un «castello» ed un «popolo»: il castello di Pasignano nella parte meridionale del contado fiorentino, ed il popolo o parrocchia della pieve di Giogole a sette chilometri al sud di Firenze.

 

 

Nell’«archivio diplomatico» di Firenze si trovano molti rotoli di provenienza «Pasignano» ed in quello notarile i tre grandi protocolli nei quali il notaio Attaviano di Chiaro (Ser Tano da Giogole) riassunse (nelle sue «imbreviature») gli atti celebrati col suo ministero in periodi compresi tra il 1259 e il 1300. Rotoli e protocolli erano noti agli storici di Firenze, e da questi già sfruttati. La novità del metodo usato da Plesner sta nel non volerne ricavare fatti particolari da collocare nel quadro militare politico sociale giuridico che lo storico sta componendo con questo ed altro materiale; ma nello studiarli in se stessi, tutti, l’uno in relazione all’altro, per ricavarne il quadro di un castello fortificato e di una piccola parrocchia rurale aperta. Supponiamo di non saper niente e di volere imparare dalle vecchie pergamene che cosa erano «quel» castello e «quella» parrocchia.

 

 

A furia di leggere e rileggere gli stessi documenti, si fa la conoscenza degli uomini che vivevano là entro, che ivi litigavano e contrattavano, arricchivano ed impoverivano, ascendevano o calavano nella scala sociale; se ne traccia l’albero genealogico, si impara chi era il bisnonno, il nonno e chi il figlio, il nipote, lo zio e il fratello; si appurano i legami di matrimonio e l’intreccio dei casati; si accertano qualità e professioni e mutazioni di esse; si seguono le migrazioni dall’uno all’altro castello o parrocchia, e quelle dal contado alla città; si vedono i rustici farsi cittadini, acquistar case e fondachi in città, conservare o vendere o crescere le terre nel contado.

 

 

È un mondo vivo che rivive sotto i nostri occhi: e quand’esso è vivo e ben conosciuto, lo storico si azzarda a cercare altrove, in documenti di altre provenienze, fatti riguardanti sia gli uomini già noti o sia altri uomini venuti in relazione con quei di Pasignano e di Giogole. Un po’ per volta il quadro si allarga al contado ed alla città di Firenze fra il 1200 e il 1300; ma non è un quadro di maniera, artificiosamente messo insieme da indizi, fatti e fatterelli racimolati qua e là, senza nesso necessario vicendevole o dotati soltanto di quel nesso che la fantasia ha voluto ad essi attribuire a suffragio di una qualsiasi interpretazione della storia.

 

 

No; il quadro raffigura quegli uomini realmente vissuti e quei rapporti reciproci così definiti ed accaduti in quel tempo. Il punto di gravità dell’edificio di Plesner sono i 16 alberi genealogici delle famiglie di Pasignano e le due tabelle dei contribuenti e degli ufficiali del popolo di S. Alessandro di Giogole. Egli, naturalmente, ha collocato alberi e tabelle in appendice; ma ha scritto il libro solo dopo essere riuscito a costruire – dio sa con quale fatica! -quei solidi fondamenti alla sua ricerca.

 

 

Va da sé che la stessa ricerca avrebbe potuto essere condotta, gli stessi alberi costruiti, le stesse tabelle compilate, gli stessi uomini conosciuti senza ottenere alcun risultato, fuorché di mera erudizione. Plesner, oltreché di pazienza erudita, ha dato prova anche delle attitudini fantastiche senza le quali non si scrive storia. Ma con quei freni e quella preparazione la fantasia ricostituisce realtà e non crea leggende.

 

 

5. La realtà ricostruita è ben diversa dalla leggenda. Chi, passando attraverso a foreste vaste e seguitate, per strade locali giunge all’abbazia di Pasignano, fortezza imponente e solitaria, sul lato sud di uno dei contrafforti di Sillano, verso il Pesa, su un piccolo corso d’acqua, il Rimaggio, sull’altro lato del quale si vedono su un poggio alcune poche case rovinose, resti del castello demolito di Poggio al Vento, è tratto a credere di trovarsi dinnanzi al tipico castello feudale in cui il signore ecclesiastico imperava circondato da povere case di servi, su vasto territorio in gran parte boschivo.

 

 

Plesner, il quale sa che nell’antichità e nel primo medio evo la più frequentata strada di comunicazione fra la valle dell’Elsa e la valle superiore dell’Arno passava per Pasignano, e vede l’attuale abbazia costruita nello stile del secolo quattordicesimo e non del mille e dai rotoli fiorentini ha ricavato l’impressione di una regione numerosa di abitanti, ricca di terreni intensamente coltivati, folto il castello e il borgo di case e di torri, pensa e ricostruisce. No, tra il 1000 ed il 1200 e poi ancora verso il 1300, quello non era l’aspetto dei luoghi. Ancor oggi la chiesa parrocchiale sta nel centro del monastero, edificio consacrato ad uso pubblico, diverso dalla piccola cappella che sola in origine serviva al monastero.

 

 

Tra il 1000 ed il 1200 il terreno oggi occupato dal monastero era un castello fortificato, il che non vuol dire castello forte di un feudatario, ma borgo circondato da mura, e fossa, con chiesa piazza vie e case e torri di proprietà degli uomini del luogo. A poco a poco gli abati, vogliosi di ampliare il monastero, acquistano dagli antichi proprietari ad una ad una le case poste dentro le mura del castello. Acquistano il pieno diritto di proprietà, dominium, con tutti i diritti accessori di comunione delle mura vie e piazze del castello. I venditori, che non vogliono allontanarsi dal luogo, per lo più a lor volta acquistano dal monastero, che li possedeva, terreni fabbricabili posti tra le mura e i fossati e creano un primo borgo appoggiato alle mura del castello e poi un secondo, al di là dei fossati, con case, alte talora come torri, laboratori, frantoi da olio, orti.

 

 

Verso la metà del ‘200 il borgo era la parte più importante dell’abitato; tra il 1280 ed il 1290 contava più di quaranta case di abitazione. I borghigiani perdono interesse alle vecchie case del castello; sicché le vendite al monastero si intensificano. Questo diventa a poco a poco proprietario quasi esclusivo del terreno situato entro le mura, abbatte case e le ricostruisce secondo un piano sistematico. Le spese di trasformazione sono talvolta così alte che il monastero deve vendere altre proprietà per sostenerle. Ma la politica di acquisti continua.

 

 

Divenuto proprietario del castello fortificato, l’abate si dà ad acquisti di terreni, che riconcede in enfiteusi o fitto o colonia agli antichi proprietari. Quando, verso l’inizio del trecento, il castello è divenuto la fortezza privata del monastero e solo la chiesa parrocchiale rimane aperta al culto pubblico ed il borgo è abitato da contadini quasi sempre dipendenti dal monastero, noi siamo alla fine e non, come gli storici immaginano, all’inizio del processo storico.

 

 

6. All’inizio, il castello toscano non è la fortezza feudale circondata da capanne di servi; è invece il nido fortificato sulla cima di un colle, dove tra il 1000 ed il 1300 gli uomini del contado, proprietari e coltivatori del territorio circostante, si riunivano per dimora e sicurezza. Sulla sommità della collina li piazza del castello, e nello sfondo la chiesa. Attorno le case in salita, intersecate da vie e vicoli. A mezza costa un giro di muro e sotto le case del borgo, a sua volta circondato da un giro di mura più ampio.

 

 

Chiesa piazza vie mura e case sono una unità che si può chiamare feudale, in quanto dipende da una autorità pubblica, che può essere un conte vicino o lontano, un vescovo e talvolta persino l’imperatore medesimo. Ma la dipendenza non è di tipo uniforme, da signore a servo della gleba; anzi è varia da caso a caso. Vi sono, in un medesimo castello, proprietà libere od allodiali e proprietà feudali, livellarie (enfiteutiche) ed a censo. Il medesimo uomo era libero rispetto a certe case ed a certe terre, dipendente rispetto ad altre per cui doveva pagare censo o livello o riconoscimenti periodico od in casi di morte o di vendita. I diritti di proprietà si intersecavano in modi curiosi.

 

 

Tale che dicevasi proprietario di un quarto del castello non faceva, vendendo la sua quota, acquistare al compratore il diritto ad una qualsiasi cosa in particolare, ma solo il diritto ad un quarto della signoria feudale del castello. Egli stesso, se era proprietario di una casa posta nel castello, la poteva, nonostante avesse venduto il suo quarto del castello, conservare o vendere separatamente, incassandone il prezzo. Tizio, che era servo di Caio rispetto ad una terra poteva essere a sua volta signore feudale del suo padrone rispetto ad un’altra terra.

 

 

Si poteva essere liberi proprietari della casa e servi rispetto all’area su cui la casa era costrutta; ed i giudici sentenziano che il proprietario della casa possa portarsela via e ricostruirla altrove (licenziam abeant ipsum edificium in alio loco reportare et facere quod voluerint).

 

 

Le proprietà allodiali o libere o «jure proprio» sono numerose. Gente minuta vende case nel borgo con garanzia di piena proprietà rispetto a chiunque: «ab omni homine persona et loco, collegio et universitate». Grandi signori appartenenti a nobili famiglie posseggono in proprietà libera appezzamenti di terra frammisti ad altri posseduti al medesimo titolo da contadini qualunque.

 

 

La sudditanza feudale nasceva per volontà degli abitanti. Nelle guerre del dodicesimo secolo il castello di Paterno nella valle superiore dell’Arbia era stato distrutto.

 

 

Gli abitanti, desiderosi di ricostruirlo, si indirizzano al comandante inviato da Firenze a tenere il forte di Montegrossoli e gli dicono: «se tu vuoi proteggerci, noi ti riconosceremo nostro signore». Il comandante li eccita al lavoro; ma non può dar risposta prima di essersi consigliato con i reggitori di Firenze. Ritornato, comunica che la città non vuole impacciarsi della cosa, perché il legato dell’imperatore fa già campo in Lombardia. Si rivolgano a lui quando sarà in Toscana.

 

 

Il diritto di sovranità su un castello si fraziona e si frantuma come il diritto alla proprietà di un qualsiasi appezzamento di terra. Si contrattano parti di castelli, un quarto, un sesto, e fino un ventesimo; ossia si negoziano il diritto di giurisdizione, di nomina del podestà, di approvazione degli statuti. Un qualsiasi uomo del castello può acquistare siffatte quote parti e diventare in parte signore di se stesso e dei suoi compaesani.

 

 

L’idea della «signoria» era, nel pensiero dei rustici i quali popolavano tra il 1000 ed il 1300 i castelli toscani, assai vicina all’idea della cosa comune, del vantaggio collettivo. Nel 1156 uno dei signori del castello di Monteficalle concede ad un uomo certe terre prossime al castello coll’obbligo perpetuo di un canone fisso – e questa è vendita vera e propria di terre a titolo privato – ; ma aggiunge che l’acquirente dovrà altresì partecipare alle spese pubbliche «pro comune terre» come fanno gli altri uomini.

 

 

Trattavasi, in sostanza, di un modo di attuare la partecipazione degli abitanti di un luogo alla vita collettiva. Un testo del 1155 così dichiara gli oneri ai quali l’acquirente di un terreno dal signore feudale si assoggettava: «et opera castelli et adjutorio pro civitate Florentie et pro marchione et rege secundum quod faciunt alios suos homines pro comune terre, secundum suam possibilitatem et non implius». Il possessore di una terra o casa nel castello doveva contribuire alle spese comuni del villaggio, riparare le mura, andare in aiuto della città di Firenze o del re; ma non più di quanto facessero gli altri uomini del villaggio, ed entro il limite, oggi si direbbe, della sua capacità contributiva. C’è forse taluno, anche oggi, il quale non sia servitore della cosa pubblica «secundum suam possibilitatem?» . Ed è forse minore d’allora il rischio di vedere violato il limite del «non amplius?».

 

 

7. In verità, la figura del servo, quale esce fuori dalle pagine del Plesner è singolarissima. Le relazioni tra signori e uomini del castello e tra uomo e uomo variavano «dalla più profonda dipendenza ad una indipendenza quasi assoluta». Tale, che appare legato da vincoli formali severi, è in realtà uomo praticamente libero; laddove altri, con vincoli minori, è dipendente.

 

 

Può convenire ad uomini liberi di farsi passare per servi. Nel 1198 dodici inviati di Figline, nella valle superiore dell’Arno, giurano fedeltà per il loro castello alla lega toscana è si obbligano, in segno di sudditanza, a pagare tributo per ogni fuoco. Dal tributo erano esenti i cavalieri ed i «masnaderii», i primi perché nobili ed i secondi perché soldati al servizio altrui e formalmente non liberi.

 

 

Vi erano invece soggetti i «pedites», capi – famiglia più o meno liberi. A Firenze evidentemente avevano supposto che nel castello di Figline abitassero sovrattutto «pedites» ed in questa opinione dovevano essere venuti anche nel vedere l’ambasciata di Figline composta di sei cavalieri e di sei «pedites», ed uno di questi ultimi era il podestà del luogo. Tuttavia, quando la popolazione ratificò il trattato si vide che tutti quelli i quali non poterono dirsi cavalieri (questi furono 13), si definirono «masnaderii», la qualifica di «pedites» rimanendo ai cinque che, col podestà, avevano firmato il trattato a Firenze.

 

 

Parrebbe una beffa del novelliere, se non fosse indice della rilevanza unicamente pecuniaria attribuita alle qualità di cavaliere libero fedele livellario o servo nella Toscana del principio del duecento. Per pagare solo 26 denari (diritto di fuoco dell’uomo dipendente da altri) invece di 12 soldi (che erano 144 danari, pagati dall’uomo libero), ognuno metteva, nelle liste dei contribuenti, in mostra quel che v’era di dipendente nella sua persona piuttostoché quel che v’era di libero. Poiché, a causa dell’intrecciarsi dei rapporti giuridici fra terra e terra e fra uomo e uomo, era possibile sempre scoprire in sé stessi qualche aspetto di servizio o censo o canone da rendere altrui, la città di Firenze dovette verso il 1250, se volle riscuotere tributo, acconciarsi ad abbandonare le vecchie finzioni giuridiche e ricorrere all’estimo della fortuna netta a qualunque titolo posseduta.

 

 

Nel 1233 il notaio e giudice Messer Salvi redige (4 maggio) la lista dei fuochi di Pasignano. Non vi sono registrati i religiosi, che nel 1242 sono, oltre l’abate, 13 monaci e 37 fratelli laici; ché questi fan parte, se monaci, della comunità religiosa alla quale spetta la sovranità del castello o coltivano, se fratelli laici, le terre proprie del monastero. Il notaio registra 78 uomini adulti, divisi forse in 69 famiglie, di cui 5 son cavalieri, 2 soli non si dichiarano espressamente dipendenti dal monastero, 55 sono fittaioli perpetui di questo e di essi 51 gli hanno giurato fedeltà, 5 sono suoi fittaioli semplici, uno gli paga fitto e un altro si dichiara uomo del monastero.

 

 

Il quadro è, a prima vista, quello di un signore feudale (ecclesiastico) il quale, a mezzo di famigli (fratelli laci) e di coloni servi coltiva un vasto territorio unito. L’osservatore attento vede un mondo tutto diverso. Da un lato, i servi sono più numerosi di quel che non paia subito. Gli stessi cavalieri non sono in tutto liberi.

 

 

Un tale si qualifica come cavaliere nobile ed altri si dicono cavalieri del comune di Firenze, e cioè uomini facoltosi abbastanza da poter mantenere un cavallo al servizio del comune e perciò esenti dal focatico; e, frattanto, essi o i loro ascendenti o discendenti, al paro di tutti gli altri, avevano prestato giuramento di fedeltà al monastero, e gli pagavano canoni per le terre ricevute in fitto perpetuo. Messer Tolosano, il solo cavaliere nobile «miles nobilis et abet equum» della lista, era figlio e nepote di fabbro, ambi fedeli dell’abbazia, aveva fratelli e cugini nella stessa condizione; possedeva terre per cui pagava canone al monastero.

 

 

Prima del 1193 questo aveva persino dato in pegno tutti i figli e nepoti dell’avo di Messer Tolesano a certi uomini del castello di Montecorboli, a riscattarsi dal qual pegno gli interessati dovettero pagare otto lire et nichel amplius. Come messer Tolosano fosse divenuto nobile non sappiamo; ma è certo che a salire non gli aveva fatto ostacolo l’essere, lui ed i suoi, dipendenti dal monastero. D’altro canto coloro, i quali cono descritti come fedeli o fittaioli perpetui del monastero di Pasignano, trattano quasi tutti da paro a paro col signore feudale. Luchese di Arigo, nel 1233 fittaiolo perpetuo e fedele, insieme con suo padre, dell’abbazia, nel 1255 vende a questa «jure proprio» certe sue terre, oltre le mura ed il tetto di tre case poste nell’interno del castello e la sua porzione dei diritti sull’insieme del castello, sulle sue mura e sui suoi fossati.

 

 

Essere fittaiolo perpetuo del monastero in verità vuol dire ben poco. Il rapporto di sudditanza si riduce a pagare un canone, il quale non ha, per la sua irrilevanza, quasi nessun rapporto con un fitto vero e proprio. Quando il monastero riscuote, per le terre che sono veramente sue, il fitto di un moggio di grano, riceve invece, per le terre date in fitto ereditario, uno staio; e vi sono ventiquattro staia nel moggio. Collocare tra i «servi» la grande maggioranza della popolazione dei castelli solo perché paga canone al signore feudale, equivarrebbe a reputar oggi servi le migliaia di coloni enfiteutici solo perché pagano canone al domino diretto.

 

 

Noi sappiamo che invece i coloni enfiteutici sono i veri proprietari della terra e che i domini sono non di rado poveri diavoli provvisti di nomi illustri i quali, se non possedessero altro, potrebbero morir di fame per non essere conveniente ad essi riscuotere i canoni ridotti a minutissime somme sparpagliate, a causa di frazionamenti successori, su migliaia di possessori. Eppure chi fra qualche secolo leggesse libri catastali e contratti notarili spettanti a qualche comune della Lombardia o dell’Italia meridionale potrebbe dipingere un quadro di maniera sulle sopravvivenze della servitù perpetua della gleba all’alba del secolo ventesimo!

 

 

8.- L’intreccio dei diritti è talvolta spinto all’estremo. Borgnolino di Borgno, padre di Ristoro, uno dei cinque cavalieri esenti da focatico nel 1233, litigò, lui e i suoi discendenti per intiere generazioni, col monastero, che era il suo signore feudale. Un arbitrato della fine del dodicesimo secolo (1193) ci descrive la situazione patrimoniale di quella famiglia.

 

 

V’è uno zio, il quale possiede certe terre franche, in nome proprio, altre per cui paga canone al monastero, ed altre ancora che dipendono da altri domini. Borgnolino ed il monastero si contendono la qualità di livellari, ossia di servi, verso un Arrigo da Montespertoli. Un tal Coki possiede un podere, in parte suo allodiale, in parte dipendente dal monastero e in parte da Borgnolino. Costui ha acquistato da certi venditori terre che in parte erano proprie di costoro e in parte erano tenute in concessione dal monastero. Egli ha ricevuto dal monastero certe terre in pegno e il monastero ha in pegno terre appartenenti a un tale, che, a sua volta, essendo dipendente da Borgnolino, non aveva diritto di impegnarle. Borgnolino sarebbe dunque, contemporaneamente, servo del monastero, ed insieme di volta in volta conservo e consignore insieme col monastero ed ancora creditore di questo e oppositore di vantati diritti del monastero verso un suo servo!

 

 

L’intrico in verità non era tale agli occhi di gente la quale era abituata a considerare i rapporti di servitù personale e reale sotto la specie di merci negoziabili. A tirar le somme, non si sa talvolta chi avesse maggior ricchezza, se il domino o il servo. Nel 1295 il monastero ed il notaio ser Monacho di Giovanni si accordano per una che si direbbe liquidazione generale dei reciproci rapporti. Il monastero riceve certe terre appartenenti «jure proprio» al notaio, i diritti a questi spettanti sulle mura ed i fossati del castello, la promessa di non comperare altre proprietà nei castelli di Pasignano e di Poggio al Vento; ed in cambio il notaio acquista «jure proprio» certe terre e una casa nel borgo di Pasignano ed insieme la piena liberazione da ogni dipendenza personale «de omni vinculi et conditione colonaria».

 

 

Non è suggestivo vedere il servo diventar uomo in tutto libero anche grazie alla rinuncia a muover concorrenza al proprio signore nell’accaparrar terre? I figli di Baroncetti nel 1277 vengono altresì ad un accomodamento generale col monastero. Oltre ad uno scambio complicato di terre, case, diritti d’acqua, il tutto in piena proprietà da una parte e dall’altra, i figli Baroncetti cedono al monastero tutti i diritti posseduti all’interno delle fossa del castello e promettono di nulla più acquistare dentro di esso; ed in cambio il monastero li dichiara uomini liberi e promette di non acquistare più alcun diritto in avvenire sulle loro persone. Non è suggestivo altresì cotal patto reciproco di non concorrenza?

 

 

Gli ex – servi secondano il signore feudale nel proposito di diventare pieno proprietario di tutto ciò che sta entro le mura del castello, che l’abate medita di trasformare in abbazia libera da ogni ingerenza di coloro che l’abitavano – ma non potrà mai liberarsi dalla servitù pubblica della chiesa parrocchiale -; e il signore promette non solo di considerare liberi gli uomini che prima gli dovevano servizio, ma di non acquistar mai più alcun diritto su di esso. Segno che essi, fatti liberi rispetto al monastero, dovevano, per altre terre o case, servizio altrui; e non volevano che il diritto al servizio ricadesse nelle mani del monastero. Compagno di Borgognone ed i cugini figli di Massese di Jollarino, che nel 1233 era cavaliere fiorentino, sono nel 1257 ancora «servi» del monastero.

 

 

Non posseggono più nulla dentro il castello; salvo la quota del diritto collettivo che la popolazione del castello aveva alla cosa comune: piazza vie mura fossa. Con la rinuncia a cotali diritti ideali e forse a qualche albero su un terreno già venduto al monastero ed al diritto al pranzo consuetudinario fornito a chi si recava a pagar canoni nel castello (non si ha qui l’impressione che il valore del canone dovuto dal servo fosse divenuto col trascorrere degli anni inferiore al valore del pranzo a cui il servo aveva diritto, nel momento del pagare canone, di assidersi?), i consorti Borgognone e Massese acquistano la libertà personale: «carta liberationis…. de eorum personis».

 

 

Nel 1279 – e chiudiamo con il ricordo della transazione forse più singolare di tutte -un notaio Ser Bartolo di Giunta vende al monastero di Pasignano le case ed i diritti posseduti da lui nel castello vicino di Poggio al Vento e promette di non fare ivi nessun acquisto e di non intromettersi nei rapporti fra il monastero ed i suoi uomini; e riceve in cambio la libertà personale di un altro agiato uomo del castello e insieme, a favor di questi, la piena proprietà di certe terre e di una porzione di casa che l’uomo già possedeva a Firenze in fitto perpetuo dal monastero. Il notaio monetizza le concessioni fatte, mercé sua, all’amico in una somma di 150 lire, assai ragguardevole per quei tempi. In sostanza, egli, in cambio di 150 lire, oltre a poca cosa sua, ha dato al monastero suo sovrano la sola promessa di liberarlo dalla sua presenza!

 

 

9. La conclusione del Plesner rispetto alla vera natura del castello a questo punto è precisa:

 

 

«Il castello tipico, ossia uno degli innumerevoli castelli medievali italiani era cosa ben diversa da una fortezza privata circondata da terre private facenti corpo unito, come fu creduto sin qui dagli storici. Il castello era un borgo fortificato costruito su un piano bene ordinato di città, il quale presupponeva un grado notevole di uguaglianza fra un gran numero di proprietari privati. Costoro erano responsabili in comune per i pesi pubblici ed in una certa misura dipendevano dalla nobiltà feudale investita dell’autorità pubblica locale. Caratteristica della popolazione primitiva del castello è una grandissima indipendenza economica la quale, insieme al godimento di certi diritti originari, garantisce in ogni caso a gran arte degli abitanti una situazione sicura» (94).

 

 

10. Chi partiva dai castelli per emigrare in città? e chi dei cittadini acquistava le terre dei castelli? Il castello medesimo di Pasignano offre una illustrazione curiosa delle storture che una concezione aprioristica fa dire a valorosi storici.

 

 

Noi sappiamo che per tutto un secolo gli abati si erano sforzati, talvolta con sacrifici notevolissimi, di acquistare ad una ad una le case e le terre situate nella cinta del castello, insieme con i diritti sulle piazze vie mura e fossati, allo scopo di costituire una proprietà privata, su cui potere ampliare gli edifici del monastero sottraendoli ad ingerenza e servitù fastidiose. Verso il 1300 gli uomini del castello erano stati respinti nel borgo ed il monastero poteva chiudersi entro le mura. Naturalmente all’uopo gli abati dovevano a tratti indebitarsi, specie quando si offriva l’occasione di qualche grosso acquisto, e si voleva sventare la minaccia che un fondo cadesse in altre mani.

 

 

Nel 1204 l’abate Uberto si confessa debitore di 1.500 lire e di 110 moggie di frumento; somma assai considerevole se si pensa che tutto il reddito del monastero ammontava in quel tempo a 1.200 lire l’anno; nel 1243 l’abate Rodolfo, che già aveva pensato l’anno prima di impegnare o vendere i diritti feudali sul castello di Poggio al Vento e sul borgo medesimo di Pasignano, contraeva un grosso prestito con la casa fiorentina dei Bardi per pagare il prezzo dei beni vendutigli dalla più cospicua famiglia del castello.

 

 

Da questi fatti, visti a sé, separatamente dagli altri, gli storici ricavarono riprove della teoria della conquista dei grandi feudi del contado da parte dei mercanti usurai della città. Caggese crede di sapere che un bel giorno nel 1205 il monastero era in fallimento. Davidsohn discorre della sua rovina: «le condizioni sono peggiori che in ogni altro luogo, in questo Pasignano un tempo così fiorente». Il ricco Pasignano cadeva in rovina e quel che pii donatori avevano offerto per il mantenimento di religiosi contemplativi passava in maggior parte in possesso di gente di finanza senza scrupoli, che nelle oscure botteghe della città ammucchiava ricchezze e stendeva dappertutto le sue reti.

 

 

Pura fantasia. Come gli abati si siano liberati dalle crisi di indebitamento non si sa con precisione; ma è certo che essi ne escono trionfanti e l’imponente fabbrica del monastero sopravvissuta sino a noi è testimonianza del dominio pieno acquistato alla fine sul castello e degli ampi possessi terrieri accumulati. Ancora nel 1284 – 85 vi sono 60 famiglie che posseggono poderi a titolo enfiteutico, con obbligo di pagamento di canoni più o meno nominali; e si possono contare dentro il castello 30 patrimoni distinti di case private.

 

 

Nel 1330 vi erano solo più di 26 poderi a canone perpetuo ossia praticamente di proprietà privata, ed il monastero aveva cresciuto a 25 i poderi di suo diretto dominio, affittati a breve scadenza a fittaioli veri e proprii. I debiti sono pagati in varii modi: rivendendo alle famiglie nobili patrone del monastero terre ricevute in donazione e lontane da Pasignano; rendendo a mutuo 600 lire da gente dei dintorni, rimborsabili con un’imposta sugli uomini del luogo. Le case fiorentine di banca dei Cavalcanti, dei Bardi, degli Ubriachi di Firenze sono noverate fra i prestatori; ma fra costoro sono altresì nobili del contado, come gli Scolari ed un Priore di Monteficalle.

 

 

Il più grosso creditore del monastero era nel 1204 il padre di messer Tolosano, il fabbro Gianni figlio del fabbro Gianello. Famiglia in ascesa questa, se già Gianello si era costruito un mulino ad acqua sul Pesa ed aveva potuto acquistare i terreni attraverso a cui doveva passare il canale adduttore delle acque. L’essere creditori dell’abate forse giovò a facilitare la concessione della nobiltà a Messer Tolosano; ma non turbò i rapporti fra il monastero e questa singolare famiglia di suoi servi.

 

 

Nel 1210 i debiti del 1205 dovevano essere stati pagati, se il nuovo abate ricomincia ad acquistar terre. I banchieri fiorentini collocavano denari a mutuo; ma non compravano terre. Nessuno dei prestatori cittadini divenne mai proprietario fondiario a Pasignano od in qualcuno dei luoghi dove il monastero vantava possedimenti. Era più facile attendessero a prestiti e ad acquisti delle terre ricevute in pegno grandi signori feudali, come i Firidolfi, e persino quel Priore di Monteficalle che già si citò sopra e che, usureggiando, giunse a spogliare delle sue terre persino un borghese fiorentino. Precisamente l’opposto di quel che la leggenda vuole sia stato il processo storico ordinario!

 

 

Ottokar aveva già scolpito i rapporti fra città e campagna: «La città italiana continua di fatto ad essere un centro verso cui convergono e in cui si raccolgono le forze più cospicue della campagna circostante. I nobili feudatari e i grandi proprietari della campagna frequentano la città, vi tengono case e fortilizi, vi fanno dimora almeno per una parte dell’anno, partecipano alla vita locale del centro urbano. In queste condizioni è naturale che la città, la quale è anche sede stabile dei maggior domini che si estendono pure sul contado (sopratutto quelli dei vescovi), divenuti centro di tutto un sistema di forze feudali dipendenti, che si raccolgono e si organizzano entro le mura e stabiliscono di fatto legami più ordinati e continui fra la città e il territorio circostante. queste forze costituiranno più tardi il nerbo del comune cittadino» (Storia del comune medievale, in Enciclopedia italiana, vol. undicesimo, pag. 18 – 1).

 

 

Nobili banchieri commercianti artigiani professionisti, in breve tutte le classi sociali, mantengono rapporti continui fra la città ed il contado.

 

 

11. Le grandi famiglie dei patroni, eredi di coloro che nel nono secolo avevano fondato il monastero di Pasignano, posseggono feudi nel Mugello, al nord di Firenze e nella valle superiore dell’Arno, al sud verso Arezzo; esigono, ancora alla fine del tredicesimo secolo, pedaggi sulla strada di Arezzo, hanno palazzo e torre a Firenze ancora nel 1260 alla vigilia della rotta della parte guelfa a Montaperti. Il giudice messer Guinizingo da Barberino, uno dei patroni di Pasignano, è nel tempo stesso feudatario influente nel contado e cittadino ascoltato in Firenze. L’idea che la borghesia cittadina sia mossa alla conquista del contado feudale è anti – storica. Nella città e nel contado le classi dirigenti erano le medesime. Le più antiche famiglie mercantili della città appartenevano alla nobiltà dirigente nel tempo stesso rurale e cittadina.

 

 

12. Quale era l’estrazione del resto, ossia della massa dei cittadini fiorentini? Non certo dai servi fuggitivi. Il podestà di Firenze giurava di considerare libero colui che avesse dimorato durante dieci anni in città o nei sobborghi, in casa propria o in casa di affitto, senza che sia giunto reclamo o querela contro di lui al tribunale del comune. Per eccezione il termine era talvolta ridotto da 10 a 5 anni; ma nella Toscana sino al 1300 non fu mai applicato il principio tedesco «Stadteluft macht frei», la dimora per un anno nella città rende libero l’uomo servo. Trattati frequenti regolano la estrazione dei fuggitivi da città e città; e tra le grandi famiglie comitali del contado.

 

 

Nel 1200 la città di Firenze, che pure lottava con i conti Alberti, fece a questi una sola concessione; di aiutarli contro i servi di cui essi reclamassero l’estradizione. Due anni più tardi il console della corporazione dei mercati di Firenze promette ai vinti del castello di Semifonte di obbligare i coloni a non abbandonare il castello, trattandoli come se fossero suoi proprii coloni. Il monastero di Pasignano intenta cause dinnanzi ai tribunali fiorentini contro uomini suoi dipendenti, su fondamenta in apparenza tenui; e le vince sempre, sia che la città fosse in mano al «primo popolo», od alla parte guelfa od ai quattordici.

 

 

13. Non di servi fuggitivi, ma di gente mezzana, già salita nella scala sociale, e fornita di indipendenza economica, era composta la migrazione dalla campagna alla città. Emigravano i maggiorenti dei borghi ed emigrando conservavano la proprietà delle loro terre. Non vi è, tra le famiglie di Pasignano, esempio di chi, nella prima generazione, abbia venduto le terre.

 

 

La famiglia si eleva a poco a poco per gradi insensibili dalla condizione contadina a quella cittadina. Noi possiamo seguire dal 1030 le vicende della famiglia che verso il 1200 si fregiava del nome di messere Buono da Pasignano, giudice e consigliere del comune di Firenze. Fin dall’inizio essa ha una posizione ragguardevole nel castello. Dopo un secolo, si hanno prove di relazioni, dapprima forse non seguitate, della famiglia con la città. Alla fine dell’undicesimo secolo si veggono comparire, tra i parenti, causidici e notai; il nonno di Messer Buono è medico; il padre messer Truffetto, sebbene fedele o uomo ligio dell’abbazia, è arbitro, procuratore del monastero, commissario alla revisione dei debiti dell’abate Uberto.

 

 

 

Si sente che la famiglia è in ascesa. Quando compare messer Buono, la vediamo già radicata nella città, talché egli fa parte del gran consiglio fiorentino nei primi mesi dell’agitato 1216, quando si iniziano le lotte tra gli Amidei ed i Buondelmonti e si sente parlare la prima volta di Guelfi e Ghibellini.

 

 

I figli dimorano in case proprie a Firenze. Solo nel 1220 e nel 1243, mezzo secolo dopo il trasloco definitivo della famiglia dal contado alla città, la vedova ed i figli di messer Buono vendono la proprietà avita al monastero, probabilmente per impiegarne il ricavo nell’acquisto di altre proprietà più vicine a Firenze. La famiglia del fabbro Gianello, la più cospicua dopo quella di messere Buono, che nei primi decenni del 1200 vantava il nobile cavaliere messer Tolosano, emigra altresì, non però a Firenze.

 

 

Essa è attratta da Poggibonsi, il maggior borgo della valle dell’Elsa, che fu a tratti città libera, spesso contesa tra Firenze e Siena. A Poggibonsi si stabiliva il ramo di Rodolfo, zio di messer Tolosano; ma ci volle un secolo perché il trapianto dal castello rurale di Pasignano alla città provinciale fosse definitivo. Un figlio di Rodolfo viveva già verso il 1200 a Poggibonsi; ma ancora nel 1280 vi erano discendenti che possedevano e vivevano ed erano consoli e consiglieri a Pasignano; e solo dopo il 1300 paiono essersi stabiliti definitivamente a Poggibonsi.

 

 

Par di vedere i membri delle famiglie più facoltose inviare in città i rampolli più avveduti o ardimentosi, mentre i vecchi e i fratelli restano in campagna; ed i figli che hanno studiato e sono notai e medici far la spola fra la campagna e la città, per curare la vecchia clientela rustica e frattanto mettere radici nella nuova cittadina. La città incoraggiava i legami con i migliori uomini della campagna. Otto von Freisingen a metà del secolo dodicesimo già notava: «Le città italiane, per avere uomini con cui sottomettere i vicini, non disdegnano dare la cintura di cavaliere a giovani di bassa estrazione, a quegli artigiani medesimi che in altri paesi sono temuti come la peste dagli uomini nobili e liberi. Perciò le città italiane sorpassano tutte le altre in potenza ed in ricchezza» (Gesta Fridericis Imperatoris, Liber secondo, cap. 13, come citato da Plesner a pag. 135).

 

 

La città medievale italiana irraggia la sua potenza ben lungi dagli stretti confini del territorio immediato, grazie alla attitudine a trarre a sé tutto che era vivo e progressivo nel contado. Questi rurali, che erano diventati cavalieri grazie al possesso dei prati e dei campi necessari a mantener sé ed il cavallo, vivono a tratto a tratto, nei momenti agitati, in città; ne acquistano le abitudini; ed a poco a poco sono tratti a stabilirvisi.

 

 

La famiglia di Borgnolino, uomo ligio dell’abbazia di Pasignano e nel tempo stesso in perpetua lite col suo signore, è anch’essa presto attratta dalla città. Uno zio, pur pagando per le sue terre canone al monastero, attendeva alla tessitura delle calze (calzaiolo) in città fin dal 1130. Un fratello di Borgnolino, verso il 1200, è prete. Nella generazione successiva il cavalier Ristoro ha terre a Pasignano, dà a mutuo al monastero e litiga con questo; ma possiede altrove, verso il 1231, terre dipendenti dal vescovado di Firenze. I nipoti del cavalier Ristoro sono definitivamente cittadini di Firenze, proprietari di case in Santa Maria sopra Porta, ghibellini, e come tali ribelli e banditi dopo il 1267. ;Solo dopo il 1290 si decidono a vendere terre e case di Pasignano al monastero per buona somma di denaro; e si veggono in stretti rapporti con le famiglie magnatizie degli Scolari e degli Acciaiuoli.

 

 

Da un Arrigus vocatus Sirigattus, il quale ha in fitto perpetuo terre dell’abbazia di cui è uomo ligio, discendono un ser Paganello, giudice e notaio del popolo di S. Simone in Firenze ed un Lapo di Niccolino, che nel 1307 era iscritto come maestro nella corporazione dei mercanti di seta, e, quando il «popolo minuto» partecipò al governo della città, divenne nel 1334 membro del collegio dei priori e nel 1341 gonfaloniere di giustizia. Da questo Lapo discesero 48 priori e 12 gonfalonieri al tempo della repubblica; e la famiglia dei Niccolini – Sirigatti, nobilitata dai granduchi, ancora adesso conserva il palazzo avito in Firenze e la tradizione della provenienza da Pasignano.

 

 

14. Il primo scalino da cui comincia l’ascesa e l’inurbamento degli uomini di Pasignano è la professione di notaio.

 

 

Nel tredicesimo secolo le 16 famiglie di cui la genealogia ha potuto essere ricostruita dal Plesner contano 18 notari e 30 notai si noverano nel solo castello di Pasignano. Forse l’ascesa era agevolata da una scuola rudimentale aperta nel monastero ai figli dei borghigiani; forse la perizia professionale si acquistava dai più avveduti frequentando lo studio di un notaio esercente ed iscrivendosi poi, alla paro di qualsiasi altro artigiano, nella corporazione; e forse i giovani erano attratti numerosi alla professione dalla speranza di partecipare ai vantaggi delle operazioni delle grandi case di banca e di commercio a cui rendevano servizi.

 

 

V’era una scala nella dignità notarile; e le liste dei membri dell’arte dei giudici e dei notai in Firenze tra il 1280 ed il 1290 ci dicono di 240 notai stabiliti nei distretti rurali dei sei quartieri urbani di 442 stabiliti in città e dei più reputati che hanno, invece di quello di sere, il titolo di messere e posseggono la competenza atta a farli sedere come giudici nei tribunali ordinari della città.

 

 

Dei notai residenti in città, tra un terzo e la metà sono detti originari dal contado; e forse son più, non essendo di tutti dichiarata l’origine. Né si diventava notai a Pasignano per rimanervi. Tra il 1270 e il 1280 ser Bonfrade, che pare fosse il solo notaio residente di continuo a Pasignano, dichiara almeno due volte di non avere in luogo trovato altro notaio il quale potesse aiutarlo in certi casi nei quali occorreva per la validità dell’atto l’assistenza di un secondo notaio.

 

 

15. Dopo il 1300 Pasignano cessa di essere culla di uomini destinati ad ascendere nella vita pubblica, nei commerci e nelle professioni della città. In tutto il corso del quattordicesimo secolo appena due o tre notai giungono dal castello alla città. In verità l’antico «castello», borgo fortificato di proprietari indipendenti, ha cessato di esistere. Il monastero ha conseguito, dopo secoli di lento lavorio, lo scopo di diventare proprietario dell’intero territorio murato e della maggior parte dei terreni dei dintorni. Il castello era diventato una fortezza privata e la terra, accentrata nelle mani di un solo proprietario ecclesiastico, era coltivata da poveri villani, ai quali era negata la speranza di elevarsi. Ad uno ad uno i proprietari maggiori e medi avevano venduto le loro terre al monastero, il quale si trasformava così da semplice dominio feudale in proprietario effettivo. L’emigrazione cessa appunto quando nel quattordicesimo secolo sorgano le condizioni immaginate dagli storici per cagionare la fuga in città dei servi scampati dagli artigli del signore feudale. L’emigrazione dal contado nelle città non fu mai un movimento disordinato di masse povere al par di quello che contemplammo in Italia e in Europa lungo taluni decenni del secolo diciannovesimo: fu invece un lento inavvertito trasferirsi individuale degli uomini migliori per fortuna o per abilità professionale dal contado alla città dove le speranze di salire erano più varie e promettenti.

 

 

16. Sarebbe interessante seguire passo passo, così come si fece per Pasignano, l’esposizione minuta che il Plesner fa dell’emigrazione a Firenze dal borgo aperto, posto a sette chilometri al sud della città, di S. Alessandro di Giogole. Era S. Alessandro la chiesa battesimale o pieve, centro di un plebato composto di dieci parrocchie più piccole (popoli), di cui essa era prima per dignità. Popoli e plebati erano nomi di circoscrizioni amministrative oltreché religiose. Gli uomini del popolo eleggevano i loro rettori e questi il sindaco della pieve, che la rappresentava dinnanzi al sesto urbano od alla comune. Ufficio dei rettori e dei sindaci era sovratutto il reparto dei tributi imposti dalla città. Da fogli sparsi cuciti tra i protocolli del notaio Attaviano di Chiaro (ser Tano di Giogole), il Plesner ha ricostruito le liste dei contribuenti del popolo di S. Alessandro di Giogole alle quattro date del 1266, del 1271 e del 1276. Il primo foglio è incompleto e riguarda solo una ventina di uomini di Giogole dimoranti in città.

 

 

17. Caratteristiche fra le molte notizie ordinate dal Plesner sono quelle che si riferiscono alla lotta fra cittadini e contadini per la iscrizione nei ruoli dei contribuenti in Giogole. Gli estimi parrocchiali scemano da una volta all’altra: da 2.376 lire nel 1268 si scende a 1.878 nel 1271 ed a 1.000 nel 1276. La diminuzione può essere apparente, se il comune ha ripartito un contingente di lire di estimo[4] minore su tutto il territorio; ma può essere indice, se il contingente totale di lire d’estimo rimase costante, di una diminuzione proporzionale della capacità contributiva di Giogole in confronto alla capacità totale del territorio fiorentino. C’è qualche presunzione che ciò sia accaduto; non per effettiva diminuzione dei frutti ricavati dalle terre e dalle case di Giogole; ma perché un numero crescente di proprietari rurali si trasferisce alla città o, pur dimorando ancora in campagna, riesce a farsi iscrivere nei ruoli cittadini. Quale fosse l’interesse di costoro a pagare in città non è ben chiaro; se perché in campagna la loro situazione di fortuna fosse meglio conosciuta che in città, ovvero per sottrarsi ad oneri specifici locali (stipendi e trasferte ai rettori e sindaci, spese di strade, riattamento di ponti).

 

 

Vi sono sentenze arbitrali del 1270 che obbligano certi sedicenti cittadini a continuare a contribuire ai carichi locali, pur essendo esenti dai tributi già soluti nella parrocchia urbana; se, trascorsi dieci anni, risultasse poi che veramente essi dimoravano in città, cessava il diritto della parrocchia rurale ad esigere alcunché; ma se essi dimoravano in campagna, dovevano ivi essere reintegrati come contribuenti regolari. Tutti i membri delle 11 famiglie più importanti di Giogole iscritte nelle liste del 1226 – 68 tentarono di diventar «cittadini »; il tentativo riuscì per 13 e forse per 10 altri, non riuscì per 5. Tutti questi cittadini o sedicenti cittadini erano contadini dimoranti sulle loro terre di famiglia. Vengono, in seguito, sulle liste 18 altre famiglie di media statura economica. Parecchi dei membri di esse nel 1276 e 1278 sono divenuti cittadini.

 

 

Caratteristica la vicenda di due fratelli Collazino e Villano di Cambio che nel 1266 avevano insieme un estimo di 105 lire, bastevole a collocarli nella categoria più alta dei contribuenti: 65 spettavano a Collazino e 40 a Villano; cifre astratte, prive di significato intrinseco ed atte solo a chiarire la relativa situazione di fortuna. Collazino, che nel 1260 era ancora noverato fra i rustici, doveva essere industrioso se in quell’anno pagò qualcosa a suo fratello perché questi lo sostituisse nella prestazione di lavoro, con asino, per il servizio di approvvigionamento dell’esercito. Nel 1269 egli mutua denaro a suo fratello, che lo rimborsa fornendolo d’olio in città, dove già doveva essersi trasferito; e nel 1271 acquista la metà e nel 1276 l’altra metà di un podere di Villano.

 

 

Questi discende sempre più in giù, riducendosi a coltivare come mezzadro il podere che era suo; e vendendo, per dare 50 lire in dote alla figlia, altre terre al nobile messer Gianni degli Amidei. Frattanto, Collazino dotava le figlie con 121 e 194 lire; ed ereditava dal fratello, morto nel 1295, probabilmente per anticipi fattigli. Nel 1278 il popolo di Giogole reclamava per sé il fratello povero Villano; ma non turbava il ricco Collazino nel possesso del titolo di cittadino.

 

 

18. Un solo tentativo di inurbarsi da parte di proletari è conosciuto da’ Plesner; e non riesce. In verità Firenze non era città da operai forniti di sola braccia. Essa abbisognava di artigiani che animassero i moltissimi laboratori famigliari indipendenti, attraverso a cui la materia prima passava sino alla compiuta finitura ed alla vendita. Solo i maggiori proprietari rurali avevano i mezzi di diventare padroni di botteghe e di laboratori a Firenze.

 

 

Vi era tra la via di Casellino (poi Maggiore ed ora via Maggio) ed il borgo di Piazza (ora via Romana) una colonia di Giogole, gente accorta, che si accomodava con elasticità a Guelfi ed a Ghibellini; e, anche quando doveva chinare il capo per lasciar passar la raffica, non trascurava gli affari. Uno di questi, Arriguccio, deve ritirarsi, come ghibellino, in campagna, in un suo podere in Camposorboli, popolo della pieve di Giogole. Benché cittadino fiorentino, si consola del confino attendendo ai poderi, mutuando denaro a parenti, acquistandone i terreni. Quando egli è, nel giugno del 1277, sul letto di morte, Ser Tano gli porta in casa coloro a cui egli aveva dato a prestito ad usura; prima tre, e poi cinque, e poi sei e due; e lo induce a rimborsare tutto o parte dell’usura percepita.

 

 

Alla fine Arriguccio deve essersi stancato delle premure di ser Tano e non fa redigere da lui il testamento. I figli e la vedova si ripartono case forni e poderi. Artigiani e mercanti nuovi e modesti sanno barcamenarsi fra Guelfi e Ghibellini. Poiché gli Uberti contavano tra le maggiori famiglie nobili ghibelline che dominarono in Firenze tra il 1260 ed il 1266, quei di Ardinghello di Giogole, riflettendo alla casa di commercio da essi condotta, con altri soci, in Firenze, cercano di procacciarsi un patrono dando una loro donna, provvista di dote, a un membro povero della grande famiglia degli Uberti, Brunetto di messer Ildebrandino. Nel marzo 1261 la dote, fissata in 167 lire, era quasi tutta versata, ma non ancor stabilito chi fosse la donna; e solo dopo qualche anno la scelta cade sulla loro stessa madre donna Cecilia, vedova di Bonaffede di Ardinghello. Col 1267, messer Brunetto deve andare in esilio e forse si ritira colla moglie in quel di Giogole; e subito i pieghevoli Ardinghelli pensano alla contro assicurazione.

 

 

Nel gennaio 1267, Arnolfo figlio di donna Cecilia e di Bonaffede dota una sua figlia con 150 lire per darla in sposa ad un Baldese di Bonfigliolo che può recar come testimoni alle nozze due guelfi di marca. Il fidanzato era cittadino d’oltrarno, possedeva case in città e terre a Giogole, da cui probabilmente proveniva.

 

 

Un’altra famiglia, del popolo di Arniano di Giogole, manda un primo rampollo in città all’epoca del primo popolo; ma ancora nel 1278 alcuni rami vivevano in campagna ed altri contavano fra i cittadini «selvatici», che erano quei rustici i quali la pretendevano a cittadini, pur vivendo di fatto in campagna. Un po’ per volta, costoro crescono, sotto il nome di Alderotti, in ricchezza e potenza; commerciano fuori d’Italia, sono incaricati dalla Signoria di missioni di rilievo, costruiscono ad Arniano un palazzo rimasto nella famiglia sino alla sua estinzione nel 1681.

 

 

La diffusione del sistema di mezzadria è dovuta a questi rustici inurbatisi nel duecento. Sebben cittadini, essi non intendono rinunciare alle loro terre né le vogliono affittare. Grazie alla mezzadria, essi posseggono scorte, comprano e vendono bestiame, fabbricano olio e vino. Maneggiatori di denaro, si tengono stretti ai prodotti in natura che le terre avite e nuovamente acquistate forniscono. Meri usurai cittadini avrebbero avuto tanto sapor di terra?

 

 

19. Giunto alla fine della ricerca, il Plesner riafferma il convincimento della erroneità della tesi, grandiosa ma leggendaria, di una rivoluzione nella proprietà terriera conquistata nel duecento, a prezzo di sangue e di usura, a danno della classe feudale dalla borghesia cittadina. Il tipo dell’usuraio che conquista la terra non è ignoto, ma è raro in confronto alla regolarità con la quale si presenta un altro tipo, così abbondante e vario da costituire quasi altrettante stratificazioni geologiche successive.

 

 

«Queste stratificazioni non si rintracciano in campagna, ma in città dove noi troviamo quasi soltanto vecchie famiglie proprietarie terriere piccole e grandi le quali hanno emigrato in città ad epoche differenti, in ondate susseguenti, genti le quali, persistendo a rimanere contadini o nobili rurali, non abbandonano le loro terre, e curano con assiduità la coltivazione e le ingrandiscono con nuovi acquisti. Esse dimorano in città e vi esercitano professioni urbane commerci ed arti; ma la base della loro vita e dei loro affari sono i canoni ricevuti regolarmente in frumento olio vino ecc. dai mezzadri.

 

 

Caratteristica della formazione della città libera non è, anche se ebbe naturalmente luogo in taluni casi, il mutamento nei possessori della terra, bensì come già era accaduto nell’antichità, l’emigrazione delle famiglie proprietarie di terra in città, dove crebbero in ricchezza con l’esercito delle professioni urbane. Il vero rinascimento, quello della «civitas», sta in questa migrazione, la quale ha avuto luogo nelle cellule medesime della struttura sociale. Il «cittadino» medievale italiano, è, dai ceti più alti all’umile artigiano, un tipo sociale rassomigliante al cittadino della città antica e dissimile in tutto dai borghesi mercanti e dai nobili feudali d’altri paesi. La struttura sociale spiega come il rinascimento, civiltà propria della libera città italiana, non abbia mai recato l’impronta dell’orizzonte socialmente limitato del mercante o dell’artigiano, dell’uomo di corte, del contadino o del nobile rurale» (214 – 15).

 

 

20. Le conclusioni del Plesner sono valide per tutta la Toscana o solo per il castello di Pasignano ed il popolo di S. Alessandro di Giogole; per i tre secoli dal 1000 al 1300 che veggono il formarsi e l’ascendere del comune di Firenze o per il solo periodo tra il 1200 ed il 1300 al quale, meno numerosi prima e più frequenti dopo, si riferiscono sovratutto i dati ed i fatti tratti dai documenti studiati dall’egregio storico danese? Non voglio dare al quesito una qualsiasi risposta, la quale può essere il compito solo di chi rifaccia, con lo stesso rigore di metodo, il processo alle opinioni comunemente invalse basandosi su documenti di altri castelli e di altre terre e per tempi più lunghi di quelli propri dell’indagine del Plesner. Inserire, in una disputa alla quale possono partecipare solo i dotti competenti, l’opinione di un laico del duecento toscano sarebbe improntitudine invereconda.

 

 

Debbo, tuttavia, dire perché nello scrivere ho presentato la teoria di Plesner come se fosse dotata di virtù persuasiva ben più ampia di quella propria del piccolo castello e del minuscolo borgo studiato da lui prevalente su documenti spettanti alla seconda metà del duecento. Oltre alla virtù persuasiva del buon metodo (cfr. sopra par. 4), v’ha nel racconto storico del Plesner un’altra virtù: la conformità sua all’umile nostra esperienza quotidiana. L’inurbarsi dei rustici non segue oggi le leggi medesime le quali ci sono descritte per il duecento toscano nel libro del Plesner?

 

 

Questi, nel descrivere il processo di inurbamento dal contado toscano alla città andò probabilmente più vicino di altri alla realtà perché guardò con occhio chiaro alle umili vicende della vita quotidiana. Dai villaggi partono anche oggi le famiglie per recarsi nel grosso borgo, nella cittadina provinciale, nella grande città. Talvolta, quando nel borgo o nella città la fabbrica fa richiesta di lavoro non qualificato, sono uomini i quali posseggono la sola ricchezza delle braccia. Tra questi, alcuni saliranno o saliranno i figli, divenuti operai di mestiere sovrastanti ingegneri professionisti. Ma anche oggi, come nel duecento, in gran parte d’ Italia non esiste la fabbrica divoratrice di mere braccia; eppure si emigra.

 

 

Non emigrano i poveri, bensì coloro che sono già saliti; che da braccianti erano dapprima divenuti fittaioli o mezzadri, e una seconda generazione ha acquistato terra e la terza l’ha ampliata. Uno dei figli si è fatto prete; un altro, più sveglio, ha imparato un mestiere, si è dato, nel borgo, al negozio o alla mediazione. Nella famiglia coll’agiatezza è sorta l’ambizione di gareggiare con le vecchie famiglie che danno geometri avvocati medici notai ai compaesani, impiegati al comune, ufficiali ed impiegati allo Stato.

 

 

Perché – dice chi ricorda essere i capostipiti di quelle vecchie famiglie venuti su anch’essi dalla vanga o dall’incudine – non anche noi? La mamma, per scanso di spesa, si trasferisce in città a dare agevolezza di studio ai figli. Il padre veste ancora in giacca paesana, non usa colletto e cravatta, quando già i figli si atteggiano a «signori».

 

 

Taluno ritorna in paese ed ivi diventa notabile. Altri resta in città. La varietà dei casi è grande. Talvolta l’emigrazione evita la decadenza della famiglia. Chi ha perso la voglia di coltivare manualmente la terra e la consumerebbe in pochi anni al giuoco in male compagnie paesane, se affitta i poderi e va in città, non di rado trova una via nuova. Il lavoro, che gli parrebbe umiliante in mezzo ai rustici amici ai quali si sente superiore, è gradito in piccolo ufficio cittadino.

 

 

A lui sembra di essere salito barattando l’incerta indipendenza campagnola con lo stipendio del ferroviere del commesso di banca del fattorino tramviario dell’usciere di pretura; ed i fratelli, rimasti sulla terra, hanno la stessa reverenziale opinione quando gli mandano parte dei frutti della terra sua che essi coltivano. Alla lunga, dopo due o tre generazioni, il rustico cittadino si disamora della terra; l’impiego la professione gli rendono difficile occuparsene o dimorarvi ogni anno qualche mese o qualche settimana; nella state preferisce il trambusto del mare o del monte alla solitudine della casa di campagna.

 

 

L’impiego in titoli pubblici obbligazioni ed azioni gli par più promettente; e vende. Altri, da lui acquistando, ottiene il mezzo di salire; e prepara una nuova ondata migratoria alla città. Ma se qualche famiglia resiste e riesce, attraverso uno o due secoli, a conservare, pur essendo oramai fatta cittadina, le terre un tempo lavorate dagli avi e quelle acquistate di poi, essa dimostra di valere più di quelle che si sono, per stanchezza del basso reddito e dei molti fastidi, sradicate dalla terra; ed ha, in premio, il durare ancora, quando le altre sono state disperse dal vento insieme alle loro carte di gran frutto.

 

 

Contemplando le quali comunissime vicende, Le Play conclude che nella scienza sociale non vi è nulla da inventare e tutto è stato detto nel decalogo. Della quale verità essenziale non essendosi persuasi, gli storici inventano teorie di rivoluzioni mai accadute; sicché ogni tanto un Plesner, leggendo atti notarili e meditando su elenchi di contribuenti, deve con grande meritoria fatica ricostruire, per il suo piccolo angolo di mondo, una verità che, sembra, avrebbe potuto essere ovviamente pensata.



[1] Divagazioni moderne e proposito di un libro sul trecento (di Bernardino Barbadoro su Le finanze della repubblica fiorentina. Imposta diretta e debito pubblico fino alla istituzione del Monte. Firenze, 1929) nel fascicolo del marzo – aprile 1931 di «La Riforma Sociale», riprodotto in Saggi, 1933, pagg. 257-37.

[2] Traduction du manuscrit danois par F. Gleizal en collaboration avec l’auteur. Un vol. in ottavo di pagg. sedicesima – 240. Gyldendalske Boghandel – Nordisk forlag – Kobenhavn, 1934.

[3] Osservo subito però di preferire l’autentica immediata comunicazione del suo pensiero fornita dal Plesner, nella lingua adottata da lui e dal traduttore Gleizal, alla traduzione letteraria di scrittore necessariamente non immedesimato nella materia trattata, attraverso la quale sarebbe andato perduto, per la chiarità troppo limpida dello scrivente francese, quel che vi è di più realisticamente sfumato e paesano e convincente nello scritto del Plesner.

[4] Le lire li estimo non erano nulla di reale, ma un numero puramente astratto utile a ripartire con equità un carico tributario effettivo separatamente fissato. Che Giogole avesse nel 1268 un estimo di 2.376 lire nel 1268 o di sole 1.000 nel 1276 voleva dire solo che Giogole doveva contribuire nella proporzione di 2.376 parti su un totale di x nella somma effettiva che il Comune decideva di imporre in un dato anno. Se l’x totale era rimasto costante nei due anni, la diminuizione da 2.376 a 1.000 indicava diminuizione della capacità contribuitiva relativa di Giogole; se l’x era cresciuto, la diminuizione di Giogole era più che proporzionale; se l’x era diminuito poteva anche darsi che la parte di Giogole rimanesse costante o perfino crescesse.

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