Opera Omnia Luigi Einaudi

La lotta come fattore produttivo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/03/1925

La lotta come fattore produttivo

«Corriere della Sera», 18 marzo 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 178-182

 

 

 

Lo sciopero proclamato dalle corporazioni fasciste e conchiuso con il conseguimento di una lira al giorno di maggior caroviveri è dunque citato come un esempio puro di collaborazione di classe, mentre lo sciopero in corso voluto dalla FIOM nella medesima industria, per fini più larghi, ma sostanzialmente non dissimili, è presentato come un esempio altrettanto puro di lotta di classe. Il primo genere di sciopero è prospettato come tale da dare prosperità all’industria e pace sociale alla nazione: il secondo rovina e discordia.

 

 

Come si può spiegare che effetti tanto diversi possano essere generati da fatti così simili? Non si può assumere a criterio di distinzione la circostanza che la FIOM insiste nello sciopero sino a toccare un aumento maggiore del caroviveri, la consacrazione di minimi di salario, la determinazione di un vero e proprio contratto di lavoro. Anche le corporazioni affermano di volere gli stessi scopi; anzi di averli fatti proprii con tanta vigoria che gli industriali si sarebbero già obbligati ad addivenire ad una discussione in contraddittorio con le corporazioni, sotto l’egida del presidente del consiglio.

 

 

Neppure il criterio di distinzione fra l’una specie di sciopero e l’altra può trovarsi nel fatto della diversa durata o nel fatto che la prima specie di sciopero ha avuto luogo sotto l’egida di corporazioni e l’altra di federazioni, fasciste le une e neutro rosse le altre. Queste varianti appartengono al novero degli «accidenti» secondo la terminologia dei teologi. Non toccano la sostanza del divario.

 

 

Questa pare stia in ciò: che lo sciopero corporazionista non metterebbe di fronte due parti contrastanti, delle quali vincerebbe la più forte; ma sarebbe un appello, un po’ più clamoroso e minaccioso ed esigente delle comuni specie di appello giudiziario, ad un potere superiore, lo stato, a cui ambe le parti sono soggette. Mentre lo sciopero tradizionale (tipo FIOM) mette di fronte nettamente le due parti e fa chiedere agli operai aumenti di salario o nuove pattuizioni di lavoro, allo scopo di strappare agli industriali una parte del prodotto comune che gli industriali si ostinano a voler tenere per sé, fa affidamento sulla propria forza e compattezza per conseguire l’intento e considera la lotta (sciopero e discussione) come il metodo adatto a raggiungere l’intento; – lo sciopero corporazionista, per contro, è definito un metodo di far entrare in azione lo stato a tutela del diritto offeso. Anche quando i duci delle corporazioni lanciavano ultimatum e proferivano dure parole contro gli industriali, così parlavano non perché essi volessero la lotta tra le due parti, ma perché reputavano che gli industriali offendessero, con la loro condotta, un interesse superiore della collettività.

 

 

Fermiamoci a questo punto; e non indugiamoci ad indagare se, storicamente, la contrapposizione fra i due metodi sia così profonda come i corporazionisti immaginano. In pratica le federazioni a tipo rosso, quando arrivino a impadronirsi del potere, tendono a trasformare la propria ideologia di lotta in una di attuazione dei proprii ideali attraverso lo stato: esempio calzante l’arbitrato obbligatorio instaurato dai partiti operai dominanti nell’Australia e nella Nuova Zelanda, il cosidetto «paese dove non si sciopera». Anche coloro i quali amano la lotta, quando conquistano il potere, trovano comodo non di rado di farsi dar ragione dalla legge o dal governo.

 

 

Al di sopra di questa sempre possibile identificazione di fatto è certo che i due diversi sistemi ideologici esistono. Oggi, le corporazioni fasciste, mentre ricorrono anche all’arma dello sciopero, fanno appello al superiore interesse collettivo rappresentato dallo stato; laddove la confederazione generale del lavoro e le federazioni ad essa affiliate credono alla lotta tra operai ed industriali come a mezzo per risolvere le questioni tra esse insorte.

 

 

Antica controversia. Quando i corporazionisti rivolgono il loro angolare appello allo stato, risuscitano vecchie teorie sullo stato etico, sullo stato che è volontà di bene, che è volontà universale. Ora ciò può stare nelle faccende proprie dello stato: giustizia, difesa nazionale, sicurezza, cultura. Ma come mai i presidenti del consiglio, i ministri dell’interno, i ministri dell’economia nazionale (ché a queste persone fisiche si riduce lo stato etico quando si discorre dei metodi per porre termine onorevolmente ad uno sciopero) dovrebbero sapere essere giusto, essere confacente all’interesse della collettività dare un aumento di caroviveri di 1 lira al giorno piuttosto che 1,50 o 2 lire? Che cosa ne sanno essi? E non è forse assurdo che essi presumano di saperlo? Il salario è un prezzo il quale, come tutti gli altri prezzi, non è determinabile d’impero. Supporre che esista un potere superiore – stato, governo, ministro, tribunale – il quale abbia il privilegio di determinare il prezzo più giusto nell’interesse collettivo è altrettanto assurdo come il supporre che esista un potere consimile capace di determinare il prezzo giusto del pane, delle scarpe, del consolidato 5% o delle azioni della Banca d’Italia. Se la parola di prezzo o di salario giusto deve avere un senso, bisogna supporlo sinonimo di quel prezzo che si forma sul mercato, sotto l’azione di quelle forze numerosissime, le quali sul mercato intervengono a tirare i prezzi ed i salari su e giù, a farli incessantemente oscillare e mutare. Quando i corporazionisti fanno, collo sciopero, appello alla giustizia dello stato, il quale equamente deve tenere in equilibrio la bilancia fra tutti i contendenti, essi non si avveggono che l’abbandono del lavoro non è una semplice forma di grido verso la giustizia suprema, ma è una forza, una vera forza la quale tende a mutare l’equilibrio esistente e a far apparire giusto ciò che prima non era tale?

 

 

La competizione tra i fattori di produzione è sempre stata una (non la sola) delle forze principali le quali concorrono a determinare l’ammontare del prodotto totale e la sua ripartizione tra le parti collaboranti e contendenti. Il dibattito per la distribuzione del prodotto è una forma tipica di produzione, è una forma assolutamente necessaria di collaborazione. Tutti sentiamo la verità di questa affermazione quando si parla di concorrenza tra industriali per la conquista del mercato. Non è forse evidente che la lotta di un industriale contro l’altro, i tentativi per rubarsi la clientela, i fallimenti dei meno atti sono, entro limiti amplissimi, al di là dei quali si cade nella concorrenza sleale o nella distruzione di capitale, strumento potente di creazione di ricchezza e di aumento di prodotto? Chi dubita che in una società economica torpida, di industriali privilegiati sicuri del proprio mercato, protetti dall’occhio benevolo di uno stato paternalistico, la produzione sarebbe di gran lunga minore di quella che è nel mondo moderno di concorrenti instabili occupati a contendere tra di loro e costretti perciò a ribassare i prezzi, il che vuol dire a produrre di più a costi più bassi?

 

 

Perché non vorremmo ammettere che la competizione tra operai e industriali sia un potentissimo fattore, di incremento di produzione e di cresciuta prosperità? Molti stupendi progressi tecnici, molte riorganizzazioni risparmiatrici di lavoro e di costi furono l’effetto della pressione delle maestranze. Gli industriali medesimi, i quali avevano dichiarato, in piena buona fede, certe riduzioni di orario o certi aumenti di salario incomportabili e disastrosi per l’industria, seppero poi adattarvisi. Dovettero fare sforzi di intelligenza, comprar macchine, rinunciare ad antiche comode abitudini. Alla fine benedissero la nuova organizzazione più perfetta, a cui erano stati costretti da quella che un tempo avevano bollato come violenza rivoluzionaria.

 

 

Non si vuol con ciò dire che qualunque richiesta operaia debba essere accolta; che sia stato ben fatto diminuire repentinamente le ore di lavoro da 10 a 8; che sia consigliabile raddoppiare d’un colpo i salari, quasiché i miglioramenti improvvisi non spingessero all’ozio e al vizio. No: i miglioramenti devono essere graduali, possibili e meritati. Ma, per essere fecondi di bene, di elevazione morale dei lavoratori, e di incremento produttivo, quei miglioramenti non debbono essere largiti. Le largizioni dall’alto spingono alla incontentabilità ed alla prepotenza. Colui che, in nome dello stato, ha concesso uno perché non potrebbe concedere due o tre? Se la forza della giustizia è bastata per una prima largizione, perché non dovrebbe essere bastevole per la seconda e per la terza?

 

 

I miglioramenti debbono essere conquistati, debbono essere il frutto della pressione consapevole di operai i quali, a proprie spese, imparino l’esistenza di limiti, incontrino la resistenza degli industriali e costringano questi ad un adattamento progressivo della propria tecnica produttiva alle esigenze crescenti di un tenore di vita umana più elevato. La conquista richiede sforzo, educazione, auto-miglioramento. Conquista chi è degno di conquistare; ed elevando se stesso eleva anche i propri avversari.

 

 

La competizione industriale, intesa in senso largo, è dunque uno dei più potenti fattori della produzione. Certo è uno strumento delicatissimo; più delicato dei macchinari più complessi; e per averlo maneggiato male, troppe volte gli operai lo hanno rotto. Le disastrose esperienze talvolta verificatesi non ci debbono tuttavia far velo agli occhi e negarne l’esistenza. La realtà non si supera negandola o coartandola. La si può soltanto migliorare e innalzare. Dallo sciopero si può e si deve passare a metodi di trattative più sapienti e meno costosi. Ma la trattativa deve essere tra pari, consapevoli che molto vi è da perdere nel ricorrere a metodi grossolani di lotta; ma convinti nel tempo stesso che nulla v’è da guadagnare per la propria elevazione nella rinuncia ai propri autonomi diritti di uomini liberi a favore di un misterioso potere moderatore posto in alto, al disopra delle umane passioni.

 

 

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