Opera Omnia Luigi Einaudi

La limitazione dei dividendi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/02/1916

La limitazione dei dividendi

«Corriere della Sera», 15[1] e 24[2] febbraio, 6[3], 7[4] e 8[5] ottobre, 11 novembre[6] 1916; 25 gennaio 1917[7]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 298-334

 

 

I

 

Il decreto luogotenenziale per la limitazione dei dividendi delle società commerciali merita di essere esaminato dal punto di vista tecnico; essendo chiaro che altre norme dovranno essere sancite per rendere applicabili i principii che furono per ora solo affermati nelle grandi linee.

 

 

Comincierò dalle osservazioni che si possono fare per le più importanti tra le società contemplate nel decreto, che sono le società anonime per azioni. Per queste, come per le altre, il decreto vieta agli amministratori di distribuire un dividendo superiore all’8 od al 10% del capitale sociale versato, a seconda che si tratta di società costituite prima o dopo il 23 maggio 1915, data di dichiarazione della nostra guerra all’Austria; a meno che, trattandosi di società antiche, esse avessero distribuito nell’ultimo triennio un dividendo maggiore in media all’8%. In questo caso le società potranno distribuire un dividendo uguale alla anzidetta media.

 

 

Sembra necessario spiegare che nel capitale sociale versato sono comprese altresì le riserve, comunque cumulate in passato, perché le riserve fruttano redditi ed hanno diritto ad una remunerazione alla pari del capitale versato dagli azionisti. Altrimenti si toglierebbe ogni interesse nelle società a cumulare riserve, quando queste dovessero rimanere senza compenso; e si multerebbero quelle società le quali in passato si sono comportate con quella prudenza che il legislatore vuole adesso consigliare ed imporre a tutte col presente decreto.

 

 

Quid delle società, le quali hanno in passato ridotto il capitale; per facilitare nuovi apporti ed aumenti di capitale con nuove emissioni di azioni? Se il capitale, sebbene nominalmente ridotto ad un milione, in realtà esiste ancora e produce nella cifra di due milioni, equità vorrebbe che fosse possibile remunerare i due milioni e non un milione di lire soltanto.

 

 

Il concetto della media dei dividendi ripartiti nell’ultimo triennio può lasciar luogo a qualche dubbiezza, quando trattasi di società che nell’ultimo triennio hanno traversato momenti di crisi economica; da cui sarebbero uscite, anche indipendentemente dalla guerra. Forse parrebbe opportuno di consentire alle società di scartare gli anni a dividendo zero: o considerare come uguale al 5 od al 6% il dividendo minimo distribuito in ciascuno dei tre anni del triennio.

 

 

Qui trattasi tuttavia di opportunità; mentre per le riserve e le svalutazioni del capitale una interpretazione nel senso sovradetto è di stretta giustizia.

 

 

Difficoltà maggiori di interpretazione debbono essere eliminate per le altre specie di società commerciali. Qui occorrerà integrare la norma relativa all’8 o 10% del capitale sociale versato, per renderla di possibile applicazione pratica.

 

 

Nelle società in accomandita, semplice o per azioni, è facile limitare il dividendo all’8 od al 10% del capitale delle azioni e delle carature dei soci accomandanti o di capitale. Come dovranno invece comportarsi le società per gli utili spettanti ai soci gerenti, i quali forniscono, come tali, soltanto la loro opera? Gli utili delle società in accomandita vanno ripartiti tra i soci di capitale ed i soci di lavoro. Anche questi possono aver conferito un capitale; ed in tal caso, in tal qualità, vanno trattati alla stessa stregua dei soci capitalisti. Come risolvere il quesito per gli utili che a loro spettano in qualità di soci di lavoro, o gerenti od amministratori? Una soluzione equa parrebbe questa: che potesse essere repartita, a norma dello statuto d’ogni società, quella massa d’utile che bastasse a dare al capitale un dividendo dell’8 o 10%, dando ai soci gerenti la corrispondente quota statutaria di utili. Così, se il capitale di una accomandita fosse di un milione di lire, e se al socio gerente spettasse, oltre il suo onorario fisso, il 50% degli utili al di là del 5% sul capitale, la società dovrebbe potere repartire 50.000 lire al capitale, a titolo di interesse 5%, ed inoltre altre 30.000 lire pure al capitale, fino al massimo complessivo dell’8% ed insieme 30.000 lire al gerente; in conformità dello statuto, il quale vuole siano gli utili, oltre l’interesse, divisi in parti uguali fra soci accomandanti e gerenza.

 

 

Più difficile appare trovare il criterio per le società in nome collettivo; per le quali il capitale spesso è minimo, mentre ragionevolmente gli utili sono vistosi, in ragione del lavoro dei soci. Sia una società nuova, costituitasi con un capitale di 20.000 lire. Essa guadagna 10.000 lire; il che in apparenza corrisponde al 50% del capitale, mentre in realtà non è molto, se si riflette che le 10.000 lire sono il compenso dell’opera personale dei due soci. Consentiremo solo il riparto del 10% sul capitale, ossia 2.000 lire? è un compenso equo, 1.000 lire a testa, del lavoro di un anno? Adottare rigidamente questa regola, non è uno stimolare i soci ad assegnarsi forti stipendi fissi, allo scopo di diminuire gli utili, danneggiando, con la fissità dello stipendio, quell’assetto solido che il legislatore si proponeva di ottenere?

 

 

I chiarimenti sono finalmente indispensabili per le associazioni in partecipazione e per le società di mutua assicurazione. Possono invero darsi associazioni in partecipazione senza capitale versato; e non ritengo che questi siano i casi minori in numero. Industriali, commercianti, speculatori possono avere convenienza a dare una partecipazione negli utili o nelle perdite di una o più operazioni ad un terzo senza che questi versi alcun capitale, bastando la prestazione di opere o di consigli. In ragione di quel capitale stabiliremo noi il limite dell’8 o 10%? Come, ancora, mettere un limite agli utili di una associazione di mutua assicurazione, per le quali si tratta di repartire tra gli associati i danni che sono oggetto dell’associazione? Parrebbe equo che, se nel 1915 o 1916 i danni risultano fortunatamente inferiori agli anticipi pagati dagli associati, l’avanzo possa, senza la materiale restituzione, essere imputato a credito degli associati per i rischi dell’esercizio successivo.

 

 

Le difficoltà inducono a qualche riflessione su ciò che si intende per accantonamento degli utili eccedenti la misura fissata nel decreto. Che cosa significa la norma per cui l’eccedenza degli utili deve essere accantonata e costituita in riserva speciale di ammortamento o di rispetto?

 

 

Fa d’uopo innanzitutto scartare, come erronea ed inammissibile, l’opinione di chi intendesse che quelle eccedenze degli utili debbono materialmente essere costituite in un fondo a parte, versato presso una cassa di risparmio o banca od investito in titoli di tutto riposo; così che le riserve stesse conservassero una individualità propria e fossero realizzabili ed impiegabili a parte nel giorno in cui il legislatore deliberasse di togliere il vincolo.

 

 

Questa opinione è inammissibile:

 

 

  • perché contraria alla pratica universale ed alle necessità dell’industria. Salvo rari casi, i quali si spiegano con particolari ragioni e non possono essere additati ad esempio degno di imitazione agli altri industriali, la individualità delle riserve è e deve essere puramente contabile. Una società può possedere un capitale di un milione ed una riserva di 500.000 lire; ma tutto il milione e mezzo è impiegato promiscuamente in macchine, edifici, scorte, fondo circolante ecc. ecc. Far diversamente è assurdo ed impossibile, come ogni industriale ben sa. Le riserve si accumulano dagli industriali prudenti appunto per allargare gli impianti, non mai per accantonarle oziosamente in qualche fondo speciale depositato in banca od investito in titoli;

 

  • perché in passato non fu lodevole l’opera di quelle società, le quali prevalentemente investirono le proprie riserve in titoli. Spesso ciò diede motivo a costituzioni di consorzi o sindacati, perché alcune società, acquistando titoli di altre, vennero a dominare su di esse ed a tiranneggiare il consumo. Non dico che si debba andare fino al punto da proibire, come fanno taluni legislatori, codesti investimenti. Sembrami certo però che neppure debbano essere incoraggiati;

 

  • perché nel momento presente può darsi che l’interesse generale esiga l’investimento di parte degli utili appunto per allargare gli impianti sociali. Il miglior impiego delle riserve può oggi essere l’estensione degli impianti per la produzione, ad esempio, delle forniture di guerra.

 

 

Il vincolo perciò si deve intendere rispetto alla distribuzione degli utili, non già rispetto al loro impiego. Questo deve essere lasciato libero ed insindacato agli amministratori delle società. Potrebbero costoro, per buonissime ragioni, essere anche contrari ad investire le riserve nella propria industria. Nessuna regola generale può essere dettata all’uopo. Dove l’interesse dell’impresa lo consigli si allargheranno, come si disse sopra, gli impianti; dove invece si preveda una crisi o restrizione di domanda o difficoltà avvenire, si terranno i denari disponibili. Giudici della convenienza di seguire l’una o l’altra via devono essere esclusivamente gli amministratori. Bisogna evitare di cadere, per volontà di conseguire il bene, nel male della manomorta e di una manomorta peggiorata, come sarebbe questa delle società commerciali.

 

 

Sarebbe, a tal fine, necessario che alla frase: fino a nuova disposizione, fosse sostituita l’altra: fino a tre o sei mesi dopo la conchiusione della pace. Io non voglio qui discutere, a proposito di un caso particolare, il problema generale della legislazione di guerra. Anche supponendo, cosa ben lontana dal vero, che la farraginosa legislazione europea attuale sia adatta al tempo di guerra; certa cosa è che la sua conservazione sarebbe perniciosissima in tempo di pace. Conservare il vincolo sugli utili in pace significherebbe affidare al ministero di agricoltura, industria e commercio il compito di decidere sul miglior impiego degli utili conseguiti dalle società commerciali. Chi conosca lo spirito dei funzionari del nostro e di tutti gli analoghi ministeri d’ogni paese, sa che ciò sarebbe un assurdo ed un danno gravissimo.

 

 

A crescere il grado di certezza che il vincolo sarà tolto al ritorno della pace, avrebbe giovato assai prorogare sino alla abolizione del vincolo stesso il pagamento dell’imposta sugli extraprofitti. Il che sarebbe logico; poiché il vincolo ha per iscopo di non depauperare le società di capitali di cui oggi potrebbero aver bisogno; motivo che vale anche per la quota del profitto assorbita dalla sovrimposta. In Germania, anzi, – e l’esempio può essere citato trattandosi di cosa assai ragionevole -, sottoposero a vincolo, lasciandola tuttavia a disposizione delle società, quella sola parte degli utili, che si prevede sarà assorbita dall’imposta sugli extraprofitti di guerra. Sarebbe questo un logico complemento di una norma contenuta nel decreto, che fu e doveva essere lodata da tutti: la esenzione dall’imposta di ricchezza mobile per le riserve speciali di guerra fino al giorno della loro distribuzione.

 

 

II

Il decreto sulla limitazione dei dividendi delle società continua a dar luogo a vivissime discussioni: il che non deve fare meraviglia se si riflette alla infinita varietà dei casi che è impossibile prevedere in un testo di legge. Alcune di queste discussioni parmi, però, potrebbero essere eliminate facilmente con una esplicita e rassicurante dichiarazione del governo; e sono quelle relative agli scopi del decreto. Il testo di questo ne adduceva uno solo: «La necessità di tutelare l’avvenire delle società commerciali, rafforzandone durante le eccezionali contingenze la condizione patrimoniale». Sarebbe bene che i funzionari del ministero di agricoltura, industria e commercio evitassero di accreditare altre spiegazioni, inammissibili ed assurde. Al corrispondente romano della «Perseveranza» un funzionario di quel ministero avrebbe invero addotto, oltre quella esplicitamente dichiarata nel decreto, due altre giustificazioni: il desiderio in primo luogo di garantire al fisco la esazione della imposta sui profitti di guerra; e la volontà di evitare in secondo luogo la vendita dei titoli del prestito nazionale che le società avessero sottoscritto.

 

 

Ho invocato, non molto tempo fa, la coscrizione dei competenti. Ecco qui un caso pratico, in cui sarebbe stato grandemente necessario che al ministero della economia nazionale vi fosse stato, invece di un funzionario evidentemente ignaro del mondo economico, un uomo pratico di società anonime e di borse. Un uomo pratico non avrebbe mai detto che, a garantire al fisco il pagamento della imposta sui sovraprofitti di guerra, occorra impedire la distribuzione degli utili ai soci. Fin da prima, per i principii generali del codice di commercio, nessun consiglio poteva proporre di ripartire come utili quelle che sono spese, e la imposta sui sovraprofitti è una vera e propria spesa nei rispetti dei soci. Ed il fisco non è forse in ogni caso largamente garantito da tutte le attività sociali e non gode di mezzi procedurali che gli danno una posizione di vero privilegio in confronto a tutti gli altri creditori?

 

 

Un uomo di borsa dal canto suo non avrebbe sicuramente detto l’altra eresia, che convenisse imporre l’accantonamento degli utili per impedire la vendita dei titoli del prestito nazionale eventualmente sottoscritti dalle società. Poiché dir questo, significa inavvertitamente togliere ai titoli di debito pubblico uno dei più bei pregi di cui essi si vantino: quello di potere essere ad ogni momento venduti a volontà del possessore. Se gli stati moderni riescono a collocare miliardi dai loro prestiti nazionali, pure in tempo di guerra, una delle cause più potenti è appunto la sicurezza dei sottoscrittori di potere liberamente vendere ciò che liberamente hanno comprato. Lasciate infiltrare nella mente dei risparmiatori l’idea che essi saranno costretti a tenere ciò che hanno comprato; e nessuno vorrà più comprare. Certamente l’on. Cavasola non è responsabile di ciò che forse ha detto qualcuno dei meno autorizzati emarginatori del suo ministero; ma non sarebbe male che in cose di così grave momento parlassero solo i responsabili ed i competenti. Non v’è nessuna ragione di divagare cercando motivazioni che sono assurde e, se fossero vere, sarebbero deleterie; quando il decreto chiaramente ed apertamente afferma che l’unico scopo suo è di tutelare l’avvenire delle società. L’accantonamento degli utili è voluto esclusivamente a beneficio delle società medesime. Si potrà discutere se il fine possa raggiungersi; o sia utile raggiungerlo. Ma quello, e non altro, è il fine. Il quale perciò esclude, come ho dimostrato nell’articolo precedente, ogni intervento dello stato nell’impiego delle riserve accantonate. Un intervento simile sarebbe impossibile praticamente, dannoso economicamente, di niun vantaggio allo stato e contradittorio perciò al fine unico che il decreto si propone.

 

 

Nei limiti in cui il decreto vuole operare, la sua applicazione non è certo facile. Converrà, se si vuole farlo funzionare, sciogliere le difficoltà per via di tentativi approssimati. Avevo insistito sulla necessità assoluta di aggiungere al capitale versato anche le riserve, per ragguagliare od emendare il dividendo ripartibile. Il prof. Antonio Scialoia vorrebbe invece, se possibile, dare l’8 per cento sul valore reale delle azioni. E ciò è anche più corretto di quanto proposi io, poiché il valore reale, che praticamente si vorrebbe dire valore medio (del 1915) di borsa o di stima delle azioni, comprende il capitale versato e tuttora esistente, le riserve parziali ed inoltre le riserve latenti e il valore d’avviamento, dovuto alla prudenza ed abilità degli amministratori e dei soci. Tutto ciò è vero e reale capitale produttivo ed operante; e tutto ciò è perfettamente corretto riceva un utile. Pensare diversamente vuol dire premiare le società imprevidenti e punire le sagge e bene amministrate. Il problema è assai discusso nei paesi nei quali lo stato credette opportuno intervenire non a limitare i dividendi – del che finora non si conosce alcun esempio di rilievo – ma a limitare le tariffe di vendita in relazione ai dividendi. Citerò il caso, forse il più istruttivo ed intorno a cui v’è una intera letteratura, che sarebbe bene non fosse ignorata dai funzionari del ministero di agricoltura, industria e commercio: quello delle ferrovie americane. La giurisprudenza della Interstate Commerce Commission è tutta imperniata sul concetto di concedere aumenti di tariffe ferroviarie o richiedere diminuzioni in funzione al rapporto esistente fra i redditi od i dividendi netti – e non mai il capitale versato, concetto privo di significato sostanziale – bensì il valore reale o di ricostruzione o di stima dell’impresa. Anche questa linea di condotta è tutt’altro che scevra di spinosità: ma ogni altra conduce necessariamente a risultati stridentemente contrari a giustizia.

 

 

Pur dopo avervi riflettuto, non mi sembra possibile che le società in cui è parte integrante o prevalente il lavoro – società in accomandita semplice e per azioni, società in nome collettivo, associazioni in partecipazione ecc. ecc. – possano applicare il decreto, secondo la sua generica attuale formulazione. È necessario e direi quasi urgente che intervenga un decreto esplicativo, il quale dica a che cosa si deve ragguagliare l’utile ripartibile, quando si tratta di remunerare non il capitale, ma il lavoro, come è il più grande e più importante numero dei casi di questa specie. Qui non si può procedere a base di percentuali, poiché il lavoro dell’uomo non ha sul mercato un valore capitale. Non sarebbe neppure equo dire: ripartasi l’utile uguale alla media dei tre anni precedenti. E se gli anni precedenti furono anni di magra? Dovrà chi lavorò dar fondo al resto del suo capitale privato od indebitarsi, quando sperava di mettere le cose sue in sesto coi redditi dell’azienda sua progrediente? Come – sia detto inoltre di passata – valutare legalmente gli utili per le società le quali sinora non avevano – e sono, immagino, la maggior parte – alcun obbligo legale di compilar bilanci?

 

 

Ma su un punto mi pare non sia consentito alcun dubbio. In quasi tutti gli statuti delle società per azioni ed in parecchi delle altre specie di società, è tassativamente prescritto che il cosidetto avanzo d’esercizio, ossia la somma risultante dalla detrazione di tutte le spese dagli incassi lordi, sia ripartito in una certa maniera, ad esempio:

 

 

%

Alla riserva ordinaria

5

Partecipazioni al consiglio, alla gerenza, agli impiegati, ai fondi Pensione, ecc. ecc.

15

Agli azionisti od ai soci

80

Totale

100

 

 

Lasciando impregiudicato il trattamento da farsi alla quota degli azionisti o dei soci, quando possa essere reputata quota di lavoro, una verità sembra sicura: che il decreto non riguarda le assegnazioni alle riserve ordinarie e le partecipazioni. Le società debbono, nella compilazione dei loro bilanci, seguire le consuete norme statutarie e, dopo avere dedotte tutte le spese, fra cui le imposte sui sovraprofitti di guerra, assegnare il 5% alla riserva ordinaria ed il 15 alle partecipazioni statutarie. Il decreto non impone alcuna deroga agli statuti sociali in tal materia: né avrebbe ragione di imporla. Le assegnazioni statutarie non sono toccate dal limite posto agli utili, perché o non si tratta di utili o non si tratta di utili spettanti alla società. Il 5% assegnato alla riserva statutaria è un accantonamento per provvedere a perdite future. Potrà darsi che, se in avvenire e per lunghi anni non si verificheranno perdite, le odierne assegnazioni diventino sul serio utili. Per ora sono una «spesa prevista».

 

 

Le «partecipazioni» ai consigli, ai gerenti, ai direttori, agli impiegati, ai fondi pensioni o soccorso sono un vero e proprio salario, convenuto, invece che in una somma fissa, in una percentuale dell’avanzo d’esercizio. È utile alle società, agli interessati, al paese intero che questa maniera di «salario» si diffonda per incitare i lavoratori, specialmente intellettuali e dirigenti, a prestare la loro opera con zelo, con amore, con iniziativa produttrice. Così si potesse applicare lo stesso metodo di «salario» agli impiegati pubblici! Quanto non aumenterebbe il loro rendimento! Qualunque sia però la forma data al «salario», quelle partecipazioni sono e rimangono vero e proprio «salario» o «compenso» di lavoro. Non sono roba della società, sibbene degli interessati; i quali vi hanno diritto per statuto o per contratto; ed hanno rinunciato a tutto o parte dello stipendio fisso che loro sarebbe spettato, per ricevere una remunerazione oscillante a seconda dei risultati dell’azienda. Nessuna società può esimersi dall’attribuire il 15 od il 10 od il 20 o 25% promesso alle interessenze, sia pure per versarne parte ad una «riserva speciale di ammortamento o di rispetto». Sarebbe un volersi appropriare la roba d’altri. E quelle partecipazioni debbono essere pagate agli aventi diritto senza alcun fermo.

 

 

È vero che in tal modo, se il 15 o 20 o 25% di partecipazioni resulta nel 1915 vistoso più che l’ordinario, gli interessati otterranno un «salario» maggiore del solito. Ed è vero che si potrebbe anche per costoro invocare la ragione della prudenza e della necessità del risparmio, così come si fece per le società. Ma trattasi di problemi distinti. Non sembra un metodo corretto per costringere i salariati dirigenti al risparmio, l’attribuire la roba loro ingiustamente ad un fondo di spettanza delle società. E se la società in seguito fallisse o consumasse, per una crisi, i suoi fondi di riserva, dove finirebbero i risparmi obbligatori dei dirigenti ed altri salariati?

 

 

Se a costoro si vorrà inculcare obbligatoriamente la necessità del risparmio, altra dovrà essere la via. Io non so quale questa via possa essere; ma, in stretta giustizia, occorrerebbe una legislazione diversa, la quale dovrebbe comprendere non il solo caso dei salariati in somma variabile, ma anche i salariati fissi, come i sovrastanti, gli operai, i quali abbiano veduto aumentare, come accadde alla maggior parte dei lavoratori nelle industrie favorite dalla guerra, di percentuali cospicue i loro salari ed anche i professionisti, i commercianti e gli industriali privati di cui fossero aumentati i redditi incerti.

 

 

Non credo che siffatto risparmio obbligatorio sia possibile od utile: ed il magnifico risultato del prestito nazionale in corso dimostra quanto più sia fecondo il metodo del risparmio libero. È chiaro tuttavia che, se si vuole rendere obbligatorio il risparmio, importa applicare ad ogni gruppo di percettori di sovraredditi metodi adeguati alla natura del reddito e perequati fra di loro.

 

 

III

Il decreto 7 febbraio 1916 sulla limitazione dei dividendi ha dato luogo recentemente ad appassionati dibattiti; ha provocato un nuovo decreto del 3 settembre e forse ne provocherà altri, che da varie parti, in senso diverso, già si invocano. Poiché si tratta di un problema, la cui soluzione buona o cattiva può avere conseguenze di incalcolabile portata per il nostro paese, è doveroso esprimere in proposito un’opinione, la quale sia inspirata unicamente all’interesse generale.

 

 

Risolvere in modo soddisfacente il problema dei lucri cagionati dalla guerra è certo grandemente difficile. I più credono di avere reso ossequio al sentimento di dolore e di repugnanza che ognuno prova contrastando il sacrificio di vita dei nostri combattenti con l’arricchimento, il lusso e lo spreco talvolta sfarzoso di altri, affermando che lo stato dovrebbe impedire assolutamente che alcuno ricavasse un prolitto pecuniario dalla guerra. In pratica però questo desiderio ha trovato esclusivamente attuazione in leggi speciali rivolte a tassare i sovraprofitti industriali e commerciali ed a costituire un vincolo ai sovraprofitti, residui dopo la tassazione, delle società commerciali (o meglio delle sole società per azioni). Sembra a me che il problema sia così stato posto su un terreno troppo ristretto e che la legislazione, la quale ne conseguì, si sia perciò chiarita sotto parecchi rispetti affrettata e sperequata.

 

 

Innanzitutto affrettata. Non si è posto mente dai più che la guerra aveva elevato siffattamente il livello dei prezzi che molti redditi e guadagni, i quali paiono aumentati del 20 o 25%, in realtà sono le medesime quantità di prima. L’operaio, il quale guadagnava prima 5 lire e guadagna ora 6 lire, il capitalista, il quale prima imprestava denaro allo stato od a privati al 4% ed ora lo impresta al 5%, l’industriale, il quale guadagnava 100.000 lire ed ora guadagna 120.000 lire, godono di un effettivo, reale sovrareddito di guerra? No, perché le 6 lire di salario, le 5 lire di interesse, le 120.000 lire di profitto industriale valgono ora precisamente quanto prima valevano le 5, le 4 e le 100.000 lire. Essi hanno un reddito nominalmente maggiore, sostanzialmente uguale, e con esso si procurano le medesime quantità di merci e di soddisfazioni che prima ottenevano con una minor massa di moneta. Per potere identificare un reddito di guerra vero e proprio, farebbe d’uopo ridurre il reddito attuale di una percentuale uguale al disaggio della carta monetata. Non è la sola correzione necessaria, ma la più importante, alla quale spesso non si riflette.

 

 

L’azione governativa fu anche affrettata in un altro senso: che non fu e dapprincipio non poteva forse non essere un’azione coordinata dei vari dicasteri che in Italia si occuparono dell’argomento. Il ministero delle finanze disse: colpiamo con un’imposta straordinaria i sovraprofitti di guerra.

 

 

Il ministero dell’agricoltura, industria e commercio aggiunse: vincoliamo, con un accantonamento speciale, i sovraprofitti rimasti alle società commerciali, dopo il prelievo dell’imposta, in guisa che non vadano dispersi.

 

 

Il ministero della guerra, quello della marina, il servizio degli approvvigionamenti dello stesso dicastero di agricoltura e gli innumeri altri uffici che acquistano roba per lo stato, rifletterono: poiché, se anche noi paghiamo troppo care le merci acquistate in Italia per conto dello stato, vi sarà il ministero delle finanze, il quale provvederà a tassare il guadagno eccezionale del produttore e del fornitore e vi sarà il ministero d’agricoltura pronto a mettere il divieto alla distribuzione dei residui utili, in guisa che il governo potrà, al ritorno della pace, impadronirsene nuovamente, non val la pena di litigare sul centesimo nelle forniture. Paghiamo; e poi altri penserà a ripigliare ciò che noi avremo dato di troppo.

 

 

Ragionamento che io non mi meraviglierei di sapere sia stato fatto da qualcuno; ma che a me pare di un estremo pericolo. Il primo, più serio, più onesto ed efficace modo di impedire la formazione di eccezionali sovraprofitti di guerra è di non lasciarli formare per incompetenza, leggerezza e lasciar correre dei funzionari nel fare acquisti e contratti per conto dello stato. Taluno ha negato l’efficacia di questo metodo. A torto. Bastò che al War Office (ministero della guerra) inglese cambiassero metodi di acquisto, e vi preponessero uomini tecnici del mestiere, perché si realizzassero economie stupende; ed una recente relazione parlamentare inglese constata che il War Office pagò, ancor non è molto, prezzi assai minori di quelli che contemporaneamente pagava l’ammiragliato.

 

 

Io non so se in Italia sia accaduta la stessa cosa; ma sembrami certo che con il metodo, con la competenza, con la organizzazione si possono risparmiare allo stato molti più milioni di quanti si possa sperare di riguadagnare poi con la tassazione. Credo che in Italia parecchio sia fatto su tal via; ma ogni sforzo ulteriore sarà meritorio e fecondo. Più meritorio e fecondo di qualunque sforzo tassatore; poiché il primo dovere dell’amministratore è di spendere bene, con rigore il denaro affidatogli dal pubblico. Nessun bilancio pubblico, come nessun bilancio privato, può resistere alla larghezza nello spendere. Chi guadagna o tassa molto, ma spende malamente, va in rovina. Chi spende con giudizio, prospera ed arricchisce, anche se i guadagni sono scarsi.

 

 

I metodi adottati furono sperequati. L’imposta italiana sui sovraprofitti di guerra fu, a parer mio, un perfezionamento dell’analoga inglese, la sola applicata nel momento in cui l’imposta italiana veniva alla luce. L’imposta inglese colpiva col 50%, ora col 60%, tutti i sovraprofitti. Era un errore, poiché altro è un sovraprofitto di guerra, il quale aggiunge appena un 2 od un 3% al profitto ordinario, altro è quello che vi aggiunge il 5, il 10 od il 20% e più. Una piccola aggiunta non deve essere presa in considerazione, perché può essere una di quelle ordinarie e frequenti oscillazioni in più od in meno che si verificano ad ogni momento nelle imprese industriali, anche senza intervento della guerra. Perciò ben fece il legislatore italiano ad esentare le piccole percentuali di sovraprofitto ed a tassare progressivamente le percentuali maggiori. E l’opera sua fu imitata in Francia, in Spagna ed in parecchi altri paesi, che istituirono in seguito l’imposta sui sovraprofitti di guerra.

 

 

Mentre tale carattere dell’imposta italiana deve essere mantenuto, sembra a me che ora si possa riflettere se non convenga tener conto di un altro elemento. Sarebbe una complicazione dell’assetto dell’imposta; ma, dato l’intrico moderno del meccanismo economico, è fatale che le imposte moderne, rimanendo sempre chiare e corrette, debbano diventare più complesse di quelle antiche.

 

 

L’elemento di cui si dovrebbe tener conto è il rapporto del sovraprofitto di guerra all’importanza degli affari fatti. Tizio guadagna un milione, e Caio 10.000 lire in più di prima per causa della guerra. Se il capitale di Tizio è di un milione e quello di Caio di 100.000 lire, il primo avrà guadagnato il 100% ed il secondo solo il 10% in più di prima. Per la ragione detta sopra, Tizio deve essere tassato più di Caio. Ma può darsi che per un’altra ragione Caio debba essere tassato maggiormente. Supponiamo che Tizio abbia guadagnato un milione in più vendendo allo stato 20 milioni di munizioni o di panni. Egli ha ottenuto un guadagno del 5% sull’importo della fattura. Caio invece, pur guadagnando solo 10.000 lire più del solito, ha ottenuto il guadagno con una fornitura di appena 20.000 lire. il suo guadagno giunge al 50% della fornitura fatta.

 

 

Chi dei due dovrebbe, sotto questo rispetto, pagare di più? Non ho dubbio che la maggioranza dei lettori avrà la sensazione che Caio debba essere tassato maggiormente sebbene il suo guadagno sia di sole 10.000 lire, in confronto al milione di Tizio, perché egli lucrò il 50% sul prezzo della merce venduta, mentre Tizio si limitò a guadagnare il 5%. L’idea è grezza, poiché si dovrebbe tener conto di altri elementi: costo di produzione, capitale e intelligenza impiegati, ecc. ecc.; ma quanto ho detto basta a far concludere che non sempre i guadagni di guerra meritevoli di maggiore tassazione siano quelli grossi. Talvolta i guadagni piccoli sono ancora più urtanti e, perciò, meritevoli di tassazione secondo il sentimento di giustizia più diffuso nella collettività.

 

 

Né questa è la sola sperequazione esistente. Citerò la sperequazione di fatto esistente tra società per azioni da una parte, e società in accomandita semplice, in nome collettivo, industriali e commercianti privati dall’altra. Amendue pagano nominalmente le medesime aliquote di imposta sui sovraprofitti. In realtà le società per azioni, che debbono compilar bilanci e non possono fare a meno di tenere altri libri, pagano assai più di industriali, commercianti ed intermediari privati, i quali non hanno l’obbligo di compilar bilanci e talvolta si sono scordati di tenere i libri prescritti dal codice di commercio. Chi può obbligare un commerciante, il quale non ha timore di fallire, a tenere i libri od a ricordarsi che i suoi contabili li tengono? Sembra a me perciò che il baccano da taluni sollevato contro le grandi società per azioni, le quali pagano, sia scorretto e sia in taluni deputati la conseguenza di deplorevoli condiscendenze elettorali, le quali fanno chiudere gli occhi dinanzi alle frodi fiscali dei loro elettori, mentre li inducono a gridare contro coloro che, sia pure senza merito e per forza, sono ossequenti alla legge.

 

 

Né rimango meno turbato quando sento dire che una più forte imposta sui profitti di guerra è necessaria per togliere il contrasto fra l’industria che si arricchisce e l’agricoltura che si impoverisce. Taluno, inconsultamente, parla anche di contrasto fra il nord industriale ed il sud agricolo. Rimango, sovratutto, turbato nella mia coscienza di piccolo agricoltore-viticoltore. Noi agricoltori non abbiamo bisogno, anzi respingiamo vivamente il patronato di chi vuol dimostrarci che noi siamo gli sfruttati della guerra e dobbiamo essere indennizzati con enormi imposte sui sovraprofitti industriali. L’agricoltura non ha d’uopo di alcun privilegio. Posto il problema su questo terreno, io ritengo sia dovere strettissimo degli agricoltori di chiedere che l’imposta sui sovraprofitti di guerra sia estesa anche a quelli che ne sono finora esenti: ai proprietari che dirigono in economia o con contratti di mezzeria o colonia parziaria i loro terreni. Si applichino pure esenzioni larghe, e non si faccia rimontare l’imposta al passato remoto. Si tolga anche ogni retroattività. Ma non v’è ragione alcuna per cui Tizio, industriale, paghi su 10.000 lire di sovraprofitto di guerra e Caio, agricoltore, il quale ha venduto o venderà il grano a 35 lire invece che a 20-25, il vino a 60-100 lire l’ettolitro invece che a 20-40, ed il bestiame a 150-200 lire il quintale invece che ad 80-100, ed ha perciò ottenuto un maggior reddito straordinario di 20.000 lire, non paghi nulla. Qui non v’è nessun sofisma di auto-rappresentante degli interessi agricoli che tenga. L’unico criterio per decidere è il criterio di fatto: esiste o non esiste in quel caso singolo il sovraprofitto di guerra?

 

 

Epperciò l’imposta sui sovraprofitti di guerra dovrebbe essere estesa a tutte le categorie di contribuenti; ai proprietari di terreni, ai professionisti, agli impiegati e salariati oltre il limite di esenzione. In questo campo la esenzione è un privilegio; epperciò è scorretta ed intollerabile.

 

 

IV

I decreti del 7 febbraio e del 3 settembre 1916, da cui avevo preso le mosse nel precedente articolo per esporre alcune considerazioni generali sulla necessità di limitare, innanzi al loro nascere, i sovraprofitti di guerra e sulla loro susseguente tassazione, non riguardano però la tassazione. Essi invece, come è noto, hanno per iscopo di obbligare le società commerciali di qualunque specie ad accantonare – con divieto assoluto di ripartizione agli azionisti – gli utili superiori all’8% del capitale versato od alla media dei tre ultimi dividendi di pace.

 

 

Non intendo ridiscutere qui tutti i problemi sollevati da questi decreti, che in parte ho già esaminato («Corriere della sera» del 15 e del 24 febbraio); ma solo di esporre i termini di alcuni di essi, che recentemente formarono oggetto di dibattito. Non mi tratterrò intorno alla interpretazione letterale del testo del decreto 7 febbraio. Come è loro costume, i giuristi si sono divertiti ad affermare che l’autore del decreto, on. Cavasola, giurista egli stesso, aveva avuto torto nell’interpretare il decreto da lui elaborato nel senso che le società potessero devolvere gli utili eccedenti l’8% o la media triennale più recente ad aumento di capitale piuttostoché a riserva speciale di ammortamento e di rispetto. È presumibile che l’on. Cavasola conoscesse meglio dei commentatori il significato delle parole da lui scritte: ma i commentatori non hanno forse torto nel dire che le spiegazioni postume degli autori delle leggi non hanno valore e che ciò che unicamente conta è il testo della legge. Ed il testo parla letteralmente di mandare a riserva e non ad aumento di capitale.

 

 

A me sembra che l’opinione dell’on. Cavasola sia la più ragionevole; ma la disputa, ridotta a questo punto, non ha alcuna importanza sostanziale. Oramai i decreti luogotenenziali si fabbricano con tanta facilità, che si può bene invocare un nuovo decreto, il quale chiaramente ed esplicitamente riaffermi e spieghi, sulla base delle intervenute discussioni, il pensiero reale del legislatore. Ho già avuto occasione di notare su queste colonne le manchevolezze e le oscurità del decreto del 7 febbraio; ed altri ha già largamente ancora dimostrato la necessita di una revisione. Importa soltanto che la revisione avvenga in meglio e non in peggio.

 

 

Quali sono dunque i problemi non formali ma sostanziali che nuovamente sono stati posti? Sono parecchi; ma il fondamentale è quello dello scopo voluto dal legislatore.

 

 

In realtà non parrebbe che a questo riguardo potesse sorgere alcun dubbio. Decretando che le società non potessero ripartire dividendi superiori all’8% od alla media dei tre ultimi dividendi di pace, il legislatore fu mosso dalla «necessità di tutelare l’avvenire delle società commerciali, rafforzandone, durante le eccezionali contingenze, la condizione patrimoniale». Queste sono le testuali parole del decreto 7 febbraio: e queste parole testuali l’on. Cavasola confermava in un telegramma del 26 febbraio al «Corriere della sera» in risposta ad un articolo, in cui io esponevo la necessità di dissipare preoccupazioni sorte nell’animo di molti, dichiarando «nel modo più esplicito ed assoluto che il decreto del 7 febbraio non ha avuto e non ha alcuna finalità diversa né più estesa di quella apertamente affermata nel testo del decreto stesso».

 

 

Su questo punto dunque ogni dubbio parrebbe impossibile. La lettera del decreto e la dichiarazione successiva del ministro concordi affermano che si volle vietare la ripartizione di dividendi giudicati troppo alti allo scopo di rafforzare la consistenza patrimoniale delle società. Siamo nel caso di un giudizio pubblico intorno a ciò che è la convenienza dei privati. Il legislatore ha ritenuto che fosse interesse pubblico di impedire che gli utili eccezionali conseguiti durante gli anni di guerra fossero frazionati tra gli azionisti e fosse invece necessario serbarli nel patrimonio sociale. Questo e non altro fu l’intento del legislatore.

 

 

Oggi però è sorta una nuova tendenza, la quale vorrebbe che l’accantonamento degli utili eccezionali non avesse questo unico scopo. Lo stato dovrebbe avere la facoltà, a guerra finita, di devolvere le somme accantonate a quello scopo che ad esso sembrerà più opportuno. Se le imprese industriali saranno in crisi, le somme accantonate potranno essere loro lasciate; ovvero potranno essere prelevate in tutto od in parte a favore di altre imprese dibattentisi in distrette economiche, ovvero ancora avocate a favore del tesoro dello stato, a titolo di imposta, ovvero finalmente destinate all’acquisto di titoli di debito pubblico. Altri usi degli accantonamenti potrebbero inoltre essere immaginati.

 

 

Non mi sembra dubbio che questa nuova tendenza sia in contrasto con l’intenzione netta, recisa ed esplicita del legislatore del 7 febbraio, il cui unico scopo fu: rafforzare la compagine economica delle società. Ma debbo riconoscere subito che se la nuova tendenza fosse ragionevole e conveniente all’interesse pubblico, bene farebbe il legislatore ad accoglierla. Essa è in contrasto reciso con la legge vigente; ma nulla vieta che, se un’idea è buona, venga accolta da un nuovo decreto legislativo.

 

 

Purtroppo l’idea non solo è cattiva ma è pessima. Anzi la parola «pessima» è inadatta ad esprimere il giudizio severo di condanna che merita l’idea dell’accantonamento degli utili a scopi incerti da determinarsi in un tempo futuro.

 

 

Badisi che, così dicendo, non dico che le società non debbano contribuire con gli utili eccezionali di guerra al raggiungimento di fini pubblici. Le due questioni sono nettamente distinte.

 

 

Una società ha lucrato un milione di utili di guerra, i quali, in virtù del decreto 7 febbraio, non possono essere ripartiti? Io non affermo che tutto il milione debba rimanere alla società. Oggi la società già deve pagare una imposta sui sovraprofitti di guerra, la quale può giungere al 35%; ed inoltre resta in debito dell’imposta di ricchezza mobile che ammonta ad un altro ed ancora può eventualmente essere costretta a pagare centesimi di guerra sulle fatture governative, tasse di registro e tasse di negoziazioni, ed altre imposte, le quali insieme possono giungere a percentuali ragguardevoli.

 

 

Già oggi, secondo la legislazione vigente, su quel milione la società deve pagare, senza oramai alcuna possibilità di frode, né con liquidazioni anticipate, né con aumenti di capitali, né con qualsivoglia altro immaginabile accorgimento, da 300.000 lire al minimo ad un massimo di forse 700.000 lire; cosicché gli utili residui netti per la società si riducono bene al disotto del milione iniziale. Se questo non basta, si aumentino le aliquote. Economicamente, aumentare aliquote già altissime, è un errore. Ma se ciò è necessario a scopi di pacificazione sociale, si aumentino. Si faccia pure in modo che, tenendo conto di tutte le imposte vigenti, i sovraprofitti di guerra siano tassati al minimo, quando essi sono una bassa percentuale del capitale impiegato o degli affari fatti, col 50% ed al massimo col 75 o coll’80%, quando essi sono una percentuale alta del capitale impiegato o degli affari fatti. Avremo così le aliquote più elevate del mondo in questo campo; e non sarà un primato utile agli interessi veri del paese per il dopo guerra, quando le imprese dei paesi belligeranti dovranno lottare con le imprese arricchite ed agguerrite dei paesi neutrali. Sempre meglio però il 50, il 75 o l’80% della incertezza intorno alla sorte degli accantonamenti, che sarebbe la conseguenza del prevalere della nuova tendenza.

 

 

La tesi mia è chiara nell’interesse generale conviene piuttosto tassare molto e lasciare le società padrone sicure del poco residuo; piuttosto che tassarle più lievemente ma farle rimanere nell’incertezza intorno a quel di più che provvisoriamente è loro lasciato. Provo una vera stretta al cuore ad essere obbligato a difendere, anzi a semplicemente affermare una tesi, la quale dovrebbe essere pacifica e riconosciuta da tutti. L’altro giorno ho dovuto citare Alessandro Manzoni, per invocare un po’ di tregua all’inondazione malsana di divieti, calmieri, comminatorie di prefetti e sindaci intorno alle derrate alimentari. Oggi mi sia concesso di citare il padre della scienza economica, Adamo Smith, il quale nel 1776 esponeva quattro celebri regole della finanza, che noi insegnanti ogni anno a scuola esponiamo come quelle che, osservate, distinguono la finanza dei paesi civili dalla finanza dei paesi barbari. Dice una di queste regole che le imposte devono essere sicure e certe; che i contribuenti debbono cioè conoscere preventivamente quali e quante imposte pagheranno. L’incertezza nell’imposta: ecco la caratteristica dei paesi barbari, decadenti, della Turchia di Abdul Hamid, della Cina dei mandarini, della Francia degli appaltatori generali di prima del 1789, dell’impero romano della decadenza. La certezza dell’imposta: ecco l’indice dei paesi civili e risorgenti. Mirabeau padre ha una descrizione, classica, raccapricciante della miseria atroce del contadino francese nel secolo XVIII. Impossibile leggerlo senza fremere. Quale la causa di quella miseria. Principalissima, forse unica: l’incertezza nelle imposte a lui estorte. Nessuno ara il campo, su cui non sa se potrà mietere almeno una piccola parte del raccolto.

 

 

Non so se i fautori della tendenza la quale vuole lasciare pendere, come una spada di Damocle, sulle società industriali di qualunque specie la prospettiva di dover pagare, oltre al 30-70% che già sanno di dover pagare, un’altra quantità indefinita, alla fine della guerra, abbiano riflettuto alle conseguenze della loro proposta. Sono fermamente sicuro di no, poiché è troppo viva in tutti gli italiani la preoccupazione della lotta per la difesa e per la vittoria che stiamo combattendo.

 

 

Questa preoccupazione mi fa ritenere che sarebbe meglio persino prelevare subito il 100% dei sovraprofitti di guerra piuttostoché lasciare gli imprenditori nell’incertezza intorno alla loro sorte finale. Se invero lo stato preleva tutto, se ne potrà servire per fare esso quegli impianti industriali, quelle compere di macchine e di materie prime che sono necessarie per la condotta della guerra. Una imposta del 100% produrrebbe il danno gravissimo di togliere l’incitamento a lavorare meglio e più, che è necessario per spingere la maggior parte degli industriali, dei commercianti e degli operai a prestare la loro collaborazione con fervore ai ministeri militari. finché gli uomini non saranno mossi soltanto da ragioni ideali, ma sono spinti anche dal desiderio del guadagno, fa d’uopo lasciar ad essi un margine di lucro. Epperciò una imposta del 100% non è pensabile. Ma sarebbe pur sempre migliore dell’incertezza; poiché, almeno, ripeto, i sovraprofitti prodotti in passato potrebbero essere impiegati dallo stato nella produzione diretta delle munizioni, delle armi, dei vestiti. Mentre, in regime di incertezza, quale società e quale imprenditore potrà osare di destinare i suoi utili accantonati ad impianti nuovi, a compere di macchine e di materie prime? Un imprenditore, a cui su un milione lo stato provvisoriamente lascia 500.000 lire da accantonarsi – il resto è assorbito dalle imposte vigenti – sarebbe pazzo se le impiegasse in impianti. Come potrebbe egli pagare le 500.000 lire di nuove imposte retroattive che al legislatore dell’avvenire potrà piacere di fargli pagare? Venderà l’impianto? Ma con quale deprezzamento? Venderà le macchine? Con prezzi di ferro rotto non si pagano le imposte. Quindi impossibilità di utilizzare gli utili accantonati; ritorno a sistemi di tesoreggiamento e di manomorta, che si ritenevano tramontati per sempre.

 

 

Né a caso ho parlato sopra di «imprenditori». La questione non riguarda invero le sole società per azioni. Secondo il decreto del 7 febbraio tutte le società commerciali, anche in semplice nome collettivo, le cooperative, devono eseguire gli accantonamenti. Secondo giustizia, la stessa cosa dovrebbero fare gli industriali privati, i proprietari di terreni, gli affittavoli che hanno venduto il grano ed il vino a prezzi di guerra, con relativi sovraprofitti di guerra, i professionisti che hanno patrocinato liti lucrose collo stato, gli operai che guadagnano salari, i quali sarebbe stato follia sperare alcuni anni fa, tutti dovrebbero essere costretti agli accantonamenti. Se l’accantonamento deve farsi non per rafforzare le società, come vuole il decreto del 7 febbraio, ma in vista di una futura imposizione, diventa uno scandalo senza nome che esso sia imposto alle sole società. L’imposta deve essere uguale per tutti coloro che si trovano nelle medesime condizioni. Siano società od individui privati, tutti devono pagare l’imposta oltre l’8% e tutti debbono tenersi pronti, con l’accantonamento, a pagare l’imposta incerta che sarà forse voluta dal legislatore dell’avvenire. Ma questo universale obbligo, che pure sarebbe di strettissima giustizia, chi non vede come renderebbe in ogni tempo impossibile lo svolgersi della vita economica e come oggi riuscirebbe fatale per la continua, persistente, crescente intensificazione della produzione bellica?

 

 

V

Ho dimostrato nel precedente articolo come l’imposta sui profitti di guerra possa essere alta, ma debba essere certa e definita; e come sul resto, non assorbito oggi dall’imposta, non sia nell’interesse generale collettivo utile far gravare un vincolo a scopo incerto, da determinarsi in futuro. Si prelevi il 50, il 60, il 70%, sul profitto di guerra; ma il resto sia riconosciuto in modo esplicito e tassativo essere di spettanza delle società e degli imprenditori che lo hanno guadagnato.

 

 

Questa sicurezza è, giova notarlo di passata, nello stesso immediato interesse del fisco. Tutto il gran vociferare che si è fatto intorno alle imposte future, le quali dovranno colpire gli attuali accantonamenti di utili, sta producendo un effetto disastroso: impoverisce i bilanci delle società. Gli amministratori, impauriti, svalutano le attività, i macchinari, le scorte, crescono le insolvenze e riducono l’utile in guisa da farlo figurare appena appena sufficiente a pagare l’8% di cui è consentita la ripartizione agli azionisti. La finanza perde così talvolta la possibilità di applicare quella imposta sui sovraprofitti, che in condizioni di animo diverse sarebbe stato facile riscuotere. Anche questa è storia vecchia. I tuguri orrendi dei contadini francesi del 700 descritti da Mirabeau padre contenevano talvolta qualche gruzzolo e qualche comodità; ma tutto era nascosto sotto terra o sotto botole invisibili, affinché il gabelliere comparso improvvisamente vedesse solo lo spettacolo della inopia più nuda.

 

 

Di passata noterò ancora che le vociferazioni intorno alla necessità di lasciare in sospeso la sorte degli utili accantonati, oltre a fare scomparire d’ora innanzi nelle pieghe dei bilanci questi utili, ha prodotto e produrrà meglio in avvenire l’accentuarsi della speculazione di borsa. Coloro, i quali affermano che il lasciare gli utili, dopo il prelievo dell’imposta, in libera spettanza di chi li ha guadagnati favorisce la speculazione di borsa sulle azioni, non sanno quel che si dicono. È noto ed è ovvio che non si specula sul certo, ma sull’incerto. Quando si sa che gli utili accantonati sono, dopo il prelievo di 50 lire di imposta, di residue 50 lire per azione, l’azione aumenta di 50 lire e poi resta ferma.

 

 

Manca la materia della speculazione. Se invece si dubita se, dopo l’imposta attuale, la quale ha già ridotto gli utili da 100 a 50 lire, una futura imposta ridurrà, sì o no ancora gli utili a 40, 30, 20, 10 o zero, si offre il destro alla speculazione per intervenire. Ad ogni stormir di foglie, ad ogni cambiamento di ministero, ad ogni campagna di giornali i titoli vanno su e giù. Gli azionisti piglian paura e vendono la roba buona; gli speculatori affibbiano la merce cattiva ai gonzi. La incertezza è il terriccio fecondo dove prospera rigogliosa la speculazione.

 

 

Fermato questo punto, e dimostrato che, ad esempio, il 50% residuo dopo il prelievo dell’imposta deve essere, nell’interesse pubblico, riconosciuto, come avevano esplicitamente dichiarato il decreto del 7 febbraio ed il suo autore, on. Cavasola, di esclusiva spettanza delle società, rimane il quesito: come deve essere espresso il vincolo temporaneo su di essi, allo scopo di vietarne la ripartizione tra azionisti e soci?

 

 

Il vincolo deve essere espresso nel modo più semplice, senza aggiunte inutili, sicché il decreto si limiti a dire che per un dato tempo, da fissarsi nel decreto stesso, sino, ad esempio, ad un anno dopo la pace, le società non possano ripartire l’eccedenza oltre l’8 od il 10% od oltre la media triennale.

 

 

E basta lì. Ogni aggiunta è inutile e perniciosa.

 

 

Siamo d’accordo tutti nel ritenere che sarebbe perniciosa l’aggiunta, la quale ordinasse di impiegare gli utili colpiti da serrata piuttosto in un modo che in un altro, in titoli di stato piuttosto che in macchine, in macchine piuttosto che in edifici. Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’impiego più conveniente degli utili serrati non possa essere ordinato con una regola generale; ma dipende da circostanze particolari, le quali debbono essere apprezzate caso per caso dagli amministratori e non possono essere immaginate preventivamente dal compilatore di un decreto. Notisi però, che, accettando concordi questa tesi, si è implicitamente accettata la dimostrazione delle necessità di non lasciare incertezze intorno alle proprietà degli utili residuali dopo il pagamento dell’imposta. Ho già detto infatti che l’incertezza impedisce l’impiego degli utili in macchine, in impianti, in acquisti di scorte, ed equivale all’ordine assoluto di depositare gli utili stessi all’1,50% in conto corrente alla Banca d’Italia, ed alla necessità di ottenere a prestito d’altra parte al 6, al 7 od all’8% e più le somme necessarie per gli ampliamenti urgentemente richiesti dallo stato di guerra.

 

 

Si disputa invece se convenga consentire che gli utili serrati debbano essere mandati ad aumento di capitale piuttostoché alla cosidetta «riserva speciale di accantonamento e di rispetto». Confesso di non essere riuscito a comprendere il fondamento dei lunghi dibattiti sorti su questo punto. Immaginiamo un bilancio tipico di una società, ridotto alla sua più semplice espressione. In un primo momento, al 31 dicembre, si ha:

 

 

Attivo

Passivo

Impianti, macchine, scorte, crediti, ecc.

L. 10.000.000

Capitale

L. 10.000.000

Denaro contante accantonato per il pagamento delle imposte

3.000.000

Imposte normali e di guerra

800.000

Denaro contante liquido

2.800.000

Utile normale ripartibile

3.000.000

 

Utile di guerra da accantonare

2.000.000

Totale

15.800.000

Totale

15.800.000

 

 

Durante l’anno successivo, dopo che furono pagate le imposte,e furono ripartite tra gli azionisti le 800.000 lire di utile normale, e dopo che i 2 milioni di utili serrati furono investiti in nuovi impianti, macchine, ecc., sorge il dubbio intorno al modo con cui si debbano scrivere le cifre nella parte passiva. Gli interessati, e cioè gli azionisti e gli amministratori, deliberano di portare, come consentiva una risposta scritta dell’on. Cavasola, i 2 milioni ad aumento di capitale. Il bilancio si presenta così:

 

 

Attivo

Passivo

Impianti, macchine, scorte, crediti

L. 12.000.000

Capitale

L. 12.000.000

 

 

La maggior parte dei tribunali omologa la deliberazione. Ma deputati e giornali insorgono e vogliono che il bilancio sia scritto così:

 

 

Attivo

Passivo

Impianti, macchine, scorte, crediti, ecc.

L. 12.000.000

Capitale

L. 10.000.000

  Riserva speciale di ammortamento e di rispetto

2.000.000

Totale

12.000.000

Totale

12.000.000

 

 

Gli obiettanti affermano di non essere mossi dal desiderio di intervenire, non richiesti, nelle scritturazioni altrui; ma da gravi motivi. Se li ho ben capiti, sarebbero i seguenti:

 

 

  • Mandar le somme a capitale non è consentito dal decreto 7 febbraio. Ho già detto che, sebbene l’autore della legge fosse d’altro parere, la questione non ha sostanziale importanza. Un nuovo decreto può spiegarsi meglio.
  • Mandar le somme ad aumento di capitale mette lo stato nella impossibilità legale o morale di prelevare per suo conto, finita la guerra, in tutto od in parte i 2 milioni di utili oggi serrati.

 

 

La obiezione cade, quando si sia persuasi, come io sono, e come parmi di aver dimostrato che nulla di più deleterio si può immaginare di una imposta incerta e futura. Io comprendo che nel primo momento, al 31 dicembre, fosse risaputo che la società doveva pagare, invece di 3 milioni, 4 od anche 5 milioni di imposte così da rimanere con le sole 800.000 lire di utili normali; ma ritengo dannoso all’interesse generale che la sorte di 2 milioni sia lasciata in sospeso.

 

 

Se si vuole il danno, se si vuole l’incertezza, se si vuole l’ostacolo alla preparazione bellica, l’imputazione dei 2 milioni a capitale non sarà un impedimento. Lo stato potrà sempre pretendere i 2 milioni. Nessun ostacolo sorgerà per il fatto che i 2 milioni siano scritti in un modo piuttostoché in un altro. Una deliberazione di più degli azionisti, che riduce il capitale da 12 a 10 milioni, una omologazione di più del tribunale; ed ecco tolto ogni ostacolo legale. Moralmente, nessun legislatore fiscale mai si è interessato del modo con cui piaceva agli amministratori di una società di scrivere il proprio bilancio. Conosco bilanci di società in cui i redditi netti sono chiamati «sbilanci» ed hanno l’aria di essere perdite; e ciò non ha mai impedito e non impedirà fino alla consumazione dei secoli agli agenti delle imposte di accertare ed agli esattori di esigere le dovute imposte. Parlare di ostacoli legali o morali alla esazione delle imposte, traendo argomento dal modo di scritturazione di bilanci, è un perdere tempo oziosamente. Può darsi che vi siano stati amministratori ingenui, che, impauriti dal timore delle imposte incerte future, hanno creduto di salvarsi mandando gli utili serrati ad aumento di capitale; ma se così fu, quegli amministratori vanno messi in un fascio con i giornalisti ed i deputati succitati. La finanza italiana non si lascia impressionare da così poco. Dato che essa voglia il fine – che io ritengo dannoso – delle imposte future ed incerte, non saranno gli untorelli aumenti di capitale che la potranno fare arretrare un minuto solo.

 

 

Il vero ostacolo sarà dato dal fatto, pacifico, che le società saranno rovinate dal prelievo dell’imposta. Dovranno vendere, a prezzi rotti, macchinari, scorte, ecc., in cui avevano investito gli utili serrati. Ciò accadrà in ambi i casi, sia che la somma sia mandata a riserva, sia che sia portata ad aumento di capitale. Il fatto giuridico-contabile, che si legge a destra del secondo e del terzo specchietto, non influisce per nulla sul fatto economico-tecnico, il solo sostanzialmente importante, che si legge a sinistra. Dicasi che si vuole far tenere gli utili serrati in conto corrente all’1,50% alla Banca d’Italia e si dirà cosa comprensibile, sebbene insensata; ma non perdiamo il tempo a discutere sulle parole.

 

 

  • Aumentare il capitale da 10 a 12 milioni permetterà l’anno successivo di distribuire l’8% su 12 invece che su 10 milioni, contrastando così allo spirito della legge: taluni giuristi affermano che ciò non potrà accadere; ma se si ritiene che ciò si possa fare e che ciò sia un pericolo, lo si proibisca con il decreto legislativo che per tanti motivi appare indispensabile. Per brevità non espongo le ragioni pro e contro.
  • Mandare gli utili serrati ad aumento di capitale significa aumentare il valore nominale delle azioni da 100 a 120, significa dare un affidamento agli azionisti che il valore dell’azione è di 120 lire, garantirlo contro una imposta futura, dar luogo a disinganni e a speculazioni malsane.

 

 

Quisquilie. Se ci sono azionisti, i quali si pascono di cosiffatte allegre illusioni, che credono al valore magico dell’importo nominale delle loro azioni, costoro meritano di essere segnati a ludibrio dell’universale. Creduli sì, sono gli azionisti; ma a questo punto no. I valori di borsa si formano quando cento occhi di Argo scrutano i bilanci, la consistenza delle perdite passive ed attive, ecc. ecc. Se i negoziatori di borsa sono sicuri che i 12 milioni di capitale, ovvero i 10 di capitale ed i 2 di riserva esistono realmente e sono sicuri da pericoli futuri, l’azione varrà in amendue i casi ugualmente, 120 lire. Se invece essi ritengono che i 12 ovvero i 10 più 2 milioni sono minacciati da un’imposta futura, l’azione varrà 100 od anche meno. Forse molto meno.

 

 

Ma su questa valutazione non può influire menomamente il fatto giuridico-economico della scritturazione a capitale o a riserva.

 

 

È tempo di concludere: in forma di poche massime.

 

 

  • L’imposta sui profitti di guerra può essere ancora modificata, aumentata, generalizzata; ma essa deve essere certa, sicura, con quella sola retroattività che è concessa dalle norme generali tributarie.
  • è dannoso all’interesse collettivo ed alla condotta della guerra lasciar pendere sul capo dell’industria la minaccia di una confisca futura degli accantonamenti attuali degli utili eccezionali.
  • Questi accantonamenti devono conservare lo scopo dichiarato nel decreto del 7 febbraio di rafforzare la compagine economica delle società.
  • Dato ciò il vincolo deve essere limitato al divieto di ripartizione degli utili serrati sotto qualsiasi forma, con gravi sanzioni per gli amministratori in frode.
  • Il vincolo deve essere preventivamente limitato nel tempo: a sei mesi, ad 1 anno dopo la guerra. Il vincolo illimitato nel tempo è la manomorta. Come potrà l’Italia, nel dopo guerra, combattere, armata di istituti di manomorta, con la Germania, fornita di decine di migliaia di società commerciali agili e libere nei movimenti?
  • Nessun vincolo deve essere posto all’impiego tecnico-economico (impianti, macchine ecc.), ed alla destinazione giuridico-contabile (capitale o riserve) degli utili serrati. La destinazione di parte degli utili, in pace ed in guerra, ad aumento di capitale, a distribuzione di azioni gratuite agli azionisti è un fatto frequentissimo in Inghilterra. Solo la inesprimibile leggerezza di politicanti e di funzionari italiani ha potuto farneticare di pericoli immaginari in quella che è la pratica più corrente del paese più progredito del mondo nel campo delle società per azioni.

 

 

VI

Sono note le controversie insorte fra noi per l’interpretazione dei noti decreti per la limitazione dei dividendi. Quale la destinazione, si disputava, della parte degli utili di guerra rimasti a mano degli industriali dopo il pagamento dell’imposta sui sovraprofitti? Deve essere accantonata a riserva di accantonamento o di rispetto, dicevano i decreti del 7 febbraio e del 3 settembre. Ma lo dicevano in modo così impreciso, che subito si cominciò a disputare: l’accantonamento è fatto a beneficio delle società o dello stato Le società, pagate le attuali imposte, possono impiegare il resto tranquillamente, come sembra affermare il preambolo del decreto 7 febbraio, oppure potrà in avvenire lo stato assorbire tutto o parte? Accantonare a riserva esclude la destinazione ad aumento di capitale? Nel caso di aumento, all’aumento stesso potranno in avvenire esser ripartiti utili?

 

 

Queste e altre questioni erano risolute diversamente da pubblicisti, magistrati, uomini politici. E poiché si lamentava che perfino i magistrati si lasciassero guidare nei loro ragionamenti da vaghe sentimentalità rettoriche – cito a titolo di eccezione onorevole il tribunale di Milano – una interpretazione legislativa si imponeva. Il nuovo decreto, se non risolve tutte le questioni e se in un luogo la sua dizione poco felice farà sorgere nuovi dubbi, stabilisce però un punto fermo, dopo il quale non occorreranno nuovi decreti interpretativi, e alla bisogna potrà bastare la parola del magistrato.

 

 

  • Nulla è innovato per quel che si riferisce all’accantonamento. Le società commerciali continuano a non poter ripartire gli utili oltre l’8% del capitale versato, ovvero oltre la media degli utili ripartiti negli esercizi precedenti alla chiusura dell’esercizio del 1915. Le società nuove costituitesi dopo lo scoppio della guerra continueranno a poter ripartire il 10% sul versato. Il decreto non definisce che cosa si intenda per «capitale versato» e quindi continuerà ad essere controverso in quali casi possano essere comprese nel capitale versato le somme depennate in occasione di riduzioni di capitale, pur continuando in sostanza a esistere.
  • Su tutta la massa dei sovraprofitti di guerra, ripartiti o non, continuerà a gravare l’imposta speciale sui sovraprofitti, che un altro decreto contemporaneo aumenta, nei suoi massimi, dal 35 al 60%.
  • Il decreto implicitamente riafferma la tesi originaria che la limitazione dei dividendi sia stata voluta nell’interesse esclusivo del rafforzamento economico delle società, e non per preordinare o rendere possibile in avvenire l’assorbimento totale o parziale degli utili stessi da parte dello stato. A questa seconda tesi sostenuta da taluni pochi energumeni e dannosissima alla condotta della guerra, non aderisce il legislatore, il quale richiama, e quindi riafferma, il decreto 7 febbraio secondo cui l’accantonamento era preordinato a vantaggio delle società. Alla stessa conclusione si giunge riflettendo che un contemporaneo decreto finanziario eleva dal 35 al 60% i massimi della imposta sui sovraprofitti di guerra, ma solo per quella parte che si formò dopo il primo gennaio 1916, ferme restando le antiche aliquote, già del resto cresciute una volta, per i sovraprofitti formatisi dal primo agosto 1914 al 31 dicembre 1915. Ciò significa che il legislatore non intende molestare con aggravi nuovi i redditi del passato; ma, come è usanza universale e come è consigliato dall’onestà e dal ragionevole interesse pubblico di non far sorgere nuovi rischi retroattivi per i contribuenti, si vogliono gravare con imposte nuove soltanto i redditi presenti e futuri.
  • In secondo luogo gli utili soggetti ad accantonamento già decurtati dalla imposta di guerra si distinguono in due parti, di cui l’una riceve una destinazione obbligatoria, mentre l’altra può essere impiegata – non distribuita – liberamente dalle società.

 

 

Questa distinzione si deve fare solo per gli utili verificatisi dalla chiusura dell’esercizio 1915. Praticamente ciò vuol dire che la distinzione riguarda tutti gli utili per cui vi è l’obbligo dell’accantonamento. Un primo terzo degli utili accantonati deve investirsi in titoli di stato. Poiché le imprese possono scegliere qualunque titolo di stato, ciò equivale a dire che un terzo del residuo deve essere conservato sotto forma liquida, immediatamente realizzabile dopo la guerra.

 

 

  • I restanti due terzi devono essere genericamente mandati a riserva, ovvero possono essere destinati ad aumenti di capitale. Se l’impresa li manda a riserva nulla è ordinato rispetto al loro impiego. Possono essere investiti in titoli di stato, in titoli diversi, in depositi bancari, in scorte di magazzino, in impianti. Qualunque impiego della riserva è lecito purché gli utili accantonati non si ripartiscano.
  • Possono, però, le imprese destinare i due terzi – si intende i due terzi del residuo non ripartibile – ad aumento di capitale.

 

 

Il governo ha riconosciuto che il baccano fatto contro questa operazione era privo di fondamento e che anzi la destinazione degli utili ad aumento di capitale è una delle più serie e normali – nei paesi dove non tengono cattedra gli analfabeti economici – operazioni finanziarie le quali possano essere compiute dalle società industriali.

 

 

Il governo tuttavia ha messo una condizione: l’aumento del capitale potrà farsi solo per quelle somme le quali «siano investite in nuovi impianti, oppure in ampliamento, o trasformazione degli esistenti». Questa è una disposizione inutile, non chiara, la quale costringerà le società a dimostrare al magistrato, incaricato di omologare le deliberazioni di aumento, molte cose vaghe o contestabili; ad esempio: che una data somma sia impiegata in un dato impianto industriale. Il legislatore sembra essere partito dall’idea erronea che il capitale sociale debba essere impiegato in «impianti» per essere veramente capitale mentre l’osservazione più ovvia insegna che il capitale può utilmente e spesso deve impiegarsi in denaro libero, in scorte, in merci in corso di fabbricazione, ecc. ecc. È augurabile che il magistrato si accontenti di una corrispondenza generica nelle appostazioni di bilancio, senza richiedere con perizie costose ed assurde la dimostrazione che la somma accantonata serva ad impianti, oppure ampliamenti o trasformazioni «specifiche».

 

 

  • Conformemente a quanto era già stato disposto, se la società destina i due terzi del residuo ad aumento di capitale deve su di essi pagare subito l’imposta di ricchezza mobile, la quale rimane invece sospesa nel caso in cui siano destinati a riserva di rispetto.
  • Se una società aumenta il suo capitale ad esempio da 10 a 12 milioni, mercé prelievo dai due terzi degli utili residui non ripartibili, il dividendo agli azionisti dovrà tuttavia essere commisurato all’antico capitale dei 10 milioni. I nuovi 2 milioni non possono ricevere dividendo.
  • Finalmente i vincoli di ogni fatta portati dai decreti sui dividendi non sono più indefiniti nel tempo, ma cesseranno di aver vigore con la fine dell’esercizio sociale successivo a quello in cui sarà pubblicata la pace.

 

 

È questa la novità migliore del decreto perché evita il danno della «manomorta» industriale. A sentire taluni, per combattere le future guerre economiche sarebbe stato necessario immobilizzare indefinitamente gli utili di guerra. Era una concezione bellica infantile la quale avrebbe messo l’Italia in condizioni di inferiorità in confronto a tutti gli altri paesi del mondo, in cui le imprese industriali conservano le loro caratteristiche di mobilità e di trasformabilità.

 

 

Giova sperare che di questo stravagante feticcio medioevale della manomorta a tempo indefinito non s’abbia a sentir parlare mai più.

 

 

VII

Il decreto sulle modalità di applicazione dell’imposta sui sovraprofitti di guerra è un buon decreto, per cui va data lode al ministro delle finanze. Nella sua seconda parte esso ha per iscopo di rendere possibile l’acquisto di nuove navi. Sarebbe troppo lungo esporre particolareggiatamente le norme, in gran parte tecniche, del decreto a questo riguardo; basti dire che la norma più importante è quella, la quale concede l’esenzione dalla sovrimposta di guerra (non dunque dalla imposta di ricchezza mobile) per il sovraprezzo, conseguito a causa della guerra, dai proprietari di navi mercantili in occasione di vendita avvenuta dopo il 10 agosto 1914 ovvero in occasione di indennità riscosse per le perdite, che d’ora in poi potranno verificarsi, delle navi stesse. La esenzione è altresì concessa ai guadagni di guerra derivanti dall’esercizio di navi mercantili. Condizione essenziale per ottenere l’esenzione è però questa: che tutta la somma ricavata dalla vendita ovvero dall’indennità, ovvero il doppio del guadagno di guerra ottenuto dall’esercizio sia investito nell’acquisto di navi mercantili estere da passarsi alla bandiera italiana.

 

 

Il legislatore ha detto cioè: se un armatore vende per milioni di lire un piroscafo, realizzando un sovraprezzo di guerra di 4 milioni in confronto al prezzo originario di 1 milione; o se incassa, essendo stato silurato il piroscafo, una indennità di 5 milioni, di cui 1 milione soltanto è rimborso del prezzo pagato, i 4 milioni possono considerarsi lucro unicamente se l’armatore incassa i denari e si ritira dall’industria. Ma se egli reinveste tutti i 5 milioni nell’acquisto di una nuova nave, in realtà l’utile è potenziale, non effettivo. Egli ha trasformato una nave in un’altra; non realizzato un utile. Se, finita la guerra, la nave tornerà a valere 1 milione, l’utile in realtà non sarà esistito mai. Questo concetto fondamentale fu applicato però limitatamente all’acquisto di navi estere nazionalizzate. Chi vende navi nazionali – e le deve vendere a nazionali, essendo vietata la vendita a stranieri – e ricompra navi nazionali non gode di esenzione; la quale è concessa invece, allo scopo di incoraggiare l’incremento della marina mercantile, a chi fa acquisto di navi estere. Per lo stesso motivo l’esenzione è concessa a chi investe in navi estere il doppio dei guadagni ottenuti dall’esercizio della navigazione. Anche in questo caso si pensò che il guadagno non può ritenersi veramente realizzato, quando è impiegato in acquisti di navi, che al ritorno della pace potrebbero deprezzare in misura notevolissima.

 

 

Sono poco persuaso della convenienza di spingere oggi i cantieri italiani a costruire navi; sembrando a me che costruzioni destinate a terminare fra qualche anno poco o nulla possono giovare a superare l’odierna crisi dei noli marittimi; e sembrandomi nocivo di spingere capitale e lavoro a costruire navi, le quali saranno con tutta probabilità deprezzate quando, a pace conchiusa, entreranno in esercizio. Sembra sovratutto pericoloso fare perdere tempo alle navi esistenti per trasportare acciaio, carboni ed altri materiali necessari alla costruzione di navi future, quando i servigi delle navi esistenti sono così preziosi per il trasporto dell’acciaio, del carbone e del grano occorrenti per il munizionamento e l’alimentazione del paese. I discorsi sulla necessità di costruire navi mi sembrano oggi una montatura, da fare il paio con la mobilitazione agraria ed altre frasi di questo genere; montatura innocua finché i discorsi rimangono scritti sulla carta, perniciosa se accennassero a tradursi in realtà.

 

 

La stessa obiezione non vale contro gli acquisti di navi estere già costruite. Qui si raggiunge subito il fine, che è l’incremento del tonnellaggio durante la guerra: qui non si ingombrano le preziosissime navi esistenti con carichi destinati a costruzioni per la pace; qui si lavora davvero per la guerra. Epperciò mi paiono buone le esenzioni concesse dal nuovo decreto sui sovraprofitti.

 

 

Il decreto, nella sua prima parte, la quale si riferisce alle industrie di terraferma, chiarisce tre punti : ammortamenti, detrazione dell’imposta e determinazione del capitale dell’azienda.

 

 

Supponiamo, per parlar prima degli ammortamenti, che un industriale abbia, durante uno dei periodi primo agosto 1914-31 dicembre 1915, anno 1916, anno 1917 e primo semestre 1918, speso 1 milione di lire per nuovi impianti e per trasformazioni compiute in contemplazione di forniture di guerra; ovvero per creare un nuovo stabilimento industriale destinato a prodotti non fabbricati nel territorio dello stato o dovuti a nuove applicazioni industriali. Supponiamo ancora che, sul costo totale di un milione, 600.000 lire siano dovute al sovraprezzo pagato a causa dello stato di guerra, 200.000 lire siano la parte che sarà logorata alla fine della guerra per il deperimento ordinario e per l’usura straordinaria della lavorazione specialmente intensa; e 200.000 lire sia il valore attribuibile agli impianti e trasformazioni a guerra finita. Nei casi singoli le tre parti potranno variare in più od in meno; ed il legislatore affida alle agenzie ed alle commissioni la relativa valutazione; con questa sola avvertenza che, in difetto di prova contraria, il valore residuo a guerra finita si presume uguale al 20% dell’effettivo costo totale.

 

 

Come sono trattate le tre parti? Le prime 600.000 lire, ossia il sovraprezzo pagato per causa della guerra possono essere interamente ammortizzate e quindi sono considerate senz’altro spesa deducibile dal reddito lordo nello stesso periodo finanziario in cui l’impianto fu fatto. Se l’impianto si fece nel 1916 o nel 1917 tutte le 600.000 lire vanno dedotte, rispettivamente, dal reddito del 1916 o del 1917. Il che è ragionevole, perché il sovraprezzo è perdita netta, che sfumerebbe subito, se non si ricuperasse sul reddito.

 

 

Le seconde 200.000 lire dovute al logorio ordinario o straordinario degli impianti sono ammesse invece in detrazione repartitamente nel periodo in cui l’impianto fu fatto ed in quelli successivi sino a guerra finita. La spesa si fece nel 1916? Mentre le prime 600.000 lire si ammettano subito interamente in deduzione nello stesso 1916, le seconde 200.000 lire si ammettano in parte nel 1916, in parte nel 1917 ed in parte nel primo bimestre 1918. Il che altresì è ragionevole, poiché il logorio si verifica a mano a mano e diminuisce il reddito che di mano in mano si produce. Vi saranno forse incertezze e difficoltà nell’applicazione del concetto; ed è augurabile che l’amministrazione e le agenzie le sappiano superare.

 

 

Le ultime 200.000 lire non danno diritto, durante il periodo di guerra, ad alcuna deduzione: ed infatti esse, esistendo ancora a fine guerra, sono una attività patrimoniale, ed in nessun modo potrebbero essere considerate come una spesa.

 

 

È probabile, specie per quanto riguarda il primo periodo dal primo agosto 1914 al 31 dicembre 1915, che le deduzioni sancite dal nuovo decreto non possano essere più eseguite praticamente, perché gli accertamenti sono già divenuti definitivi e già si fece l’iscrizione a ruolo. A ciò fu provvisto stabilendo che agli eventuali sgravi di imposta e sovrimposta si provvederà mediante compensazione colla imposta e sovrimposta dovute sui profitti di guerra relativi al periodo immediatamente successivo ed in mancanza od insufficienza di queste, mediante apposita liquidazione di rimborso.

 

 

Il secondo punto regolato è quello della detrazione dell’imposta di ricchezza mobile. Finora, se il reddito straordinario di guerra fu, ad esempio, determinato in lire 100.000, tutte soggette, per semplicità di calcolo, al massimo della sovrimposta, su queste 100.000 lire si applicava prima l’imposta di ricchezza mobile – la quale, compresi i centesimi di guerra, era nel 1916 del 13% circa e nel 1917 è del 16% circa – e successivamente, sempre sulle stesse 100.000 lire, la sovrimposta di guerra, ora del 60% nella sua aliquota massima: e così 13.000 (nel 1916) ovvero 16.000 (nel 1917) più 60.000 lire ed in tutto 73.000 ovvero 76.000 lire; rimanendo al contribuente nette 27 ovvero 24.000 lire.

 

 

Ora il metodo sarà variato. Sulle 100.000 lire prima si applicherà l’ordinaria imposta di ricchezza mobile ed il contribuente pagherà 13.000 ovvero 16.000 lire. Queste, venendo a diminuire il reddito di guerra, saranno detratte dalle 100.000 lire, risultando così il sovraprofitto netto di 87.000 od 84.000 lire. Su queste 87.000 od 84.000 lire verrà a cadere la sovrimposta di guerra del 60%, la quale assorbirà perciò nel 1916 lire 52.200 e nel 1917 lire 50.400; restando al contribuente 34.800 lire per il 1916 e 33.600 per il 1917.

 

 

Difficoltà varie erano sorte per il calcolo del capitale investito nelle aziende. Se si erano fatti ampliamenti, il capitale era aumentato. Come doveva calcolarsi sul nuovo capitale investito il nuovo reddito ordinario, in confronto al quale si deve valutare il sovraprofitto di guerra?

 

 

Supponiamo che un industriale avesse nel 1913-14 un capitale investito di 1 milione di lire ed avesse in quegli anni un reddito accertato di 200.000 lire. Dopo il primo agosto 1914 l’industriale aumenta il suo capitale investito da 1 a 2 milioni. Il nuovo milione quale reddito ordinario produrrà? Il quesito è importante; poiché sovraprofitto tassabile è solo il sovrappiù sul reddito ordinario. Non sarebbe corretto dire che il reddito ordinario è quello di 200.000 lire, poiché queste erano prodotte da un capitale di 1 milione; mentre ora il capitale fu aumentato a 2 milioni. Il nuovo capitale, se fosse stato impiegato prima, avrebbe, anche prima della guerra, prodotto un reddito ordinario, che non deve essere considerato tassabile ai fini della imposta di guerra.

 

 

Per risolvere il quesito, il decreto odierno statuisce che il nuovo capitale si presume produttivo di un reddito ordinario percentualmente uguale a quello che derivava dal vecchio capitale. Nel caso nostro, poiché il vecchio capitale produceva 200.000 lire di reddito ordinario, ossia il 20%, anche il nuovo capitale si presumerà produttivo dello stesso reddito ordinario del 20%. Ad ogni modo, però, il tasso percentuale non può essere reputato inferiore all’8 %, per il capitale antico e per quello nuovo.

 

 

Queste le norme nuove le quali integrano il sistema vigente della tassazione sui sovraprofitti. Esse debbono venire accolte con favore; poiché, come tante volte fu osservato su queste colonne, più dell’aliquota della imposta, importano la sicurezza e la giustizia nella tassazione. Fa d’uopo che sia tassato solo il vero reddito e non la spesa: e che sia ben chiaro ciò che si intende per sovraprofitto di guerra in confronto al reddito ordinario.

 

 


[1] Con il titolo Chiarimenti necessari al decreto per la limitazione dei dividendi. [ndr]

[2] Con il titolo Ancora sulla limitazione dei dividendi delle società.[ndr]

[3] Con il titolo La limitazione dei profitti di guerra. [ndr]

[4] Con il titolo La limitazione dei profitti di guerra. Lo scopo del vincolo sugli utili. [ndr]

[5] Con il titolo La limitazione dei profitti di guerra. Ciò che è inutile e ciò che è necessario nel vincolo degli utili. [ndr]

[6] Con il titolo Il nuovo decreto sulla limitazione dei dividendi. [ndr]

[7] Con il titolo Il nuovo decreto sui sopraprofitti. Esenzioni all’industria marittima e norme per gli ammortamenti, il capitale investito e le deduzioni d’imposta. [ndr]

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