La pace e le sue probabili conseguenze
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/06/1902
La pace e le sue probabili conseguenze
«La Stampa», 3 giugno 1902
Mentre la guerra durava si è discusso molto delle conseguenze che dessa esercitava sulle industrie, sui commerci e sui mercati monetari del mondo. Il fatto che si spendevano circa 40 milioni di lire alla settimana, e che a tutt’oggi il costo della guerra ammonta a circa 5 miliardi, esercitò un certo fascino sulle immaginazioni degli uomini d’affari e dei giornalisti, specialmente francesi, i quali ogni tanto predicevano la rovina dell’Inghilterra.
Né vogliamo negare che la guerra anglo-boera sia stata uno dei fattori più significanti della vita economica e finanziaria dell’Europa negli ultimi tre anni.
Il ribasso dei Consolidati inglesi e dei valori minerari, il rialzo dei prezzi del carbone e dei noli marittimi ebbero il loro primo impulso dalla guerra; come pure dalla guerra ebbero impulso le industrie che sulla guerra vivono e si ingrandiscono.
Ed ora la cessazione della guerra darà certo luogo ad una campagna al rialzo sui Consolidati inglesi, i quali potrebbero benissimo riguadagnare una parte dei punti perduti dal corso di 114, 115, a cui alcuni anni or sono erano giunti. La campagna al rialzo si farà vivissima anche per le Azioni sud-africane. È vero che da un pezzo si ripete che gli effetti della pace sono già stati scontati; ma la osservazione, benché parzialmente vera, deve essere accolta con cautela. I mercati monetari europei – di Londra, di Parigi e di Berlino – si trovano in un periodo in cui le riserve di risparmi disponibili sono molto larghe, e nel quale perciò una scintilla anche piccola può essere cagione di un grande incendio. Se si combina la cessazione della guerra colle facilità concesse dal mercato monetario e col desiderio di molti speculatori di dare nuovo slancio agli affari che l’anno scorso rimasero arenati per la crisi economica tedesca, non ci sarebbe da meravigliarsi che il rialzo dai titoli di Stato e dai valori minerari si comunicasse a poco a poco anche ai valori industriali e bancari. Ma in questa rifioritura la pace non avrà agito come causa, sibbene come occasione accidentale.
Se non era la pace, qualche altra cosa avrebbe dato modo agli uomini d’affari di provocare un risveglio che da troppe parti è desiderato perché possa non avvenire.
Tanto è vero che la pace sarà solo l’occasione di un risveglio più o meno duraturo, che si potrebbe dimostrare come il mercato monetario non sia destinato per ora a provare nessun sollievo sostanziale dalla cessazione della guerra. L’osservazione non è nostra. È di sir Michael Hicks-Beach, il cancelliere dello Scacchiere d’Inghilterra, il quale, nel presentare l’ultimo bilancio, si occupò appunto dell’ipotesi della cessazione della guerra, ed avvertì come da questa non bisognasse sperare una prossima diminuzione delle spese pubbliche.
«Anzi, – egli aggiunse, – cresceranno; poiché se la guerra è costosa a condursi, è ancora più costosa quando la si vuole terminare. Bisognerà provvedere ai premi da darsi ai soldati che hanno combattuto; bisognerà provvedere grosse somme per lo scioglimento dei Corpi militari temporanei, per il trasporto delle riserve a casa, e per il mantenimento di un esercito di occupazione nel Sud-Africa. Bisognerà trovare inoltre i mezzi per la ricostituzione delle due colonie devastate dalla guerra; per la ricostruzione delle fattorie distrutte e per provvederle di attrezzi, macchine e bestiame».
Non tutte queste spese, che saranno certamente enormi, graveranno sul bilancio inglese. Una parte verrà pagata dal bilancio delle colonie medesime; ma per il momento ciò non produrrà alcuna differenza, poiché in ogni modo il mercato monetario inglese dovrà fornire i mezzi occorrenti, sotto forma di prestiti, alla madre patria ed alle colonie.
Noi siamo persuasi che, nonostante tutto questo, la Borsa di Londra vedrà giorni migliori che per il passato. E questo sarà un’altra riprova dell’affermazione del più illustre statistico inglese, sir Robert Giffen, secondo essi l’assorbimento di ben cinque miliardi per spese di guerra esercitò una scarsa importanza sul mercato monetario inglese. La ricchezza inglese è così grande, i risparmi annuali così giganteschi, che la guerra finì per assorbire solo una parte dei risparmi disponibili, lasciandone ancora a sufficienza per tutte le altre imprese.
Certo un simile spreco di capitali, se continuata a lungo, avrebbe impoverito il paese; ma in linea di fatto non si può asserire che la guerra abbia distolto un centesimo di capitale dalle industrie esistenti. Si buttarono via in un consumo improduttivo cinque miliardi di risparmi, che si sarebbero potuti meglio impiegare: ecco tutto. Se pure quei cinque miliardi non sarebbero stati buttati via in qualche altro modo.
Non è dunque qui – nel fatto materiale dei cinque miliardi – che bisogna ricercare le conseguenze più importanti della guerra. Ben altrimenti profonde furono desse. Oggi, che la guerra è finita, è possibile tirare le somme.
All’attivo abbiamo la speranza che nel Sud-Africa si costituisca un Governo più libero, più progressivo dell’antico Governo oligarchico boero. Se anche la vittoria inglese riuscirà ad attuare solo una parte piccola del sogno grandioso di Cecil Rhodes, il beneficio per l’umanità non sarà lieve. La esistenza nell’Africa del Sud di una Confederazione di colonie autonome, dove inglesi e boeri abbiano eguali diritti ed eguali doveri, e dove un Governo sospettoso e fastidioso non deprima le libere iniziative capitalistiche, imprimerà uno slancio immenso a tutta la vita civile, politica ed economica dell’Africa australe. Se i vincitori e vinti riusciranno a dimenticare il passato – e noi dobbiamo augurarcelo sinceramente – l’Africa australe andrà incontro ad un avvenire così splendido e così promettente come quello dell’Australia o dell’America del Nord.
Giova almeno sperarlo.
Il punto nero della guerra – e che la pace non riuscirà certo a cancellare – si trova nell’Inghilterra. I tre anni di guerra furono per la madre patria di tante colonie gloriose tre anni di triste e dura esperienza e di errori che nella sua storia lasceranno tracce profonde e forse incancellabili.
In questi tre anni abbiamo visto rispuntare in Inghilterra i più tristi sintomi di decadenza sociale, che si credeva non avrebbero mai più fatto ritorno in quel paese.
L’infatuazione militarista della folla, l’orgoglio nazionale spinto al parossismo, il disprezzo della opinione più equanime e temperata delle altre contrade, il dilagare irrefrenato delle spese pubbliche, la decadenza dell’industria britannica, il rifiorire del protezionismo economico, i pazzi disegni di una Lega doganale anglo-sassone contro il resto del mondo, la cassazione del controllo parlamentare sugli atti del Governo, la dissoluzione del partito liberale: ecco i principali sintomi di una dolorosa decadenza che furono messi in luce dalla guerra.
A pace firmata noi abbiamo un paese il quale si vantava fino a tre anni or sono di possedere il più meraviglioso e leggero congegno tributario del mondo; di avere un esercito perfettamente addestrato alla difesa dell’impero, ed un Governo splendidamente equilibrato e libero; ed il quale si trova costretto ad ammettere che il suo esercito deve essere riorganizzato da cima a fondo, che il suo bilancio deve essere portato permanentemente da 100 a 160 milioni di lire sterline di spesa annua, eguagliando così la pressione tributaria della Francia, e che risuscita, in guisa permanente, dei congegni così screditati di finanza, come il dazio sul grano.
La pace odierna e l’incoronazione regale di domani suggellano definitivamente la scomparsa della Inghilterra liberale ed industriale che fece le guerre vere di conquista di colonie e che empì il mondo dei suoi figli e della sua potenza dominatrice.
Al suo posto abbiamo un’Inghilterra fiera dell’impero conquistato, tanto più fiera in quanto sente già il bisogno di conservarlo contro gli assalti dell’Unione americana e della Germania, le quali la superano nelle arti della pace e della conquista commerciale. Abbiamo un’Inghilterra che, per conservare l’impero conquistato col lavoro e colla pratica della libertà, ricorre ai metodi coercitivi del passato.
Sarà questo un momento fuggevole della storia d’Inghilterra, o non sarà invece il principio della parabola percorsa da tutti gli imperi fondati con le virtù inavvertite del lavoro e dissoluti quando la tenacia del lavoro era venuta meno ed era sorto e si era ingigantito l’orgoglio del comando?
Che sia vera la prima alternativa è la segreta speranza di quelli i quali sono persuasi che la storia d’Inghilterra sia la storia di un popolo forte, meravigliosamente dotato per la lotta per la vita, e dotato delle qualità migliori per la creazione di civiltà superiori.
La guerra ridesta sempre anche nei popoli più elevati alcuni istinti della barbarie antica. Ora che la pace ritorna, nessun migliore augurio possiamo fare di questo: che l’inglese, questo erede moderno del romano, ritorni a farsi l’apostolo della giustizia e del lavoro. Se l’augurio potrà essere avverato, l’impero, cementato ora col sangue di 100 mila combattenti, sarà stato davvero una tappa nel cammino della civiltà.